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S. MARIA C. V. STRADE E PIAZZE FRA STORIA ED ANEDDOTI. Maria C. V. strada e piazze fra... · Il...

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SALVATORE FRATTA S. MARIA C. V. STRADE E PIAZZE FRA STORIA ED ANEDDOTI S. Maria C. V. **** 2010 ****
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SALVATORE FRATTA

S. MARIA C. V.

STRADE E PIAZZE

FRA STORIA ED ANEDDOTI

S. Maria C. V. **** 2010 ****

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Questo modesto lavoro è il risultato di una paziente consultazione delle opere di illustri Autori e di un attenta scelta delle notizie più significative. Esso non vuole essere un testo scientifico, ma solo un lavoretto divulgativo. In queste note richiamo, oltre a quelle di moderni studiosi, anche le notizie, alla luce degli studi moderni non sempre esatte, che antichi scrittori ci hanno tramandato. Lo scopo è quello di far conoscere ai più giovani e di far ricordare a tanti, ciò che la nostra città nasconde fra le pieghe della sua storia. Consideratelo un semplice omaggio, offerto a tutti coloro che avranno la cortesia di leggerlo.

S. Maria C. V. dicembre 2010

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BREVE STORIA DI TERRA DI LAVORO La Terra di Lavoro, oggi, corrisponde alla provincia di Caserta e comprende, geograficamente, il territorio caratterizzato principalmente dalla pianura campana, situata tra il Monte Massico e l’orlo settentrionale dei Campi Flegrei: “ Ricca pianura, che va dai monti al mare, dominata dal Vesuvio”. “Questa regione è così felice, così deliziosa, così fortunata che vi si riconosce evidente l’opera della Natura…..quest’aere vitale, questa perpetua mitezza di cielo, questa campagna così fertile, questi colli solatii, queste foreste così sicure, questi recessi ombrosi, questi alberi fruttiferi, queste montagne perdute fra le nubi, queste messi sterminate, tanta copia di viti e di ulivi, e greggi dalle nobili lane e tori così pingui”….(Plinio - Storia Naturale – cap. V, libro III). “Terra molle, dilettosa, lieta, che non esclude l’operosità, la quale è anzi fervida là dove il terreno ricompensa generosamente la fatica… Terra che attrasse in ogni tempo genti le più diverse e insieme le fuse”….. (T.C.I.). Per la sua privilegiata posizione geografica, per il clima mite e la fecondità del suolo, questa Terra, in omaggio sia alla produttività, sia alla fatica dell’uomo, venne battezzata Terra di Lavoro. Raccontare la storia di Terra di Lavoro non è facile impresa. Bisognerebbe raccontare la storia dei cento e cento paesi che, presenti in questa regione, hanno una loro specifica e antica realtà. Ci limitiamo, quindi, a descrivere, per sommi capi e, speriamo, nel miglior modo possibile, la storia che maggiormente si intreccia con quella di Capua antica e nuova, che fu, anche se per un breve periodo, capoluogo di questa nostra Terra la cui storia non è ancora completamente conosciuta dalla maggior parte dei suoi abitanti.

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CENNI DI STORIA GEOLOGICA In tutta la sua estensione, l’area della provincia di Terra di Lavoro, è ubicata su antiche piattaforme sottomarine, molto estese, formatesi tra 200 milioni e 20 milioni di anni fa circa, ricoperte da un mare poco profondo, simile agli attuali mari tropicali. Durante il Miocene, intorno ai 25 - 20 milioni di anni fa, un forte sollevamento, dovuto alle spinte orogenetiche che avevano in precedenza già formato le Alpi, interessarono anche queste terre e, in un periodo cha va dai 25-20 milioni di anni fa a 6-5 milioni circa, si formarono anche gli Appennini. Successivamente iniziò anche un movimento di traslazione da ovest verso est. Questi due movimenti di sollevamento e di traslazione spezzarono la piattaforma primitiva e diedero origine ad altre piattaforme più piccole, e fra esse: A) La piattaforma carbonatica Campano – Lucana che raggiunge uno spessore di circa 5.000 metri ed è presente in tutta la Campania centro- meridionale. Essa costituisce i principali massicci calcarei e calcarei – dolomitici dell’Appennino Meridionale e del sub-Appennino e cioè i monti Tifatini, il Taburno, il Partenio, i Lattari, Capri e così via fino ad oltre il golfo di Policastro. B) La piattaforma carbonatica Abruzzese – Campana che si estende verso il Lazio, il Molise, e l’Abruzzo. Essa ha caratteristiche simili a quelle della sopradetta piattaforma Campano- Lucana ma è costituita in prevalenza da dolomie. Il suo spessore raggiunge i 3.000 metri e forma i monti a nord di Caserta: il monte Maggiore, il Camposauro, il Massico, il Camino ed il Massiccio del Matese. Nota: In tutto il Matese si trovano fossili racchiusi in blocchi di calcare ed in special modo nei pressi di Pietraroja (dallo spagnolo = pietra rossa). Vasta risonanza ebbe il fortunato e fortunoso ritrovamento, nel 1980-81, di un cucciolo di dinosauro vissuto solo poche settimane, circa 113 milioni di anni fa, ritrovato da un appassionato ricercatore di fossili il Sig. Giovanni Todesco, che non intuì immediatamente l’importanza della scoperta fatta.

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Quando ne venne a conoscenza, senza indugio consegnò il reperto e così, nel 1992, la scienza ufficiale seppe del ritrovamento ed iniziarono gli studi su di esso. E’ un dinosauro carnivoro, bipede, alto non più di 25 cm. E’ il primo dinosauro rinvenuto sul suolo italiano ed i suoi resti sono particolarmente ben conservati; infatti, sono ancora visibili sia gli organi interni (intestino, fegato, ecc), sia le fibre muscolari. E’ l’esemplare di una specie finora non conosciuta. Esso è comunemente noto con il nome di Ciro. Il nome scientifico, coniato dal paleontologo del Museo di Storia Naturale di Milano dott. Cristiano Dal Sasso è Scipionyx Sanniticus: deriva dal nome del geologo Scipione Breislak che nel 1788 scoprì e studiò il giacimento fossile del Matese.

Scipio = Scipione Onyx = unghia, Sanniticus in onore del Sannio. Cinque milioni di anni fa, la Pianura Campana come terraferma non esisteva. Il mare riempiva un amplissimo golfo in cui si specchiavano modesti rilievi calcarei, alcuni già formati da molto tempo, altri formati da poco, altri ancora che andavano formandosi nell’ultima fase dell’orogenesi alpina. Questa cortina di alture, a guisa di anfiteatro, dal monte Massico, al Tifata, al Taburno e ai Lattari, delimitarono l'area della futura pianura campana. Successivamente, l’azione di vulcani sottomarini coprì, con consistenti eruzioni, il fondo del mare. Spessi banchi di pomici e cenere, che formarono vari tipi di tufo, si appoggiarono sui pendii delle colline calcaree circostanti; l’azione livellante delle acque fluviali che in essa scorrevano completò l’opera di costruzione della pianura compresa tra i vulcani di Roccamonfina, i Campi Flegrei, il Vesuvio, da poco emerso dalle acque marine, e le loro ceneri l’arricchirono di elementi fertilizzanti. Poi lentamente, la nuova pianura si ricoprì di vegetazione: estese macchie di lentischi, ginepri, elci, corbezzoli, eriche, ginestre; e, più vicino ai monti, boschi di querce e di castagni, più su ancora, boschi di faggio. In essi si aggirarono le fiere e il temuto famelico lupo. In compenso la caccia era tanta. Questa nuova terra si presentava generosa, e l’uomo a poco a poco ne prese possesso ed infine le diede il nome di Campania Felix. Con tale appellativo, nell’antichità, veniva designato la ricca e fertile pianura sopra descritta che si estende da Capua a Nocera.

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Una terra straordinaria, tanto fertile che il poeta romano Virgilio nelle Georgiche le aveva accordato il primo posto tra i vari tipi di terra: “…terra che esala una nebbia leggera e vapori alati, che assorbe l’umidità e quando vuole da sé la restituisce, che si copre spontaneamente di un prato sempre verde, che non si attacca al ferro né lo rode…”(A). Terra felice perché fortunata per il suo dolcissimo clima e per la sua straordinaria fertilità dovuta alla natura vulcanica ed all’abbondanza delle acque. Terra che venne celebrata dai più bei nomi del Gran Tour, dagli intellettuali che nel Settecento visitarono la nostra regione. Uno fra i tanti: Goethe che così scriveva nel suo “Viaggio in Italia”: “Caserta 16 marzo 1787….Ho visitato i resti dell’antica Capua e tutto quanto vi si riferisca…. …In questi paesi bisogna venire per imparare che cosa è la vegetazione e perché si lavora un campo….. Intorno a Caserta è tutta pianura, i campi sono così uniti, così accuratamente coltivati che sembrano viali di un giardino. Vi sono pioppi dappertutto, ed ai pioppi si attaccano la viti e, nonostante l’ombra, il sole fa venire su ancora i più bei grappoli”. LE ANTICHE POPOLAZIONI Le prime tracce di frequentazione umana nella nostra regione sono state ritrovate in provincia di Caserta nel paesino di Tora e Piccilli sulle pendici del Vulcano di Roccamonfina, e risalgono a 385-325 mila anni fa. Sono orme che vennero impresse sulla superficie di una colata piroclastica, quando ancora calda, non era completamente solidificata. Esse furono lasciate da tre individui di piccola taglia che scesero un ripido pendio. Queste impronte, oltre l’uso naturale dei piedi, evidenziano anche l’uso delle braccia usate nelle fasi di appoggio e riequilibro. Altre antichissime tracce, risalenti a circa 35.000 – 30.000 anni fa, sono state ritrovate nei pressi di Mondragone in alcune grotte situate

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sulle pendici di Monte Petrino. Manufatti del Paleolitico inferiore sono stati rinvenuti a Benevento, nell’area del vecchio aeroporto, nel territorio di Avellino e nell'isola di Capri. Gli strumenti litici uniti a resti di fauna pleistocenica (bisonti, orsi, ecc) ritrovati nel sito dell’albergo Quisisana dimostrano che Capri era un promontorio della costa campana, di origine calcarea, che circa 100.000 anni fa, a seguito di movimenti tellurici, si staccò dalla terraferma. Verso il 6.000 a.C. si ebbero le prime culture di uomini neolitici. Esse si formarono attraverso la mescolanza delle popolazioni giunte in precedenza nel periodo paleolitico. Queste antiche popolazioni parlavano lingue di cui non conosciamo nulla. Si insediarono su queste terre, attratte dalla fertilità del suolo e dall’abbondante fauna, migliaia di anni prima della venuta e della occupazione di zone costiere ad opera dei Greci. Uno dei siti più antichi risalente alla fine del sesto millennio a.C. venne portato alla luce nei pressi di Ariano Irpino. Siti frequentati in tempi a noi più vicini, sono stati ritrovati, pochi anni fa, nei pressi di Carinaro, Gricignano, Succivo, Palma Campania, S. Paolo Belsito e Saviano nei pressi di Nola. Nel territorio dove correva l’antico Clanio, il cui corso modificato è rappresentato oggi dai Regi Lagni, sono state evidenziate notevoli tracce di villaggi che risalgono alla fine del quinto millennio a.C. e di un fitto popolamento che partendo da quei secoli giunge fino ai nostri giorni. Le testimonianze della presenza di queste comunità dedite all’agricoltura, alla pastorizia, ed all’allevamento di bestiame nella nostra terra, presenza ininterrotta per millenni, si sono potute conservare grazie alle eruzioni vulcaniche, avvenute 20 secoli prima di quella che seppellì Pompei, e che hanno sigillato diversi livelli di vita mantenendoli intatti fino ai nostri giorni.

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In particolare a Gricignano sono stati ritrovati appezzamenti di terreno con evidenti tracce di zappettature, arature e impronte delle ruote di carri. A Saviano, nei pressi di Nola, è stato recuperato un piccolo villaggio preistorico investito da una colata di fango che ha preservato e fatto ritrovare la forma di tre capanne di varie dimensioni. Davanti alle capanne in una vasta area si è rinvenuta una sorta di gabbia li legno e argilla che conteneva le ossa di nove capre, mentre in altri recinti si trovavano altri animali quali mucche, maiali, pecore. “L’attività eruttiva del Vesuvio e dei Campi Flegrei ha innumerevoli volte interferito con il popolamento pre e protostorico della Campania centrale prima del famoso evento che, nel 79 d.C., distrusse Pompei ed i vicini abitati dell’area vesuviana. Potenti eruzioni hanno infatti sepolto sotto strati di cenere e pomici ecosistemi preesistenti ed hanno conservato le testimonianze della presenza e dell’attività dell’uomo....”(1). I maggiori vulcani nella regione campana sono: il vulcano di Roccamonfina, ormai spento da oltre 50.000 anni, i campi Flegrei ed il Vesuvio che in origine era un vulcano sottomarino: infatti sul monte Somma si rinvengono conchiglie allo stato fossile. Verso il III millennio a. C. giunse in Italia una prima ondata di popolazioni indoeuropee. Ma solo fra il 1000 ed il 900 a. C. giunsero e si stanziarono genti indoeuropee che parlavano l’osco-umbro, cioè la lingua parlata dai Sanniti, dagli Irpini, e, in Campania, dalla popolazione degli Opici. Con il nome di OPICI, viene designata la popolazione di lingua indoeuropea, che abitava la regione prima dell’invasione dei Sanniti avvenuta verso la metà del V sec. a. C. . E’ probabile che gli Opici fossero un gruppo più antico di immigrati indoeuropei inoltratisi nell’Italia meridionale. Al loro arrivo trovarono popolazioni aborigene di cui non si conosce quasi nulla e a cui si sovrapposero prima della venuta dei Sanniti.

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Gli Opici abitavano nella pianura compresa fra il Volturno ed il Clanio. Il nome, ricollegato a ops o opus (opera) è, forse, l’adattamento di “opico” alla nuova lingua e significa “ popolo dei lavoratori”: opos = lavoro; opsaom = fare. Essi assunsero il nome di Osci solo molto tempo dopo, quando nel territorio si insediarono le popolazioni sannitiche. Verso l’800 a.C. giunsero genti Villanoviane che precedettero di poco gli Etruschi, i quali gradualmente, si stabilirono nella zona, dal VIII sec. a.C. in poi, inglobando i precedenti abitanti ed essendo un popolo portatore di nuove tecnologie, diedero a Capua un vero assetto di città, e la cinsero di mura. Le aristocrazie etrusche si organizzarono in una lega di 12 città sotto l’egida di Capua, il più importante centro del loro dominio. Dopo la battaglia navale di Cuma del 470 a. C., avvenuta fra i Cumani, aiutati da Gerone di Siracusa, e gli Etruschi di Capua, essendo questi ultimi stati sconfitti e indeboliti dal punto di vista militare, e perduto, quindi, potere, divennero facile preda, nel V e IV sec., di popolazioni di stirpe sannitica, le quali, alla ricerca di territori più fertili, scesero dalle montagne, occuparono Capua, con l’inganno, annientarono l’intera popolazione ed a essa si sostituirono. CAPUA ROMANA Successivamente, nel 343, i Romani intervennero in aiuto di Capua, posta sotto assedio dai Sanniti. Si ebbe così la prima guerra sannitica (343-341 a.C.). Capua fu accolta nella organizzazione politica romana, ma in uno stato di netta inferiorità. Per tanto, nel 340 la plebe capuana, durante la ribellione dei popoli latini, si schierò contro Roma. La vittoria delle truppe romane costò a Capua la perdita dell’Agro Falerno e l’imposizione di tributi, mentre fu premiata la nobiltà capuana che non aveva preso parte alla ribellione: infatti i nobili ebbero la cittadinanza senza diritto di voto, e il diritto di contrarre nozze con i romani.

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Durante la seconda guerra sannitica (326-304 a.C.) in un periodo di tregua, nel 312 a.C., fu iniziata la costruzione della via Appia, che collegò Roma con Capua. Nel 268 a.C., la strada raggiunse Benevento; nel 190 a.C., Venosa; nel 170 fu prolungata, passando per Taranto fino a Brindisi, il porto più importante per una diretta comunicazione con l’Oriente e la sua successiva conquista. Nel 123 d.C. la Via Appia fu restaurata per volere di Adriano con il contributo dei latifondisti beneventani. Questa grandiosa strada, larga 14 piedi romani (m.4.1), lastricata con selci, e fiancheggiata da marciapiedi, fu una strada strategica, ideata principalmente per rendere più veloce gli spostamenti delle truppe che venivano impiegate nelle conquiste territoriali, favorendo in tal modo l’espansione di Roma. In principio era in terra battuta. In seguito, si provvide a pavimentarla con selci. Il lavoro di costruzione era effettuato dai soldati stessi. La pavimentazione fino a Benevento fu completata nel 191 a. C.. Con la completa disfatta dei sanniti nella terza guerra sannitica ( 298-290 a.C.), tutta la Campania divenne possedimento romano. Nel successivo periodo, per oltre un cinquantennio, fra Capua e Roma vi fu una certa intesa e anche una alleanza in occasione della prima guerra punica conclusa nel 242 a.C. e nella guerra contro i Galli nel 222. Nella seconda guerra punica, Capua fu a fianco dei romani, ma dopo la sconfitta di Canne nel 216 a.C., la città si ribellò a Roma aprendo le porte ad Annibale. Nell’anno 211 Roma riconquistò Capua e la punì severamente privandola di qualsiasi autonomia, di ogni diritto. Non venne rasa al suolo perché era circondata da una campagna fertilissima, che produceva il grano, si dice anche due volte l’anno: ed il grano rappresentava una notevole ricchezza per Roma.

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Capua riacquistò la dignità di città nel 59 a.C., quando Giulio Cesare vi dedusse una colonia di circa 20.000 veterani. L’anno successivo riebbe la cittadinanza, e con essa la magistratura. Negli anni seguenti la città si ingrandì notevolmente e all’epoca di Augusto assunse il titolo di Colonia Julia Augusta Felix. Per tutto il periodo dell’Impero romano la città ebbe grandi concessioni da tutti gli imperatori. Nel 130 d.C. venne costruito il nuovo anfiteatro in sostituzione di quello che circa due secoli prima aveva visto le gesta di Spartaco, il gladiatore che da Capua partì per ritrovare la libertà perduta. Intanto il Cristianesimo si faceva largo fra persecuzioni e martirii. Con l’editto di Milano, nel 313 si ebbe, finalmente, la libertà di professare la propria fede e l’imperatore Costantino, negli anni compresi tra il 320 e il 330, volle far edificare anche in Capua una prima basilica cristiana, dedicata ai SS Apostoli. Nel 410 d. C., Capua subì un saccheggio da parte dei Visigoti di Alarico. Nel 432, S. Simmaco, al suo ritorno dal Concilio di Efeso, dove la Madonna era stata proclamata madre di Dio, in suo onore, edificò la Basilica di S. Maria Maggiore. Qualche decennio dopo, nel 455, arrivarono i Vandali di Genserico i quali, nella loro insensata furia, saccheggiarono la città e distrussero buona parte dei monumenti e delle abitazioni. Venne assoggettata nel 493 da Teodorico, re degli Ostrogoti che diede modo alla città di rifiorire. Nel 530 vari edifici pubblici fra cui l'Anfiteatro furono restaurati per interessamento del consolare campano Postumio Lampadio. I LONGOBARDI Quando il Meridione, nel 585, fu conquistato da Autari, longobardo, e nacque la Longobardia Minore, Capua (nel 594) venne assegnata alla dipendenza del Ducato di Benevento e ne segui le varie vicissitudini, finchè con la morte, nel 839, dell’ultimo duca beneventano, Sicardo, si accese una lotta intestina fra il suo erede legittimo Siconolfo e Radelchi di Benevento che aveva usurpato il

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trono; e poichè il conte capuano Landolfo I, cercava di rendersi indipendente dal principato beneventano, Radelchi assoldò una banda di saraceni comandati da Khalfun, che nel 841 distrusse quasi totalmente la florida città. I cittadini, fuggiti sul monte Palombara, una collina nei pressi di Triflisco, si rifugiarono nel castello detto Sicopoli, costruito già da alcuni anni. Qualche tempo dopo, nell’856, distrutta Sicopoli per un incendio, si traferirono nella Capua Nuova, edificata in una ansa del Volturno e quindi più difendibile, perchè protetta su tre lati dal fiume. Capua Vetere, quale fiorente città, ormai non esisteva più: solo poche miserevoli casupole aggregate ai pochi edifici non gravemente danneggiati: l’Anfiteatro, la Chiesa di S, Maria Maggiore e la Chiesa di S. Pietro, che risultò incendiata. Non più estesa città, ma solo piccoli borghi che presero il nome di Casali. Vi abitavano quasi esclusivamente contadini e bifolchi: Essi non abbandonarono mai i circostanti, fertilissimi campi da cui traevano sostentamento anche gli abitanti della Nuova Capua. In questi anni, i Longobardi dovettero lottare anche contro i Saraceni Essi erano mercenari chiamati e pagati dagli stessi governanti in guerra fra loro; dopo agirono per proprio conto, con propositi di conquiste, razziando e distruggendo. Nell’899, Atenolfo I di Capua conquistò Benevento ed unificò i due ducati dichiarandoli giuridicamente inseparabili. Nel 978 Pandolfo Testa di Ferro, capo della lega che sconfisse definitivamente i Saraceni sulle rive del Garigliano, divenne anche principe di Salerno e così l’intera Longobardia Minor venne riunificata. Tuttavia alla sua morte vi furono nuove divisioni. TERRA DI LAVORO Con il nome Liburia era designato il “luogo ameno e fertile, ricco ed ubertoso, pinguo di prati ed albereti, sovrabbondanti di messi e frutti” (2), feracissima pianura che si estendeva a nord di Napoli compresa tra le antiche strade consolari che da Pozzuoli e Cuma conducevano a Capua. Successivamente con lo stesso nome venne designata la

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regione delimitata a nord dal fiume Clanio e a sud dall’ Ager Neapolitanus e dal Lago Patria. In epoca longobarda, venne chiamato con il nome di LIBURIA., il territorio compreso tra il Volturno ed i Campi Flegrei Secondo alcuni storici sembra che il termine Liburia sia la deformazione popolare del toponimo latino Leboriae Terrae, documentato fin dal I sec. d.C. da Plinio il Vecchio nella sua opera Naturalis Historia, e ritenuto derivante da lepus = lepre, vale a dire Terra delle lepri (2.1). Una seconda versione dice che il nome Liburia indica la regione in cui viveva una antichissima popolazione chiamata Leborini o Liburi, di cui non si hanno notizie. Per altri studiosi, infine, il nome Liburia deriva dal gentilizio Libor, divenuto Labor per distorsione fonetica. Dal sec. XII in poi la voce Liburia venne soppiantata dal termine Terra Laboris che indicò un territorio più vasto del precedente e successivamente divenne TERRA DI LAVORO. Terra di Lavoro, dunque, era una regione storico – geografica strettamente legata a Capua ed alla sua storia. Il territorio era molto esteso: andava da Nola e Palma Campania fino a Gaeta, Fondi, Sora, Venafro. Oggi, lo stesso territorio risulta suddiviso tra le regioni politiche amministrative della Campania, del Lazio, e del Molise. I NORMANNI Poco dopo l’anno 1.000, nel Meridione giunsero i Normanni, prestando i loro servizi come mercenari. Nel 1030 circa, nacque, con Rainulfo Drengot, ad Aversa, la prima contea normanna d’Italia. I suoi successori, dapprima conti di Aversa, divennero anche principi di Capua fino all’anno 1156 quando con la morte dell’ultimo principe Roberto II la dinastia si concluse, e il principato di Capua fu acquisito da Ruggero II d’Altavilla, divenuto il re di tutto il Sud compresa la Sicilia strappata agli arabi, dopo una

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guerra decennale. Verso il 1139, da Ruggero II, fu unificata l’intera Italia Meridionale, e in questo stesso tempo venne definito il suo ordinamento, con la creazione di sette “giustizierai”. L’antica Campania ne fece parte e a sua volta venne divisa in tre province o Giustizierati; Terra di Lavoro, Ducato di Amalfi, e Principato di Salerno che comprendeva anche il gastaldato di Avellino. Al tempo di Guglielmo I (1154 -1166), Terra di Lavoro comprendeva l’attuale provincia di Caserta, l’agro nolano, e parte del territorio beneventano; ed inoltre la valle del Garigliano, e la media valle del Liri, ad est l’area tra Monteroduni e Venafro ed il Sannio alifano e telesino. Alla sua morte, gli successe Guglielmo il Buono che regnò per poco più di un decennio e non essendovi discendenti diretti egli stesso indicò, si dice, la zia Costanza d’Altavilla, come erede. Una parte dei nobili, invece era propensa a dare il trono a Tancredi, figlio di Ruggero III di Puglia, l’ultimo discendente maschio della famiglia Altavilla. Nel novembre 1189 venne incoronato re di Sicilia. Ma anche egli morì presto e gli successe Guglielmo III di poco più di nove anni sotto la reggenza della madre Sibilla. GLI SVEVI Dal 1194 inizia l’epoca sveva. Durante questo periodo, i confini di Terra di Lavoro ebbero la massima estensione comprendendo il territorio tra gli Appennini ed il Tirreno, il fiume Sarno e la valle Roveto, in Abruzzo. Il capoluogo era Capua. Il figlio di Federico Barbarossa, l’imperatore Enrico IV di Svevia, aveva sposato Costanza d’Altavilla, figlia di Ruggero il Normanno. Proprio in virtù di questo matrimonio, Enrico reclamava i diritti di successione della moglie e si accinse a riconquistare il regno, e conquistata Palermo, il giorno di Natale del 1198, si incoronò re di Sicilia annettendo il regno all’Impero germanico. Il giorno seguente, 26 dicembre 1198, ad Jesi nacque Federico II, sovrano illuminato, letterato apprezzato, protettore di artisti e

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studiosi. Presso la sua corte si incontrarono le culture latina, greca, ebraica e araba. Durante il suo regno cercò di unificare terre e popoli, ma venne contrastato con forza dal potere della Chiesa. Al tempo di Federico II i giustizierati, cioè i dipartimenti amministrativi in cui era diviso il Regno, erano nove: Abruzzo, Terra di Lavoro, Principato, Basilicata, Capitanata, Terra di Bari, Terra d’Otranto, Valle di Crati e Terra Giordana, Calabria. In seguito il territorio fu suddiviso in dodici province, con la divisione del Principato, dell’Abruzzo e della Calabria in Ulteriore (al di qua) e Citeriore (al di la). Alla prematura morte dell' Imperatore Federico II, avvenuta nel 1250, il figlio prediletto, Manfredi, nato nel 1232 da Bianca Lancia, gli successe come reggente e nel 1258 assunse il titolo di re di Sicilia, ostacolato pure lui, come il padre, dal papa, che per contrastarlo fece venire dalla Francia, Carlo d’Angiò. Con la battaglia di Benevento del 26 febbraio 1266 si ebbe la sconfitta e la morte di Manfredi. Il Regno di Sicilia venne conquistato da Carlo I d’Angiò, ma il suo ordinamento amministrativo non venne mutato, conservando così gli antichi giustizierati Successivamente, Amalfi e Salerno vennero riunite in un solo Giustizierato e da questo nel 1300 fu staccato il territorio di Avellino. In tal modo si ottennero: il Giustizierato di Principato Citra, il Giustizierato di Principato Ultra, ed in più il Giustizierato di Terra di Lavoro GLI ANGIOINI E GLI ARAGONESI L’ultima speranza degli Svevi era riposta nel giovane Corradino, nipote di Federico II, ultimo erede degli Hohenstaufen. Purtroppo anch’egli venne sconfitto nella battaglia di Tagliacozzo nel 1268;

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cercò di riparare in altri lidi, ma catturato salì sul patibolo in piazza Mercato a Napoli. Quindi i d’Angiò avevano conquistato l’intero regno da Fondi, Gaeta, fino alla Sicilia. Quest’ ultima, però venne persa nel 1282, con la sommossa conosciuta con il nome di Vespri Siciliani. La corona di Sicilia passò a Pietro III d’Aragona, marito di Costanza, figlia del re Manfredi. Il regno di Sicilia, dunque era così finito. Nacque il Regno di Napoli, Stato che restò unitario dal XIII al XIX sec. Esso comprendeva le attuali regioni dell’Abruzzo, Molise, Campania, Puglia Basilicata, Calabria e anche alcuni territori dell’odierno Lazio e cioè da Sora, a Fondi e a Gaeta. Nel 1441 Alfonso V d’Aragona conquistò Napoli riunificando sotto la sua reggenza, l’intero regno normanno – svevo, e spostando la capitale da Palermo a Napoli, e acquisendo il nome di Alfonso I re di Napoli detto il Magnanimo. Con l’avvento degli Aragonesi la prima modifica amministrativa riguardò la trasformazione dei precedenti giustizierati nelle province di Terra di Lavoro e Contado del Molise, Principato Citra e Ultra, Basilicata, Abruzzo Citra e Ultra, capitanata, Terra di Bari, Terra d’Otranto, Calabria, Valle di Crati e Calabria Ultra. Gli Aragonesi stettero sul trono napoletano fino al 1503. Dopo di loro iniziò la lunga teoria dei vicerè spagnoli. Gli Spagnoli non modificarono nessuna struttura amministrativa di Terra di Lavoro: per loro il regno di Napoli era solo una colonia da cui trarre il massimo profitto. L’esorbitante fiscalità alimentò un fortissimo malcontento nel popolo che sfociò nel 1647 in una vera rivoluzione capeggiata da Masaniello, amalfitano. Ma né questa rivolta, né un tentativo di repubblica favorito dal duca di Guisa ebbero successo e il dominio spagnolo restò fino al 1713, anno in cui col trattato di Utrecht, il regno di Napoli venne assegnato all’Austria, che restò sul trono napoletano fino al 1734.

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I BORBONE Alla fine della Guerra di Successione polacca nel 1734, sul trono del Regno di Napoli si insediarono i Re di casa Borbone. Essi non modificarono l’ordinamento amministrativo dei propri territori, ma adottarono interventi sul territorio con l’intento di valorizzarlo, ed in particolar modo in Terra di Lavoro con la costruzione della Reggia vanvitelliana di Caserta e successivamente la costruzione della colonia industriale di S. Leucio, voluta da Ferdinando IV. Nel 1799 alla Rivoluzione Partenopea, partecipò pure la nostra città, S. Maria Maggiore, donando alla causa le vite di parecchi suoi cittadini, caduti per i colpi inferti dall’una, le truppe sanfediste, e dall’altra parte, le truppe francesi. E forse proprio per tale tributo di sangue, allorquando, con l’avvento dei Napoleonidi, vennero apportate modifiche alla divisione ed amministrazione delle province, la città assurse a Capitale di Terra di Lavoro. Infatti, “il 9 agosto 1806 viene pubblicata la legge n. 132 - adottata il giorno precedente a Napoli dal nuovo re Giuseppe Bonaparte, che, dividendo il territorio del Regno di Napoli in 13 province, presenta una novità assoluta: come capitale di Terra di Lavoro viene individuata S. Maria Maggiore. Accanto a capitali di provincia di più nota fama (Napoli, Teramo, Aquila, Chieti, Salerno, Avellino, Foggia, Bari, Lecce, Potenza, Cosenza) viene collocata la nostra Città” (3). Quindi S. Maria, anche se solo per poco più di due anni, fu Capitale di Terra di Lavoro, ed essendo tale, venne in essa localizzato il Tribunale, e fu sede anche degli Uffici dell’Intendenza (odierna Prefettura) e del Consiglio (odierna Questura). “ Probabilmente re Giuseppe, nella scelta della Città che avrebbe sostituito Napoli alla guida di Terra di Lavoro si lasciò ispirare da principi di decentramento amministrativo e di funzionalità dei servizi, lasciando a Capua il ruolo di fortezza militare e a Caserta, dichiarata dal Borbone “Città fedelissima” nel 1800, quello di rappresentanza regia con il suo magnifico Palazzo Reale, molto più maestoso e facilmente accessibile di quello di Napoli.

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Opposte furono invece le valutazioni di Gioacchino Murat che mantenne la residenza dei Tribunali a S. Maria, ma trasferì la sede dell’Intendenza a Capua, ritenendo che le funzioni di un Intendente avessero carattere più strettamente militare che civile. Quindi, con decreto n. 182 del 26 settembre 1808, trasferisce la residenza dell’Intendente a Capua, pur mantenendo la residenza dei Tribunali a S.Maria” (4). Dopo il periodo napoleonico, nel 1816, con il ritorno dei sovrani borbonici, il suddetto trasferimento fu revocato dal re Ferdinando IV di Borbone con decreto del 15 dicembre 1818 e l’Intendenza venne definitivamente trasferita a Caserta. Re Ferdinando I morì nel 1825, gli successe il figlio Francesco I e dopo solo cinque anni, il nipote Ferdinando II. Una ventata di libertà si ebbe nel 1848 quando il re Ferdinando II concesse al popolo la Costituzione ispirata a quella francese (11.02.1848), peraltro subito revocata (15.05.48). Per questa revoca a Napoli scoppiò una sommossa popolare ed avutone notizia, cittadini sammaritani svelsero le rotaie della ferrovia, da poco costruita, per impedire che le truppe borboniche di stanza nelle caserme di S. Maria e di Capua potessero raggiungere Napoli e dare così manforte ai soldati che nella capitale cercavano di sedare la rivolta. Nel 1859 morì Ferdinando II e salì sul trono l’ultimo re Borbonico Francesco II, il quale fu costretto a cedere il trono l’anno successivo nelle mani di Garibaldi che entrato in Napoli il 7 settembre assunse la dittatura, ed il I ottobre 1860 telegrafò: “Vittoria su tutta la linea “. All’indomani dell’Unità la provincia di Terra di Lavoro divenne una delle più vaste d’Italia: Infatti era costituita dall’intero territorio della attuale provincia di Caserta, la parte meridionale della provincia di Latina, il circondario di Gaeta, il circondario di Sora che oggi appartiene alla provincia di Frosinone, l’agro nolano, e parte delle

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attuali province di Benevento, Avellino ed Isernia: inoltre facevano parte della provincia le isole ponziane. Così viene descritta la provincia nel supplemento mensile illustrato de IL SECOLO edito venerdì 31 luglio 1896. “La provincia di Terra di Lavoro confina a nord con le province di Aquila e di Campobasso – all’est con quelle di Benevento e di Avellino – a sud-est con quella di Salerno – a sud con quella di Napoli – a sud-ovest col mar Tirreno – ad ovest con la provincia di Roma. Il territorio della provincia è più montuoso che piano. Le montagne delle Mainarde e del Matese fanno parte del displuvio generale dell’Appennino. I monti Saticolani, Callicola e Tifata fanno parte del subappennino Caudino – Irpino. I monti Ausoni e di Roccamonfina fanno parte dall’antiappennino. Sulla catena delle Mainarde, a nord, vi è il monte Meta che si eleva a 2241 metri dal livello del mare (dove nasce il Volturno ndr). D’inverno è sempre coperto di neve. Alti sono pure, e nevosi, i monti del Matese, dei quali più alto è il monte Miletto che si eleva a 2050 metri. Dipende dalle Mainarde il monte Cairo (1669 m.) presso Cassino. La provincia di Terra di Lavoro ha due fiumi importanti: il Liri ed il Volturno. Il Liri sorge presso Petrella dal monte Camiciola. Affluenti del Liri sono: a destra L’Amaseno, il Sacco, o Tolero e l’Ausento; a sinistra il Fibreno, la Melfa, il Rapido e la Peccia ( chiamata Bautta nel medio evo). Temperato è il clima di questa provincia. Rigido sui monti delle Mainarde e del Matese durante l’inverno ma sano. I prodotti principali di questa terra ubertosissima sono: i vini, frumento, canapa, lino, frutta, ortaggi e agrumi. La superficie del territorio di questa provincia è di kmq. 5974,78 con una popolazione assoluta di 725.537 abitanti, e con una popolazione relativa di 121 e più per chilometro quadrato. La provincia di Terra di Lavoro è divisa in cinque circondari: Caserta, Nola, Sora, Piedimonte d’Alife e Formia. Ha 41 mandamenti e 186

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comuni. La provincia ha 13 collegi elettorali politici.” L’alta valle del Volturno, scorporata dalla provincia di Terra di Lavoro, fece parte della provincia di Campobasso”. Nel 1927 venne istituita la provincia di Frosinone. L’Intendenza che, come già ricordato, era stata trasferita a Caserta, restò in vita fino al 2 gennaio 1927, data in cui la provincia venne soppressa. Il motivo che portò allo scioglimento della Provincia di Terra di Lavoro, non è stato mai chiaro e non venne mai chiarito. Tuttavia si ebbe il sospetto che fu una ripicca personale di Benito Mussolini nei confronti di un gruppo di buontemponi antifascisti casertani che gli avevano preparato uno spiacevole scherzo, attuato in pubblica piazza. Un’altra motivazione, forse, può ravvedersi nel fatto che il “Duce” non gradiva i forti contrasti che, per l’acquisizione di un sempre maggior potere, si verificavano fra gli emergenti capi fascisti casertani, Sembra, però, che la soppressione voluta da Mussolini, sia dovuta al fatto che la provincia di Terra di Lavoro era considerata molto grande e quindi non dava alla città di Napoli un retroterra adeguato al ruolo di “perla del Mediterraneo” che il regime voleva praticamente e propagandisticamente esaltare (4.1). Le cinque province, Avellino, Benevento, Caserta, Napoli e Salerno, vennero ridotte a 4 ed il territorio casertano, che formava la più vasta delle province campane, venne, per una parte considerevole, incorporato alla provincia di Napoli (che per estensione era la penultima in Italia), mentre il resto fu diviso fra le province di Benevento, Campobasso, Roma , Frosinone e Littoria (oggi Latina) da pochissimo istituita. Ovviamente una simile soppressione, danneggiò notevolmente il territorio della provincia di Caserta, “che ragioni storiche, geografiche, ed economiche avevano fatto il centro amministrativo di una delle plaghe più ubertose della Campania”(4.2).

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Durante il II conflitto mondiale, anche Terra di Lavoro, come tutta la Campania, registrò innumerevoli distruzioni e la perdita di tante vite. Il 23 settembre ‘43, a Napoli, il popolo, sebbene non organizzato, combattendo eroicamente, riuscì a scacciare in quattro giornate, i Tedeschi dalla città. Nei giorni successivi, in altri centri della regione, ed anche in Terra di Lavoro si vissero giornate memorabili: - una battaglia si ebbe presso Valle di Maddaloni per salvare i Ponti della Valle, che i tedeschi, in ritirata, volevano minare. - a Mondragone i cittadini affrontarono i tedeschi in ritirata e si ebbero cinque morti fra i combattenti e cinquantadue fucilati perché in possesso di armi. - 5 ottobre 43. A S. Maria C.V., un pugno di uomini decisi, - fra di essi si ebbero due feriti gravi - in poche ore fecero uscire dalla città i soldati tedeschi qui stanziati, i quali anche se in ritirata, colpirono mortalmente un nostro concittadino in piazza S. Erasmo; sulla Nazionale, che porta a Capua, appesero ad un olmo un giovane appena sedicenne. Quando, l’11 giugno 1945, pur ridimensionata nella sua estensione territoriale, venne ricostituita la provincia di Terra di Lavoro, Caserta tornò ad esserne il Capoluogo. Lo stemma della provincia di Terra di Lavoro, in tempi a noi più lontani, era rappresentato da due cornucopie d’oro legate da corona d’oro in campo azzurro sovrastato da una corona nobiliare. Oggi, invece, lo stemma del gonfalone di Terra di Lavoro rappresenta due cornucopie su sfondo azzurro ricolme una di grano, l’altra di vari frutti, unite alla base dal cerchio di una corona dorata. Le due cornucopie, allegoricamente, rappresentano l’abbondanza e il

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benessere economico e sociale di Terra di Lavoro. NOTE BIBLIOGRAFICHE (A) (Caserta e la sua storia – edito da Ente provinciale per il turismo – testi di Claudia della Corte) (1) (da Archeo n° 182 Aprile 2000 pag.40) (2) (Guglielmo di Puglia in Gesta Roberti Wiscardi) (2.1) (A.Perconte Licatese - S. Maria di Capua- pag. 150) (3) (Bicentenario di S. Maria Capitale di Terra di Lavoro – cronache e profili di Giovanni Laurenza pag.33 – volume pubblicato nel 2006 dal Comune di S.Maria C.V., per celebrare il bicentenario dell’evento, sotto l’attenta guida e la facile e comprensibile prosa del Dott. Giovanni Laurenza). (4) (G.Laurenza op.cit. pag.34). (4.1) (da Encicl. Treccani aggiornamenti vol. II). (4.2) (da Wikipedia – Terra di lavoro) (B)(Lucio Santoro - Castelli Angioini e Aragonesi)

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PIAZZA MAZZINI

La piazza centrale della città, un quadrilatero di forma leggermente irregolare, costituisce il nucleo più antico dell’abitato. Era uno dei fori dell’antica Capua: il Foro del Popolo. Le fonti hanno tramandato il nome, e la tradizione vuole individuarla con la piazza Seplasia, la piazza famosa nell’antichità per le molte botteghe di unguentari e di profumieri specialisti a trarre i loro prodotti dalle rose (le rose centofoglie) coltivate in grandi quantità nei terreni intorno alla città, in particolar modo nella campagna che si estende verso il mare, i cosiddetti Mazzoni. NOTA: In questa località, al tempo degli Angioini, fiorivano ancora rose selvatiche, si che i Francesi chiamarono quei luoghi Maison des roses; di qui Maggione, e poi Mazzone. (1) E ancora il Granata cita: “Nel Mazzone delle rose”. Il Summonte: “nel luogo detto la Maggione delle rose, hora il Mazzone”. Altri studiosi, invece, fanno derivare il nome da “massa”: un possesso fondiario, al cui centro era il casale: massa grande, cioè massone da cui, popolarmente, “Mazzone”. Dalla grande quantità di rose prodotta dai campi intorno a Capua, derivava una notevole produzione di olii finissimi e di unguenti, tanto che si diceva : si produce più unguento a Capua che olio altrove. Gli unguentari vendevano “gli unguenti più soavi e delicati, di cui i voluttuosi Campani e Romani facevano tanto uso. La Seplasia: via di amori e di piaceri, dove i venditori offrivano i loro cosmetici, che imbalsamavano l’aria del delizioso profumo di rose”(1.1). “Seplasia: forum Capuae, in quo plurimi unguentarii erant”. ( Seplasia: piazza di Capua nella quale vi erano moltissimi profumieri.) diceva Festo. Del profumo e degli unguenti capuani ne parla Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia .XIII, 6. Petronio ne fa cenno nel suo Satyricon LXII, LXXVI. La Seplasia, oltre ad essere il centro popolare, il “forum plebis”, era anche il centro commerciale di Capua. “Qui erano messi in vendita i prodotti del suolo e dell’industria, qui si trovava la borsa, qui prima di tutto si concentrava il commercio degli unguenti”.(2)

Quali somme di denaro passassero di mano in mano nella Seplasia è mostrato da un frammento di Varrone nel quale egli cita la Seplasia di Capua come uno di quei posti al mondo in cui si trovavano le più grandi ricchezze, si costruivano le più grandi fortune. (3)

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“A Capua si andava soprattutto per acquistare strumenti di lavoro, aratri, zappe e falcetti che Catone, da buon esperto, raccomandava tra i migliori d’Italia, e vasellame di bronzo e di coccio, la “campana suppellex”, stoviglie comuni di cucina e da mensa, e per una merce più preziosa e meno rusticana, per il profumo distillati dai roseti che fiorivano ovunque tra i campi e le siepi, sì da dar vita ad un intero quartiere e da alimentare il mercato della piazza più universalmente famosa di Capua, la piazza Seplasia. E poichè in quel profumo di rose sembrava dovessero sopravvivere le mollezze e le delizie degli ozi di Capua, sono andato alla ricerca della piazza dei profumi. La Seplasia è quasi certamente da riconoscere nella piazza che al centro dell’abitato, mutato oggi il nome in piazza Mazzini, è da tempo immemorabile il vero mercato della città…”.(4) Quindi, il profumo era la produzione più importante di Capua ed in questa piazza si concentrava il commercio degli unguenti tanto che seplasium era diventato sinonimo di profumo e seplasarius di profumiere. In questa piazza venivano celebrate anche delle feste a sfondo religioso, dette appunto le Seplasiae, feste che, vista la ricchezza degli abitanti,dovevano avere grande reputazione.” (5)

Nei pressi della piazza, sul lato orientale, sorgeva il tempio di Venere.

L’ipotesi dell’esistenza del tempio suddetto è dovuta al rinvenimento, nel 1628, della statua della dea: ”...intiera assai bella, la quale venne trasferita a Napoli, pel detto Museo di Spadafora, ed una gran base con la iscrizione a Venere Felice..”. (G. Rucca – Capua Antica pag. 67)

NOTA: Si tenga presente che nel 1628 il collezionista antiquario Adriano Guglielmo

Spatafora, operante a Napoli, era morto già da più di trenta anni. Nel cinquecento, le raccolte di antichità erano collezioni private. Il “museo” nel senso pieno

della parola non esisteva. Solo molto tempo dopo nacque il museo come lo si intende oggi, cioè raccolta organica di opere d’arte. Ancora la tradizione ci dice che in questo luogo venne o lapidato, o pugnalato, il primo vescovo di Capua, San Prisco, che giunto nella città al seguito di S. Pietro, governò la prima Chiesa capuana per circa 24 anni dal 42 o 44 d. C. al 66 d.C. L’assassinio fu compiuto su istigazione dei sacerdoti del tempio di Diana

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Tifatina, i quali, per il lavoro svolto da questa santa persona, avevano visto diminuire la loro influenza sul popolo. Venne sepolto fuori Porta di Giove, nei pressi della via Acquaria che snodava il suo percorso lungo l’acquedotto proveniente dai monti circostanti. (6)

Dal 1871 al 1890 la piazza era nota come “Piazza del Popolo”. Nel 1890, cambiò il nome in “Piazza Principe Amedeo” in omaggio ad Amedeo Ferdinando di Savoia, terzogenito del re Vittorio Emanuele II (1845-1890), morto, purtroppo, in quell’anno. Dal 1947, con l’avvento della Repubblica, la piazza venne intitolata a Giuseppe Mazzini. Ma prima, e per molti secoli, la piazza era conosciuta, e così la si ricorda ancora oggi, come “Piazza del Mercato”, quasi certamente per via del mercato autorizzato da Re Roberto d’Angiò con decreto del 1 ottobre 1315. Re Roberto, nato nella nostra città nel 1278, fu battezzato, l’anno successivo, nella chiesa di S. Maria Maggiore da Marino Filomarino (1252-1285), illustre arcivescovo di Capua. Essendo, quindi, molto legato alla sua terra natia, il re concesse ad Ingeranno de Stella, (anche egli arcivescovo di Capua dal 1313 al 1333), “ che ogni anno si potesse tenere una fiera in settembre nel giorno della festività della natività di Nostra Signora da durare cinque giorni, vicino la chiesa S. Marie de Capua sitam in Casali S.Herasmi prope ipsam Civitatem Capue, nella quale chiesa egli era stato tenuto al sacro fonte battesimale”.(7) Nota: Non si conosce né il giorno né il mese della nascita di Roberto d'Angiò. L'anno si è ricavato da “poiché nel 2 del Mese di Febbraio 1296 fu dal padre cinto cavaliere si rileva la sua età di diciotto anni, e perciò nati nel 1278” (7.1)

La fiera o mercato, importantissima per l’economia del Casale, venne confermata da tutti i governi che succedettero nel regno di Napoli. Si teneva in uno spazio nudo, polveroso o fangoso a seconda delle stagioni, ed in esso confluivano alcune strade. Sul lato della piazza esposto a mezzogiorno, con decreto del 1319, Re Roberto il Saggio, volle far costruire una Chiesa, a tre navate, dedicata a S. Lorenzo ed un annesso ospedale: l’ entrata principale si apriva sulla piazza Mercato.

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“Nell’anno 1319 a richiesta ed insinuazione di Bartolomeo di Capua (il re Roberto d’Angiò), edificò in questo gran Casale di S. Maria, la Chiesa ed Ospedale di S. Lorenzo, con assegnargli una ben pingue rendita, col peso di maritare dieci donzelle ogni anno; e sin oggi si veggono sulla porta della chiesa l’effige di Roberto e di Sancia sua moglie, coll’iscrizione de’ nomi loro;ed in questa Chiesa veniva sp esso il Re a sentire la santa Messa. Ma oggi (1756 ca.) è padronato regio posseduto dalla Famiglia Gaetana de’ Duchi di Piedimonte, coll’alternativa co’ Re di Napoli, per special grazia a tal mobilissima Famiglia dai sovrani conceduta”. (10)

“L’ospedale di S. Lorenzo, sito nella piazza Mercato, oggi piazza Mazzini, fu adibito con la Chiesetta di S. Carlo ad ospizio e giardino dai Padri Serviti, detti di Gerusalemme, per essere li medesimi, che quelli del convento di S. Maria di Gerusalemme ad Montem, sul Casale di Bellona” “La Chiesa di S. Lorenzo, già parte integrante del detto ospedale, situata in mezzo della Terra, è per la verità assai comoda ai forestieri, che in tre giorni della settimana presso la medesima vengono a tenervi il mercato, ed hanno per tanto il comodo di udire la Santa Messa, che ogni giorno non manca per obbligo;… ha il titolo di Badia”. (11)

“Situata in mezzo della Terra”, verosimilmente, può significare che tra la Chiesa di S. Lorenzo, il Duomo, S. Pietro e S. Erasmo, vi era grosso modo la stessa distanza e che non vi erano, edifici significativi, e questo spazio aperto era percorso solo da strade di collegamento tra i tre casali suddetti. Il mercato dal re Roberto venne concesso ogni giovedì. Venne confermato dai successivi regnanti e re Ladislao, con diploma del 18 ottobre 1401, concesse di potersi fare la Fiera in S. Maria Maggiore nel giorno della Natività della Beata Vergine. Il re Alfonso d’Aragona confermò poi il mercato per otto giorni di settembre escludendo le tasse, eccetto il dazio; nel 1449, diede il privilegio del Mercato franco anche per il dazio.(11.1) …. “nel 1806, la piazza del Mercato era molto simile al piazzale antistante l’Anfiteatro: il suolo era in terra battuta, in più parti ineguale ed infossato a causa dell’intenso traffico che in esso confluiva dall’intera città attraverso i varchi posti nei quattro angoli: non c’era la Fontana dei Leoni, ma un canale di scolo con acque putride spesso ristagnanti”. (8)

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Dopo qualche anno, nel 1829, la piazza venne sistemata e abbellita con un’opera di Angelo Solari, “scultore di marmo in Napoli”: la cosidetta Fontana dei Leoni a pianta circolare sovrastata da quattro leoni accovacciati. “I leoni arrivano a S. Maria nel dicembre di quell’anno, in quattro casse di legno di pioppo, e sistemati al centro della fontana da due scultori venuti in seguito”. I lavori in travertino “della Cava di Bellona” sono del maestro scalpellino Andrea Galeno. L’opera, su progetto dell’Arch. Giovanni Patturelli, è stata realizzata dagli appaltatori Domenico Fagiani e Giuseppantonio Uggini che hanno provveduto alla “mettitore in opera di tutti i travertini, Marmi di Mondragone e Pietra nera del Vesuvio”.(9)

Nota: Angelo Solari nacque a Caserta il 12 dicembre 1775 e morì a Napoli il 7 aprile 1845. Apparteneva ad una famiglia di scultori. Il fratello Pietro lavorò fra l’altro a 4 statue per i giardini della reggia di Caserta: le quattro statue dei cacciatori. Alla sua morte la quarta statua non era stata completata e così si pensò di farla eseguire, appunto, da Angelo, che dava già buona prova del suo talento, quando sarebbe stato in grado di farlo, essendo all’epoca ancora molto giovane. Tutto intorno alla piazza, furono messi a dimora una doppia fila di alberi di lecci che fecero da cornice all’ ampio quadrato centrale. Nei primi anni del Novecento, l’aspetto della vasca venne rielaborata in forme più armoniche; vi fu aggiunto un catino metallico, che tuttora fa bella mostra di sé, e la fontana venne protetta da una cancellata in ferro battuto, alta all’incirca 1 metro e mezzo, che racchiudeva anche delle aiuole. Poco distante dalla recinzione, una fontanella spandeva acqua per la pubblica utilità.. Successivamente, la ringhiera venne modificata e abbassata, le aiuole allargate, la fontanella eliminata e negli angoli della piazza vennero installati, in quattro aiuole circolari formanti la base, altrettanti lampioni che spandevano luce dall’alto dei loro tre bracci pendenti verso il suolo. Sui lati della piazza, esposti a nord e a sud, vennero sistemati due vespasiani in cemento prefabbricato che di tanta utilità sono stati per gli avventori del mercato. Sul lato che fiancheggia corso Garibaldi, delimitato da una fila di basse colonne e da un largo marciapiede, vennero installati due chioschi in stile primo novecento: sull’angolo verso sud un acquafrescaio, mentre sull’angolo opposto una rivendita di giornali, sostituito nel 1935 da un distributore di benzina, a sua volta eliminato in tempi recenti. Sotto la fila

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interna dei lecci, alcune panchine davano la possibilità di prendere il fresco. Lo spazio centrale aveva il fondo di ghiaia.

Nel 1978, sotto la piazza venne costruito un garage ed il verde nella piazza

venne modificato seguendo criteri moderni: i lecci sono restati solo sul lato est. Il mercato, successivamente, venne svolto due volte a settimana: il giovedì e la domenica. Ma “Negli ultimi anni del loro regno, i Borboni, a seguito delle lagnanze del clero motivate dall’assenza dei fedeli alle funzioni domenicali, anticiparono al sabato il mercato come spostarono al lunedì quello di Capua. Il 26. 11. 1862, il Consiglio comunale, deliberò il ripristino nel giorno di festa, perché effettivamente la disposizione regale ledeva gli interessi dei putecari (negozianti di specifica merce), dei barzarioti (bottegai di generi diversi) e dei fanguttari (venditori ambulanti)”. ( da F. Palmieri Op. cit.) Vittorio Emanuele II il 15.02.1863 a Torino decretò che:” l’antico mercato settimanale, solito tenersi la domenica nel Comune di S. Maria è stato poscia trasferito al sabato, è ora ripristinato di domenica”. (12)

Il mercato nella piazza si è tenuto fino al 1966, quando con una decisione presa anche con l’appoggio dei commercianti locali, che non volevano restare più aperti di domenica, venne spostato verso la periferia della città. Nelle “Passeggiate Campane”, con il suo tocco da maestro, rendendo con le parole lo svolgersi del mercato pari ad un filmato, così lo illustrò il prof. Amedeo Maiuri, archeologo di fama che spesso venne a visitare la moderna Capua per ritrovare l’antica: “Non ho mai visto mercato meglio ordinato: due o tre file di bancarelle, a ranghi serrati come banchi di scuola, riempiono il quadrato della piazza, e ogni mercanzia ha il suo inviolato settore. Dopo le frutta e le verdure, i semi e le farine, c’è il settore dei mercatini delle stoffe, delle confezioni, del vasellame, dei ramai, dei cordai, dei calzolai; non trovo i profumi dei roseti capuani, ma, in cambio, sopra un lenzuolo candido disteso come tovaglia d’ altare, c’è la mostra dei saponi multicolori che irradiano all’intorno un forte odore di muschio. E un pieno di compratori da non rigirarsi! Avete un bell’allestire giganteschi empori entro palazzi di vetro, con scale mobili,

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radio altisonanti, ragazze cerimoniose al banco, miraggi di lotterie e premi; basta compaia una bancarella con una filza di percalli e cotonine, perché il popolo faccia ressa all’intorno. La merce fa più confidenza al sole: si palpa, si osserva, si recita l’onesto gioco dell’adescamento e della ritrosia fra venditore e compratore, si ritorna insomma al costume del vecchio Foro italico, origine e ragione d’ogni convivenza sociale. Come poi facciano ad esporre tutto quel ben di Dio sopra due scanni con uno straccio di tenda teso bellamente come una cortina d’alcova, in modo da far spicco e richiamo di colore e di prezzo, a scaricare, sciogliere e sciorinare balle su balle e, in quattro e quattrotto, a rifar fagotto, a incassare tutto nello stesso carrettino che è servito da banco di esposizione e di vendita, e a ricacciare fuori ogni cosa al mercato del giorno dopo nella città più vicina, sono miracoli di prestigio ai quali si assiste come ai giocolieri del circo”. (13)

La Chiesa di S. Lorenzo occupava, in parte, lo spazio ove oggi sorge il fabbricato che ospitava, fino a poco tempo addietro, il Commissariato di P.S. ed in parte la strada ad esso prospiciente (inizio di corso Garibaldi).

Sul lato opposto della strada si aprivano diverse botteghe di carni, le

cosiddette chianche, e varie pescherie. Alla piazza si accedeva dalla strada dell’Angelo Custode (oggi via

Gallozzi), dal Vico Freddo (ora via Vetraia) e, proveniente dalla Piazza Maggiore, dal Vicolo del Mercato, “la cui angustia diviene permanente causa di impedimento e di disordine al libero transito”. Vale a dire, era così stretto che le carrette vi transitavano con difficoltà: per avere l’idea basta ricordare il vicoletto che, ancora oggi, dalla piazza scende a via Gramsci.

Pertanto, per allargare la sede stradale e rendere quindi possibile il

collegamento del Corso Francesco II, costruito nel 1859, con la strada, l’antica via Atellana, proveniente da S.Andrea dei Lagni, cioè Via della Croce (oggi via A. S. Mazzocchi) che passava per la Piazza Maggiore (oggi p.za Matteotti), la Chiesa di S. Lorenzo, dapprima (1870 circa) venne ridotta di dimensioni, con l’abbattimento di una navata e della facciata e successivamente, tra il 1878-1880, completamente demolita.

Come direttore dei lavori di abbattimento fu nominato, il 10 maggio 1876,

l’ingegnere Francesco Sagnelli, cittadino sammaritano,

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Sul suolo, divenuto così, disponibile, per ordine del Comune, venne realizzato un edificio per pubblici uffici, su progetto dell’Ing. Nicola Parisi. Il fabbricato era composto da un piano terra e da un primo piano. Il lavoro di costruzione, iniziato nel 1881 e completato nel 1883, venne eseguito dalla impresa edile Francesco Iacuariello di Napoli. Purtroppo, pochi anni dopo, verso il 1891, nel fabbricato si verificarono delle lesioni seguite da alcuni crolli e quindi si dovette provvedere alle necessarie riparazioni. Dopo aver citato per danni l’impresa appaltatrice e l’Ing. Progettista, il Comune affidò i lavori di restauro all’Ing. Gennaro Saccone ed alla Ditta Raffaele Troiano.

Finalmente, quando i detti lavori furono completati, l’edificio, reso agibile, ospitò gli Uffici delle Regie Poste e Telegrafi, la Pretura, ed anche la Banca Popolare Garibaldi. Durante il periodo fascista, fu la casa del Fascio, e dopo la II Guerra Mondiale divenne la sede del commissariato di P.S. Al piano terra ospitò circoli e botteghe; successivamente otto porte furono trasformate in finestre e la nona, cioè quella centrale divenne l’ingresso agli uffici della P.S. In corrispondenza della porta centrale, tuttora, si innalza la torretta. In essa, in origine, era collocato un orologio, che ora, purtroppo, non esiste più. Sulla facciata dell’edificio, venne posta il 1.10.1913 ( 53° anniversario della battaglia del Volturno) una iscrizione su marmo; dopo l’ultima guerra, venne spostata e sistemata sul lato nord, cioè il lato dell’edificio, che si apre verso la piazza.

Dettata da Raffaele Perla, (laureato in Giurisprudenza, libero docente di

Storia del Diritto presso l’Università di Napoli, uno dei redattori del Codice Penale, Presidente del Consiglio di Stato,ecc.) e scolpita dallo scultore Raffaele Uccella, nostro concittadino, la lapide vuole ricordare quanto il popolo sammaritano ha dato alla causa del Risorgimento Italiano. Essa così recita:

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LA FEDE NELLA CAUSA DELLA LIBERTA’ IN QUESTA TERRA D’ISPIRATRICE MEMORIE

NON DOMA NEL 1799 DALL’ECCIDIO DEL PARROCO CAPO E DI TERESA RICCIARDI

E DALLE ALTRE NEFANDE ATROCITA’ DELLA REAZIONE NON VINTA NEL 1823

DAL SUPPLIZIO DI CARRABA E DE LAURETIIS E ALLE ACERBE CONDANNE

PER LE COSPIRAZIONI QUI RINNODATE DOPO GLI INGANNI DEL 1821

RIFULSE NEL VALORE DI GIOVANNI DI GENNARO E DEGLI ALTRI CITTADINI

VOLONTARI NELLA CAMPAGNA DEL PATRIO RISCATTO ACCESE L’IRA POPOLARE

NELLA SOLLEVAZIONE CONTRO LE SOLDATESCHE BORBONICHE

ACCORRENTI A NAPOLI NEL 15 MAGGIO 1848 CONFORTO’ NEI DOLORI DELLA GALERA

LUIGI STICCO ANDREA DE DOMENICO GIOVANNI CARUSO GAETANO VELLUCCI ANTONIO FERRARA FRANCESCO MORELLI

MICHELE DE GENNARO GIULIO NATALE ABRAMO RUCCA IMPAVIDI PROMOTORI DI QUELLA SOMMOSSA

ANIMO’ LA SOCIETA’ QUI COSTITUITA NEL 1849 PER TENER VIVA NELLA PROVINCIA

LA FIAMMA DEL SENTIMENTO NAZIONALE EPILOGO DELLA SECOLARE TRAMA DI SOGNI DI OPERE DI SACRIFICI

IL FERVIDO AIUTO OFFERTO NEL 1860 DA QUESTA CITTA’

ALLE SCHIERE GUIDATE DA GARIBALDI NEI DECISIVI CIMENTI

PER L’UNITA’ E LA REDENZIONE D’ITALIA

OPQC 1799 1821 1848 1860 MCMXII Proseguendo sullo stesso lato si può facilmente osservare che i quattro palazzi ivi esistenti non hanno l’ingresso sulla piazza: tra di essi, il più significativo è il Palazzo Auriemma la cui costruzione iniziata nel 1899, fu completata nei primi anni del novecento. La facciata in stile liberty, fa bella mostra di sé in piazza, mentre l’ingresso insiste su via Gramsci (ex via Vittorio Emanuele).

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Sull’area occupata dal Palazzo Auriemma, e invadendo parte dello spazio di piazza Mercato, sorgeva il Teatro “Arena Nazionale”, di proprietà di Pietro Boschi nativo di Roma. Costruito su progetto dell’Ing: Pietro Tramundo, nativo della città., venne inaugurato il 6 giugno 1822. “Grazie ad una relazione stilata nel 1876 dall’arch. Tommaso Matarazzi, incaricato dal Comune di verificare lo stato di consistenza del teatro, originariamente di proprietà di Pietro Boschi, siamo in grado di farne una sia pur sommaria ricostruzione. Dall’ingresso posto in via S.Lorenzo, si accedeva in un androne, quindi in un corridoio, attraverso il quale si scendeva nella platea; questa pavimentata in legno, conteneva dieci file di sedie di ferro, per cento posti a sedere; la sala comprendeva anche tre ordini di palchi e poteva contenere una quarantina di persone; mediante le scalette si saliva agli ordini superiori fino alla galleria; complessivamente, quindi, poteva contenere intorno ai duecentocinquanta spettatori. Ai lati del palcoscenico, anch’esso in legno, vi erano due camerini e le quinte. La copertura della platea era fatta con travi e tegole ed aveva al centro un aeratore, mentre quella del proscenio era costituita da un lastricato. Il piccolo teatro ospitò comici e compagnie di grido ed ebbe spettatori illustri come Francesco I e la moglie Isabella, Ferdinando II e Gaetano Donizetti”.(14)

Altre notizie interessanti sul teatro le troviamo negli scritti di Fulvio. Palmieri: Nel Teatro Boschi “Gaetano Donizetti, durante la permanenza nel Meridione, vi dirigeva quando si davano le sue opere. In quel tempo quando per la festa di S. Gennaro si chiudevano i teatri a Napoli, le migliori compagnie liriche e di prosa si trasferivano a S.Maria ( in particolare quella del Fiorentini: Sadoschi, Alberti-Pieri, Maironi, ecc) e la città assurgeva a capitale teatrale del Regno. Nel Boschi i sammaritani applaudirono i comici dell’epoca: Antonio Petito, De Angelis, di Napoli, ecc.”.(15) Per il nuovo assetto dato alla piazza, il teatro venne demolito, nel 1895, dopo l’ultimazione del Teatro Garibaldi. In uno dei locali al piano terra del detto palazzo Auriemma, si apriva, fino a pochi anni fa, una pizzeria: la Pizzeria “Pesce d’Oro” gestita dal Sig. Michele Marrone che si vantava, e a ragione, di aver ospitato presso i suoi tavoli anche Raffaele Viviani e Salvatore Di Giacomo.

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Adiacente al Palazzo Auriemma si apre un sottoportico detto popolarmente “ u Vicariello”: Esso unisce p.za Mazzini con via A.Gramsci. Sulla parete di sinistra, per chi scende dalla piazza verso la suddetta strada, si apre l’edicola dedicata alla Madonna di Montevergine, Immagine Sacra festeggiata ogni anni con devozione e solennità dai commercianti del posto. Nello spazio antistante, tra il vicolo ed il Palazzo Di Monaco, ora Foglia, sotto il dominio spagnolo prima e sotto i Borboni poi, avevano luogo le esecuzioni capitali dei condannati: con la decapitazione per i nobili, mentre la forca era riservata ai plebei. Il 16 dicembre 1823 furono eseguite, le condanne “alla pena di morte con laccio sulle forche da subirsi nella piazza di questo Comune detta il Mercato” di Pietrantonio de Laurentiis di anni 30 e Giuseppe Carrabba di anni 52, con l’unica accusa di essere presunti affiliati alla Carboneria, appartenenti alla setta detta degli “Escamiciati, durante i movimenti rivoluzionari del 1820. (16) Nella piazza, le ultime condanne furono eseguite nel 1826. Subito dopo si incontra il palazzo Matarazzi, ad un solo piano, risalente alla fine del seicento. Nessuna rilevanza architettonica, ma importante per la storia della nostra città perché fu testimone delle nefandezze compiute dalle truppe sanfediste durante la repressione della Repubblica Partenopea. L’infamia che fu compiuta nelle sue mura viene ricordata da una lapide anch’essa dettata da Raffaele Perla ed ivi posta nel 1913:

IN QUESTA CASA CONVEGNO DI PATRIOTI

FIN DAI PRIMI ALBORI DEL RISORGIMENTO NEL 1799

DEPREDATA ED ARSA DALLE ORDE SANFEDISTE FU TRUCIDATA LA FANCIULLA TERESA RICCIARDI

SOTTOPOSTO AD ATROCI TORTURE IL CITTADINO GAETANO MATARAZZI

I DISCENDENTI VI ACCOLSERO ESULTANTI NEL 1860 LE MILIZIE E LE ARMI LIBERATRICI

La fanciulla Teresa Ricciardi per le ferite riportate il 14 giugno 1799 all’età di 14 anni circa, morì, dopo una atroce agonia, e con il conforto dei sacramenti, il 17 giugno e tumulata nella chiesa della Congregazione Ave

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Grazia Plena dell’Annunziata, attigua al Duomo, demolita nel 1876 quando fu risanata e risistemata piazza Mazzocchi. Poco distante dal palazzo suddetto, sorgeva, fino al 1963, un altro palazzetto, (palazzo Margarita poi Matarazzo) anch’esso ad un piano, risalente alla fine del seicento Al suo posto oggi si vede un moderno fabbricato, in cemento armato, di nove piani, che fa angolo con via Vetraia. Proprio su questo angolo, nel vecchio palazzetto, vi era una edicola con la sacra effige di una Madonnina, risalente all’epoca della costruzione dell’abitazione primitiva, dipinta su legno, di buona fattura, allocata in una artistica cornice di marmi pregiati, cara alle premure degli operai della vetreria operante poco distante, i quali per devozione ogni giorno l’ornavano di fiori freschi. Oggi, l’edicola, rimessa al suo posto dopo la costruzione del moderno palazzo, anche se senza più la primitiva cornice di marmi pregiati, è oggetto di cure da parte della popolazione locale.

Sul lato nord della piazza, dove confluisce via Vetraia, fino a pochi anni fa, si apriva una rivendita di vino. All’interno del palazzo, durante i giorni della festa del 15 agosto, in un cortile addobbato con fiori di carta rossi e bianchi formanti dei grandi gigli stilizzati, venivano allestiti dei tavoli per la degustazione di brodo di polipo e della impepata di cozze che veniva servita in un piatto sul cui fondo venivano adagiate delle freselle impregnate di un sugo rosso piccantissimo: puro estratto di peperoncino. Proseguendo, dopo altri due palazzetti, si nota il palazzo Morelli, un buon esempio di architettura della seconda metà dell’ottocento, il cui ingresso però si trova sul corso Garibaldi. L’attuale corso Garibaldi fino al 1858 non esisteva: in quello spazio, vi erano altri palazzi, che vennero abbattuti per la costruzione della strada, che avrebbe collegato la “Piazza del Mercato con il Real Camino che da Caserta porta a Capua. Essa venne dedicata al nuovo re, Francesco II ed inaugurato nel giorno del suo onomastico il 4 ottobre 1859. Per l’occasione, nella piazza venne “eretto il palco per le autorità sul quale svettano le effigi dei regnanti. Rende gli onori la fanfara del 2° Dragoni, tra lo sfavillio di 500 lumi a sego e lo sparo di mortaretti. Per l’occasione viene fatta una distribuzione gratuita di pane ai poveri”. (17)

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In piazza Mercato si svolgevano cerimonie pubbliche: fra esse si ricorda il giuramento prestato dagli ufficiali della Guardia Nazionale il 6 ottobre 1861 alle ore 5 p.m.. (18)

E vi si svolgevano anche le feste, religiose e non, come quelle dovute in occasioni di reali avvenimenti. Nel maggio del 1738, Carlo, re di Napoli e di Sicilia sposa per procura, Maria Amalia Cristina figlia di Augusto III di Sassonia. La principessa, lasciata la corte di Dresda, arrivò ai confini del Regno napoletano il 19 giugno accolta dal marito. L’Università di S. Maria non potè sottrarsi ai festeggiamenti di un simile evento; essi durarono tre giorni, al termine dei quali nella piazza del Mercato si tenne “una giostra”. La piazza fu opportunamente sistemata, rimuovendo il fango esistente e sistemandovi un tavolato di “ginelle” (travetti di castagno) tenute insieme da “fonigelle” (piccole funi). (19) Si ricorda, inoltre, trenta anni dopo, la festa nei giorni 12, 13, 14 maggio 1768, per l’arrivo, nel regno di Napoli, della moglie del re Ferdinando IV, la principessa Maria Carolina di Sassonia anch’essa sposata per procura il 17 aprile dello stesso anno e conosciuta di persona al suo arrivo ai confini del regno presso Fondi. Nella stessa giornata di maggio, i novelli sposi giunsero alla reggia di Caserta, ed ivi trascorsero la loro luna di miele. Ogni anno, sul finire della fiera di settembre, si svolgeva in piazza la Caccia alla bufala.

La caccia consisteva nel rincorrere e/o farsi inseguire, nella piazza recintata, da bufalotti o bufale pungolate da arnesi, (denominati “mazze ferretti” manovrate dai cacciatori), e addentate da cani mastini aizzati contro di esse: Una esibizione che si svolgeva tra l’abbaiare furioso dei cani ed il muggire degli animali impazziti dal dolore. Uno spettacolo che certamente non aveva niente a che vedere con le classiche eleganti corride spagnole, e che si rivelava solo rozzo e cruento.

Alla caccia del 25 settembre 1801, assistettero il re di Sardegna Carlo

Emanuele e la consorte Maria Adelaide: Questo avvenimento è ricordato da una lapide marmorea apposta sulla facciata del palazzo Cusano – Tartaglione (oggi Palladino), dove appunto i due principi furono ospitati e videro lo spettacolo da un balcone che successivamente, circa 60 anni dopo,

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nel 1858, venne abbattuto per via della costruzione del Corso, il quale venne intitolato a Francesco II re di Napoli e successivamente a G. Garibaldi.

La lapide marmorea così ci tramanda:

KAROLO EMMANUELI SARDINIAE REGI ET M. ADELAIDI CONIUGI AUGUSTAE

QUOD ANNO CIDIDCCCI HASCE IN AEDES VII KAL OCTOBER DIVERTERINT EASDEMQUE MAIESTATE COMPLEVERINT SVA

SPECTATURI ANIMI GRATIA BUBALORUM VENATIONEM VETUS CAMPANORUM DELICIVM

MATHIAS TARTAGLIONIUS CUSANUS ET THOMASSINA UVA VINEA UXOR DE GENTE PATRICIA CAMPANA

LAPIDEM TANTAE DIGNATIONIS TESTEM PONENDUM CVRARVNT ANNVENTE D N FERDINANDO IIII P P

EX DIPL OMATE DATO ANN SUPRA DICTO PRID EID DECEMBRE

Trad; A Carlo Emanuele re di Sardegna e all’augusta consorte Maria Adelaide, poiché il 25 set. 1801 vennero in questo palazzo e lo riempirono delle loro maestà, per assistere per diletto alla caccia alla bufala, antico divertimento dei Campani, Mattia Tartaglione Cusano e la moglie Tommasina dell’Uva Vigna, famiglia patrizia campana, fecero deporre questa lapide a testimonianza di tanto onore, col permesso di nostro signore Ferdinando IV padre della patria con diploma firmato nello stesso anno il 12 dicembre. (21) Nota: Carlo Emanuele re di Sardegna è il re Carlo Emanuele IV re di Sardegna dal 1796 al 1802. La consorte è Maria Clotilde Adelaide, sorella dei re di Francia Luigi XVI e Luigi XVIII e Carlo X. Carlo Emanuele, persi i territori continentali, occupati dai francesi durante le campagne napoleoniche d’Italia, si rifugia in Sardegna ed non avendo avuto figli abdica in favore del fratello Vittorio Emanuele I. La regina Maria Clotilde Adelaide muore in Napoli il 7 marzo 1802. Fu seppellita nella Chiesa di Santa Caterina a Chiaia in una modesta tomba. Cinque anni dopo il Papa Pio VII la dichiarò Venerabile e cominciò la causa per la Beatificazione. Sul lato est della piazza si apre via C. Gallozzi. Proseguendo su questo lato degno di nota è il Palazzo Fossataro. Così lo descrive l’attento prof. A. Perconte Licatese (22) “ …è il prodotto della sopraelevazione e dell’ingrandimento di un edificio settecentesco: nel prospetto, scandito da sei lesene ioniche, si notano al piano nobile, il balcone centrale più grande e cinque più piccoli, sormontati da timpani; al secondo

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piano i sei balconi sono tutti uguali; sul lato sinistro sembra aggiunto un corpo costituito da una stanza per piano; molto ampi il portone d’ingresso che, pertanto risulta decentrato, ed il cortile interno”.

Oggi in esso ha la sua sede la “ Banca di Sconto e Conti Correnti. La Banca venne costituita, quale società in accomandita semplice, da Alessandro Fossataro, Raffaele Teti - Gazzero ed Eduardo De Mauro con atto del notaio Francesco Mandara l’ 11 Agosto 1904 con un capitale di Lire 55.000. Il 30 dello stesso mese entrò a far parte il Sig. Gaetano Cappabianca con un capitale di Lire 20.000. Nel 1909, il primo gennaio, fecero parte del gruppo i fratelli Giuseppe, Francesco e Pasquale Fratta e la Banca divenne società in nome collettivo, Fossataro & Fratta. Nel 1931, estintosi il ramo Teti-Gazzero, subentrarono i Sigg. Francesco, Gaetano e Pasquale Peccerillo. Nel 1947 l’ultimo socio fondatore, Eduardo De Mauro, che era stato direttore per 43 anni,. concluse la sua esistenza. Il 6 marzo 1975, la Banca divenne società per azioni con capitale di 700 milioni di lire. Ne fu amministratore delegato Alessandro Fossataro. Nel 1983 i soci Fratta, si allontanarono e fecero ingresso nuovi soci.(23)

Dopo il palazzo Fossataro ed il successivo palazzo Campanelli ( Giuseppe Campanelli - nato a Potenza il 6.01.1811 morto il 08.02 1884 - tenente colonnello dell’esercito borbonico, direttore di artiglieria nella battaglia del 1° ottobre 1860), si apre la via intitolata a Federico Pezzella, insigne magistrato che lasciò la sua ricchissima biblioteca parte al Comune e parte al Tribunale.

La via insiste sull’area di un palazzo seicentesco, che venne demolito nel 1974 per creare un adeguato accesso al costruendo nuovo Tribunale. Sotto l’area occupata oggi in parte dalla strada ed in parte da un moderno fabbricato, venne alla luce una abitazione romana i cui resti, visibili al di sotto del livello stradale e sotto il porticato del palazzo, sono molto interessanti: si tratta di un impluvium di casa romana del II sec. d.C. con una fontana al centro.

Tra le feste religiose più importanti, che si svolgevano nella piazza, è da

ricordare quella del Corpus Domini. Per l’occasione si allestiva un altare temporaneo nel “ pubblico Mercato per fare al popolo la Benedizione del

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Santissimo e per le Autorità Amministrative che hanno seguito la processione.(20)

In piazza Mercato aveva il suo momento culminante, la Festa della Madonna Assunta del 15 agosto. Nel 1452, in questo stesso giorno, il re Alfonso I d’Aragona assistette alla sacra funzione, facendo spiegare le sue bandiere nella Chiesa di S. Maria Maggiore. In una sua ricerca, il dott. Giovanni Laurenza (24), ci fa scoprire che nei Conti e Atti del 1738 appaiono le spese effettuate per la festa del 15: “viene eretto un altare che ospita l’immagine della Vergine,….riccamente illuminato con “tianelle” riempite di sivo”.

Nei libri contabili del 1785 si ritrovano altre interessanti notizie: “La sera, poi, diversi maestri artificieri si esibiscono a piazza mercato: Cesare ed Elpidio Calasso da Casapulla, Pascale di Santo di S. Maria Maggiore, Luca Cardito di S. Maria Maggiore, Apollonia Giordano maestra artificiante di S. Maria Magg., Stefano Calasso e Giuseppe de Lucca di Caserta, Donato Santoro del Casale di Casanova, Pascale ed Elpidio Amoroso di Casapulla…”. Nei Conti ed Atti del 1792 si conserva l’originale di un contratto stipulato il 3 maggio tra l’Università e il Maestro apparatore Nicola Pappalardo di Napoli che, per la succitata festa , allestì nella piazza un altare seguendo un preciso disegno….L’altare veniva allestito ogni anno. La descrizione della festa più verace e sentita, senza dubbio, è quella della scrittrice napoletana Matilde Serao, nella sua novella “Non Più “ edita nel 1885. “La piazza del Mercato, grandissima, riboccava di gente. La folla si accalcava non solo nel vasto quadrilatero, addossandosi alle baracche dei saltimbanchi, alle tende ambulanti dei venditori di sorbetti, al piccolo carosello giallo e rosso; ma si addensava lungo il corso Garibaldi, verso l’Anfiteatro e verso il Tribunale *, straripava sui molti balconi e su tutte le terrazze prospicienti la piazza. Non erano soltanto i ventimila abitanti di Santa Maria che avevano lasciato le loro case, in quella sera di mezz’agosto, per assistere al grande fuoco d’artifizio in onore dell’ Assunzione di Maria Vergine: ma anche dai villaggi e dalle città vicine erano accorsi, per devozione e per curiosità.

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Nella folla minuta si mescolavano ai samaritani conciatori di cuoio, gli ortolani di San Nicola la Strada, i setaioli di San Leucio, i fabbricanti di torroni di Casapulla, gli agricoltori di Maddaloni e di Aversa, le pallide maceratrici della canapa che languiscono una intera stagione sulle sponde dei lagni. Sui balconi illuminati a palloncini colorati, la borghesia e l’aristocrazia samaritana faceva gli onori dell’Assunzione alla borghesia e all’aristocrazia di Caserta e di Capua.”…… … “Intanto, uno sparo di mortaretti annunziò che lo spettacolo cominciava: una delle macchine principiò ad ardere, a tre colori, a girandole roteanti, a razzi. Il popolo samaritano applaudì, la folla ondeggiò tutta, per la soddisfazione.”……. “Ardevano allegramente le girandole tricolori, sprizzando scintille, mentre i contadini di Aldifreda, delle Curti, di Centurano e di Cancello Arnone guardavano a bocca aperta….. …Ma subito un’altra macchina s’accese, era una scappata di razzi che salivano altissimi nel cielo, si schiudevano lassù, con una debole detonazione, come un fiore che si apre, e si dividevano in tante stelle di colori delicati.”….. Ed ecco … “il grande chiarore giallo di una pioggia d’oro che zampillava da una fontana di fuoco”… “Ma dopo aver applaudita la fontana di fuoco si fece nella folla un grandissimo silenzio. L’ultimo pezzo cominciava. Era prima un grande arco di trionfo, tutto lampioncini colorati che portava scritto nel frontone: Viva Maria, poi quattro pezzi di fuochi d’artificio, in quadrilatero, a mazzo di fiori, a scappate dei razzi, a girandole, a girandolini. Come l’arco fu tutto quanto illuminato, nel vano profondo, con la testa verso il cielo, con le bianche mani schiuse e distese che parevano salutassero la terra, la statua della Madonna cominciò ad elevarsi. Saliva lenta lenta, come librantesi e i potenti argani con cui era tirata su, non si vedevano. Era vestita con la tunica rossa, col manto azzurro, e sorrideva al cielo e dava l’addio alla terra. Le campane della cattedrale, di San Carlo, della Croce, di Sant’Antonio suonavano a gloria. Ardevano i fuochi incandescenti , gittando fiamme, sprizzavano scintille, vomitando stelle: molti balconi avevano accesi i bengala. Nella piazza il popolo era inginocchiato, pregando, acclamando la Bella Mamma Assunta in cielo.” Per ottenere, sull'intera popolazione, la protezione e la benedizione della Vergine Santa, il simulacro era portato in processione, da tutte le congreghe della città, che percorrevano il Corso per tutta la sua lunghezza: dal Duomo arrivava alla Villa e vi faceva ritorno, trattenendosi nella piazza illuminata

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da mille luci e riempita dal brusio della folla in attesa dello spettacolo dei fuochi pirotecnici allestiti per onorare Maria Santissima. Il nostro concittadino Fulvio Palmieri ha così descritto la pausa. (25)

“Giunta al Mercato e dopo averne fatto il giro, la processione sostava. Lì, senza preavviso, t’assordava il crepitio delle botte e i parossistici finali: erano state accese a devozione dei fruttivendoli e commissionari, dei curriari, delle antiche corporazioni degli artigiani e di coloro che non sapendo pregare….cercavano con gli spari di meritare di Lei”.

*Nota: nell'anno in cui venne pubblicato lo scritto di Matilde Serao, non vi era ancora la Villa Comunale, né la strada che ivi conduceva.

Ma anche avvenimenti meno gradevoli si svolsero nella piazza. Il Prof. Alberto Perconte (26) ci ricorda un episodio di lotta politica,

accaduto il 18 settembre 1922, “La sera prima si era tenuta nel teatro Garibaldi una manifestazione fascista…..Ad alcuni partecipanti che si ritiravano, sulla via di Caserta fu teso un agguato ed alcuni furono feriti da colpi di rivoltella. La rappresaglia fu immediata: i fascisti sammaritani convennero in piazza Amedeo ed assalirono la sede della Camera del lavoro e del PSI, dando fuoco in piazza alle suppellettili ed alle carte. Ristabilito l’ordine dalla forza pubblica, il giorno dopo una seconda aggressione a due fascisti scatenò una furibonda reazione. Appena terminata la seduta del consiglio comunale, che aveva eletto sindaco il fascista Liguori, le squadre d’azione di Capua, Caserta e Maddaloni, percorsero in corteo le vie della città, inneggiando al fascismo e al Duce e giunte in piazza Amedeo, ingaggiarono una vera e propria battaglia con i socialcomunisti che li si erano raggruppati. Numerosi furono in quella occasione i feriti e gli arrestati.” La vicenda apparve sulle pagine de Il Mattino 20-21 settembre 1922.

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Note Bibliografiche

(1) ( A. Altamura Dizionario dialettale napoletano). (1.1)(Cicerone- Pro Sestio Valerio Max. XII Ext. I)

(2) (J. Beloch. Campania pag. 392) (3) (Beloch op. cit. pag.383) (4) (Maiuri A. - Passeggiate Campane - pag. 138)

(5)(da Mario Miele - Capua Vetere - pag. 37 (6)(G.Bova- La basilica Simmiana in S.Maria C. V.) (7)(Reg.Ang. 1315 a. n. 204 fol. 257 t. 258 da Camillo Minieri Riccio Genealogia di Carlo d’Angiò pag.242)

(7.1- Minieri Riccio – Genealogia di Carlo II d'Angiò p. 201) (8) (da Bicentenario di S.Maria Capitale di Terra di Lavoro - Cronache e

profili di un bicentenario di Giovanni Laurenza pag. 96). (9) ( da: La Guardia Naz. Pag. 43) (10) (Granata – Storia Civile di Capua libro III pag. 62 – 63 ) (11) ( Granata – Storia Sacra della Chiesa Metropolitana di Capua, lib.III Cap. I pag.53) (11.1)(Teti – S. Maria C. V. pag. 396 – 397) (12) ( Fulvio Palmieri da Na ‘nzalata ‘e chiazze, ecc. 1991) (13) ( A.Maiuri - Passeggiate Campane Ed. Sansoni, pag.150): (14) (A.Perconte Licatese - S. Maria Capua Vetere - pag.89) (15) ( F. Palmieri - S. Maria C.V. - Vecchie Immagini e Note Estemporan. - pag. 89) (16) ( da “La Guardia Nazionale” pag. 37) (17) ( La Guardia Nazionale di S. Maria C.V. pag. 98 – museo del Risorgimento). (18) ( la Guardia, ecc - pag 131) (19) (da:Figli della Vergine Assunta-pag. 14) (20) (Conti e Atti 1768 foll. 359-361) (21) (Alberto Perconte Licatese S.Maria di Capua, pag.130 scheda n° 38) (22) (A. Perconte - S. Maria Capua Vetere pag. 109-120) (23) ( da Palmieri…op.cit. pag. ) (24) ( Figli della Vergine Assunta, pag. 27 – 31) (25) ( F. Palmieri - S. Maria Capua Vetere – Vecchie immagini e note estemporanee) (26) ( A. Perconte - Santa Maria Capua Vetere, pag. 42)

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CORSO GARIBALDI

Il Corso Garibaldi, la strada principale di S. Maria C. V., venne realizzato all’inizio della seconda metà dell’800. Fino ad allora, la stessa area era occupata da abitazioni signorili e dai loro retrostanti ed estesi giardini. Tutte le principali abitazioni della città erano dotate di giardini in cui dimoravano numerose piante di agrumi. Nei giorni della fioritura delle zagare, un gradevole, delicato profumo si diffondeva nell’aria. Era una caratteristica della nostra città. In epoca romana, all’incirca negli stessi spazi, correva uno dei cardines* della antica Capua, che, procedendo da nord verso sud, metteva in comunicazione il decumano* formato dalla via Appia, (oggi c.so A.Moro) con il foro del Popolo. Che il cardo esisteva, è stato dimostrato dal ritrovamento, durante la costruzione della nuova arteria, di alcune pareti affrescate e di frammenti di pavimento musivo, ruderi pertinenti ad alcune abitazioni romane. Ulteriori conferme si sono avute, circa un secolo dopo, nel 1952, quando il Prof. Alfonso de Franciscis, nelle Notizie di Scavi (pag. 301 e segg.), diede notizia del ritrovamento del pavimento in mosaico di un’altra abitazione databile intorno al I sec. d.C. sita all’incrocio di c.so Garibaldi e c.so Umberto I, sul lato sud – est. Nel 315, Costantino il Grande fece edificare, in Capua, una basilica dedicata agli Apostoli La città subì il saccheggio dei Visigoti di Alarico nel settembre del 410. Nel 432, S. Simmaco costruì la basilica di S. Maria Maggiore. Meno di 50 anni dopo, nell’estate del 455, si ebbero le razzie dei Vandali, comandati da Genserico. Abbattendo ed incendiando, distrussero numerosi edifici pubblici. Pur tuttavia la vita continuò. Nel 493 pur essendo assoggettata dagli Ostrogoti, la città ebbe modo di recuperare almeno in parte la sua precedente condizione. Il vescovo Germano verso l’anno 520 fece costruire la Chiesa di S. Stefano e S. Agata e l’annesso Presbiterio, che ospitò la sede vescovile fino all’881, quando la diocesi venne trasferita nella nuova Capua. Nel 530 alcuni dei suoi edifici pubblici vennero ripristinati su ordine di Postumio Lampadio, consolare della Campania, come risulta da una iscrizione che sembra essere stata dissotterrata nei pressi dell’anfiteatro,

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verso il 1846. Nel 553 iniziò il dominio bizantino che fu di breve durata. Nel 585 Autari, longobardo, conquistò il Meridione, e nel 594 Capua venne assegnata al Ducato di Benevento. I nuovi abitanti dell’antica Capua furono i Longobardi, i quali, in verità, non costruirono nessun edificio nuovo ed abitarono nelle case della città così come erano, adattandole con poche costruzioni in legno. Il cardo suddetto, nella sua struttura originaria, dovette assolvere la sua funzione, almeno fino alla distruzione di Capua antica da parte dei Saraceni, nell’841. In seguito a questo tragico evento, la città, ormai mal ridotta, venne abbandonata da buona parte della sua popolazione, fuggita o resa schiava. Gli edifici pubblici rasi al suolo, le abitazioni saccheggiate, distrutte e incendiate, perduta per sempre la memoria dei rispettivi proprietari: questo il quadro desolante di Capua, la città emula di Roma. Le macerie si coprirono di erbacce; dove prima sorgevano i fabbricati, si aprirono vasti spazi che livellati e liberati dai detriti, furono resi coltivabili. Vennero impiantati orti e giardini per il fabbisogno degli abitanti dei tre casali, in cui si divise l’antica metropoli, determinando, così, la totale scomparsa degli edifici, di molte strade della antica città e del cardo stesso. Restarono riconoscibili, e sono giunti fino a noi, solo i tracciati di alcuni decumani e cioè: a) il tracciato della via Appia all’interno della città, oggi corso A. Moro; b) la via ad essa parallela, che nel 1871 venne denominata Torre perchè da via Albana arrivava fino alla Torre di S. Erasmo; c) ed infine via Vetraia che, in origine, con via M. Fiore, costituiva un unico decumano.*

NOTA: Bisogna fare una precisazione sui nomi cardine e decumani dell’antica Capua. Il cardine o cardo è l’asse viario che da nord va verso sud. Il decumano è l’asse viario che va da est verso ovest. Il Prof. Julius Beloch nella sua opera “Campania” ci porta a conoscenza di quanto segue: “Sulla limitatio dell’ager Campanus (cioè nella suddivisione dei campi capuani,ndr),

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sappiamo che qui, contrariamente alla consuetudine d’un tempo, il decumanus correva da nord a sud ed il cardo da ovest ad est. A motivo di ciò viene addotto, cosa d’altronde giusta, il fatto che l’estensione del territorio campano da nord a sud è maggiore che non quella da est ad ovest. …Nel 162 a.C., l’intera pianura venne divisa in quadrati di uguale grandezza per mezzo di strade campestri. Il lato di uno di questi quadrati è uguale a metri 740,4 = cioè 2400 piedi romani.”. “ Resta però da vedersi se questa permutazione dei nomi possiamo applicarla anche alla limitatio della città di Capua” (pag. 353). Dunque, a Capua Vetere il decumano massimo della centuriazione, corre con andamento sud- nord, e raggiunge Capua sul suo lato occidentale. Esso è ancora visibile lungo l’Anfiteatro (via Spartaco ex via Grattapulci) e prosegue fino al Volturno. Il sistema però non viene proposto all’interno della città e perciò le vie di Capua antica rispondono esattamente ai precetti canonici: cioè i decumani vanno da est verso ovest, mentre i cardi vanno da nord verso sud. J. Beloch ci dà conferma di ciò a pag. 389 e segg.: “Per quel che concerne le strade della città, possiamo stabilire con sicurezza il tracciato di almeno una di queste: il decumanus sul quale la via Appia tagliava a mezzo la città….Ora, poiché mancano del tutto ostacoli del terreno…, e non si trovano tombe lungo tutto questo tratto, non resta che una sola ipotesi, che cioè l’Appia in questo tratto seguisse una delle strade dell’antica Capua. In altre parole, qui ci è conservato uno dei decumani di Capua. Da questo dato si può trarre immediatamente una serie di importanti conclusioni: In primo luogo le strade della città erano orientate esattamente secondo i punti cardinali: i decumani da est ad ovest ed i cardini, che senza alcun dubbio formavano con essi angoli retti, da nord a sud”. Nei secoli successivi, nuovi nuclei familiari, molti dei quali erano arrivati al seguito dei vari conquistatori, edificarono nuove abitazioni su quelle vestigia sepolte e sconosciute, occupando, così, anche gli spazi dell’antico cardo. Pure uno dei due fori dell’antica Capua, il Foro del Popolo, la Seplasia dei romani, la Piazza del Mercato, modificò, i suoi confini. In essa confluivano alcune strade: via Vetraia, e il primo tratto di via Gallozzi; la via proveniente da S. Andrea, che fuori città, riuniva in un unica strada i due rami provenienti da Atella (la via Atellana) e da Pozzuoli (la via Campana). Questa strada, nei pressi della piazza, diveniva strettissima, perché, nel 1319, in quegli spazi, e forse occupando buona parte del cardo, era stata edificata la chiesa angioina di S. Lorenzo.

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Pertanto, in questa precisa area della città, si era venuto a creare un nuovo assetto territoriale che restò immutato per parecchi secoli. Nel medioevo la viabilità venne modificata, probabilmente, per il traffico dei carri, intenso e caotico, che si creava per raggiungere l'area in cui si teneva mercato.. Il nuovo percorso, (che si sviluppava su via C. Gallozzi, chiamata dell’Angelo Custode, ed su brevi tratti delle altre strade, oggi indicate come via Fratta, piazza S. Pietro, via Porta di Giove) congiunse, quasi diagonalmente, i tre decumani, formati: 1) da via Vetraia – M.Fiore, 2) da via Torre ( oggi via Fratta e via Martucci) , 3) dalla via Appia (ex via S. Gennaro, oggi Porta di Giove). Lo scopo era duplice: percorrere più agevolmente la strada e far risparmiare tempo a chi doveva recarsi dalla piazza del Mercato alla suddetta via Appia, importante via di transito che metteva in comunicazione il casale di S. Maria di Capua con paesi vicini e lontani, e, ovviamente, per fare il tragitto in senso inverso. Il tratto del decumano minore che, partendo dal Foro giungeva fino alla via Albana, ebbe il nome di via Perrella; oggi via M. Fiore. Poco dopo il suo inizio lascia, sulla sinistra, via Gallozzi, Con l’insediamento del Tribunale, e l’arrivo di giudici, avvocati, notai, e personale vario, gli abitanti crebbero di numero e la città avvertì la necessità di espandersi. Pertanto, verso la metà dell’800, si avviarono i primi studi su come sviluppare la città. Si ritenne necessario congiungere, direttamente con il centro della città, la via Appia, il cosiddetto “ Real Camino che da Caserta porta a Capua”, arteria molto trafficata per il transito dei carri, adibiti al trasporto di tutto ciò che era necessario alla vita cittadina, i quali, per raggiungere la piazza Mercato, posta al centro della cittadina, dovevano compiere tragitti non sempre agevoli. La possibilità di recuperare spazi, per la costruzione di civili abitazioni ed

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edifici pubblici, veniva data, proprio, dagli ampi giardini retrostanti le poche abitazioni che, a quel tempo, insistevano lungo via Appia, via Torre e piazza Mercato. Pertanto, il primo progetto eseguito per il previsto sviluppo della città, fu l’apertura del Corso, realizzato in breve lasso di tempo e inaugurato col nome del Re, su sua concessione, il 4 ottobre del 1859, giorno onomastico del sovrano borbonico Francesco II.. Dopo poco più di un anno, il nome venne sostituito con quello di G. Garibaldi. Su progetto degli architetti Domenico Cecere e Giacomo del Carretto, i lavori iniziarono con l’abbattimento di una parte del palazzo Cusano – Tartaglione che si affacciava proprio sulla piazza Mercato e l’esproprio del retrostante giardino che si estendeva in profondità occupando l’area, successivamente utilizzata per la costruzione dell’ edificio scolastico, ed in parte, per il Teatro Garibaldi Il suddetto palazzo perse buona parte del corpo di fabbrica e del cortile interno. La parte demolita venne, poi, ricostruita con i balconi che si aprirono lungo il Corso. Il cortile dapprima molto ampio risultò dopo molto piccolo. Alla nuova arteria, i cittadini diedero il nome di “rettifilino”. Lungo i suoi lati vennero innalzati diversi palazzi sullo stile di fine ottocento, appartenenti a famiglie benestanti. Un buon esempio di architettura ottocentesca è dato dal palazzo Morelli, situato all’incrocio con piazza Mercato. L’ingresso si apre sul corso Garibaldi offrendo alla vista ben sette balconi per ognuno dei due piani, mentre sulla piazza incidono solo quattro balconi per piano. Nel cortile interno si aprono vari vani adibiti originariamente ad ospitare carrozze e cavalli. Il giardino di questo palazzo si trovava a destra del portone e confinava con le scuole elementari. In questo spazio venne costruito, negli anni sessanta del Novecento, un fabbricato moderno che ospita a tutt’oggi, il Banco di Napoli.

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Provenendo da piazza Mazzini, sul lato occidentale del corso si incontra l’imponente EDIFICIO DELLE SCUOLE ELEMENTA RI “ PRINCIPE DI PIEMONTE ” Un primo progetto dell’edificio, sui tipi proposti dal Ministero della P.I., risale all’aprile del 1872; esso venne modificato dall’ ing. Rosalba, nel dicembre del 1875 essendo la costruzione già iniziata. La consegna del lavoro ultimato doveva avvenire verso maggio o giugno del 1877. Invece, fu inaugurato il 14 marzo 1878 e intitolato al Principe Tommaso (di Savoia duca di Genova). L’edificio, che occupa più di 2000 mq, sorge sul suolo inizialmente di proprietà Cusano – Tartaglione. Venne realizzato dalle imprese Ferdinando Troiano e Luigi Mele. “Perfettamente simmetrico, l’edificio mostra il gusto dell’epoca nello svolgimento delle finestre con archi sovrastanti, nel liscio bugnato del piano terra, nei cornicioni aggettanti lungo il primo piano e nel timpano triangolare che conclude il prospetto”.(1) Sul corso Garibaldi, l’edificio allineava, in successione, tre finestre, un portone d’ingresso per le scuole femminili, un corpo centrale che aveva cinque finestre a piano terra ed altrettante al primo piano, un portone di ingresso per le scuole maschili ed altre tre finestre. Nel 1930 l’edificio fu ampliato: sulle terrazze di lato al corpo centrale furono erette altre aule nello stesso stile. Sui portoni d’ingresso vennero edificati due balconi; sul prospetto fu eliminato il timpano triangolare e costruiti, in corrispondenza dei portoni d’ingresso, due timpani ad arco in cui si sistemarono bassorilievi con gli stemmi sabaudi e comunali. Oggi i due timpani e gli stemmi non esistono più.

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Di fronte all’edificio scolastico, si eleva la CHIESA DEGLI ANGELI CUSTODI Venne edificata tra il 26 maggio 1880, posa della prima pietra, ed il 22 luglio 1882, giorno della consacrazione. La Chiesa fu innalzata, a cura e totale spesa di Gaetano Saraceni, ricco possidente, che provvide anche all’arredo interno. Su progetto dell’ing. Francesco Sagnelli, i lavori furono eseguiti dalle imprese di maggior lustro operanti nella città: Ferdinando Troiano e Domenico Aulicino. La facciata presenta due piani sovrapposti sormontati da un timpano triangolare. Nel primo piano, sopra un grande portone è posta una lapide che porta la seguente iscrizione:

TEMPIUM HOC DEO DICATUM IN ONOREM VIRGINIS

DEIPARAE ET ANGELORUM CUSTODUM PIETATE ATQUE AERE SUO

E FUNDAMENTIS EXSTRUENDUM ORNANDUMQUE CURAVIT CAIETANUS SARACENUS

MDCCCLXXXII Trad. Questo tempio dedicato a Dio in onore della Vergine Madre di Dio e degli Angeli Custodi con devozione e con suo denaro dalle fondamenta fece costruire ed abbellire Gaetano Saraceno 1882. Sulla seconda parte della facciata si apre un finestrone con arco sovrastante, tipico di fine ottocento. Quattro lesene terminanti con capitello ionico al primo piano, diventano corinzie al secondo e dividono la facciata in zone verticali.. Mediante due scalini si accede all’interno del sacro edificio a pianta rettangolare ad una sola navata con volta a botte, molte cappelle laterali, e l’ altare maggiore in marmi policromi.

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Negli stessi spazi, precedentemente, sorgeva la cappella del Conservatorio dell’Angelo Custode, il cui ingresso era situato nella via omonima (divenuta dal 1913 via C. Gallozzi). A seguito della costruzione della nuova strada e dell’abbattimento della Chiesa di S. Lorenzo, la cappella si rivelò insufficiente a contenere i fedeli delle zone circostanti, e pertanto venne edificata la chiesa attuale. Del primitivo sacro edificio rimase solo il campanile che infatti mostra caratteristiche architettoniche settecentesche, e che pertanto risulta essere di fattura precedente la chiesa attuale. Esso s’innalza sulla parte destra della chiesa attuale, presso l’abside. Traendo notizie dall’opuscolo scritto dal Parroco Don Salvatore Iodice, riferisco: “ A sostegno di tale tesi, sulla campana più piccola vi è la raffigurazione dello stemma cittadino e di un ostensorio, mentre una scritta così recita “ A.D. 1823 – Municipio di S. Maria Capua Vetere – Michael Angelus Camirchioli Paetramelaria artifex”. NOTA: Mi permetto far notare quanto segue: La nostra cittadina, nel 1823, non aveva ancora il nome di S. Maria C. V, e non vi era ancora lo stemma civico. Assunse la denominazione SANTA MARIA CAPUA VETERE con Regio Decreto del 24 agosto 1862 e potette fregiarsi dello stemma civico verso il 1881. Nel 1823, la città, casale di Capua, era conosciuta con il nome di Santa Maria Maggiore; ancora prima come S. Maria di Capua. Potrebbe, perciò, esservi un errore di lettura nella data citata. Sulla campana maggiore, oltre al rilievo di un Angelo custode con un fanciullo e di un busto di Madonna con bambino, è visibile la seguente scritta: “ GAETANUS SARACENUS AERE SUO FECIT ANNO DOMINI 1883” - Luigi Mobilione fabbricante di campane in Napoli via Zappari n. 28”. Il Conservatorio (o Monastero), era la sede di una istituzione benefica, fondata nei primi anni del 1700, per l’interessamento del predicatore Michele Raminondi di Lucera (Foggia), che veniva nella nostra città a predicare nei giorni precedenti la Pasqua. Veniva chiamato Conservatorio delle Cappuccinelle sotto il titolo dell’ Angelo Custode e fu sede dell’ordine monastico omonimo per più di un secolo. Vi erano “circa vent’otto religiose”. Da principio in esso erano ammesse alcune donne “pericolate”;

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successivamente fu riservato al ricovero di “povere donne pericolanti”, (cioè donne il cui stato di povertà poteva portarle a diventare meretrici. ndr).(2)

Il conservatorio era sostenuto, “economicamente dalla beneficenza di alcuni cittadini e da un beneficio di iuspatronato ( = diritto di partecipazione alla protezione) della famiglia Cusano”. Successivamente anche il Municipio elargì dei sussidi. Il regolamento dell’istituto fu approvato il 28 febbraio 1736, dall’Arcivescovo di Capua Mondilla Orsini. La conduzione era affidata a Religiose che seguivano la regola di S. Francesco e curavano l’annessa cappella nella quale il cappellano titolare celebrava Messa”.(3)

Nel 1739 furono eseguite opere di consolidamento all’edificio del conservatorio, perché era in procinto di “cadere il belvedere con tutto il quarto dove abitano le religiose”, a spese dell’Università di S. Maria Maggiore che elargì tali sussidi il 23 febbraio 1740. Nel 1766 ospitò oneste zitelle le quali per essere ricoverate pagavano una dote di 200 ducati per chi abitava nella città e di 300 ducati per chi veniva da altri paesi.(4)

L’8 luglio1872, il Conservatorio fu trasformato, con Regio Decreto, in Convitto femminile di educazione, con scuola elementare sia per alunne interne che per quelle esterne. L’opera si prefiggeva di istruire ed educare fanciulle appartenenti a famiglie oneste e civili, scelte annualmente dal consiglio comunale, mediante pagamento di limitate rette od anche gratuitamente.(5)

Qualche tempo dopo il Convitto venne aggregato all’Istituto Santa Teresa. Nel 1927, lo stabile ospitò, solo per pochi anni, la caserma dei Reali Carabinieri. Infine, per interessamento del podestà Avv. Pasquale Fratta, l’edificio, su disegni degli Ing.ri sammaritani Enrico Amorosi e Gaetano Cariati, che prolungarono verso nord un’ ala del convento, divenne la sede del Liceo Ginnasio. Inaugurato l’11 aprile 1932, venne intitolato al Principe Tommaso di Savoia. Oggi, il liceo porta il nome di un poeta latino che, forse, ebbe i natali nell’antica Capua: Cneo Nevio. Proseguendo nel nostro itinerario, notiamo, sul lato occidentale del corso, il

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TEATRO GARIBALDI La borghesia sammaritana non era da meno di quella capuana o casertana. In città vivevano nobili, ricchi proprietari terrieri (che a volte, si dice, non conoscessero esattamente i confini delle loro estese proprietà sparse in tutta la provincia di Terra di Lavoro), agiate famiglie, liberi professionisti. Quasi tutti amanti del teatro, sovente mettevano a disposizione le sale più grandi delle loro abitazioni per avere il privilegio di ospitare gli artisti più famosi del momento. E non mancava nemmeno il teatro a S .Maria. Infatti, fin dal 1822, in via S. Lorenzo, era funzionante il teatro Boschi. Un teatro, tutto sommato, piccolo: poteva contenere all’incirca 250 spettatori, ma con una eccellente acustica, in virtù della quale, nel 1828, su invito di un nobile residente nella nostra cittadina, il principe di Sant’Agapito (4.1) il sovrano Francesco I di Borbone, con la consorte Maria Isabella di Spagna e l’erede al trono, il diciottenne Ferdinando II, venne ad assistere ad una o forse più rappresentazioni.. Gaetano Donizetti, durante il periodo in cui visse a Napoli, quando nel Boschi venivano rappresentate le sue opere, amava dirigere personalmente l’orchestra. Le migliori compagnie dell’epoca e gli attori più famosi ne calcarono le scene: basta ricordare il grande Antonio Petito, che proprio nella nostra città, come ci tramanda il nostro Fulvio Palmieri, “incorse nell’ira della gendarmeria borbonica che non tollerava gli spettacoli durante la Quaresima, e perciò il primo storico Pulcinella fu ospite, anche se per poco tempo, nelle carceri a S. Francesco”. Tutto ciò, forse, non bastava. L’idea di avere un teatro in città, quale segno di distinzione che “torna utile al Comune intero nei rapporti del decoro e della civiltà”(6), nacque nell’animo dell’élite cittadina, formata dalle famiglie sammaritane benestanti. L’idea fiorì, forse, per emulazione, o forse perché, i facoltosi cittadini sammaritani, erano stanchi di andare a Capua per assistere alle rappresentazioni nel Teatro Campano, o di arrivare fino a Caserta dove a fianco dell’antico Municipio, era stato eretto il Teatro Comunale intitolato

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alla Regina Maria Isabella, e inaugurato nel 1830. Nota: Il Teatro Campano, (ora Teatro Ricciardi), progettatto dell’ing. Francesco Gasperi, fu ricostruito nel 1781 su di un precedente teatro. A Capua nacque Silvio Fiorillo creatore di Capitan Mortimoro e della prima maschera di Pulcinella. Nel 1835, dunque, gli amanti del teatro, sottoscrissero una petizione con cui richiedevano la costruzione di un edificio adatto a tale scopo. La cosa al momento non ebbe seguito. Ma i tempi e le idee cambiavano, nuove tendenze culturali si facevano largo fra i rappresentanti della ricca borghesia, e quindi, alcuni decenni dopo, nel 1864, l’idea venne rispolverata e tra alcuni privati e con la partecipazione del Municipio, venne costituita la “Società Anonima per la costruzione di un edificio ad uso di teatro”. L’Amministrazione Comunale si mobilitò: per reperire i fondi necessari all’impresa, emise delle azioni; bandì un concorso per il progetto e nominò una commissione giudicatrice composta da A. Francesconi, F. Niccolini, e F.M. Del Giudice che scelse la soluzione proposta dal gruppo “Rossini” di cui faceva parte l’architetto Luigi Della Corte al quale venne dato l’ incarico di redigere un primo progetto di massima, e infine deliberò che l’edificio dovesse sorgere lungo il nuovo corso Garibaldi, come espressamente indicato dal R.D. del 18 febbraio 1866: Art. 1: ” E’ dichiarata opera di pubblica utilità l’erezione di un edificio ad uso di teatro…. Da costruirsi al lato sinistro della via corso Garibaldi, a partire dal Mercato…..”. La scelta cadde sul giardino di proprietà dei coniugi Nicola Cipullo e Rosina Lucarelli che si opposero alla vendita e pertanto la realizzazione dell’opera non potette aver inizio. Dieci anni dopo, il Municipio con delibera del 17 maggio 1876 tentò di acquistare un’estensione di mq 1870,35, con fronte strada di m. 35,87, al prezzo di lire 5836,65: Ma tale offerta non venne accettata dai proprietari del suolo. Si passò quindi all’esproprio con delibera del 27 ottobre dello stesso anno.(7)

Purtroppo si ebbe un nuovo rinvio: questa volta dovuto ad un problema di finanziamenti. Nell’attesa che le cose migliorassero, trascorsero altri dieci anni. Il 27 gennaio 1887, con Regio Decreto, venne nuovamente affermato che

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l’opera da costruire era di pubblica utilità, come già dichiarato con R.D. del 18 febbraio 1866. Il 23 marzo 1887 si procedette all’esproprio del terreno. Il primo passo era compiuto. Finalmente, dopo aver accantonato il primo studio del Della Corte ed il secondo commissionato all’arch. Gennaro Zagaria, il 3 dicembre 1887 venne bandito un nuovo concorso per il progetto della tanto sospirata opera. Racconta Fulvio Palmieri: “ ...fu pubblicato un bando così analitico che agli eventuali partecipanti veniva lasciata solo la fantasia per le preziosità stilistiche”. Il teatro doveva contenere: una platea con 160 posti, e complessivamente “seicento spettatori, essere fornito di sala da ballo, buffet, avere due entrate laterali per le vetture e sul fronte principale l’ingresso per i pedoni”(8).

Trenta elaborati giunsero da tutta Italia, nel termine fissato per il 31 marzo 1888. La commissione esaminatrice era composta da due docenti dell’Accademia delle Belle Arti: il Prof. Pasquale Maria Veneri, titolare della cattedra di Architettura decorativa e già docente di scenografia; il Prof. Raffaele Folinea docente di Scienza delle costruzioni; e dall’Ing. Federico Travaglini, prof. di Applicazione presso il Genio civile. Il sindaco Pasquale Matarazzi ed il consigliere Giacomo Gallozzi formavano la restante parte della commissione. Vagliati attentamente i lavori, furono scelti due progetti, l’uno presentato dagli Ingg. R.Beneventani e G.Rispoli sotto il nome ROMA, e l’altro, denominato CURRIANT, proposto da Antonio Curri, professore di disegno architettonico, nativo di Alberobello, operante a Napoli. La commissione scelse del primo progetto, la parte interna del teatro cioè la pianta e le sezioni, e del secondo il prospetto, cioè la facciata. La Giunta Comunale, a cui spettava l’ultima parola, ritenne più rispondente alle richieste fatte con il bando del concorso, l’elaborato del Curri che venne invitato a modificare il suo progetto seguendo le indicazioni della commissione esaminatrice. Nel frattempo, nell’agosto del 1889, era stato finalmente acquisito l’atto ufficiale di cessione dei suoli. Pertanto nel 1890 si diede l’avvio ai lavori che dovevano essere completati entro la prima metà del 1891. La direzione dei lavori, come espresso dall’art. 6 del bando, venne

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riservata al vincitore del concorso, il Prof. Curri. I lavori furono appaltati da Gaetano D’Agostino di Salerno, noto artista e decoratore, che si servì della valente collaborazione di Carmine Casella per eseguire il vasto programma ornamentale. Per i lavori di muratura il D’Agostino preferì l’ impresa dell’abile maestro muratore Pasquale Angiello, operante in città. I lavori di falegnameria più importanti, dal D’Agostino, furono affidati in subappalto alla ditta Francesco D’Errico. Nel 1892 l’impresa D’Agostino abbandonò definitivamente il cantiere che venne portato avanti dal solo Casella. I lavori furono completati quattro anni dopo con una spesa complessiva di lire 450.000 circa, che risultò essere superiore, più del doppio, a quanto preventivato, e con ritardo sui tempi previsti. Il ritardo era dovuto, principalmente, al fatto che l’architetto Curri trascurava il lavoro a S. Maria essendo tutto preso dall’opera che stava svolgendo nel Caffè Gambrinus di Napoli. L’opera era ormai compiuta: “Evidenti riferimenti ai modelli francesi sono riconoscibili nel Teatro Garibaldi…..la cui facciata ripropone, seppure su scala ridotta e con sostanziali varianti, il prospetto principale dell’Opéra parigina”.(9)

Il teatro Garibaldi fu l’ultimo teatro lirico ad essere costruito in Campania. …”un lavoro che tanto onora l’arte e il Municipio di Santamaria” così si espresse il pittore Domenico Morelli, uno dei più importanti artisti di quel tempo, in una lettera, datata 12 settembre 1894, inviata al Sindaco della città. Il 12 aprile 1896, il Teatro, novello tempio lirico, intitolato a Garibaldi già nel 1892, venne inaugurato con l’interpretazione dell’opera “La forza del destino” di G. Verdi. diretta dal maestro Grandine Vincenzo che fu, fino al 1932, direttore ed insegnante del famoso Conservatorio di Musica “S. Ferdinando”, così denominato in onore di Ferdinando IV di Borbone che lo istituì nel 1819 a Salerno. Oggi porta il nome di un altro musicista, figlio della nostra Terra: Giuseppe Martucci, nato a Capua. Nell’autunno del 1897, il Garibaldi ospitò Eduardo Scarpetta e la sua compagnia. Inoltre, è da ricordare che, su questo palcoscenico, Raffaele Viviani recitò per l’ultima volta. (10)

Oltre alle opere liriche, nel nostro teatro venivano eseguiti anche concerti

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di musica sinfonica e da camera. Purtroppo, in esso, la lirica regnò solo per pochi anni: all’incirca fino alla 1^ Guerra Mondiale. In seguito, furono poche le occasioni per ascoltare opere degne di questo nome. Nel 1939 venne trasformato in sala cinematografica comunale, sotto la gestione di Mario Del Piano, affiancato dal nipote Goffredo Parisi. Nel 1944, la sala venne riservata agli spettacoli per le truppe alleate della II Guerra Mondiale, che non impegnate sul fronte di guerra, erano di stanza presso la nostra cittadina. Nota: In via Vetraia, i locali della vetreria non più funzionante, erano stati adibiti a deposito per la Croce Rossa. (Red Cross) Negli anni successivi il teatro accolse varie compagnie di avanspettacolo; qualche rarissimo concerto, ma continuò ad essere adibito a cinema fino a quando, danneggiato notevolmente dal terremoto del novembre 1980, rimase chiuso per circa un ventennio. Restaurato, è stato riconsegnato nella sua originaria veste di teatro, ai cittadini di S. Maria, nei primi anni del nuovo secolo. Ora cercheremo di descrivere la sua realtà architettonica. L’edificio viene progettato in tre sezioni: la zona dell’ingresso, il cosiddetto foyer, articolata in due vestiboli; la sala per il pubblico, cioè l’auditorio, ed infine il cosiddetto “Casino sociale” cioè gli ambienti al primo piano destinati ad accogliere “un salone per grandi Unioni e Accademie, due gabinetti uno per la lettura l’altro per il gioco, una sala per bigliardo ed un buffet”. Ai lati di questi ambienti, due terrazze. Una annessa alla sala da bigliardo, l’altra alla sala d’aspetto. Le due terrazze fanno da copertura ai due ingressi laterali del Teatro. Infatti il nostro teatro non ha il porticato anteriore, la cui finalità, in edifici simili, era quella di far scendere dalle carrozze gli spettatori, senza che questi soffrissero delle inclemenze del clima. Sul nostro, invece, il porticato è progettato ai lati. In tal modo, l’edificio viene ad essere circondato da un viale, che permette alle carrozze di non sostare sul corso che era relativamente stretto, e, quindi, di non creare ingorghi al traffico. Infatti, entrando da un cancello, dopo aver fatto scendere al coperto i passeggeri, le stesse potevano uscire dall’altro.

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Gli ingressi del viale sono protetti da due cancelli in ferro opera di Giuseppe Palmieri, fonditore in Napoli. Le ante di ogni cancello sono sostenute da due pilastri fusi in ghisa. Gli angoli dei pilastri sono formati da colonnette sovrapposte. Tutti e quattro i lati di ogni pilastro sono abbelliti da due pannelli distanziati fra loro da un medaglione su cui spicca un profilo femminile. Il pannello superiore è sovrastato dallo stemma comunale della città: uno scudo ovale, in cui è inserita la Croce, cinto da una corona a cinque punte; poco più sotto, un tamburello e motivi con foglie e fiori. Nel secondo pannello risultano evidenti maschere tragiche dell’ antico teatro classico, strumenti musicali quali tube, cembali, sistro e zufolo, foglie di alloro, ghirlande con nastri, ecc. I due ingressi vengono illuminati da sfere bianche sistemate sulla sommità di ogni pilastro. Le aste verticali delle cancellate sono sovrastate da palmette fuse in ghisa. I due cancelli impreziosiscono notevolmente la facciata del teatro, la cui architettura, così come si espresse il prof. Curri, è ispirata ai più importanti teatri italiani e d’oltralpe. Egli fu sempre convinto “che l’Architettura ha bisogno non solo di linee architettoniche ma anche di sculture e pitture per ottenere un’opera che riesca classica, completa, armonica.”. La facciata si divide in due piani: Al piano terra, una zoccolatura in pietra calcarea si alza per oltre 1,50 metri sul livello stradale; essa viene protetta da sei mezze colonne, sovrastate da pigne, allineate lungo tutto l’esterno del teatro. In tal modo, le suddette colonne, perdono il loro abituale uso di paracarri divenendo elementi scenici della facciata. Tre portoni d’ingresso si aprono al centro, mentre ai loro lati, due nicchie ospitano altrettante statue, opere in gesso di Vincenzo Alfano, noto artista napoletano. Si ammirano, a destra, Carlo Goldoni e, a sinistra, Vittorio Alfieri che simboleggiano “ La Commedia e la Tragedia “. Le due nicchie sono impreziosite da due conchiglie che sovrastano le statue. Altre nicchie complete di conchiglie sono situate lungo la prima parte dei

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lati dell’edificio: queste, però, non ospitano nessuna statua. Su tutte le nicchie insistono riquadri i cui bassorilievi riproducono strumenti musicali e motivi floreali. Quattro medaglioni in marmo raffiguranti i profili di Vincenzo Bellini, Giocchino Rossini, Giovan Battista Pergolesi e Domenico Cimarosa sono inseriti negli spazi sovrastanti gli archi dei portoni d’ingresso, impreziosendo la facciata. Sono opera dello scultore Salvatore Cepparulo anch’egli napoletano. Sotto i medaglioni sono sistemati quattro lampioni poggianti su bracci di ghisa. Al di sotto di essi si aprono, poco profonde, quattro nicchie rettangolari per l’affissione delle locandine. La facciata del piano terra, in tutta la sua lunghezza, è sormontata, da una fascia in cui si notano delle maschere in stucco, che hanno la funzione di gocciolatoi dei sovrastanti balconi. Al primo piano, il prospetto ospita cinque balconi non sporgenti e chiusi da balaustre, separati fra loro da quattro coppie di colonne corinzie, in finto marno, che reggono la trabeazione. I balconi, tipici dell’architettura di fine ottocento, sull’architrave sono sovrastati da archi a tutto sesto, finestrati e inseriti in un rettangolo, i cui due angoli superiori sono arricchiti da rosette. Al di sopra degli archi, in una fascia decorata con una greca, appaiono maschere in stucco simili a quelle del piano terra. Festoni e ghirlande legate da nastri svolazzanti, decorano la fascia dell’architrave che delimita il secondo piano. Il prospetto è completato da una cornice leggermente sporgente, ai cui lati due timpani arcuati ospitano bassorilievi in gesso. In essi si riconoscono due fantastiche figure alate con testa leonina che reggono uno scudo ovale sormontato da una corona. Quale coronamento della cornice, un fregio a palmette, anch’esso fuso in ghisa, riproduce l’idea di antiche antefisse. Il fregio fa da cornice alla parte inferiore di una ultima fascia che porta inciso a grosse lettere: TEATRO GARIBALDI. Nota: Il Curri seguiva, con particolare meticolosità, il lavoro su gli elementi ornamentali ed era attento ad ogni dettaglio, al punto che non ritenendosi soddisfatto dell’opera eseguita da un artigiano locale, un tal Bocchetti di Caserta, fece venire espressamente da Roma, il non meglio specificato, sor Augusto ritenuto il più abile esecutore di tali preziosi dettagli, al

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quale fu chiesto di fare il lavoro tutto daccapo. Chiusi alle estremità da due poggi, il tutto realizzato in pietra calcarea, tre scalini occupano l’intero spazio antistante tre portoni e permettono di salire alle soglie degli ingressi, situate allo stesso piano di calpestio del primo vestibolo, il cui pavimento è di marmo bianco. Su ogni ingresso, un triangolo curvilineo concavo, una vela, permette l’ingresso alla luce naturale. Su ognuna delle pareti laterali si aprono due porte che pervengono ad ambienti adatti agli uffici, alla direzione, ed ai servizi. Su di esse insistono finestre ad arco. Negli spazi tra i due archi sono raffigurati, in medaglioni eseguiti con pittura a “grisaille”, due importanti compositori: entrando a destra Giuseppe Verdi, a sinistra Gaetano Donizetti. Sulle pareti, sono sistemati lampioni dorati a tre luci. Un grande lampadario centrale illumina la sala. Sulla parete opposta a quella d’ingresso si aprono due balconi chiusi da parapetti con balaustre. Otto scalini, anch’essi di marmo, situati al centro di questa parete, danno l’accesso ad un secondo vestibolo, il cui compito principale è quello di collegare tra loro le entrate al teatro. E’, come locale, più piccolo del primo. Lungo i lati, due vetrate, divise da una colonna corinzia di finto marmo, si aprono sui pianerottoli dove giungono le scalinate delle due entrate laterali, permettendo, così, l’ingresso alla platea, e a tutti gli ordini di palchi, a cui si giunge mediante le scale sistemate ai lati della porta d’accesso alla sala suddetta. Il pianerottolo sul lato sinistro del vestibolo, disimpegna la scalinata che prosegue fino all’ ingresso da cui si accede al Salone degli Specchi. E’ una sala rettangolare riccamente decorata: sulla parete di fronte alle finestre furono sistemati ai lati della apertura centrale, due grandi specchi fra lesene scanalate corinzie, mentre sulle pareti laterali, di minore lunghezza, si aprono due porte. Fra esse si erge una colonna corinzia, mentre i lati sono impreziositi da due colonne quadrate dello stesso stile. Sopra le citate porte sono ricavate delle nicchie lunettate che ospitavano in origine dei busti in gesso, oggi mancanti. Negli angoli che sovrastano gli archi, racchiusi in tondi, sorridono delicati visi femminili. Ogni arco, al centro, è sovrastato, da un medaglione dorato, in cui risalta un profilo di donna. Esso separa i tratti di una fascia con greca che si distende lungo tutte le pareti. Tra le pareti ed il soffitto in una modanatura concava, racchiusa in una

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doppia fascia dorata, sono raffigurati, senza fine di continuità, dei putti; alcuni dei quali ballano, mentre altri suonano vari strumenti. Sono stati dipinti con il procedimento pittorico di riproduzione delle luci e delle ombre mediante vari toni di grigio, cioè con la tecnica della grisaille, che consente di ottenere un effetto simile allo stucco ma di costo inferiore. Il soffitto è decorato, nella fascia perimetrale, con pannelli in cui si notano motivi floreali, intervallati da rosette in stucco; infine un bordo, anch’esso dorato racchiude una lunga sequenza di palmette. Il salone è illuminato da tre magnifici lampadari in vetro; il centrale è più grande degli altri due. La platea ha la classica forma a ferro di cavallo, forma adottata per altri famosi teatri italiani fin dal settecento. Il pavimento, leggermente in discesa verso il palco, è in legno. Oggi vi sono sistemate 11 file di poltrone, in velluto rosso, per complessivi 150 posti. In origine le poltrone erano molte di più e le prime quattro file, prospicienti il palcoscenico, erano formate da poltrone più ampie, e di foggia diversa dalle successive. Durante il periodo cinematografico, scomparse le ampie poltrone delle prime file, le restanti poltroncine furono sostituite con altre in semplice legno. Alla sala si accede attraverso tre ingressi: il primo, il più ampio, proveniente direttamente dal vestibolo già descritto, nella sua facciata interna, è circondato sui tre lati da una cornice dorata. Gli altri due, meno vistosi, si trovano sui lati, e provengono, tramite alcuni scalini, dal corridoio del primo ordine di palchi. La sala di platea era illuminata da quarantotto globi, disposti su tre file, e a somiglianza di quelli sulla facciata, retti da bracci dorati, fusi in ghisa, anche essi opera della fonderia di Giuseppe Palmieri. Oggi se ne contano quarantadue. Fanno da cornice alla sala, tre ordini di palchi e il loggione. Il primo ordine comprende 12 palchi più 2, posti lateralmente fra le colonne dell’arco scenico. Questa prima fila, in origine, presentava e tuttora presenta, l’intero parapetto privo di decorazioni. Il corrimano era rivestito di velluto rosso, mentre una fascia di stoffa, pieghettata, occupava la parte alta dell’apertura verso il palcoscenico. La fila era divisa in palchetti. Ogni palchetto, con la sua porta d’accesso, era separato da quello attiguo, da pareti tappezzate di seta damascata proveniente dalle seterie di San Leucio e dello stesso colore del

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velluto della balaustra. Una piccola plafoniera di vetro, posta al centro del soffitto di ogni singolo palchetto, diffondeva una tenue luce blu. Il vetro aveva al centro una stella a otto punte che, illuminata, appariva dorata. Dopo il restauro, i palchetti non hanno più le pareti divisorie. Il colore della tappezzeria è ancora il rosso, ma non è più il broccato. Al soffitto sono state montate anonime bianche plafoniere più grandi di quelle che vi erano un tempo, e l’effetto è completamente diverso senza la tenue luce blu. La fascia superiore di stoffa pieghettata è stata sostituita da un drappeggio bordato di ricche frange dorate, che corre lungo tutta la fila, ed è fissato in prossimità delle colonne di sezione quadrata con capitelli corinzi, dipinti in oro, che separano la prima fila dai palchi del secondo ordine. Questa seconda fila di palchi è ricostruita fedelmente: era tappezzata nello stesso modo dei palchi sottostanti, ma con parati in carta inglese e non in seta. La tappezzeria attuale è uguale a quella delle altre file. In essa si aprono 15 palchi non riservati, più i soliti 2, nell’arco del proscenio. Il corrimano è dipinto in oro. Il parapetto è riccamente decorato con figure in rilievo realizzate in cartapesta e successivamente ricoperte di stucco e dipinte: così era la decorazione originaria. Al centro di ogni palco si nota la maschera tragica del teatro antico dipinta in oro; ai lati due puttini alati suonano cembali e tube, motivi floreali completano il quadro che risulta essere uguale su ogni compartimento. Colonne dello stesso stile e un drappeggio simile a quello degli altri due ordini, dividono la seconda fila dalla terza, ma il parapetto è solo verniciato. Nella struttura originale invece, sempre realizzato in cartapesta, lo stesso parapetto portava un motivo ondeggiante e nelle volute superiori vi erano inserite delle maschere teatrali. La decorazione si può ancora ammirare su i due palchi situati nell’arco scenico. La lieve sporgenza del parapetto del palco verso la sala è impreziosita da un motivo stilizzato di foglie d’acanto. Lo stesso motivo si trova sotto la sporgenza del parapetto del loggione. Le solite sedici colonne reggono il loggione che è delimitato da un parapetto costituito da una serie di 14 balaustri inseriti fra due pilastrini. Su di essi, 16 colonnette, fuse in ghisa, terminano al soffitto, raccordate fra loro da drappi simili a quelli dei due primi ordini, ma con frange dorate più

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grandi. Questi drappeggi sono stati ottenuti immergendo fasce di tessuto in un bagno di gesso, e successivamente dipinte e dorate. Ecco finalmente il soffitto. In un cerchio, inserito nella forma a ferro di cavallo che caratterizza la sala, è dipinta la “Apoteosi della Poesia. Il Tasso esce dal Tempio delle Muse”. L’opera venne realizzata da Gaetano Esposito allievo del noto decoratore salernitano D’ Agostino e collaboratore del Curri. L’Esposito, per realizzare il dipinto del soffitto, utilizzò la tecnica della tempera a secco che risultava essere meno costosa di quella dell’affresco. Prima di dipingere l’opera definitivamente, l’artista realizzò un bozzetto ad olio su tela in cui raffigura il poeta Torquato Tasso che scende dalla scalinata del tempio dorico delle Muse, le quali, librandosi intorno al cantore, insieme al divino Apollo, glorificano la sua arte. Il bozzetto, di circa 1,5.x 1,5 m. si distingue per l’uso raffinato del colore e per l’appropriato abbinamento di forme classiche e motivi floreali. Venne mostrato per la prima volta alla Esposizione Internazionale di Venezia del 1895 e successivamente donato dall’artista al Comune di S. Maria C.V. Attualmente, abbellisce la sala della presidenza della Facoltà di Giurisprudenza nel Palazzo Melzi. Nei due spazi lasciati liberi dal grande cerchio del dipinto, si notano strumenti musicale e fiori lavorati a stucco. Per raccordare la sala con il palcoscenico venne costruito un proscenio fra due coppie di colonne corinzie. Fra le colonne, ai due lati, è ospitato un palco per ognuna delle tre file. Negli angoli situati fra la linea curva del proscenio ed il soffitto, in bassorilievo a stucco, sono rappresentate due figure alate che suonano lunghe tube rivolte verso lo stemma comunale della città: uno scudo ovale, sovrastato da una corona e arricchito da rami di palme dorate. In esso, sullo sfondo rosso è inserita la Croce cinta da corona. La superficie interna dell’arco è impreziosita da un bassorilievo in stucco divisa in tre pannelli. Il centrale, più grande degli altri due, raffigura la Danza delle Ore. I due pannelli laterali raffigurano: quello a destra del palco, Tersicore, la Musa che presiedeva ai cori ed alla danza, seduta con in mano uno strumento simile ad una zampogna, accompagnata da due puttini che si trastullano con il sistro ed il tamburello.

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Quello a sinistra, Apollo, il dio della musica. Lo vediamo assiso, con la cetra ai piedi, intento ad ascoltare i due puttini che suonano il doppio flauto ed i cimbali. Secondo la dott. Almerinda Di Benedetto, questi bassorilievi sono opera dell’artista Salvatore Cepparulo, per la forte analogia che si riscontra in alcune sue opere visibili presso il caffè Gambrinus di Napoli “ dove è svolto il medesimo tema nel quale egli, rinnovando uno schema classico con l’ausilio delle suggestioni del Liberty, raggiunge esiti tra i più alti della sua produzione artistica”.(11)

Inutile aggiungere che anche Salvatore Cepparulo faceva parte della schiera di artisti che lavoravano con il Prof. Curri. Per realizzare il sipario di scena, venne interpellato il noto pittore napoletano Domenico Morelli, che elaborò il soggetto e ne affidò l’esecuzione al Prof. Paolo Vetri, siciliano, suo allievo prediletto che successivamente divenne suo genero, ed insegnò per circa 30 anni all’Istituto di Belle Arti di Napoli. L’opera, dipinta a tempera su tela, rappresentava lo svolgersi di una Commedia Atellana in uno splendido contesto campagnolo, avendo come incantati spettatori contadini e pastori: sembra che la testa di uno dei personaggi rappresentati fosse l’effige di Eduardo Scarpetta. Inoltre nel dipinto si notava il Carro di Tespi, l’inventore della tragedia greca che si spostava da una città all’altra con un carro sul quale innalzava il palco per la recita. L’opera, presentata sotto il nome di “Atellana”, suscitò notevoli apprezzamenti in coloro che videro il bozzetto, nel 1898, alla Prima Esposizione Artistica Italiana di Pittura e Scultura di Pietroburgo e nel 1902, alla Prima Esposizione Quadriennale di Arte Decorativa Moderna di Torino. Purtroppo questo sipario è andato perduto, come pure si sono perse le tracce del secondo sipario realizzato da Matteo Casella, che rappresentava in stile greco-romano, la Danza e la Musica, il Canto, la Commedia e la Tragedia. Infine è da ricordare che i lavori di muratura della struttura vennero eseguiti con pietre di tufo unite con malta, secondo la tradizionale costruzione.

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In ossequio alle nuove tecnologie, già utilizzate in altre prestigiose costruzioni, il prof. Curri voleva impiegare capriate in ferro per la edificazione del tetto, ma la sua proposta non venne accettata dal Consiglio Comunale. Solo per il soffitto del cosiddetto “Casino sociale” si adoperarono, per ragioni di sicurezza in quanto ininfiammabili, e per la prima volta, travi di ferro a T. I mattoni furono acquistati dalle fabbriche operanti nei dintorni. Le tegole usate erano del tipo Parigi.(12)

PIAZZETTA BOVIO I lavori di ristrutturazione eseguiti nel convento degli Angeli Custodi, fecero sentire, agli amministratori, la necessità di aprire un nuovo ingresso all’edificio, divenuto sede del Liceo Inoltre altre esigenze si intravedevano. Al primo posto vi era il fatto che il prospetto del Teatro, per la poca larghezza della strada ad esso prospiciente, non era valorizzato abbastanza, e quindi verso il 1933 espropriati ed abbattuti alcuni fabbricati dei sigg. Lucarelli e Smeragliuolo (che qui aveva il suo laboratorio di falegnameria con un buon numero di operai), venne realizzata una piazza di forma semicircolare. Al centro della facciata perimetrale venne collocato il nuovo ingresso. Un cancello in ferro, inserito in un arco a tutto sesto, si apre fra due coppie di colonne, sovrastate da un timpano ad arco che racchiude un balcone balaustrato. Lungo la facciata, realizzata a bugnato, sono disposti, sette per ogni lato del suddetto ingresso, dei locali, adibiti, nel tempo, ad uso di negozi, di banca, di bar. Sopra di essi, una lunga e ampia terrazza, impreziosita da una grande balconata con pannelli in pietra scolpiti a traforo, fa da corona riproponendo la forma della piazza, dedicata in origine alla principessa Maria Pia di Savoia, figlia di Vittorio Emanuele II e Maria Adelaide. Successivamente la piazzetta venne intitolata a Giovanni Bovio, nato a Trani nel 1841, docente di filosofia all’Università di Napoli, in cui teneva un corso libero di filosofia, amico di Mazzini, presidente della associazione “Italia irredenta”, deputato al parlamento, di assoluta fede repubblicana. Era il padre di Libero Bovio che tante canzoni ha regalato a Napoli ed agli Italiani.

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Continuando la passeggiata lungo il c.so Garibaldi, si incrocia l’antico cardo denominato fino a pochi anni fa via Torre ed ora diviso in Via Pasquale Fratta a destra e Via Alberto Martucci sulla sinistra. Questi nomi rivestono notevole importanza nella storia sammaritana. L’avv. Pasquale FRATTA, quinto figlio di Antonio e Concetta Stroffolino, facoltosi possidenti, nacque a S .Maria C. V. nel 1876. Dopo aver frequentato le scuole superiori presso il seminario vescovile di Capua, si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Napoli, laureandosi a pieni voti. Attratto da un notevole interesse per la politica, nelle elezioni comunali del 1920, venne eletto consigliere e fece parte delle giunte guidate, nel periodo 1920-21, dal sindaco Avv. Pasquale Troiano e, dal 1922-24, dal sindaco Avv. Eugenio Liguori. Fu sindaco dal 1925 al 1927 e per effetto del R.D. 2 giugno 1927 divenne il primo podestà della città restando in carica fino al 1934, senza farsi coinvolgere in beghe politiche. Proprio nel 1925, appena eletto Sindaco, elargì la somma di L. 200.000 per effettuare restauri nell’Anfiteatro Campano e per tanto, ricevette da parte della giunta comunale, una pergamena di riconoscimento. Il 27 giugno 1926, venne inaugurato il monumento ai Caduti della Grande Guerra. Fra le personalità che intervennero alla cerimonia vi fu il principe Umberto II, giunto in treno, debitamente accolto dal sindaco Fratta, dal prefetto e da tutte le altre autorità civili e religiose come l’arcivescovo Cosenza che benedisse il monumento. Sempre nel 1926, la città venne fornita di un autocarro, unico nella provincia, per innaffiare le strade cittadine che in tal modo venivano tenute sempre pulite. Grazie a questo Sindaco di larghe vedute, la nostra città migliorò il suo aspetto. Il corso Garibaldi venne abbellito con la messa dimora sui marciapiedi di piante di oleandri che rimasero in sito fino agli anni 70. Inoltre, l'Avv. Fratta si impegnò per l’ampliamento del Riformatorio e del Tribunale. Nel 1927 fece realizzare il campo sportivo, concedendo, per tale scopo, il terreno comunale del soppresso cimitero.

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Nel 1928, chiese ed ottenne l’aggregazione dei piccoli comuni limitrofi, S. Prisco, Curti, Casapulla, S. Tammaro, che ottennero nuovamente la propria autonomia nel 1946. Il 13 maggio 1929, il podestà Fratta, assieme alle maggiori autorità ed al popolo, accolse il Cardinale Ascalesi, di Napoli, che, in occasione del Primo Congresso Eucaristico dell’Arcidiocesi di Capua, era venuto a visitare la Chiesa Collegiale della nostra città. Nel 1930 fece dare inizio ai lavori per la sistemazione dell’ edificio scolastico e del convento degli Angeli Custodi che divenne il Liceo fra i più nobili della provincia, e di cui abbiamo già raccontato. Nello stesso anno, la principessa Maria Josè del Belgio, moglie del principe ereditario Umberto II, giunta nella nostra città, fu invitata a vedere il Mitreo, da poco riscoperto. Al rifiuto della principessa di scendere nel sito tramite una scala a pioli, l’Avv., ferito nell’orgoglio di sindaco e di sammaritano, fece costruire, a proprie spese, l’ingresso e la scala di accesso al monumento. Una lapide posta su di una parete dell’ ingresso al monumento, ne dà testimonianza. Nel 1939, nominato senatore del regno, non potette assolvere alle funzioni della carica per l’avvento della II Guerra Mondiale. Venne nominato presidente dell’Amministrazione Provinciale di Napoli; e successivamente anche presidente dell’Opera Nazionale Maternità e Infanzia (ONMI). Successivamente, a causa dei continui dissidi con i politici locali, l’ Avv. Pasquale Fratta lasciò la città e si ritirò a vivere a Napoli. Comunque, è bene sottolineare, mai nessuno riuscì ad insidiare la stima che il popolo sammaritano gli accordava, apprezzandolo per la signorilità, e la dirittura morale. Lo contraddistinse la sua competenza, l’oculata amministrazione, il suo assoluto disinteresse, il suo senso sociale, e unico suo scopo fu il benessere della città. Scrive di lui Fulvio Palmieri “Definendolo semplicemente un galantuomo, gli daremmo la patente di signore illuminato ma non democratico e invece fu anche tale pur soggiacendo all’ordine di uno Stato dittatoriale e peggio”. (op.citata pag. 98) Per queste sue inconfondibili caratteristiche, venne insignito della medaglia d’oro e del diploma d’onore da parte delle autorità dell’epoca. Il 24.04.1956 alla presenza degli avv. G. Fusco e C. Maffuccini fece

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redigere dal notaio U. Caporaso un atto di donazione con cui istituì un “Ente avente scopi culturali e di beneficenza e fra essi anche l’obbligo di corrispondere annualmente la somma di L. 50.000 al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di S. Maria C. V. per l’istituzione di un premio da assegnarsi ad un giovane avvocato, di età non superiore ai 32 anni che si sia distinto per cultura e probità professionale. Volendo cominciare a dar vita a detto Ente, ha deciso di donare allo stesso un titolo di rendita del capitale nominale di L. 1.000.000…..” ( tratto dall’atto notarile). L’Ente fu denominato “ Fondazione Avv. P. Fratta.”. Lo statuto della fondazione venne redatto per notar U. Caporaso in data 27.10.1956 e registrato il 13.11.1956 al numero 835. Il riconoscimento giuridico della “Fondazione avv. P. Fratta” fu firmato il 13 febbraio 1957 dal Ministro di Grazia e Giustizia, Giovanni Gronchi, registrato alla Corte dei Conti il 29.03.1957 ed inserito nella Raccolta Ufficiale delle leggi e decreti della Repubblica Italiana. Si spense nel 1969 nella sua dimora napoletana. Riposa nel cimitero della sua città natale. La vedova, n.d. baronessa Amalia Ventriglia , nel suo testamento, dispose, quale lascito per la Fondazione, la somma di 80 milioni di lire. Gli interessi bancari annuali derivanti da questa somma, sono destinati a giovani studenti della città che versano in disagiate condizioni economiche. Alla fine della strada, all’incrocio con via Albana si nota la Cappella di Sant’Andrea Corsini. Era proprietà di un ramo cadetto della famiglia Corsini di origini napoletane, che si stabilì presso la nostra cittadina nei primi anni del settecento, in “un gran palazzo con vaghissimo giardino” (12.1) Ora l’intero fabbricato ed il suo giardino appartiene a “ Le Figlie del SS. Rosario di Pompei”. L’Avv. Alberto MARTUCCI , nacque nella nostra cittadina il 5 giugno 1899, da Alfonso, Segretario comunale, e da Giuseppina Della Valle. Svolse gli studi presso il liceo locale e conseguì la maturità nel 1917. Partecipò alla Grande Guerra col grado di sottotenente d’artiglieria; fu decorato con medaglia di bronzo e ricevette la promozione al grado di tenente.

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Ritornato a casa, si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza presso l’Università di Napoli e si laureò nel 1922. Fece pratica forense, presso i più stimati avvocati sammaritani dell’epoca, nel campo civile che presto abbandonò per dedicarsi completamente al Diritto Penale ricevendo notevoli apprezzamenti anche da parte di illustri colleghi in ambito locale e nazionale. Nel 1934 fu libero docente di Diritto e Procedura Penale presso l’Università di Napoli. In campo politico, durante il periodo fascista, si tenne lontano dalla politica. Al termine del 2^ Conflitto Mondiale, aderì al Partito Socialista, e ne ricoprì la carica di Segretario Provinciale. Diresse la sezione provinciale del Comitato di Liberazione Nazionale; nel 1946 si candidò per la Costituente e nel 1948 alla Camera, ma per le incomprensione con i dirigenti nazionali del Partito, poco dopo si dimise da ogni carica, dedicandosi solo alla sua professione. Purtroppo, qualche anno dopo, nel 1956, appena cinquantasettenne, venne a mancare. Le sue doti morali e culturali furono fatte proprie dal figliolo Alfonso che proseguendo nel cammino tracciato dal genitore lo ha degnamente superato nel sapere giuridico. Dovrei, qui, ripetere le lodi che, lo stimato Fulvio Palmieri, nei “Ricordi di S.Maria C.V.- pag.28” celebrò per la figura dell’Avv. Martucci Mi astengo e rimando alla lettura di quel testo. Quasi al centro di via Martucci, alle spalle del Teatro Garibaldi, inizia una strada intitolata A.Curri. Sulla destra, quando fu iniziata la costruzione dei fabbricati che insistono in questo sito, si rinvenne un grande ambiente absidato in opus reticolatum, con copertura a volta, che gli esperti hanno datato fra la fine del II ed il I sec. a. C. mentre un secondo ambiente presenta opere di ristrutturazione che arrivano fino al II sec. d.C. Nel complesso è stato rinvenuto un forno foderato con una doppia fila di lastre in terracotta, e privo della parte superiore. Inoltre, sono state trovate anche due fornaci di modeste dimensioni, forse adatte alla produzione di piccoli oggetti, che, sembra, sono state funzionanti per un periodo compreso tra i primi decenni del I sec.e la fine del II sec. d.C. Si è ritenuto che negli ambienti citati sia stata operante una officina per la

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lavorazione del bronzo. Infatti, in essi sono state scoperte numerose matrici in terracotta per la fusione di vari componenti, quali anse, piedi, manici ecc. adattabili alle situle, al vasellame di bronzo e ai lebeti, cioè alle produzioni metallurgiche capuane famose nel mondo antico, tanto che Catone consigliava “di comperare recipienti di bronzo a Capua”. IL POLITEAMA Proseguendo lungo il corso Garibaldi, verso l’incrocio con il corso A.Moro, poco distante da via Martucci, si apriva il cinema Politeama . Si apriva perché ormai non si aprirà più e il suolo su cui sorge è destinato a nuove costruzioni. Pur tuttavia la sua storia deve essere annoverata fra i ricordi dei sammaritani. Subito dopo la fine della 1^ Guerra Mondiale, l’impresario Angelo Grillo mise su il Politeama Estivo, un ritrovo all’aperto capace di circa 2.000 posti a sedere che oltre agli spettacoli di films, di varietà e di operette, offriva agli spettatori anche un inappuntabile servizio di bouvette. Il locale restò di moda fino al 1935, quando, purtroppo, dovette chiudere per tracollo finanziario. La gestione, durante il periodo fallimentare, venne affidata, dal Tribunale, a Mario Del Piano fino al 1939, anno in cui il locale fu acquistato da Ernesto Bertini, genovese, che a sua volta, lo rivendette al comm. Alfredo Rotta, venuto, da Genova, per dirigerlo. Verso il 1956, il nuovo proprietario, lo rinnovò completamente, eliminando le coperture in lamiera, che davano il nome di “baraccone” al locale, e facendo costruire la parte centrale del tetto in modo che poteva essere aperta durante le calde serate estive. Vennero, inoltre, costruiti i palchi al primo piano, che nella vecchia struttura mancavano, e a cui si accedeva tramite due scale laterali. Al piano terra, entrando, si apriva sul lato destro la biglietteria; sul lato opposto era in funzione un piccolo ma fornito punto di ristoro. Il locale restò in funzione per alcuni anni, poi fu chiuso, venduto, riaperto e definitivamente chiuso verso i primi anni del nuovo secolo. Poco dopo s’incrocia il corso Aldo Moro, che insiste, pressappoco, sul tracciato cittadino della via Appia.

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Torniamo ora alla storia del Corso Garibaldi. Nel 1876 si pensò di prolungarne il tracciato, aprendo una strada che dalla via Appia potesse arrivare fino alla strada campestre che prendeva il nome dalla Chiesa dedicata alla Madonna delle Grazie, (oggi via A. De Gasperi). Ù Fu dato incarico all’Ing. Francesco Sagnelli di provvedere al progetto che venne approvato, in tempi brevi, dal Consiglio Comunale. Ovviamente si dovevano espropriare dei terreni e ci volle un decreto regio per procedere, e il decreto arrivò nel 1884. Si dovette poi aspettare il 1888 per poter abbattere i palazzi di proprietà del Sig. Contini e del Sig. Garzillo. Finalmente, nel 1890, i lavori iniziarono e furono portati a termine nello stesso anno dalla impresa De Rosa. Dopo il collaudo da parte dell’Ing. Nicola Parisi la strada venne aperta con il nome di “Prolungamento di corso Garibaldi”. Nel 1940 il nome suddetto venne cambiato in Italo Balbo ed infine nel 1948 fu reso omaggio ad un benemerito figlio della nostra città che aveva trovato la fine dei suoi giorni, unitamente ad altri 334 martiri, a Roma, presso le Fosse Ardeatine: Ugo De Carolis, maggiore nei Carabinieri. Subito dopo l’incrocio con il corso A. Moro, sulla sinistra, in uno spazio ricavato in un giardino di aranci, pochi anni fa, venne dedicata una piazzetta a Errico Malatesta, altro figlio della nostra città, “uno dei più grandi, tenaci e fedeli apostoli di libertà, di emancipazione, di fraternità che la storia tra Ottocento e Novecento ricordi, noto e studiato in tutto il mondo”. Così lo definì il prof. Nicola Terracciano nel convegno tenutosi a S. Maria C. V. nel giugno 2008. Nota: Il termine Anarchia genericamente è inteso assenza di ordine, di governo. Anarchia, invece, indica una dottrina politica, sviluppata principalmente nell' 800, che favoriva il totale rifiuto del sistema economico capitalistico e della sua organizzazione statale. Per Malatesta l'anarchia era un socialismo liberalistico non assoggettato al marxismo. “Anarchia vuol dire non violenza, non dominio dell’uomo sull’uomo, non imposizione della volontà di uno o più su quella di altri. E’ solo mediante la cooperazione volontaria, l’amore, il rispetto e la tolleranza; è solo con la persuasione e l’esempio che deve trionfare l’anarchia, cioè una società di fratelli che assicuri a tutti la libertà, il progresso e il massimo benessere

possibile”.

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Questo era il concetto di Anarchia di Errico Malatesta e così si espresse sulle pagine di “Pensiero e Volontà”, giornale propagandistico clandestino da lui edito dal 1924 al 1926. Alla fine del corso De Carolis, degno di nota è il palazzo Fortini, che insiste sul lato occidentale della strada facendo angolo con via Alcide De Gasperi. Costruito verso la fine dell’800, presenta due piani ma è caratterizzato da due logge coperte poste alle due estremità del fabbricato. Incrociando la via A. de Gasperi, il corso Ugo De Carolis termina. Di fronte ad esso si apre LA VILLA COMUNALE. .

LA VILLA COMUNALE

ED IL MONUMENTO OSSARIO DEI CADUTI

DEL I OTTOBRE 1860 Nella battaglia del I OTTOBRE 1860 si ebbero: “ 2250 Garibaldini fuori combattimento, fra i quali 400 morti e molti feriti mortalmente”.(Jesse White Mario) “ pari a quello dei Borboni il numero dei morti, 306; superiore il numero dei feriti, 1328”. (Gustavo Sacerdote) “Volontari Garibaldini: 306 morti, 1328 feriti, 389 prigionieri e dispersi; Soldati Borbonici: 308 morti, 820 feriti, 2160 prigionieri e dispersi”. (Gustavo Reisoli)

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I Caduti Garibaldini riposano negli ossari di: Ponti della Valle, Castel Morrone, S.Angelo in Formis, S. Maria C. V. I Caduti Borbonici, per la maggior parte, furono tumulati nei cimiteri dei paesi di provenienza. Solo pochi soldati borbonici e quelli dei contingenti stranieri furono deposti nei cimiteri dei paesi dove caddero combattendo. Dopo la resa di Capua, avvenuta il 2 novembre 1860, il giorno 14 dello stesso mese, il Consiglio Comunale di S. Maria deliberò la costruzione di un monumento per ricordare il fatto d’arme che, in parte, si era svolto alla periferia della nostra cittadina. Nello stesso tempo, però, dovendo, l’Amministrazione Comunale, far fronte ad altre spese prioritarie, dovette necessariamente rinviare la disposizione che, per il momento, rimase solo una idea. Comunque essa fu sempre presente nella mente dei nostri concittadini, tanto che, nel 1876, il senatore del regno, Avv. Filippo Teti, istituì un comitato per l’edificazione del mausoleo. Ventitrè anni dopo la decisione comunale, nel 1883, l’Amministrazione Provinciale bandì un concorso a livello nazionale, per la progettazione di un sacrario per i Caduti della nota battaglia. Risultò vincitore il Prof. Manfredo Manfredi di Roma, noto architetto autore di molte significative opere. Fra esse va ricordata la tomba di Vittorio Emanuele II all’interno del Pantheon. Ricostruì, insieme ad altri architetti, il campanile di San Marco a Venezia. Progettò il Palazzo del Viminale. Insegnò alla Accademia delle Belle Arti di Venezia. Divenne direttore della Scuola Superiore di Architettura a Roma. Anche questo progetto restò, momentaneamente, al palo. Ma non venne mai meno la speranza, anzi la certezza, della sua realizzazione. Negli anni successivi si discusse a lungo dove innalzare il monumento. Si pensò addirittura di innalzarlo sulla via Appia ai confini fra Capua e S. Maria. Gli esponenti dei due Municipi si incontrarono il 7 marzo 1889, ma non si misero d’accordo ed il proposito venne definitivamente accantonato. Poiché nel 1889, era stato completato il prolungamento del corso Garibaldi, fu avanzata la proposta di costruire un giardino pubblico al termine del succitato prolungamento. Finalmente, nel 1893 venne deliberato di provvedere alla costruzione di un parco che facesse degno contorno al monumento ossario: “S. Maria volle

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che sorgesse nella sua apposita piazza, in fondo al corso Garibaldi”. Scelta la sede adatta, le amministrazioni comunali che via via si succedettero, riuscirono a reperire i fondi necessari, ed espletarono, con relativa solerzia, le pratiche necessarie per gli espropri dei terreni, del Sig. Melorio e del barone Petitti, su cui doveva sorgere il complesso monumentale ed il parco annesso. Nel 1900, il Comitato preposto, formato dal sindaco avv. Eugenio Liguori, e dagli ing. Gennaro Saccone, ing. Francesco Sagnelli, ing. Emilio Santillo, nonché dai sig. Vincenzo Aveta, segretario e dal comm. Ernesto Della Torre, uno dei Mille di Marsala, (di Andrea, nativo di Adro, Brescia), decise di avvalersi del progetto che l’architetto Manfredi aveva regalato al Comune, già da tempo. Il 26 ottobre 1902, si giunse alla posa della prima pietra, alla presenza dei ministri Carcano e Ottolenghi, dei senatori Cucchi, Pierantoni e Teti, alcuni deputati fra cui Morelli, Perla, Verzillo, del sindaco Gaetano Caporaso. Intervennero le associazioni di reduci e combattenti e la cittadinanza sammaritana. Alla fine della manifestazione, le autorità parteciparono ad un lauto pranzo, offerto dal sindaco, preparato dal ristorante napoletano Esposito-Targiani e di cui si conserva ancora il menù, (scritto in francese come d’obbligo nell’era della Belle Epoche) allestito, nientemeno, sul palcoscenico del Teatro Garibaldi. Seguì, un gran-gala, che si protrasse fino al mattino, ovviamente nel salone degli specchi. (16) Dopo aver assistito, il giorno precedente, alle manovre militari tenutesi a Caserta, il Re, Vittorio Emanuele III, giunse a S. Maria il 25 agosto 1905, in visita al Monumento – Ossario. Così la cronaca: “ Alle 9,55 la marcia reale squillò….Sua Maestà, giunse, scese dall’automobile e salì in vettura. Aveva alla sinistra il Sindaco Liguori, dirimpetto l’on. Morelli e il Generale Brusati. Al Monumento attendevano il Comitato esecutivo, gli Assessori, e il Consiglio del Comune, il Presidente del Tribunale, il Procuratore del Re, il Pretore, l’ispettore del Registro, il deputato provinciale Morelli, i funzionari delle RR. Poste, i Reduci garibaldini, il Direttore delle Carceri e molte altre autorità. Il Re scende, saluta affabilmente Ernesto della Torre, uno dei “Mille”, stringe la mano al Procuratore Berardi. Sua Maestà si ferma ad ammirare la grandiosa opera, che onora l’Arte, la

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città e i gloriosi caduti, domanda spiegazioni, osserva la cripta e domanda come si sarebbero raccolte le ossa e gli si risponde che si sarebbero esumate per le campagne e i camposanti vicini. Il Ministro della guerra, Generale Pedotti, ch’è sopraggiunto, dà spiegazioni sulla battaglia, avvenuta tra S.Maria e Capua, e alla quale egli prese parte. Poiché il Monumento è ancora in parte nascosto da travi, si fa ammirare al Re il modello in gesso e ne ascolta la descrizione dal Sindaco, l’ Avv. Eugenio Liguori. (16.1) Un Numero Unico: S. MARIA C. V. - AI CADUTI NEL 1° OTTOBRE 1860 compilato dal Prof. Paolo De Grazia e stampato presso il locale stabilimento tipografico Umili & Quattrucci, ci fa conoscere il programma stilato per la inaugurazione del Monumento. Sabato, 30 settembre, convegno ciclo - automobilistico nazionale, concorso di bande musicali ed opere di beneficenza con la distribuzione di lire 1.000 ai poveri della città. Domenica, 1° ottobre 1905, quarantacinquesimo anniversario della battaglia, l’Inaugurazione Ufficiale. ore 9 - Benedizione dell’Ossario ore 10 - Ricevimento delle Autorità Civili e Militari sul Palazzo Municipale ore 12 - Gran corteo, che muoverà dalla piazza ferrovia, percorrendo le vie Sirtori, Pratilli, Mazzocchi, Principe Amedeo e Corso Garibaldi, per fermarsi nella piazza ove Sorge il Monumento Ossario. ore 13 - Inaugurazione del Monumento-Ossario. Oratori: Avv. Eugenio Liguori, sindaco; On. Morelli, deputato; Prof. Pasquale Papa. ore 17 - Banchetto d’onore. Alla sera - Artistica illuminazione a luce elettrica delle Vie principali e piazza del Monumento. Gran fiaccolata con canto di cori ed inni patriottici a cura del Comitato giovanile, fuochi pirotecnici simbolici, festa popolare. Lunedì 2 ottobre ore 9 - Ricevimento al Municipio delle squadre di ciclisti e automobilisti con bandiera. ore 10,30 - Sfilata delle squadre per le vie della città.

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ore 19 - Banchetto ufficiale, che terranno le squadre ciclistiche ed automobilistiche nel Teatro Garibaldi con l’intervento delle Autorità. In tutti i tre giorni la città sarà artisticamente addobbata. La cerimonia inaugurale si svolse alla presenza del ministro della Guerra, della Pubblica Istruzione, dell’Agricoltura e di molte altre autorità, fra cui il gen. Stefano Turr, comandante garibaldino nella battaglia del I Ottobre. Il primicerio della collegiata, don Enrico Sanmartino, benedisse i resti dei Caduti che vennero deposti nella cripta Il nostro concittadino prof. Pasquale Papa, “studioso di questioni dantesche. Libero docente di letteratura italiana presso l’Università di Bologna; divenuto titolare, successe al Carducci su tale cattedra. Elegante conferenziere e delicato poeta…”(17), pronunciò il discorso inaugurale. Inoltre, il prof. Papa compose un Inno, che musicato dal maestro Pasquale Indaco venne eseguito durante la solenne manifestazione. * Il prof. Gennaro Faucher, docente presso il Liceo della nostra città, scrisse il testo della pergamena commemorativa.** Il progetto originario del monumento, ideato da Manfredo Manfredi, prevedeva una opera di diverso aspetto e di notevoli dimensioni. Ne dà accurata descrizione l’Ing. G. Cariati nel Numero Unico: “Esso si componeva di un’ampia esedra chiusa su tre lati da un parapetto sobriamente decorato, con quattro pilastri reggenti altrettanti tripodi di bronzo, con una maestosa scala, coprendo l’ossario sottoposto. A questo si accedeva mediante una edicola a pianta quadrata, eretta sull’esedra, avente quattro frontoni ad una unica porta aperta nella facciata principale del monumento, ossia verso il lato aperto dell’esedra. Sull’edicola ergevasi il piedistallo del monumento decorato a scudi e festoni, e sul piedistallo una colonna di pietra. Questa era rivestita nella parte inferiore da un basso rilievo in bronzo, rappresentante gli uomini principali della memoranda giornata, nella parte superiore era scanalata, e nella parte centrale, la maggiore di tutte, era perfettamente liscia ed ornata da lunghe palme di bronzo. Sul fusto della colonna, il capitello e la statua”. Venne ridotto a più accettabili misure. Direttore dei lavori fu lo stesso progettista, assistito dall’ ing. Nicola Parisi nostro concittadino, che fu anche il collaudatore dell’opera finita. Due scultori di fama, Cav. Emilio Mossutti e Comm. Ettore Ximenes

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furono gli artefici delle parti in bronzo, fuse nelle officine Bracale e Laganà, noti fonditori in Napoli. Nota: Bracale fuse anche la Vittoria alata per l’ossario di Valle di Maddaloni. I lavori edili furono appaltati dall’impresa Luigi Angiello che si avvalse dell’opera di maestranze sammaritane: le opere, in pietra calcarea delle nostre colline, furono lavorate dai fratelli Luca e Vincenzo De Felice e da altri artigiani. Oggi come allora, la Villa comunale è protetta da una cancellata in ferro nello stile del primo Novecento, che delimita un’ area semicircolare antistante l’ingresso da cui si accede in un largo viale alberato con lecci sempreverdi. Essi fanno corona anche alla grande superficie centrale, dove due fontane zampillano in altrettante vasche circolari. Al centro sorge, solenne, il Monumento. E’ formato da una grande piattaforma sul cui fronte si aprono cinque gradini che salgono ad una altra piattaforma di poco più piccola anch’essa formata da cinque scalini. Su questa ultima terrazza si innalza, nella parte centrale, una imponente colonna: tre alti gradini sorreggono un piedistallo a base attica, che ne sostiene un altro di dimensioni inferiori e su di esso si eleva la stele, sovrastata dalla statua della Vittoria Alata, realizzata, in origine, dal prof. Ettore Ximenes. Nota: Ettore Ximenes è autore di molte opere. Vale ricordane una che si trova nel cimitero di guerra realizzato dietro l’abside della Basilica di Aquilea. E’ una statua in bronzo e rappresenta l’Angelo della Carità che sorregge un soldato morente. In questo pio luogo, sotto la statua, furono deposti alcuni soldati italiani caduti durante la prima fase del conflitto, e fra essi anche le salme di undici soldati di cui non si conosceva, e non si conosce, il nome. Nel 1921, una madre che aveva perduto il figlio in guerra, Maria Bergamas di Gradisca d’Isonzo, ne scelse uno che, trasportato a Roma con tutti gli onori, fu deposto e riposa sotto l’Altare della Patria, ovvero il monumento al Milite Ignoto. Nei primi anni, a protezione dell’opera, era stata sistemata una recinzione in ferro battuto. Fu tolta qualche tempo dopo. Sugli altri tre lati, l’opera non risulta interessata da gradini, e la terrazza superiore è chiusa da un parapetto in pietra traforata che da un senso di leggerezza e leggiadria. Su i quattro pilastri, più alti, disposti agli angoli,

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sono poggiati altrettanti tripodi di bronzo; affiancati ai primi, due pilastri esterni, più bassi, reggono due urne; ed infine su quello posizionato al centro della balaustra posteriore, sorge, scolpita nella pietra, un’ara, a ricordare il sacrificio di tutti coloro che immolarono la propria vita in nome di un ideale. Ai piedi dei primi due pilastri, dove termina la scalinata di accesso, sono accosciati, su un piedistallo, due grifi anch’essi fusi nel bronzo, opere dello scultore Enrico Mossutti. Si racconta che i lavori in bronzo, decoranti il monumento, siano stati ricavati dalla fusione dell’affusto di due cannoni catturati dai garibaldini della sesta compagnia del reggimento Malenchini. Sulla culatta, i loro nomi: il Giusto e il Mago.(19) Posizionati sotto l’arco Adriano, manovrati dai garibaldini aiutati (si dice ma non par vero), da alcuni cannonieri della Hannibal, nave ammiraglia inglese alla fonda nel golfo di Napoli, gli obici fecero fuoco contro gli stessi soldati borbonici attestati nei pressi della antica chiesetta di S. Agostino, che solitaria si ergeva lungo la strada. L’episodio venne illustrato da Giovanni Fattori in un quadro, dal titolo “Batteria a Porta Capua”, conservato a Firenze, Galleria d’Arte Moderna. . L’Avv. Raffaele Orsi, sul Numero Unico, così scrisse: ”Quale idea sublime! I cannoni borbonici sono fusi per la statua della Vittoria, e le pietre calcari del monte S. Angelo, bagnate dal sangue dei garibaldini, sono impiegate per il monumento – ossario ai gloriosi caduti nella battaglia del I ottobre 1860. La nostra città, orgogliosa di questo duraturo ricordo di eroismo, di libertà, di arte, lo custodirà come sacro deposito, perché possa accendere il forte animo ad egregie cose a alla fede nella libertà, nella gloria e nella grandezza della Patria”. Sul primo piedistallo si trova affisso un bassorilievo in bronzo rappresentante un clipeo, scudo rotondo di forma convessa, con il bordo istoriato e circondato da una fascia di alloro. Su di esso è riportata in rilievo la scritta I OTTOBRE MDCCCLX, ed è ornato ai lati da festoni e nastri. Sugli altri lati campeggia una scritta a rilievo in caratteri bronzei che dice, a chi guarda il monumento, a destra: ITALIA E VITTORIO EMANUELE; a sinistra: LA PATRIA RICONOSCENTE. L’iscrizione originale riportava VITTORIA SU TUTTA LA LINEA -

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GLORIA -- LIBERTA’ Questo primo basamento ha come modanatura una fascia a dentelli su cui poggiano quattro timpani triangolari istoriati da un festone vegetale con nastri incrociati. Il secondo piedistallo porta scolpiti alcuni medaglioni: la parte frontale del basamento, racchiuso in un tondo retto da due grifoni, mostra lo stemma civico della città con la Croce e sotto di essa in un nastro la scritta O P Q C. Negli altri lati, i medaglioni, incorniciati in due festoni, portano scolpite due cornucopie annodate nella parte finale, e nei due angoli superiori si notano due teste di grifo che con le zampe reggono la cornice dei medaglioni. Questa seconda parte del monumento termina con una cornice scolpita con un festone vegetale e nastri incrociati. Infine la colonna: essa è lavorata in tre diverse sezioni: la prima sezione è circondata da un bassorilievo che immortala Garibaldi sul suo cavallo “Marsala”, e il suo Stato Maggiore in piedi attorno a lui. Un anello, cesellato nel marmo della colonna, rappresenta un addobbo vegetale a foglie di quercia e separa la prima dalla seconda parte. Questa è ornata da un lavoro in bronzo: dei festoni di elementi vegetali sospesi al centro secondo una curva aperta verso l’alto, girano tutto intorno alla colonna. Nella parte anteriore si nota l’insegna dei legionari dell’antico esercito romano, nella cui targa appare, in rilievo, la scritta ROMA e termina con il simbolo romano per eccellenza, l’aquila. La terza sezione, infine, anch’essa separata da un anello simile al primo, è solamente scanalata e termina con un largo capitello di ordine composito con volute e foglie di acanto, su cui poggia la statua della Vittoria alata. Fra le volute è visibile lo stemma civico. L’opera, appena terminata, era alta 24 metri. Durante un violentissimo temporale, abbattutosi sulla città il 1° novembre

1914, il frutto del lavoro di Ximenes, venne colpito da un fulmine di devastante potenza: la statua originaria fu ridotta in frantumi insieme alla

parte superiore della colonna. I danni ammontarono a 150.000 lire, in parte rimborsate dall’ente presso cui il monumento era stato assicurato.

Venne restaurata circa 13 anni dopo, collocando sul ricostruito piedistallo, opera dello scultore Giuseppe Tonnini, una nuova Vittoria Alata. Nella

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mano destra impugna un gladio e nella sinistra porta la palma della gloria. La colonna risultò esser alta solo 20 metri. All'inaugurazione della nuova statua sorse un piccolo problema. Si doveva togliere il drappo che ricopriva la Vittoria; ma per via dei gradini che fungono da base al monumento, la scala, gentilmente resa disponibile dalla Società Elettrica, pur raggiungendo la cima, dovette essere inclinata più di quanto previsto dal suo regolare uso. Pertanto, si rese necessario far salire su di essa la persona meno pesante scelta, ovviamente, fra gli addetti alla manovra. Per la sua leggerezza, il gradito compito venne assolto dal diciassettenne Mario Spera, che così ebbe la gioiosa ventura di rimuovere il velo che copriva l’opera del Tonnini. I resti di alcuni dei garibaldini morti nello scontro, riposano nella sottostante cripta. Furono riesumati dai diversi luoghi in cui erano stati sepolti, e cioè presso la chiesa di S. Lazzaro a Capua, presso il convento dei Cappuccini, nel vecchio cimitero di S. Maria da cui provengono le spoglie di Francesco Bandera, diciottenne, nativo di Cremona, e di Beniamino Sartorio da Pavia di cui si ricordano le commoventi iscrizioni funebri.*** Nel giorno inaugurale, sul Numero Unico, Francesco Guidi, tenente del 9° Lancieri di Firenze, di stanza nella nostra città, così si espresse: ”Di già un monumento ricorda l’eroica resistenza di Bixio ai Ponti della Valle. Altra simile opera sorge oggi in S.Maria per volere di un intero popolo, desideroso in essa porgere l’ultimo asilo e render sacre le reliquie dei valorosi morti, i quali fino ad oggi e per sempre ottennero, diremo con Pericle, la più onorevole di tutte le sepolture, non quelle ove riposano, ma la memoria degli uomini. Imperocchè la tomba degli eroi è l’intero universo e non sotto colonne onuste d’iscrizioni fastose..”. (20) Nel 1926, la Villa Comunale venne intitolata alla regina Margherita. Nel 1928, nella parte retrostante, furono messi a dimora diversi alberi di pino, rimossi, nel 2005, perché malati, e sostituiti con delle palme ed altri alberi. Ai lati del viale perimetrale, in tutta la sua lunghezza, vennero piantate due file di ippocastani

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Alle estremità dell’ingresso vennero costruiti due piccoli edifici che ospitarono: a destra, gli attrezzi necessari alla sistemazione e alla cura del giardino; a sinistra, l’alloggio del sig. Vincenzo Santopietro, solerte custode comunale, che nelle calde sere d’estate, percorrendo in bicicletta l’intero perimetro della Villa, accompagnato dal suo cane lupo, con voce stentorea, invitava ad uscire: “Signore e signori, la Villa si chiude; sciolgo il cane e non assumo responsabilità”. Nel 1932 l’imprenditore Nicola Cortese, nei pressi del muro occidentale del parco, aprì il Cinema Estivo, che non ebbe la fortuna sperata e chiuse definitivamente verso la fine degli anni cinquanta. Adiacente alla zona retrostante del parco, venne allestito un campo da tennis, eliminato verso il 1952, quando venne costruita la strada intitolata a Raffaele Perla e, ad essa affiancate, una decina di case popolari. Lungo tutto il lato nord della Villa, subito dopo la recinzione, correvano i binari a scartamento ridotto, della Ferrovia Alifana, che attraversava via Galatina, costeggiava l’Anfiteatro e si dirigeva verso Capua, la cui stazione era in via Pomerio, nei pressi del Campo Sportivo. Nel 1960 per le celebrazioni del primo centenario della Battaglia venne sistemata sul lato del monumento, una lapide che riporta:

NEL PRIMO CENTENARIO DELLA BATTAGLIA DEL VOLTURNO LA CITTADINANZA SAMMARITANA

ONORA I SUOI MARTIRI DEL RISORGIMENTO E GLI EROI GARIBALDINI

CONSACRANDO NEL RICORDO DEL GLORIOSO RISCATTO

L’ABOMINIO DI OGNI TIRANNIDE ED IL VIGILE AMORE PER LE LIBERTA’ REPUBBLICANE

CON LA FEDE CHE IN ESSE RIFULGA L’AVVENIRE D’ITALIA E SI AFFRATELLANO I POPOLI DEL MONDO

I OTTOBRE 1860 – I OTTOBRE 1960.

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RICORDI GARIBALDINI Tratto dal Numero Unico edito il I Ottobre 1905 per l’inaugurazione del Monumento * L’ Inno composto dal Prof. Pasquale Papa O Terra, che in seno chiudesti il fiore dei forti caduti, e il verde tuo manto di mèssi pei solchi cruenti stendesti, noi supplici a te siam venuti: disserta i pietosi recessi, pietosa soccorri ai devoti, tu tenera madre, tu buona, e l’ossa aspettanti ridona ai figli, ai fratelli, ai nipoti. Degli occhi la muta tristezza Già prega alla mesta ricolta Benigna la luce del sole. Del sol la divina carezza La baci per l’ultima volta: la schiera dei forti è sua prole! Suggelli la pace profonda

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un velo di marmi e di fiori, e, cinta di novi fulgori la gloria pei cieli s’effonda. P. PAPA ** Per cortesia dell’illustre collega G. Faucher °, pubblichiamo l’iscrizione, ch’egli ha dettato per la pergamena commemorativa °° del monumento ossario.

p.d.g. °°° “ Il 1° ottobre 1905, la Città di S. Maria, sorta sugli avanzi di Capua Antica, consacra un monumento-ossario alla memoria di coloro, che nel 1860, intorno alle sue mura, caddero nella lotta per la redenzione d’Italia. Sulla pace dell’avello, che ne raccoglie insieme le ossa, scenda del pari pietosa la preghiera sui vincitori e sui vinti, tra quali erano anche figli d’Italia avvolti nell’errore. – E al cospetto de’ reduci che rammentano le glorie del passato, questo monumento, col ricordo dei prodi che, duce Giuseppe Garibaldi, diedero volenti la vita per la causa più santa, terrà deste ne’ cuori degli operosi le alte feconde idealità, convergenti nell’amore alla patria, ch’è armonia di vita e di azione nell’umanità. A quelli che non seppero trovare il loro cammino o lo smarrirono, sarà faro luminoso, che insegnerà la via del dovere e del sacrificio. Dirà in ogni tempo che la fede e l’amore compiono i destini dei popoli non immemori della loro grandezza, e che gli Italiani, attingendo ancora da essi le novelle energie, riacquisteranno il loro posto nel mondo, guidati dal nome fatidico di Roma”.

Nota: ° (Avv. Prof. Gennaro Faucher) °° (La pergamena si conserva presso il Museo Garibaldino). °°° ( Paolo de Grazia) GARIBALDINI SAMMARITANI I cittadini di S. Maria che presero parte ai combattimenti del settembre e dell'ottobre 1860, furono 52 e di essi si conosce il nome. Pur tuttavia, con molta probabilità ve ne furono anche altri che

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parteciparono alle battaglie e di essi il nome non fu ricordato. Fecero parte della Legione del Matese e del Sannio, della Brigata Milbitz, del Reggimento Corrao, degli Ussari Italiani, dei Diavoli rossi, dei Carabinieri Genovesi, distinguendosi, ovunque, per il valore dimostrato. GARIBALDINI *** E’ merito di Fulvio Palmieri se le iscrizioni funebri dei due Garibaldini sepolti nel vecchio cimitero di S. Maria sono ancora da noi conosciute. Egli le riporta nel suo noto “S. Maria C. V., vecchie immagini e note estemporanee” a pag. 10. “A Beniamino Sartorio da Pavia, cittadino assai più che congiunto, lasciò la dolce sposa, i figli pargoletti e immemore del presago divieto paterno impugnò l’armi a fare grande e una l’Italia. Infelice, colpito mortalmente nel cruento assedio di Capua e desolato in lunga agonia da visione implacata, rattenne la giovane vita fuggitiva fino all’implorato annuncio del perdono del padre. La lontana deserta famiglia e i fratelli d’arme, le donne pietose che il cuore lenivano i supremi dolori del patrio soldato, da nessuna cara voce confortato, a lui pregano pace. 1860 “ “A Francesco Bandera di Cremona che nel 18° anno, l’Italia accolse nel novero dei suoi gloriosi figli combattendo il giorno 1° ottobre 1860, il fratello e le sorelle a perpetua memoria posero” Nel Museo Garibaldino si custodisce, montato su un cilindro di metallo, il proiettile che lo colpì a morte. Altri garibaldini, caduti il 1° ottobre 1860, uniti a quelli caduti il 19 settembre nello scontro di Caiazzo, riposano nel piccolo cimitero di S. Angelo in Formis. Le loro iscrizioni funebri così recitano: “Lamberto Lamberti milanese, varcato appena tre lustri, volontario nei Cacciatori delle Alpi cadeva nel combattimento di S. Angelo, martire dell’indipendenza italiana il 1° ottobre 1860. A te la palma degli eroi, ai parenti orbati dell’unico sostegno il conforto dell’onorata memoria.” “Qui dorme l’eterno riposo Botti Riccardo di Fiorenzuola morto di 19

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anni il 1° ottobre 1860 combattendo per la libertà d’ Italia. Pregate.” Un garibaldino, caduto durante l’assedio di Capua, riposa nel cimitero di S. Maria. presso il muro occidentale. In esso inserita, lo ricorda la seguente lapide. D O M

ALLA MEMORIA DEL LUOGOTENENTE ANTONIO CERTOSINI

MORTO DA VALOROSO SOTTO LE MURA DI CAPUA

AI 29 OTTOBRE 1860 I COMPAGNI D’ARME

QUESTA PIETRA POSERO ANTONIO CERTOSINI - La storia di Antonio Certosini è perlomeno singolare, e, credo, valga la pena di leggere la descrizione fatta da Giuseppe Bandi nel suo “ I Mille”.(pag. 175 - 176). L’episodio inizia con la battaglia di Calatafimi. “Il gruppo dei garibaldini…era formato da Menotti, da Elia e da Schiaffino che aveva la bandiera. I borbonici erano quasi sul ciglio della spianata… Un drappello di costoro, veduta la ricca bandiera si fe’ vicino…Due cacciatori afferrano la bandiera e ne strappano un lembo; Elia e Menotti li respingono ancora. Vedendo la bandiera in quel tremendo rischio…cominciai a gridare “ salviamo la bandiera!”.. In quello istante… sopraggiunsero sette o otto cacciatori a capo dei quali era un sergente, alto della persona e rosso di capelli… Il fucile del sergente appoggiato con la punta della baionetta al petto di Schiaffino, fece fuoco, e Schiaffino cadde indietro sollevando in alto, nel cadere, la bionda e lunga barba, e lasciò la bandiera, che in mezzo a grida di giubilo sparì dai miei occhi….. Erano trascorsi due mesi dal giorno in cui combattemmo a Calatafimi…. In quei giorni mettendosi insieme nuovi battaglioni …. e scarseggiando gli

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ufficiali, si pigliassero volentieri i disertori dell’esercito borbonico. Nel passare per la città di Barcellona (in Sicilia), trovai appunto uno di quei nuovi battaglioni ….comandato da un certo capitano, disertore borbonico e disertori come lui erano quasi tutti gli ufficiali. Fra questi ultimi… due, nel salutarmi fecero mostra di gran meraviglia…..Vedendo che quei due mi guardavano.. mi posi a squadrarli:…. riconobbi il sergente che aveva colpito a morte il povero Schiaffino. Il suo nome era Certosini. Lo tenni d’occhio ma si comportò da valoroso nel combattimento di Milazzo. Quatto mesi trascorsero e Certosini moriva della morte dei valorosi sotto le mura di Capua, colla fronte aperta da una scheggia di granata.(pag. 190) SIMONE SCHIAFFINO di Deodato, nato a Camogli (Genova) il 16 febbraio 1835, “dei Cacciatori delle Alpi e delle Guide”, imbarcato sul “Piemonte”, portava la bandiera dei Mille. “Non era, come si credette, la famosa bandiera con cui Garibaldi dirà, dodici anni dopo, di coprire la salma di Mazzini”, e nemmeno la bandiera confezionata e regalata, nel 1855, a Garibaldi dalle donne di Valparaiso, ricamata in oro sul bianco del tricolore.. “Era una piccola banderuola, fattasi dallo Schiaffino a bordo del vapore… Ma era un tricolore, era il simbolo dell’Italia. Poteva essere pei nemici un glorioso trofeo”. (20.A)… . “una piccola bandiera semplice.. e non aveva né ricami né lettere dorate,….. improvvisata da Schiaffino a bordo del Piemonte”.(20.B) Di questa bandiera, i Napoletani, sembra, conquistarono soltanto l’asta, mentre la stoffa fu lacerata; quella di Valparaiso fu mandata subito a Napoli come trofeo. Schiaffino, quindi, morì il 15 maggio 1860 nella battaglia di Calatafimi e riposa nel Sacrario colà edificato. Era marinaio, e benché giovanissimo, aveva poco più di 25 anni, poteva fregiarsi di un anello all’orecchio sinistro: indicava che aveva doppiato capo Horn.(20.1)

Nota: L’orecchino portato all’orecchio sinistro indicava l’appartenenza alla marina mercantile; se portato all’orecchio destra si apparteneva alla marina di guerra. Se l’orecchino era d’argento indicava che chi lo portava, aveva superato l’equatore. Infine, se aveva l’orecchino e la barba, quel marinaio aveva doppiato Capo Horn.

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Sotto le mura di Capua cadde, fra i tanti, anche un volontario della Legione Inglese. Il suo fucile, raccolto dal tenente garibaldino Bono Gaetano, da Campobello di Mazara (Sicilia), è conservato presso il nostro Museo Garibaldino.(21)

Nel giorno del primo anniversario della battaglia, sul pilastro centrale dell’arco Adriano, dove più sostenuta era stata la lotta, venne inaugurata, rivolta l’iscrizione verso Capua, una lapide commemorativa dettata dal letterato e patriota LUIGI SETTEMBRINI . Nato a Napoli nel 1813, laureato in Giurisprudenza, esercitò nel foro della nostra città per circa un anno. Per il suo atteggiamento antiborbonico subì varie volte la prigione. Fu esiliato nel 1842 e fece ritorno a Napoli nel 1848 anno in cui fondò la “ Setta dell’Unità Italiana”. Arrestato l’anno successivo venne condannato all’ergastolo ed inviato a S. Stefano. Dieci anni dopo, nel 1859 la pena venne commutata in esilio. Subito dopo la battaglia dell’ottobre 1860 ritornò, divenendo senatore del Regno e professore di letteratura all’Università di Napoli. Scrisse nel 1875 “ Ricordanze della mia vita “. Si spense nel 1876. Fu l’autore delle parole incise sulla lapide commemorativa fissata sull’Arco di Capua. QUI

IL GIORNO PRIMO OTTOBRE 1860 GIUSEPPE GARIBALDI

VINCEVA L’ULTIMO RE DELLE DUE SICILIE IL POPOLO DI SANTAMARIA

CHE LO VIDE E LO RICORDERA’ SEMPRE VOLLE SERBARE IL NOME

BATTERIA GARIBALDI A PORTA CAPUA DATO A QUESTO LUOGO NEI GIORNI DELLA PUGNA

PRESSO L’ANTICO ARCO DONDE EGLI FULMINO’ I NEMICI D’ITALIA

TUTTA LA CITTADINANZA PONEVA QUESTA MEMORIA

IL PRIMO OTTOBRE 1861 La lapide in marmo, era fissata su un alto e massiccio cippo che terminava con arco a tutto sesto. Nella notte dell’11 gennaio 1863, fu oggetto di un attentato, che la ridusse in pezzi. In brevissimo tempo, cioè l’ 8 febbraio 1863, venne rimessa al suo posto.

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Successivamente, rovinato il cippo, venne addossata direttamente al pilastro centrale dell’Arco. ENRICO FARDELLA - Presso i Quattordici Ponti, costruiti nel 1844, per permettere il passaggio della linea ferrata, che da Napoli giungeva fino alla piazzaforte di Capua, all’alba del 1° ottobre, si udirono le prime fucilate della imminente battaglia. Sulla strada ferrata, il generale garibaldino Milbitz aveva fatto costruire, con sacchi di terra, un rialzo messo a cavaliere dei binari e vi aveva piazzati due cannoni, ed inoltre, aveva fortificato tutta la linea che arrivava fino agli Archi di Capua e proseguiva fino all’Anfiteatro. Un battaglione, del reggimento Malanchini, comandato dal col. Enrico Fardella, siciliano di Trapani, era spiegato all’estremità della linea difensiva verso il villaggio di S. Tammaro. Venne attaccato da due squadroni di lancieri, un battaglione di pionieri, e mezza batteria. Il col. Fardella si accorse che, alla sua destra una colonna di soldati napoletani, comandata dal col. Sergardi, avanzando, poteva prenderlo alle spalle, e pertanto il battaglione ripiegò, attestandosi dietro i margini della ferrovia e, dando prova del proprio valore, fece fallire l’attacco delle truppe borboniche. Si ebbero perdite da ambo le parti. Giuseppe Bandi, nel suo “I Mille” racconta: “.. i volontari.. avean trovato presso l’argine della ferrovia, il cadavere d’un loro compagno ferito in petto da una palla e crivellato da innumerevoli colpi di baionetta….. Si chiamava Roman d’ Alégre, marsigliese, aveva compiuto con amore i suoi studi, e maneggiava anch’egli con garbo la matita e il pennello. Giovanissimo, aveva vestita la divisa degli zuavi, combattendo in Crimea e in Lombardia; ma poi aveva piantato in asso Napoleone ed era venuto a chieder una camicia rossa a Garibaldi, suo sogno e suo idolo. (G. Bandi, op,cit.pag.334) Sulla tronca colonna di mattoni fatta erigere, nel 1861, a proprie spese, dal colonnello Fardella, (ne chiese notizie al suo amico Camillo della Corte in una lettera del 5 luglio 1867 spedita da New York, in cui scrisse:.. esiste ancor la colonna ch’io alzai alla strada ferrata?), fu collocata la seguente iscrizione, dettata dal canonico Stefano Pirolo, nostro concittadino:

QUI PUGNO’

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CONTRO IL BORBONICO ORGOGLIO

IL REDIVIVO ITALIANO VALORE NEL I OTTOBRE 1860

QUI VINSE IL REGGIMENTO FARDELLA

QUESTO MONUMENTO ERGEVA AI SUOI GLORIOSI MILITI

AUGURIO ED ESEMPIO AI NEPOTI Il suolo, su cui il monumento s’innalza, fu dono del proprietario Salvatore Morelli. Nel 1903 il sig. Gaetano Morelli, suo erede, ottenne di spostarlo di una trentina di metri, mantenendo inalterate le caratteristiche del manufatto. Successivamente il Comune, intorno ad esso, delimitò una piccola area con un muretto di mattoni che oggi, purtroppo, versa in un notevole stato di degrado. Note: La Bandiera che sventolò ai Quattordici Ponti è conservata nel Museo Garibaldino della nostra città. Bisogna aggiungere inoltre che tutte e tre le bandiere dei reparti che combatterono presso S. Maria sono conservate nel nostro museo. Inoltre nel palazzo del Municipio, prima del terremoto del 1980, vi era una lapide che così riportava:

DUE DI QUESTE BANDIERE NELLA CAMPAGNA NAZIONALE DEL 1860

GUIDARONO ALLA BATTAGLIA I VOLONTARI GARIBALDINI DE’ REGGIMENTI FARDELLA E PALAZZOLO

LA TERZA DI ESSE PIANTATA NELLA BATTERIA GARIBALDI A PORTA CAPUA

SVENTOLO’ TERRIBILE A’ NEMICI D’ITALIA NELLE ORE SUPREME DEL PERICOLO

TUTTE E TRE LACERE E INTRISE DAL SANGUE DEGLI EROI

FURONO DONATE A QUESTA CITTA’ CHE CONCORSE FERVENTE ALL’OPERA DEL RISCATTO

AFFINCHE’ CI RICORDINO QUANTI DOLORI E QUANTO SANQUE COSTO’ REDIMERE LA PATRIA

CON CHE FEDE E CHE AMORE DOBBIAMO SAPERLA MANTENERE

LIBERA E UNA Enrico Fardella di Torrearsa, era nato a Trapani l’11 marzo 1821. Insieme agli altri due fratelli, il marchese Vincenzo e Giambattista, fu uno dei

principali esponenti della

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rivoluzione siciliana del 1848-49. Enrico era stato ufficiale dell’esercito borbonico, venne arrestato ed incarcerato, ma poi fu graziato da Ferdinando II. Raggiunse dapprima Genova, poi andò in esilio a Londra dove si arruolò per partecipare alla guerra di Crimea (1853-1856). Si unì alle schiere garibaldine, e si distinse nella battaglia di Milazzo, ma soprattutto in quella del Volturno. Dopo le imprese al seguito di Garibaldi, Fardella andò a combattere negli Stati Uniti durante la guerra di Secessione (1861-1865) al comando di un reggimento delle truppe dell’unione. Venne nominato generale dal presidente Abramo Lincoln. Negli anni seguenti si stabilì a New York, ma, per l' insistenza del fratello, nel 1872, tornò a Torrearsa. Per qualche tempo dal 1873 al 1879 fu sindaco di Trapani. Morì il 5 luglio 1892. Anche altre strade della nostra città, essendo a loro dedicate, ricordano i garibaldini che presero parte alla battaglia del 1° Ottobre… AVEZZANA Giuseppe. Nacque a Chieri (TO) nel 1797. Fu volontario nell’esercito napoleonico e prese parte alle campagne del 1813-1814. Nel 1815 entrò nell’esercito sardo con il grado di tenente. Partecipò ai moti del 1821, e condannato in contumacia riparò in Spagna dove combattè nell’esercito costituzionale, contro il corpo di spedizione della Santa Alleanza comandata dal duca d’Angouleme, sotto le cui insegne militava anche Carlo Alberto di Savoia. Caduto prigioniero, fu deportato, nel 1823, in America a New Orleans. Successivamente, nel 1827, nella guerra d’indipendenza del Messico, offrì il suo braccio contro gli spagnoli. Nel 1832 capeggiò una rivolta contro il presidente A. Bustamante che voleva usurpare il trono messicano. Fu il generale dei Quattro stati d’Oriente della repubblica Messicana. Nel 1834 lo ritroviamo a New York, dove vive insieme alla moglie irlandese, facendo il commerciante Ritornò in Italia nel 1848 ma non fu riammesso nell’esercito. Fu nominato il 26 febbraio 1849 comandante della Guardia Nazionale di Genova. Un mese dopo, partecipò, come ispiratore e capo, ai moti scoppiati nella città e condannato a morte in contumacia, riparò a Roma e fu nominato ministro della guerra durante il triunvirato mazziniano.

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Quando, dopo la strenua difesa operata dai garibaldini, la repubblica romana cadde, riparò nuovamente a New York lavorando insieme a Garibaldi nell’opificio di Antonio Meucci. Al suo nuovo rientro, nel 1860 partecipò alle campagne garibaldine. Fu insignito dell’Ordine Militare di Savoia per la condotta avuta nell’assedio di Capua. Nel 1862 entrò nell’Esercito italiano con il grado di generale. Collocato a riposo, combattè ancora con Garibaldi nel 1866 e poi, l’anno successivo, nella battaglia di Mentana. Fu eletto deputato di Napoli e di vari comuni di Terra di Lavoro quali Montesarchio, Capaccio, Isernia. Nel 1877 venne eletto primo presidente dell’Associazione pro Italia Irredenta. Morì a Roma il 25 dicembre 1879. MILBITZ Alessandro – Aleksander Izensmid (Isenschmit), DE MILBITZ nacque nel 1800. Nobile polacco col titolo di conte. Appena sedicenne entrò nelle fila dell’esercito russo-polacco dove militò circa 16 anni. Nel 1832 passò nell’esercito polacco. Nell’aprile 1849 col grado di capitano (o forse colonnello) della legione polacca fu combattente negli scontri dei Monti Parioli a Roma, contro i francesi. Dopo la caduta della Repubblica Romana, partì per la Grecia, insieme a Giacinto Bruzzesi e ad altri esuli italiani e polacchi per partecipare alla rivoluzione ungherese. Ritornò nel febbraio del 1852. Garibaldi lo ebbe come valente collaboratore nella battaglia del Volturno. Fu il comandante della divisione Cosenz (che era a Napoli come ministro della guerra), la 16^ divisione, posta all’ala sinistra dello schieramento garibaldino presso l’Arco di Capua. Avendo dato la sua parola a Garibaldi che Santa Maria sarebbe stata difesa fino all’ultimo sangue, pur trovandosi all’inizio in difficoltà, tenne la sua posizione tenacemente, “sudato e rosso come un gambero, scorreva qua e là col suo magro cavalluccio” (22) compiendo prodigi di valore ed abilità tattica, e respingendo il nemico su tutti i punti. Disponeva di circa 4.000 uomini, 4 cannoni e 70 cavalli. Nelle prime ore del mattino del primo ottobre, sanguinante per una ferita, ordinò il primo dei quattro assalti alla baionetta con cui arrestò per oltre un’ ora l’avanzata dei soldati borbonici.(22.1)

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Chiesti, poi, altri cavalleggeri al generale Medici, ordinò una carica della cavalleria garibaldina, composta da circa duecento uomini, sullo stradone che da S. Maria menava a Capua, disperdendo, così, la cavalleria nemica.(22.2) Nella nostra città, alloggiò nel palazzo di Girolamo Della Valle, in via Gramsci (ex via Vittorio Emanuele). Venne insignito il 12.06.1861 della medaglia dell’Ordine Militare di Savoia. Fu nominato generale nel Regio Esercito in cui militò circa un decennio. Si iscrisse alla Massoneria ed appartenne alla Loggia “Ausonia” di Torino. Venne eletto Sovrano Gran Commendatore del Supremo Consiglio di Torino. Morì a Torino il 17 giugno 1883. Nota: Fra i garibaldini che combatterono a Porta Capua, le perdite ammontarono a 147 caduti; 335 feriti; 239 dispersi. Nel Museo garibaldino viene conservata la Bandiera che il gen. Milbitz donò, il 29 ottobre 1860, alla nostra città. Nella brigata Milbitz combatterono anche alcuni cittadini sammaritani. SIRTORI Giuseppe, nato a Casate Vecchio (Como) il 17 aprile 1813. Fu ordinato sacerdote nel 1838. Nel 1842, si recò a Parigi, per perfezionare gli studi di teologia e filosofia. Studiò anche medicina, matematica, biologia, chimica, senza completare nulla. A seguito di un contrasto con i propri fratelli, decise di rinunciare ai voti sacerdotali. Nel febbraio del 1848 partecipò ai moti rivoluzionari francesi che portarono alla nascita della Seconda Repubblica. Rientrato in Italia, giunse a Milano ed essendo contrario alla unione della Lombardia con il Regno di Sardegna, Sirtori entrò in una brigata di volontari lombardi. Venne nominato capitano e con tale grado, nel 1849, partecipò alla difesa di Venezia e fu promosso colonnello per essersi distinto nell’assedio di Forte Marghera. Partito con i Mille, fu Capo di Stato Maggiore di Garibaldi, con il grado di Maggior Generale. Sedeva alla destra di Garibaldi. Garibaldi aveva in lui la massima fiducia. A Calatafimi venne ferito ad un braccio, mentre incitava i suoi armato solo di un frustino e cavalcando un asinello sardo. Sul Volturno ebbe il comando della divisione di riserva, e la mosse nei tempi e nei luoghi giusti, contribuendo così alla vittoria. e distinguendosi in tutta la campagna del 1860. “Però del prete e degli anni del seminario gli erano rimaste le stimmate

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gestuali inconfondibili nel modo di camminare e di fregarsi le mani candide e ossute, con quella sua vocetta stridula e quaresimale che trasformava ogni discorso in predica….Passava per l’uomo più inelegante dell’armata che pure non era un’accolta di damerini…e deteneva il primato senza sforzi”(23) con la “gran palandrana nera e il cappello a cilindro”(23 a) “Si preparava alle battaglie come un tempo si era preparato alle messe, digiunando e meditando. Era un uomo malinconico, taciturno, turbato ed esangue, chiuso nel suo sacerdozio di soldato, e col goliardico ambiente legionario non si appastò mai, rimanendone sempre un po’ remoto e in disparte. Dovunque apparisse, le risate si spegnevano e le bocche si chiudevano. Però le orecchie si tendevano perché le sue parole, le rare volte che ne pronunziava, facevano testo”.(23.1) Il 25 ottobre l’esercito garibaldino attraversò il Volturno su un ponte di barche e transitò per Bellona. All’entrata del paese Sirtori cadde da cavallo e si fratturò una gamba. Nel 1861, per i suoi meriti ricevette il titolo di Commendatore dell’Ordine Militare di Savoia. Nel marzo del 1862 venne trasferito nell’esercito regolare col grado di Tenente Generale. Nello stesso anno venne iscritto alla Massoneria. Combattè nel 1866 a Custoza. Fu deputato in varie legislature. Morì a Roma nel 1874. STEFANO TURR - Al generale Stefano Turr, non è stata intitolata nessuna strada. Pur tuttavia egli è da ricordare in queste note perché presenziò all’inaugurazione del Monumento Ossario, e venne insignito della cittadinanza sammaritana. Nacque in Ungheria nella città di Baja nel 1825. Fu tenente nell’esercito austriaco, nel reggimento di granatieri ungheresi, dal quale disertò. Nel 1849 prese parte alla battaglia di Novara fra le fila dell’esercito piemontese, quale capitano della “Legione ungherese”. La sconfitta subita dai piemontesi, comportò l’allontanamento degli esuli italiani e stranieri. Turr riparò in Germania, partecipando alla rivolta nel granducato del Baden, col grado di colonnello. Nel 1853 prese parte ad un moto rivoluzionario che doveva risollevare le terre irredente dall’Austria, ma anche questo non andò a buon fine e Turr venne espulso. Riparò a Tunisi e poco dopo prese parte alla guerra di Crimea con le truppe inglesi. Nel 1855, dal comando inglese venne mandato in missione a Bucarest, ma in questa città fu arrestato dagli

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austriaci e condannato a morte per l'antica, diserzione. Si salvò per intercessione diretta della Regina d’Inghilterra e si rifugiò in Turchia dedicandosi ad imprese commerciali. Scoppiata nel 1849 la seconda guerra d‘indipendenza italiana, Turr ritornò in Italia e col grado di colonnello combattè con truppe garibaldine: i Cacciatori delle Alpi, e fu ferito nella battaglia presso truppe Tre Ponti nel Veneto. Nel 1860 prese parte alla spedizione dei Mille partendo da Quarto, come aiutante di campo di Garibaldi che lo tenne sempre in grande considerazione. Fu da questi nominato generale di divisione. Alla fine della campagna venne scelto come governatore di Napoli svolgendo un certo ruolo nell’organizzare il plebiscito del 21 ottobre 1860. Successivamente passò nell’esercito italiano col grado di generale. Nel 1888 ricevette la cittadinanza italiana. Il 1° ottobre 1905, presenziò l’inaugurazione del Monumento Ossario, ultimo rappresentante dello Stato Maggiore Garibaldino. La nostra città gli conferì la cittadinanza onoraria l’11 giugno 1906. Fece, poi, ritorno a Budapest ove morì il 3 maggio 1908.

ACHILLE AFAN DE RIVERA UFFICIALE BORBONICO

Achille Afan de Rivera nacque a S. Maria C. V il 19 gennaio 1842 dal Marchese Rodrigo e da Giovanna Mira De Balena. Fu allievo del Real Collegio Militare della Nunziatella a Napoli. Nel maggio del 1860 partecipò a sedare i moti di Catania, scoppiati in concomitanza allo sbarco garibaldino. Poco dopo, partecipò alla difesa di Gaeta e durante l’assedio, col grado di tenente, appena diciottenne, fu comandante delle batterie di obici posizionate alla “Torre di Orlando”. Per ottenere i rifornimenti necessari alla difesa della piazzaforte si recò clandestinamente nello Stato della Chiesa. Dopo la conquista del Regno borbonico, passò nell’esercito italiano e, nel 1866, combattè con valore nella Terza Guerra d’Indipendenza agli ordini di Garibaldi sul lago di Garda e successivamente nel Trentino. Su proposta dello stesso Garibaldi venne decorato con l’Ordine Militare di Savoia. Ricevette il grado di colonnello nel 1883. Nel 1891 venne promosso Maggior Generale e finalmente nel 1896 Tenente Generale di Artiglieria.

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Venne eletto deputato del regno d’Italia in varie Legislazioni. Sottosegretario alla guerra nel secondo e terzo ministero di Rudinì e nel quinto venne nominato ministro dei Lavori pubblici. Nel 1900, fece parte del Comitato Generale per l’erezione del monumento ossario da costruire nella nostra città. Morì a Napoli il 26 ottobre 1904.

LA CASCINA DELLA VALLE

La linea di difesa dinanzi S. Maria, organizzata dai garibaldini comandati da Milbitz, era così formata: Sulla sinistra di Porta Capua, procedendo verso la strada ferrata, si trovavano i battaglioni di Laugé e Sprovieri. A cavallo della ferrovia era stata piazzata una batteria di due pezzi; dopo i Quattordici Ponti era disposto il reggimento Malenchini e alla fine della linea verso S. Tammaro il battaglione Fardella, con una batteria. A Porta Capua, o Arco di Capua, era posizionata la batteria di altri due cannoni comandata da Stefano Turr. Nota: Le batterie sui carri della ferrovia e agli Archi Antichi erano dirette da alcuni artiglieri piemontesi, giunti all’insaputa di Cavour, i quali con la loro collaborazione contribuirono ad arginare l’avanzata dei soldati borbonici. Nella Cascina Della Valle si erano attestati gli uomini della compagnia De Flotte. Nell’Anfiteatro si posizionarono i circa ottocento Siciliani comandati da La Masa, per la maggior parte ragazzi, molti dei quali non avevano più di 15 o 16 anni. Al loro fianco combatterono anche 240 Calabresi, quelli che, agli ordini del maggiore Francesco Buscami, avevano respinto la cavalleria borbonica attaccandola alla baionetta, nello scontro del 15 settembre. Dopo l’Anfiteatro, verso S. Angelo, vi erano: il battaglione di Pace, i reggimenti di Corrao e di La Porta. Nei pressi del nuovo Cimitero una parte delle truppe della Brigata Assanti con due battaglioni bersaglieri. La Cascina Della Valle, in cui, preparandosi alla battaglia, si insediarono i

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volontari francesi, sorgeva isolata in mezzo ai campi, poco più avanti agli Archi, spostata sulla destra, all’incirca a un centinaio di metri da essi e quasi alla stessa distanza dalla via Appia e a non più di trecento dalle rovine dell’Anfiteatro. Era di proprietà, come i terreni su cui sorgeva, di Girolamo Della Valle, già sindaco di S. Maria dal 1846 al 1848, nominato nuovamente a tale carica dopo il 1860, eletto deputato nel 1863. Il suo palazzo in città fu sede del quartier generale delle forze garibaldine ed in essa abitò per circa tre mesi il generale Milbitz. I volontari francesi della compagnia De Flotte occuparono la suddetta cascina qualche giorno prima dell’inizio della battaglia e si avvidero che era circondata da numerose mete (cumuli) di paglia. Senza perdersi d’animo, trasportarono tutta la paglia lontana dall’abitazione e la bruciarono, evitando, così, che i soldati regi potessero usarla contro di loro, appiccando il fuoco per costringerli ad uscire abbandonando, così, la loro postazione. Subito dopo praticarono nei muri del fabbricato delle feritoie; intorno alla cascina scavarono dei fossati larghi una diecina di piedi, e con la terra estratta costruirono un terrapieno a protezione del loro avamposto. Poi si barricarono nel casolare, sbarrando gli accessi con tutti i mobili che trovarono in esso. La Compagnia era stata formata da Paul De Flotte. Di lui scrive G.C.Abba nelle sue Notarelle di uno dei Mille a pag. 201:” Quello con una grande barba, un po’ curvo, vestito di nero, era De Flotte. ….Egli, rappresentante del popolo quando il colpo di Stato si gettò sopra Parigi, stette fino all’ultimo della resistenza, poi esulò. Credo che fosse ufficiale di marina. Qui non è che un uomo di buona volontà che rispose alla chiamata d’Italia come i Polacchi, gli Ungheresi, tutti i generosi d’altre patrie, che ci hanno portato le loro spade gloriose”. . Cadde presso Solano, “nella sua camicia rossa di colonnello garibaldino”, quando il primo distaccamento della divisione Cosenz sbarcato in Calabria, attaccato dai borbonici dovette marciare fra le montagne per congiungersi alle forze di Garibaldi. “Dormirà La Flotte nella poetica terra di Calabria, che tanto ora è sua più che nostra: lo nomineremo noi, tutta la guerra, perché dicono che da lui sarà chiamata la compagnia di quei dugencinquanta francesi, venuti a portarci il fiore del loro coraggio”.(G.C.Abba – op.cit. pag 213). E Garibaldi fece onore alla memoria del Caduto e così nacque la

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Compagnia De Flotte. Nella battaglia del I Ottobre, la Compagnia era comandata dal capitano Paugham, già aiutante di De Flotte. Era composta da una cinquantina di soldati che lottarono fin dalle prime ore, energicamente e con coraggio, contro ben cinque assalti dei regi; e difese la comunicazione tra il centro e l’ala destra del Mibiltz sulla via di Sant’Angelo. Il primo assalto, sul far del mattino, fu tentato da un reggimento di Granatieri della Guardia Reale che marciò minaccioso verso il fronte garibaldino. I volontari francesi, senza indugio, si posizionarono nella cascina, dietro le feritoie, sopra i tetti ed aspettarono l’ordine di aprire il fuoco. Il comandante Paugham osservando l’avanzata dei regi, con tutta calma disse loro di farli avvicinare il più possibile. Giunti, i Borbonici, a circa trenta passi di distanza, furono oggetto di una nutrita salva di fucileria che li colpì e li costrinse ad indietreggiare. Nello stesso momento, tuonarono anche i cannoni della batteria posizionata all’Arco di Capua. Dopo la battaglia, il generale Turr rivolse ai volontari d’oltre Alpi questo elogio: ”Messieurs, vous avez rendu un grand service à l’Italie. Vous n’étiez que 50, je vous croyais 500”. Bisogna però aggiungere ciò che alcune fonti riferiscono: i francesi erano solo 30 e il resto era composto da inglesi, ungheresi, piemontesi e italiani provenienti da ogni parte del Paese. I giornalisti che scrissero in quei giorni, arrivarono a contare un numero di volontari francesi compreso tra i 50 e i 92. La cascina Della Valle venne raffigurata in un quadro di Eugenio Buyer, olio su tela dipinto nel 1879. Il titolo del quadro è il seguente: “Difesa della Cascina Della Valle a Porta Capua da parte della Compagnia De Flotte”. Eppure il quadro non richiama alla mente la scena di un combattimento. In esso, all’ombra della Cascina, sono raffigurati, oltre ai garibaldini festanti intorno ad un comandante a cavallo, anche donne e bambini che lieti corrono verso il personaggio ritto in sella.

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Sembra una festa e l’immagine rappresenta non già la difesa della cascina, ma il momento di allegria e di esultanza a cui partecipano sia i garibaldini che il popolo, per la fine della battaglia e la conquistata vittoria. Il quadro fu donato dall’autore al generale Turr, e da questi nel 1906 alla Città di S. Maria. Con delibera consiliare dell’11 giugno 1906, al generale Stefano Turr fu concessa la cittadinanza onoraria. ( dal catalogo del Museo del Risorgimento – Città di S. Maria Capua Vetere – pag.48)

CONCLUSIONE

È vero, purtroppo, che la venuta dei Piemontesi e la conseguente annessione del conquistato Regno Borbonico, ha costituito una disgrazia per gli abitanti dell’Italia Meridionale. Ma, di tanto non bisogna dar colpa a Garibaldi e ai garibaldini, che anch’essi ebbero a subire torti. Garibaldi venne incitato dagli stessi Siciliani a conquistare il Meridione. La parte più attiva l’ebbero due esponenti siciliani: Rosolino Pilo che accorse a sostenere le bande armate e a tener desta l’agitazione nell’isola e morì in combattimento per queste sue idee, e Francesco Crispi, che ingigantì, con le parole, la modesta rivolta in atto nelle terre siciliane. Il Piemonte sulle prime si accontentò di osservare da lontano. Intervenne a cose quasi concluse. Il re sabaudo “ordinò al generale di attendere il suo arrivo, quindi di rimettergli i pieni poteri” Dopo l’incontro del 26 ottobre a Taverna Catena fra il re Vittorio Emanuele II ed il Generale, l’esercito garibaldino venne escluso dai combattimenti e messo in coda; e quando venne sciolto, pochi giorni dopo, moltissimi dei suoi soldati non furono accolti nell’esercito piemontese. Giuseppe Garibaldi, repubblicano, amico di Mazzini, donò un Regno conquistato con le armi e col sangue di uomini che avevano poco o niente da spartire con il Piemonte e con il suo Re, che, a cose fatte, negò, a molti di loro, ogni riconoscimento. Gli errori e gli orrori si ebbero dopo la partenza di Garibaldi per Caprera. All’alba del 9 novembre, sette giorni dopo la resa di Capua, Garibaldi s’imbarcò sul Washington e si ritirò nella sua isola, “avendo con sé pochi sacchetti di caffé e zucchero, un sacco di legumi, un sacco di sementi, una

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cassa di maccheroni, una balla di merluzzo secco, e poche centinaia di lire, risparmiate, senza ch’ei lo sapesse, dal suo segretario Basso”. (G. Sacerdoti op.cit.- pag.802). Questo fu il premio per l’avvenuta conquista di un Regno. “Il giornale ufficiale del nuovo governo di Napoli, fingendo di ignorare la partenza del Liberatore, la comunicava solamente tre giorni appresso!” (G. Sacerdoti - op. cit.- nota pag.803) Avrebbe potuto rifiutare, il Generale, di consegnare il Regno di Napoli al Re piemontese; ma ne sarebbe sorta una nuova guerra civile di gran lunga più feroce di quella appena conclusa. Non erano questi gli ideali di Garibaldi, e di tutti coloro, anche stranieri, che combatterono al suo fianco. I Mille (di cui quasi la metà apparteneva a ceti medio-alti, 250 avvocati, 100 medici, 20 farmacisti, 50 ingegneri, ecc) andarono alla guerra con in testa l’ideale di una nuova Patria, di una unità nazionale che doveva garantire a tutti una vita migliore, la libertà dall’oppressione delle potenze straniere e una giustizia “giusta”. I meridionali e in particolare i siciliani, oltre agli ideali, combatterono per avere, quale ricompensa promessa, un fazzoletto di terra con cui poter vivere senza l’oppressione del padrone e del massaro. Per questo grande sogno soffrirono, lottarono e morirono, eroi silenziosi i cui nomi per lo più sono sconosciuti. Purtroppo, tutti restarono delusi. Per il nostro Sud, tutte le speranze, accarezzate per lungo tempo, andarono perdute con l’avvento dei Piemontesi. Cavour si era appropriato del programma repubblicano di Mazzini in nome e per conto della Monarchia Sabauda, la quale aveva ampliato il proprio regno, non annettendo nuove regioni, bensì conquistando una ricca colonia da sfruttare. Il comandante in capo, gen. Enrico Cialdini, convinto razzista antimeridionale, ebbe a dire: “Questa è Africa, altro che Italia! I beduini, a riscontro di questi cafoni, sono latte e miele”. Il Regno sabaudo aveva una legislazione e un sistema di amministrazione pubblica fra i più arretrati fra quelli in vigore negli altri Stati italiani. Quando le rivolte contadine divennero generali, la borghesia liberale del Nord ed i proprietari terrieri del Sud furono concordi nel perseguire una politica che salvaguardasse la continuità dell’ordine sociale ed in particolare proteggesse la proprietà agraria. Pertanto nessuna concessione venne fatta ai ceti piccolo - borghesi, al

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proletariato urbano, alle masse contadine. Tutti costoro, da sempre privi dei diritti politici, non ebbero nessun rappresentante nel Parlamento Italiano, la cui base sociale era rappresentata dai ceti proprietari che avevano tutto l’interesse di salvaguardare gli interessi economici della borghesia e dell’aristocrazia terriera, che dava al lavoratore appena l’indispensabile per poter sopravvivere, e non sempre. A questo si aggiunga che il Piemonte, sistematicamente, spogliò l’ex Regno Borbonico di tutte le sue industrie smantellandole dalle nostre regioni, e ricostruendole al Nord, lasciando così senza lavoro ed impoverendo le nostre maestranze. Quindi, soldati senza esercito, contadini senza terra ed operai senza fabbrica, per poter avere una speranza di vita e di futuro migliore, prima combatterono per rimettere sul trono Francesco II, e furono chiamati “briganti”; poi, coloro che sopravvissero dovettero emigrare. In una lettera che scrisse alla Sig.ra Adelaide Cairoli, nel 1868, Garibaldi così si esprime:“Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Sono convinto di non aver fatto male, nonostante ciò non rifarei oggi la via dell’Italia meridionale,… avendo cagionato solo squallore e suscitato odio”. Pur tuttavia, l’albero della Unità Nazionale era stato piantato. Per la prima volta dopo la fine dell’Impero romano, l’Italia, fino ad allora preda inerme per ogni potenza straniera che mirasse al controllo del Mediterraneo, era diventata una, assumendo lo status di Nazione, di Stato sovrano, anche se seguirono, purtroppo, gli orrori e gli errori fatti da chi comandò nei primi tempi dell’Unità e anche da chi comandò dopo. Questa Unità, agli italiani uniti del Sud, più che a tutti gli altri, costò molto, anche per le altre guerre che si ebbero subito dopo per completare l’Unità, e costa ancora tanto. NOTA: Gli italiani dopo l’Unità hanno combattuto: la III guerra d’ Indipendenza nel 1866; la presa di Roma 1870; tre guerre coloniali in Eritrea, Libia ed Etiopia; I e II guerra mondiale. I meridionali pagarono a caro prezzo l'Unità d'Italia: pagarono con il sangue e con l'oro. Ad essi, però, resta l’orgoglio di aver contribuito a formare una Nazione, un solo Popolo che, nel bene e nel male, comunque,

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tende a migliorare la vita sua e dei propri figli, fra i tentennamenti e gli imbrogli concepiti da chi credeva allora e crede anche oggi di essere il più furbo fra tutti: e di furbi ce ne sono a tutti i livelli sociali. Non incolpiamo, dunque, Garibaldi, ma la politica, la sporca politica, o meglio, la politica sporca, di allora come di oggi, e allora come oggi si continua a combattere in nome degli ideali di libertà di pensiero e di azione, di uguaglianza sociale che, pur esistendo sulla carta, in pratica, spesso vengono negati. E si combatterà ancora per ottenere una società più giusta, più tranquilla, più serena, per una nuova età dell’oro: si spera non più con le armi ma con le idee. Se sono buone, tempo ci vorrà, ma esse non subiranno sconfitte.

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NOTE BIBLIOGRAFICHE

(1) (S_Casiello A.M. Di Stefano – S.Maria C.V. pag. 109) (2) (F.Granata – Storia Sacra della Chiesa di Capua libro III cap.I Pag.52). (3) (Don S. Iodice – Chiesa degli Angeli Custodi) (4)(F.Granata op. cit.) (4.1) (F. Palmieri – S. Maria C.V. vecchie immagini- pag. 89) (5) (S. Iodice op.cit.) (6) (dal R.D. del 18 febbraio 1866) (7) (A.S.C.S.M. Deliberazione 1874-1877) (8) (A. Perconte op.cit. pag. 87) (9) (Pier Luigi Chiapparelli – Il San Carlo e i Teatri della Campania) (10) (F. Palmieri – Ricordi di S. Maria C.V.- pag. 108) (11)(A. di Benedetto – Il teatro Garibaldi pag. 28). (12)(A.Perconte Licatese – S.Maria Capua Vetere pag.87) (12.1) (F. Granata – Storia della Chiesa metropolitana di Capua – pag.56) (13)( Jesse White Mario – Garibaldi e i suoi tempi – pag. 294). (14)(Gustavo Sacerdote – La vita di Giuseppe Garibaldi – pag. 789) (15)(Gustavo Reisoli – Garibaldi condottiero – pag. ) (16) ( F. Palmieri – S.Maria C.V. – Note estemporanee pag. 45). (16.1)(da S. Maria C. V. – Ai Caduti nel 1° ottobre 1860 pag.10). (17) (A.Perconte Licatese – S. Maria C.V. – scheda n. 25 - pag..140) (18) (A. Perconte – op. cit. pag.79) (19) (G. Bandi - I Mille – pag. 338) (20) (S.Maria C.V. Ai Caduti nel 1° Ottobre 1860 pag.10) (20.A) (G. Sacerdote – La vita di Garibaldi – pag. 679) (20.B) (G. Sacerdoti – op. cit. pag. 683) (20.1) (Romano Bracalini – Non rivedrò più Calatafimi – pag. 119). (21) ( dal catalogo del Museo del Risorgimento) (22) ( G. Bandi - I Mille - pag. 335) (22.1) ( A.Fratta – Garibaldi – pag. 307) (22.2) ( G.Bandi – op. cit – pag. 337) (23)(Romano Bracalini – Non rivedrò più Calatafimi- pag. 142) (23 a) (Bandi - I Mille – pag. 339) (23.1) (Indro Montanelli e Marco Nozza- Garibaldi pag. 356 e pag.419)

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VIA ROBERTO D’ ANGIO’

IL NOME: oggi, via Roberto d’Angiò, dedicata al saggio Re di Napoli. In precedenza, dal 1871 al 1890 circa, via Volturno. Prima del 1871, strada di S. Francesco: dedicata a S. Francesco di Paola. Palazzi notevoli: Il palazzo del Duca di Presenzano: Raimondo del Balzo – La Torre di S. Erasmo – Palazzo Teti La strada ripropone un antico asse viario, un cardo, orientato da nord a sud. Nel 1955, nei pressi dell’incrocio con via Torre, furono rinvenuti alcuni reperti relativi all’antica strada e cioè: un tratto di pavimentazione stradale costituita da blocchi di pietra (detti basoli), tracce di una gradinata di pietra calcarea ed un fusto di colonna marmorea.. Un altro tratto della stessa via si rinvenne all’angolo di via P. Morelli. Nel tratto compreso fra queste due strade si rinvenne, verso il 1990, un blocco di calcare che era la parte inferiore dello stipite sinistro del portale di un edificio pubblico risalente al II sec. d.C. che si apriva sull’antico cardo. Al livello del piano stradale primitivo furono trovate anche alcuni basoli pertinenti al rivestimento della strada Infine, parte dello stesso cardo potrebbe essere il tratto ritrovato in piazza Della Valle. Dopo aver attraversato, da sud a nord, l’intera città sul suo lato occidentale, il cardo, sembra, giungesse o forse affiancasse uno dei fori dell’antica Capua, il Foro dei Nobili, ubicato a poca distanza o forse proprio davanti al Campidoglio. Nei pressi dello stesso foro erano situate anche altre grandiose costruzioni, quali il Criptoportico ed il Teatro. Lasciata la piazza e attraversata la porta Tifatina (o Volturnenins), la strada, divenuta consolare, prendeva il nome di Via Dianae e proseguiva verso il tempio di Diana sul monte Tifata, ed arrivava fino al fiume Volturno. La Via Dianae non è l‘attuale via Galatina. Le ricerche archeologiche effettuate, indicano che la strada antica si discostava una decina di metri dalla strada attuale, passava, poi, accanto alla chiesa della Madonna delle Grazie, giungeva nei pressi del Cimitero e

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proseguendo per la Cupa degli Spiriti toccava le pendici del Monte Tifata. Una iscrizione ritrovata, sembra, nei pressi del Teatro o dell’Anfiteatro, ci informa che il duunviro Gaius Lartius Gabinius Fortuitus, fece pavimentare la via Diana dalla “porta volturn(ensis) ad vicum” a sue spese.(1) Il marmo su cui era incisa ”perché di smisurata grossezza, fu lasciato sotterra nello stesso luogo” (G. Rucca – Capua Antica – pag.128) Attualmente, la via inizia dal trivio formato con l’attuale via Gramsci e con piazza Girolamo della Valle. Poco dopo, sulla destra, incrocia via Vetraia, e, a circa metà della strada, il vicolo Conforti, che forse rappresenta le ultime vestigia di una antica via. Quasi di fronte ad esso, sulla sinistra incrocia via Pietro Morelli e proseguendo, sulla destra, via Martucci (ex via Torre) ed infine giunge in p.za S. Francesco d’Assisi. IL CAMPIDOGLIO E’ stato tramandato che nell’antica Capua, nel luogo della Torre di S. Erasmo, era ubicato il Campidoglio, dedicato alla triade capitolina: Giove, Giunone e Minerva. Il Campidoglio, come si sa, è uno dei sette colli di Roma sul quale venne innalzato, per la prima volta, un tempio dedicato a Giove, iniziato da Tarquinio Prisco, completato da Tarquinio il Superbo ed inaugurato nel 509 a.C. Secoli dopo, anche numerose città dell’Impero Romano, ebbero il loro “Capitolium”. Il diritto di avere siffatti “ Capitolia” sembra fosse riservato, almeno in origine, alle “coloniae ” romane.(1.1) Infatti, tutti i “Capitolia“ sono di formazione romana…Al più antico tempio tripartito, rinvenuto a Segni, segue un gruppo di “Capitolia” del II sec. a.C., edificati in città che furono tutte di costituzione coloniale; anche i templi della prima età imperiale furono costruiti soprattutto nelle colonie.(2) Se ciò vale anche per Capua, si può dire che il Campidoglio capuano, verosimilmente, è sorto poco dopo la deduzione della colonia voluta da Giulio Cesare nel 59 a.C. (la terza, le precedenti ebbero vita effimera). Dedotta la colonia, l’anno successivo, il 58

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a.C., alla città vennero restituiti, dopo 152 anni, i diritti e la cittadinanza che aveva perduto per aver dato aiuto ad Annibale. Successivamente con Augusto, dopo la battaglia di Azio (31 a.C.), la città assunse il titolo di Colonia Julia Augusta Felix Capua. L’età di Augusto fu l’età dell’oro celebrata dalla poesia e dall’arte; l’età di un periodo di pace e di prosperità. La Pax Romana durò circa 200 anni dal 27 a.C. al 178 d.C. dall’imperatore Augusto alla morte di Marco Aurelio. In questo periodo l’economia rifiorì in tutte le province dell’Impero. L’italico ingegno ebbe nuova vitalità nell’edilizia pubblica e privata: e, non solo a Roma, ma in tutto l’Impero, fu un prosperare di templi, di altari, di domus. E forse, proprio in questo periodo venne costruito o, più realisticamente, venne restaurato o ingrandito il tempio sul Campidoglio dell’antica Capua, dedicato, qualche anno dopo, da Tiberio, successore di Augusto,. Che a Capua ci fosse il Campidoglio, tempio dedicato al culto di Giove, la più importante fra le divinità del pantheon romano, si ricava dalle fonti letterarie. - Silio Italico, (poeta romano nato il 25 d.C.): “Il Campidoglio mostra i fertili campi Stellati ed indica le pianure e le rigogliose messi”. ( Silio I., XI 265) Dicendo: mostra i Campi Stellati ed indica le pianure, il poeta fa intendere a chi legge, che il Capitolium si trova in alto: e quale miglior punto di osservazione del monte Tifata: ai suoi piedi l’intera pianura fino al mare. - Tacito (55-120 d.C.): “Cesare (cioè Tiberio nel 26 d.C.) si decise, finalmente, a recarsi in Campania, col pretesto di dedicare presso Capua un tempio a Giove ed un altro presso Nola ad Augusto” .(Tac. Annali IV 57) - Svetonio Tranquillo (nato forse nel 69 d.C.): Tiberio, “percorsa la Campania e dedicati a Capua il Campidoglio e a Nola il tempio di Augusto, questo aveva indicato come motivo del viaggio, si recò a Capri”.(Svet. La vita dei Cesari, Tiberio 40) Svetonio, inoltre, ci informa del fatto che, quattordici anni dopo essere stato dedicato da Tiberio “ Il Campidoglio di Capua venne colpito da un fulmine il giorno delle idi di marzo cioè il 15 marzo del 40 d.C. Nello stesso giorno, 83 anni prima, era stato ucciso Cesare.(Svet., Caligola, LVCII,2).

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- La tavola Peutingeriana: pone il tempio di Giove Tifatino sul Tifata a sud est del tempio di Diana. Anche studiosi ed eruditi a noi più vicini hanno tramandato l’esistenza del Campidoglio e del tempio di Giove, ma con notizie a volte discordanti fra loro. Infatti: - Pratili colloca il tempio di Giove Tifatino nel paesino di Piedimonte sopra Caserta - Michele Monaco dice che ivi sorgeva il foro - Ottavio Rinaldi indica il carcere - Cammillo Pellegrino egregio studioso capuano di cose antiche , autore dell’”Apparato delle Antichità di Capua, cita “…l’Itinerario del Peutingero, in cui vedesi descritto il nome & il tempio di Giove Tifatino sopra l’Oriental punta dello stesso monte Tifata.”. - J. Beloch pone il tempio di Juppiter Tifatinus a sud-est del tempio di Diana “forse sulla costa delle Monache sopra S.Prisco”, e annota pure “La vicina località di Casanova nei documenti medievali è chiamata “Casa Iovis ”. Poi aggiunge: È difficile immaginarsi un Capitolium nella pianura.”. (3) Ma, ugualmente, risulta difficile pensare che ogni qual volta un fedele voleva rivolgere la sua preghiera a Giove, se ne andasse nel tempio sulle falde del Tifata, distante 10 km e più dalla città. Allora, è lecito supporre, che un tempio dedicato a Giove, fosse stato innalzato anche nella città. Comunque sia, il Capitolium nella città di Capua c’era. Non vi sono notizie certe sulla struttura architettonica del tempio. Piace immaginarlo accessibile per una ampia e alta scalinata, imponente nella struttura, edificato su un alto podio a sua volta poggiante su un rialzo di alcuni metri, appositamente realizzato, e quindi dominante l’intera città, la quale si presentava, come diceva Cicerone, “planissimo in loco esplicata” – “ con le case distese riposatamente nel piano” (4) E considerando il piano di calpestio della domus di via Pezzella, sottoposta alla strada attuale, ed il piano di calpestio del Museo dell’ Antica Capua, facilmente si nota il dislivello esistente fra le abitazioni della città ed il tempio di Giove.

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Al tempo stesso, è stato dimostrato che esisteva anche un santuario, dedicato a Giove Tifatino, sulle falde orientali del monte Tifata in contrapposizione al tempio di Diana Tifatina innalzato ad occidente. Il suo ritrovamento avvenne nel 1997, grazie all’occasionale rinvenimento di tre lamine plumbee, con dediche votive a Giove Tifatino, che vennero consegnate alla Sopraintendenza di Napoli e Caserta, (4.1) ed al lavoro della squadra guidata dalla dott. Valeria Sampaolo della Sopraintendenza Archeologica di Caserta, nel punto indicato da J. Beloch come Castello diruto, sul monte Tifata a quota 526. La costruzione di questo edificio si fa risalire al III o II sec. a. C. Forse il tempio esisteva già quando Annibale sostò a Capua nel 211 a.C. Il culto degli antichi dei, e quindi anche quello di Giove Capitolino resistette all’incirca fino al IV sec. d.C. Successivamente, nel 410 d. C, il tempio ebbe a soffrire ingiurie dai Visigoti di Alarico, e in misura maggiore, nel 455 dai Vandali di Genserico i quali rasero al suolo le mura della città, “la saccheggiarono e la distrussero, abbattendo quasi tutti gli edifici pubblici e privati.”(5) Inoltre, la nuova religione cristiana era stata accettata ormai da più di cento anni. Nel 315 Costantino il Grande vi aveva fatto costruire una basilica dedicata ai Santi Apostoli Pietro e Paolo. Nel 432, S. Simmaco aveva edificato un nuovo tempio dedicato alla Vergine Maria: la chiesa di S. Maria Maggiore.

LA TORRE DI S. ERASMO

Il tempio capitolino, ormai distrutto, venne abbandonato, spogliato delle sue cose più belle, che a poco a poco vennero utilizzate in altre costruzioni, e così oggi “di esso sopravvive gran parte dell’elevato a tre celle, costruito su di un alto podio, con paramento in opus testaceum (mattoni e tegole)”. (6)

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Nel luogo ove sorgeva il tempio “ furono trovati magnifici marmi, ed intorno si vedevano grosse colonne infrante, fregi, capitelli e basamenti rotti ed altre reliquie magnifiche”. Verso l’anno 866, l’abate Giosuè e i monaci di S.Vincenzo al Volturno chiesero ed ottennero da Ludovico Imperatore, ”le colonne ed i marmi sopravvanzati alla distruzione dell’ 841. Quei bravi monaci vollero profittare della confisca per ottenere dall’ Imperatore le 50 colonne, che realmente ottennero. Che poi dal tempio di Giove, dal Campidoglio, fossero state tolte le cinquanta colonne, lo attesta il celebre Arcivescovo, Cesare Costa; il quale ne lasciò notizia nello schizzo, dipinto sul muro dell’episcopio di Capua, insieme alla topografia della <vecchia città>, nell’anno 1595. Ciò assicura lo stesso Pellegrino, che, poi, fece incidere su una lastra di rame da un cesellatore tedesco la carta di Cesare Costa”. (6.1) Oltre ai marmi scavati da Monsignor Costa, nel 1603, il Cardinale Bellarmino Arcivescovo di Capua, ne rinvenne altri, coi quali adornò le due cappelle di S.Agata e di S. Francesco, nell’Arcivescovado. Quivi, nel Campidoglio, come riferisce il Vecchioni, “si trovò la statua della Dea Minerva in stato di perfetta conservazione, la quale fu donata ai signori Vitelleschi e mandata in Roma, e fu rinvenuta l’altra statua mancante del capo e del braccio, che dall’abito di cacciatrice, col dardo in mano e la cerva ai piedi, fu riconosciuta per Diana cacciatrice. Essa fu venduta in Napoli, per il Museo di Adriano Guglielmo Spadafora”,

NOTA: Adriano Guglielmo Spadafora o Spatafora (1496 – 1586) era un celebre antiquario* che viveva a Napoli nei pressi della chiesa di S. Giovanni Maggiore. Nel 1536, era stato nominato sovrintendente degli Archivi Reali di Napoli. Uomo di vasta cultura, zio materno di Giovan Battista (della) Porta, profondo conoscitore e amante delle antichità, allestì nella sua casa un ricca collezione di reperti, statue e ogni altra cosa che sapeva d’antico, acquistati dappertutto. “…la casa di Adriano Spatafora, ch’esso chiamò Pusillam domum, ma grande e bella per le cose eminenti che vi erano…. Questo gentil homo vecchio di novant’anni e vecchio senza infermità di vecchiaia…”. (Giulio Cesare Capaccio - Il Forastero – pag. 855). * A quell’epoca Antiquario significava: Colui che attende alla conoscenza delle cose antiche Già prima di Spatafora, vi erano stati altri collezionisti che facevano di tutto pur di posseder antichità. Presso la casa di Diomede Carafa vi era :”..la testa di Annibale ritrovata in Capoa fra bellissimi ornamenti di marmo nel podere di un prete da chi (= dal quale) fu venduta al Cardinal Pietro Aldobrandini”. (G.C.Capaccio – op.cit. pag.854)

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Ma “quanto di bello avea in statue e medaglie Adriano Spatafora nostro antiquario, tutto ciò che raccolse, s’inghiottì il mare in una nave che (il vicerè spagnolo) ** mandò a Spagna per abbellire la sua casa”. (G.C.Capaccio op. cit. pag. 476). **Il vicerè spagnolo è Pedro Afan de Ribera. Prima della sua morte, avvenuta a Napoli il 2 aprile 1571, spedì molte antichità per abbellire “la casa de Pilatos” a Siviglia. Questa dimora spagnola è il più sontuoso palazzo della città costruito agli inizi del XVI sec. di proprietà di Don Fasdrique Enrique de Ribera, zio del vicerè, morto senza eredi diretti. Suo nipote Pedro Afan de Ribera, nel tempo trascorso a Napoli come vicerè (dal 12 giugno 1559 - al 2 aprile 1571), si prodigò per riempire il palazzo di Siviglia e i suoi giardini di statue e antichità provenienti dalle località più celebri come Baia, Cuma, Pozzuoli, Capua, Pompei, ecc, con l’aiuto di Adriano Spadafora. Alcune di queste opere giacciono in fondo al mare, per via di un naufragio avvenuto nel 1567 . Il nipote di Adriano Spatafora, Gian Vincenzo (della) Porta (1532?- 1603?), personaggio importante conosciuto non solo a Napoli, (ricoprì la carica reale di scrivano di mandamento), seguì l’esempio dello zio nel collezionare libri, statue ed anticaglie varie. Probabilmente ciò che restò delle raccolte, alla morte di Adriano Spatafora, fu acquisito dal nipote. Anche il Granata riporta: “..…ognun vede che gran pezzi di antichità si conservano, volte mirabili, archi, e diverse antichissime strutture di una straordinaria gagliardia …” (8). Sull’alto podio dell’antico tempio, presumibilmente nei primi anni della loro venuta, intorno al 600 d.C., si stanziarono i longobardi e vi adattarono una fortezza, o forse solo una torre di guardia, che attese per molto tempo, al suo compito difensivo. Ma perché si chiama Torre di S. Erasmo? S. Erasmo, “secondo la leggenda, fu vescovo di Siria alla fine del 3° sec., torturato durante la persecuzione di Diocleziano, fu miracolosamente trasportato presso Formia, dove sarebbe morto nel 303 per le ferite ricevute. Dunque S.Erasmo è il Santo di Formia. Il suo culto, diffuso anche fuori d’Italia, forse risale al sec. IX.. E’ il Protettore dei marinai”. (9)

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Si può ritenere che, alla venuta dei longobardi, fra i ruderi del tempio o già esistesse una cappella, dedicata al Santo ed il luogo prese il Suo nome: Torre di S. Erasmo. Nicola Teti nella sua opera ci tramanda: “…sulle rovine di questo tempio fu innalzato il sacello di S. Erasmo, uno dei più rinomati Vescovi della Capua antica. In questo punto fu elevata la Torre che dal nome del santo vescovo fu detta di S. Erasmo”. (9.1)

Vi è una ipotesi che spiega perché il sacello o tempietto o cappella, fosse dedicata a S. Erasmo, protettore dei marinai. Presso l’anfiteatro capuano era in uso il velario, una grande copertura mobile formata da vari teli, che difendeva gli spettatori dai cocenti raggi del sole. Questo velario veniva manovrato, come vere e proprie vele, dai marinai di stanza presso la loro scuola nei pressi di Miseno (oggi Miliscola = militum schola). Verosimilmente, furono i marinai di fede cristiana a costruire un tempietto o una edicola dedicandola al Santo loro protettore. Durante le lotte intestine dei Longobardi capuani e beneventani per la successione nel Ducato, nell’ 841, assoldati da Radelchi I di Benevento, i Saraceni, agli ordini di Halfun, loro capo di origine berbera, che divenne, poi, emiro di Bari, saccheggiarono e distrussero completamente Capua. La popolazione che riuscì a sopravvive alla loro furia, fuggì, rifugiandosi sul colle Palombara al di là del fiume Volturno, (dove pochi anni prima il conte Landolfo I aveva costruito un castello fortificato a cui venne dato il nome di Sicopoli in onore di Sicone, principe dell’intera Longobardia Minor). Pochi fecero ritorno nella ormai non più esistente città, così distrutta che si preferì costruirne una nuova e in un luogo più sicuro, su di un’ ansa del Volturno dove aveva avuto sede il porto fluviale di Casilinum. Nasceva così la nuova Capua. La Capua Vetere, ridotta a poche casupole sparse fra ruderi, si divise in tre singoli casali: Berolais, S.Maria Maggiore, S.Pietro in Corpo, dipendenti dalla nuova città e abitati per lo più da contadini e bifolchi, che non smisero mai di coltivare la loro unica ricchezza: i fertili appezzamenti di terreno ubicati nei dintorni delle proprie abitazioni.

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A poco a poco le poche casupole di Berolais lasciarono il posto ad un insediamento più grande che, sviluppandosi nei pressi della Torre, prese anch’esso il nome di S. Erasmo. Erchemperto, monaco benedettino cassinese, nativo di Teano, nella sua Historia Longobardorum Beneventarum.( cap. 60 ) nomina la Torre (chiamandola Santo Eremitaggio), narrando l’assedio e l’espugnazione a cui fu sottoposta da Atanasio II (vescovo e duca di Napoli) quando, nel 886, cercò invano d’impadronirsi di Capua. Poco dopo l’anno Mille arrivarono nelle nostre contrade i Normanni, e quando divenuti principi di Capua, nel 1052, si insediarono stabilmente, occuparono la struttura longobarda della Torre, modificandola secondo il loro costume. I Normanni avevano un particolare modo di costruire le strutture difensive: infatti su un rialzo artificiale veniva impiantata una torre di guardia, di solito a pianta quadrata, circondata da una palizzata circolare, talvolta con un camminamento di ronda posizionato presso la massima altezza. La torre, che ospitava i soldati della guardia e veniva utilizzata come estremo rifugio in caso di attacco, era collegata ad un piccolo insediamento fortificato, non sopraelevato, anch’esso protetto da un fossato. (10) Successivamente, la fortezza, nuovamente modificata, divenne residenza reale sotto gli Svevi, e come tale, ne usufruirono anche gli Angioini, e gli Aragonesi. Purtroppo, anche in questo caso, non abbiamo alcun elemento, che possa darci un’idea del suo aspetto, malgrado le varie citazione nei documenti. Solo una illustrazione dell’abate G.B. Pacichelli, nei primissimi anni del 1700 (11)) mostra la costruzione angioina alterata dall’intervento di epoca aragonese. (12) Si nota infatti, una torre quadrata merlata, senza base scarpata, con affiancata una difesa bassa composta da torri cilindriche e cortine merlate, tutte con base scarpata. In nessun caso dei due edifici possiamo identificare la residenza angioina; il primo costituiva, probabilmente la preesistenza normanna, e nell’altro riconosciamo l’architettura difensiva tipica del Quattrocento, (13) cioè opere di rinforzo effettuate durante il periodo aragonese.

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La corte, cioè lo spazio di cui usufruiva il regio palazzo, era delimitato, per grosse linee, dalle vie che chiamate con i nomi attuali sono: via Roberto d’Angiò, p.za S. Francesco, c.so A. Moro, via Anfiteatro, p.za S. Erasmo, via P. Morelli. In questo spazio vi erano freschi giardini e orti coltivati ad uso della corte reale e di tutti coloro che gravitavano intorno ad essa. Quando, dopo la disfatta di Manfredi a Benevento nel 1266, gli Angioini ottennero il regno di Napoli, il re Carlo I D’Angiò istituì un archivio per conservare le notizie di tutto ciò che avveniva nel reame. La Torre servì come edificio adatto a conservare i documenti.. In esso furono custoditi i registri della cancelleria che costituirono così l’Archivio Storico Angioino Il primo registro, conserva gli atti datati dal dicembre 1268, cioè scritti subito dopo la battaglia di Tagliacozzo, e la cattura di Corradino di Svevia. I documenti, da principio, vennero stilati in latino, ma poco dopo, oltre al latino, venne introdotta, in alcuni settori della Cancelleria Angioina, anche la lingua francese come lingua ufficiale. (14) I suddetti registri furono trasferiti da un luogo all’altro e per un certo periodo furono conservati anche presso la Torre di S. Erasmo.(15) divenuta archivio reale con diploma del 15.9.1275. Inoltre, il re Carlo “crea nella Torre la curia civile che, cinque anni dopo, con diploma del 29 aprile 1280, venne trasferita a Napoli nel Castel dell’Ovo. Ordina per tale scopo la costruzione di una casa presso la Torre”.(15.1) L’ordine venne dato al cancelliere Leonardo d’ Acacia.(15.2) Nel 1275, la custodia della Torre venne affidata prima a Raimondo di Ponzio (15.3), e nel 1278 Nicola del Poggetto fu nominato custode dell’ intero complesso. Nello stesso anno, con diploma del 4 marzo, l’edificio venne destinato a regia scuderia. (16) La famiglia reale passava buona parte dell’anno presso la Torre di S. Erasmo ed in quel luogo Carlo D’Angiò espletava le sue funzioni regali e molti furono i documenti angioini rilasciati da questa residenza reale, e da essi si ricavano interessanti notizie storiche, come per esempio:

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- 20 aprile 1278: Re Carlo II ordina al Segretario del Principato di Terra di Lavoro di fornire tutto il necessario agli ambasciatori del re di Tunisi. (17.1)

Un notevole avvenimento si ebbe sempre nel 1278, verosimilmente in uno dei mesi estivi, (non si conosce con esattezza la data di nascita del re). Fra le mura della Torre, nacque il terzogenito di Carlo II e della regina Maria d’Ungheria, Roberto, che divenne il terzo re della casa D’Angiò. Venne battezzato, l’anno seguente, nella Chiesa di S. Maria Maggiore, dal Cardinale Marino Filomarino. Re Roberto, anche da re non dimenticò mai la sua città nativa per la quale nutriva un notevole affetto ed alla quale assegnò notevoli benefici, come la fiera annuale di settembre che tanto beneficio apportò ai cittadini del casale. “Questo re soleva in tempo di state venire a deliziarsi nel casale di S.Maria di Capua nella Torre di S. Erasmo, la quale nel suo largo e chiuso territorio ha fatto rinvenir frammenti di colonne, ed altre gloriose vecchiezze. Nell’arco del portone mostra ella sollevata le imprese regali Angioine”. (18) Il 7 gennaio 1295 nella Torre, Bartolomeo di Capua, protonotaro del Regno, sottoscrive, firmandosi “Miles domini Papae”, il programma politico di Bonifacio VIII (18.1), Benedetto Caetani di Anagni, eletto Papa in Napoli il 24.12.1294. Non si sa con precisione in quali giorni il novello papa arrivò nella residenza angiona di S. Maria. Molto probabilmente, egli sostò nella Torre di S. Erasmo, proveniente da Napoli, sul finire di dicembre 1294 e fino ai primi giorni di gennaio 1295, per dirigersi poi verso Roma, dove venne solennemente consacrato ed incoronato verso la fine di gennaio. Re Roberto, durante il suo regno, concesse anche altri benefici alla sua città natale, e fra essi si ricorda: - Il diploma del 5 dicembre 1334, con cui ordina di fare riparazioni alla Torre di S. Erasmo, e di costruire un ospedale presso detta Torre, “per aiuto de’ poveri e ricettacolo degli infermi.” Per questi lavori, con documento analogo del 1335, si dispone il pagamento del compenso di 21 tarì a Luca di Viterbo.

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Poco dopo, nel 1336, fece eseguire alcune riparazioni all’ospedale e, su richiesta della moglie, la regina Sancia di Maiorca, vi fece edificare la chiesa, dedicata sempre a S. Erasmo (19)

Questa chiesetta, che aveva la cella campanaria sulla facciata, divenuta ormai fatiscente e non riparabile, venne demolita nel 1910 quando la nuova chiesa, costruita poco distante dalla prima, e sempre intitolata al Santo, era stata completata e resa funzionate. Nel successivo periodo aragonese, la Torre “vien munita da baluardi, fosso e contro scarpa; prestando per un ponte ingresso nell’area, ove sta consacrata al Santo e dotata la Cappella. Gode sontuose scuderie. Mostra nel marmo i gradi, sala confortevole per le comiche rassembranze. Quarti comodi e abitati dai medesimi Re, ed ogni opportunità felicitata da dolcezza di clima”.( 20) Ai reali aragonesi piaceva recarsi nella Torre di S. Erasmo, ed in essa risiedevano, di solito, durante i mesi estivi. Il re Alfonso d’Aragona “a motivo di svago sostava spesso anche alla Torre di S. Erasmo nel Casale di S. Maria Maggiore, e di qui si recava nella tenuta di Arnone, ove si era fatto costruire un magnifico edificio per le cacce” (21) Nel 1496, il re, per i servigi resi durante la guerra contro i fiorentini, diede in possesso a Luigi Gentile di Capua, di origine genovese, l’intero immobile, ricco di “antichissime strutture di una straordinaria gagliardia; servita più volte per fortezza e per difesa della città a tener lungi i nemici, che di sassi e di dardi venivano ben caricati da sopra di questa Torre in occasione di qualche ripresaglia o incursione alla città, siccome per difesa ben valida e per le fortificazione sicura servì poi agli Aragonesi da’ quali a gentiluomini della famiglia Gentile fu donata…”.( 22). Una iscrizione su marmo visibile ancora a metà del settecento, e ritrovata nei pressi della Torre così recitava

AELIUS LOYSII GENTILIS CAMPANI FILIUS TURRIM HANC ANTIQUITA TE COLLAPSAM ORNAMENTO RE

STITUIT ANTRAQ CUM HORTO APOLLINI MUSIS GENIOQ DICAVIT

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Trad: Elio figlio di Luigi Gentile Campano restaurò abbellendola questa torre in rovina per l’antichità e dedicò gli antri con l’orto ad Apollo, alle Muse, e al Genio (22.1)

Successivamente passò di mano in mano ad altre famiglie nobili, fra cui la famiglia Faenza e la Torre venne chiamata appunto Torre di Faenza. Dal 1602 al 1605, durante i caldi mesi estivi, S. Roberto Bellarmino arcivescovo di Capua, si trasferiva con i familiari in S. Maria Maggiore, il casale più popolato della diocesi con 900 famiglie, e prendeva in fitto la Torre. In essa compose la celebre “Spiegazione del simbolo” affinché i parroci che non sapevano predicare, leggessero dopo il Vangelo la spiegazione di un articolo, specialmente quando conveniva coi misteri dei giorni festivi” (A. Iodice - S. Roberto Bellarmino a Capua - pag. 97) Nei tre anni del suo governo, egli partiva da questo luogo per far visita a tutte le chiese dei 40 casali della diocesi a lui affidata, pronunciando almeno un discorso in ciascuna di esse. Nota: S. Roberto Bellarmino (1542 – 1621) fu gesuita, uno dei più insigni teologi della controriforma, e predicatore instancabile. Fu chiamato, dal Santo Ufficio, a dare il suo parere nel processo a Giordano Bruno, il filosofo nato a Nola, che era stato accusato di eresia per aver concepito un Universo infinito, la pluralità dei mondi e per aver contrapposto la rivoluzione copernicana alla teoria tolemaica. Dalle sue opere, il Bellarmino individuò molte affermazioni eretiche, alcune riferite alla teologia, altre alla filosofia. Dopo questi anni, inizia un lento, inesorabile declino che ridusse l’edificio in uno stato di degrado notevole Nel 1718, diede alloggio ai cavalleggeri austriaci del reggimento Tisch, mentre i cavalli erano sistemati nel non lontano criptoportico, adibito a stalla. Nel 1738, con l’avvento della casa borbonica, vi fu di stanza il reggimento Rosciglione, per circa un decennio e la residenza Faenza ospitò il Colonnello del Reg.to della Regina, Don Ferdinando Caracciolo.

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Nel 1740 nell’area della Torre, venne ritrovata una iscrizione mutila “…ianae capitoli…” Successivamente il complesso venne restituito al demanio regio, nel 1760 fu definitivamente abbattuto il mastio. Al suo posto, a spese della Università di S.Maria di Capua, tra il 1851 e il 1858, demolendo edifici antichi, venne costruito un nuovo casamento destinato all’alloggio di militari. “Il vecchio edifico necessitava di un risanamento edilizio in quanto - a causa dell’umido che penetrava dalle finestre mancanti di tele e vetri - i soldati che in esso alloggiavano soffrivano di oftalmia.” (23) La caserma restò in uso fino al 1860. Per quasi la metà dell’800, il tratto di via, che sotto il nome di strada di S. Francesco, andava dall’incrocio con via Torre fino alla piazza omonima, si mantenne in uno splendido isolamento. Praticamente, non vi erano abitazioni. Quando la corte del regio palazzo, divenuta proprietà del demanio, venne messa in vendita, una parte di essa venne acquistata dall’ Avv. Filippo Teti, abruzzese di origine, il quale con i proventi del suo lavoro, vi costruì, nel 1839, prima fra tutte, la sua residenza con l’ampio cortile e con lo splendido giardino impiantato là dove un tempo era il pavimento marmoreo dell’orchestra e il semicerchio delle file di sedili, dell’antico teatro di Capua. (23.1) In esso, fra le ben curate, artistiche aiuole, facevano capolino rocchi di colonne, capitelli ed altre testimonianze di antichi monumenti. L’abitazione dell’avv. Teti, ospitò Garibaldi durante i giorni di fine settembre e i primi di ottobre 1860, ed in essa venne firmata la resa di Capua il 2 novembre 1860, come ricorda una lapide posta sulla facciata dai cittadini sammaritani nel giorno dell’anniversario della battaglia: I ottobre 1886. Di fronte all’ingresso di villa Teti, si apriva un grande giardino Ortolizio sempre di proprietà del signor Teti. In questo spazio alcuni studiosi hanno supposto l’ubicazione di uno dei Circhi dell’antica città. Infatti il Pratilli riferisce che nell’archivio Capitolare di Capua si trova un documento del 1091 in cui è riportato:“In pertinentiis Villae S. Erasmi, et proprie ubi dicitur ad Circum”. Ancora Giacomo Rucca, archeologo e nostro concittadino, cita una

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scrittura “dell’anno 1537, ove sta espresso che il giardino, che si disse una volta dei Musti, e poi del signor Giuseppe Tummolo, che corrisponde a quello posseduto oggi dai signori Teti, veniva anticamente chiamato ad ‘Circum ubi ejus antiqua cernuntur vestigia’. Soggiunge sempre lo stesso scrittore che tale vestigia si ravvisano nelle fondazioni di un muro circolare, che era stato riconosciuto da Camillo Pellegrino e dal Vecchioni, quando il Pratilli, per assicurarsene meglio, fece scavare e scoperse un gran muro di forma circolare”.(N. Teti, op.cit. pag. 402). Gli studiosi moderni, però non citano nessun circo. NOTA: E’ certamente necessario aggiungere ciò che scrive degli scrittori di cui sopra il Prof. Julius Beloch, (1854 – 1929) docente di Storia Antica presso l’Università di Roma. “Ciò che Camillo Pellegrino, figlio di Alessandro (1598 – 1664), aveva tralasciato di scrivere nelle sue opere fu ripreso, da Alessio Simmaco Mazzocchi (1684 -1771) nella sua famosa opera In mutilum Campani amphitheatri titulum, Neapoli 1727, scritta su commissione della città di Capua e stampata a spese di questa. E’ pur sempre il miglior libro che possediamo sulla storia e la topografia dell’antica Capua. Accanto al Mazzocchi sta il suo contemporaneo ed amico Francesco Maria Pratilli (1683 – 1763), del cui funesto influsso ancora oggi in parte soffrono la topografia e l’epigrafia campane. Il Pratilli ha falsificato sistematicamente iscrizioni, documenti e notizie di rinvenimenti e li ha poi manipolati in entrambe le sue opere, Via Appia, Neapoli 1745 e Consulares Campanile, Nespoli 1757. Le sue presunte fonti principali, Fabio Vecchioni (Antichità di Capua, in 24 libri!), Silvestro Ajossa, Primicerio d’Isa, Francesco Antonio di Tommaso, stanno naturalmente sullo stesso piano del Pratilli (cfr. Mommsen, I N., pp 185 – 186). Lo stesso Mazzocchi non è immune da ‘pratilliana’; completamente sotto l’influsso del Pratilli stanno Francesco Granata, Storia civile di Capua, 3 volumi, Napoli 1752-1756; Ottavio Rinaldi, Memorie istoriche della città di Capua, 2 volumi, Napoli 1753-1755. e specialmente Rucca, Capua Vetere, Napoli 1828, che peraltro è una monografia utilissima.”.

Infine, nel 1864, la caserma, detta quartiere nuovo, venne assegnata al ministero dell’Agricoltura e destinata all’allevamento di cavalli “stalloni per la riproduzione e la selezione della razza equina: nacque così l’Istituto di Incremento Ippico, destinato a fornire cavalli a tutta l’Italia meridionale” (24), oltre che alla cavalleria dell’esercito italiano. Tale compito viene espletato fino al 1965. Il 12 dicembre 1889 Amedeo di Savoia, duca d’Aosta, quale comandante del 10° Corpo d’Armata, passò in rivista il Reggimento di Cavalleria “Savoia”, alloggiato appunto nel Quartiere Nuovo (25)

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Su invito del sindaco Liguori, il Quartiere Nuovo, quale sede dell’Istituto di Incremento Ippico, il 25 agosto 1905, ricevette la visita dei Sovrani, Vittorio Emanuele III e della regina Elena di Montenegro, sua consorte, che si trovavano a Caserta per assistere alle grandi manovre.(26). In quella stessa occasione i regali presero visione dell’erigendo Ossario dei Caduti della Battaglia del 1° ottobre 1860, inaugurato qualche mese dopo. Nel 1981 l’edificio, passato alla Regione Campania è stato affidato alla Soprintendenza Archeologica per costituirvi l’attuale Museo: (27) Museo dell’Antica Capua, inaugurato nel 1995.

Note Bibliografiche (1) ( J. Beloch – Campania – pag. 412) (1.1) (La Piccola Treccani vol. II pag. 590) (2) (da Roma Antica Vol. I pag 194 ed. De Agostini) (3) ( J. Beloch - Campania pag. 406 ed. Bibliopolis) (4) (A. Maiuri - Passeggiate campane pag. 149 – Sansoni Edit.) (4.1) ( Marco Minora – Guida all’Antica Capua) (5) (A.Perconte – Capua pag. 38) (6) (G. P. Tabone - Guida all’Antica Capua , pag.35) (6.1) (Giacomo Stroffolini – La Contea di Capua, pag.42) (8) (Granata, Storia Civile della fedelissima Città di Capua, I tomo pag. 111) (9) ( Encicl. Biografica Universale – Treccani, vol 6. pag. 512) (9.1) ( Nicola Teti - Frammenti storici della città di Capua Vetere ) (10) (Giorgio Albertini da Focus n°26 dicembre 2008 pag. 105) (11) ( Il Regno di Napoli in prospettiva, ecc. opera in tre parti. Edita a Napoli nel 1703- parte I , f 86) (12) ( Lucio Santoro – Castelli Angioini e Aragonesi – pag 76 - Rusconi Ed.) (13) (L. Santoro op. cit. pag. 64). (14) ( L.Santoro op. cit. pag. 48) (15) ( L. Santoro op cit. pag. 46) (15.1) (Filangieri R. I registri Angioini) (15.2)( Minieri Riccio – Nuovi studi riguard. la dominaz. angioina – Napoli 1876 reg. 22 f. 31) (15.3) (Filangieri – I registri, ecc. vol XIII reg 70 n.67)

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(16) (F.Palmieri – Santa Maria Capua Vetere vecchie immagini e…note estempor- pag.25) (17) (L. Santoro op. cit. pag. 44) (17.1)( Filangieri- I reg. ecc, vol. XIX reg.81 n. 21) (18) (Granata- Storia Civile della fedelissima città di Capua- 1752) (18.1)(docum. del 7.1.1295 – da A. Perconte Licatese – S.Maria di Capua. pag.112 n.12 o) (19) (C. Minieri Riccio - Genealogia di Carlo II D’Angiò – pag. 194, 213 – Fornj Editore) (20) (Granata op.cit.) (21) (Granata op. cit. libro III p, 117). (22) ( Granata op. cit. libro I p.112 e lib. III p,107) (22.1) (A. Per conte – S.Maria di Capua pag.134 scheda n.47) (23) (S.Maria C.V. – S. Casiello & A.M. Di Stefano – 1980 ) (23.1)(J. Beloch- Campania – pag. 395) (24) (da Il museo Archeologico dell’Antica Capua – G. Ciaccia – E Guglielmo pag.11) (25) (A.Perconte – Santa Maria Capua Vetere – pag. 30) (26) (A.Perconte – op. cit. pag. 36) (27) (G.C. – E.G. op.cit.)

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VIA GAETANO CAPPABIANCA IL NOME: Piazza dell’Olmo (1700), via Municipio (1861), via Gaetano Cappabianca (1925). In essa si può riconoscere un decumano dell’antica Capua. Inizia all’incrocio con via A.S. Mazzocchi, al trivio di S. Anna, così conosciuto per via dell’edicola che trovasi all’inizio della strada sul lato destro. Termina al quadrivio formato con via Albana, via Melorio e via Saraceni. Piazza o Platea: è il termine con cui si indicava non solo la strada, ma anche il rione in cui essa era situata. Nel 1738 a S. Maria si contavano otto piazze: quella della Chiesa (che comprendeva S. Maria Maggiore, p.za Matteotti), di S. Erasmo (che comprendeva via P. Morelli, via Anfiteatro, via Campania), del Mercato (piazza Mazzini e le strade ad essa adiacenti), di S. Lorenzo ( via ex Vitt. Emanuele oggi via Gramsci, p.za della Valle, via d’Angiò, via Roma), della Croce (via Mazzocchi, via Avezzana), del Riccio (via Riccio, via Latina, via Saraceni, p.za F.lli De Simone), piazza dell’Olmo (via Cappabianca, via Melorio fino al monastero degli Alcantarini o di S. Marco, e via Albana nella parte che va dalla chiesetta della Concezione verso via Torre), piazza di Casalnuovo (da piazzetta Immacolata a via Albana). (1) Alla fine del seicento e al principio del settecento, tutta la zona era chiamata Piazza dell’Olmo, per il semplice fatto che nella strada vi erano poche abitazioni: il palazzo del Balzo e qualche altro edificio, intervallati da giardini e da orti. In questi spazi liberi erano sistemati degli alberi di olmo, piante di alto fusto che servivano per creare il fresco estivo, e anche per sostenere i filari di vite coltivata nei giardini, ubicati alle spalle delle dimore, e negli spazi prospicienti la strada. (2) Nel 1740 vennero eseguiti lavori di pavimentazione “nella piazza dell’Olmo che principia dalla chiesa dell’Imm.ta concett.ne ss.ma (Immacolata Concezione Santissima) e tira verso occid.te sino al

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palazzo del Sig. D. Ant.o del Balzo”, lavori eseguiti dagli appaltatori delle strade Gennaro Tuosto e Francesco Micillo. (4) Il palazzo ove dimorava, fin dalla nascita, Don Antonio Lorenzo del Balzo, 4° duca di Caprigliano (per nuova concessione del titolo nel 1749) di ramo collaterale dell’antica famiglia nobile venuta al seguito dei d’Angiò, era in origine ad un solo piano (5) ed è ubicato all’inizio della strada, all’incrocio di via Mazzocchi.

Sulla facciata del palazzo col numero civico 19, si trova la seguente iscrizione:

FORTUNAS RERUM AUGMETUM VIRESQUE TUENDI HEC EADEM SPONDENT ASTRA DIANA DIANA ASTRA SPONDENT EADEM Trad: la luna (diana) (e) le stelle promettono per la stessa via

FORTUNAS AUGMETUM RERUM QUE VIRES TUENDI HEC le fortune, l’aumento delle sostanze, e le forze per custodire tutto ciò

Nota: - La dea Artemide dai greci veniva intesa come personificazione della Luna. A Roma ella veniva identificata con l’antica dea italica e latina Diana, anch’essa venerata come dea della Luna. In epoca medioevale era considerata regina delle Stelle e della Luna, di ogni destino e della fortuna

La credenza popolare ammette l’influsso delle fasi lunari sugli avvenimenti terrestri

Successivamente, nella seconda metà dello stesso secolo, la via venne popolarmente chiamata anche “a chiazza e’ Napule” per i palazzi che la ricca famiglia Di Napoli vi costruì.(3) La principale dimora della famiglia Di Napoli era il secondo palazzo sulla destra. Un’opera che può essere ascritta, senza dubbio, alla scuola vanvitelliana tanto in auge in quegli anni. Le quattro facciate del cortile riprendono il motivo architettonico del basamento bugnato e gli alti e stretti balconi sono inquadrati fra lesene giganti (6). Questo motivo architettonico è caratteristico della Reggia di Caserta.

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“Nel 1910 i fratelli Bernasconi ed il fotografo Augusto Reggiani, nei locali terranei del palazzo Di Napoli, aprirono una sala cinematografica che durò poco”. (7). Dall’altro lato della strada, si nota un palazzo ottocentesco. Sull’arco interno dell’androne, che si affaccia su di un primo cortiletto, quale chiave di volta, incisa in un blocco di pietra bianca, appare lo stemma della casa d’Angiò: un tappeto d’azzurro disseminato di gigli d’oro, con in capo un rastrello rosso. Il rastrello differenzia il ramo cadetto dei d’Angiò da quello principale della casa reale di Francia. Ovviamente nel nostro i colori non appaiono. Nel secondo più ampio cortile del suddetto edificio, si aprono alcuni locali in cui si svolse l’operosa vita lavorativa di Leopoldo Cappabianca. Nato a S. Maria Capua Vetere nel 1904, giovanissimo, appena diciassettenne, si impegnò in politica animato da idee socialiste, tanto che fu tra i primi nel 1921 ad aderire al Partito Comunista. Prese parte agli scontri tra fascisti e socialcomunisti, avvenuti in piazza Mazzini il 18 settembre 1922, e per questo venne arrestato passando così due anni in carcere. Ovviamente venne considerato un sovversivo pericoloso, tanto è che ogni qualvolta il Duce usciva da Roma per recarsi in qualunque parte d’Italia, Leopoldo Cappabianca veniva relegato nelle patrie galere. Per poter sopravvivere mise su una officina meccanica molto attrezzata, ed anche un impianto di galvanizzazione e cromatura, fra i primi, se non il primo, in Terra di Lavoro. Il 5 ottobre 1943 fu tra i promotori del fatto d’armi con cui i cittadini di S. Maria cacciarono via i soldati tedeschi di stanza nella nostra cittadina Del suo intrepido coraggio fu testimone il Ten. Mario Scarlato a cui, per lo stesso fatto d’armi, il Municipio di S. Maria Capua V., nel 1992, conferì la cittadinanza onoraria. Il Tenente Scarlato nel suo “5 ottobre 1943” così scrive: “Io non cesserò mai di elogiare il virile comportamento di Leopoldo Cappabianca che, con calma addirittura singolare, accovacciato dietro il paracarro allo sbocco della via sulla piazza (via de Simone), sorvegliava i movimenti del nemico lanciando bombe nella direzione

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del monumento ove si tenevano ben celati gli unni. Io stesso fui ad un certo momento trascinato dal sangue freddo con cui questo magnifico combattente teneva testa agli avversari…”. Nel 1945, Leopoldo si iscrisse alla locale sezione del Partito Comunista, e venne eletto, in varie occasioni, consigliere comunale (1947-52; 1970-80). Visse del suo lavoro e fu sempre un galantuomo e un maestro di vita. Morì il 18 agosto 1983. Dopo il 1860, la strada prese il nome di via Municipio poichè la Casa Comunale, che fino a quella data era ospitata in alcuni vani al piano terra del palazzo dei Tribunali prospicienti la piazza Mazzocchi,(8) venne ubicata sulla sinistra della detta via, dove, originariamente, esisteva la chiesetta di S. Carlo, alla quale era abbinato un ospizio per i vecchi con un vasti giardini. Alla chiesetta ed all’ospizio si giungeva percorrendo il vialetto che, fino a pochi anni fa, portava il nome del santo, vicolo S. Carlo e che oggi invece chiamasi vicolo Cappabianca. Il complesso era retto dai Padri Serviti detti di Gerusalemme, gli stessi religiosi del convento di S. Maria di Gerusalemme ad Montem, situato sul monte Reggeto presso Bellona. (9) La proprietà del Convento era stata reclamata dal monastero di S. Patrizia di Napoli. Infatti nel 1818 era stato chiesto al Tribunale che venisse rilasciato l’intero casamento con gli annessi giardini, al succitato monastero. La vertenza si protrasse per circa un ventennio, ma alla fine si risolse a favore del Comune di S. Maria Maggiore.(9.1)

In fondo al vicolo S. Carlo, verso la fine dell’800, alcuni ampi locali ospitarono un generatore di energia elettrica, azionato da una turbina funzionante a vapore, prodotto bruciando notevoli quantità di carbon fossile. I fumi della combustione si disperdevano nell’aria tramite una alta ciminiera, che, non usata ormai da molti anni, venne abbattuta dopo il 1945. Quando l’impianto smise di funzionare, perché l’energia elettrica venne erogata da un impianto più moderno, e di diversa tecnologia, installato in altra zona della città, una parte dei locali ospitò una cabina di smistamento della corrente elettrica gestita dalla SEDAC, mentre i locali attigui, precedentemente adibiti a sala macchine e

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deposito carbone per il funzionamento del vecchio generatore, ospitarono negli anni 20 e 30 del novecento, il cinema “Dopolavoro Mazzocchi”, gestito dall’imprenditore Nicola Cortese. Dopo la guerra, cambiata la gestione, fu chiamato “Cinema Aurora”; purtroppo, verso la fine degli anni 40, chiuse i battenti. (10) L’edificio della casa municipale, che forse era stato adibito anche “a casino di caccia”, rimaneva all’interno di un amplissimo giardino conservatosi quasi integro nella sua estensione sino alla metà di questo secolo (XX) e che dopo ha accolto la nuova sede del Tribunale, l’Archivio Notarile, l’Ufficio Postale, la Conciliazione, P.za della Resistenza, ecc.”. (11) Costruito il nuovo Tribunale, venne aperto un varco mettendo in comunicazione il vicolo S. Carlo con piazza della Resistenza appena completata, e ottenendo così il collegamento diretto fra via Cappabianca ed il centro della città. Nel 1886, finalmente, il fabbricato divenne proprietà del Comune. Esso si presentava, con “sei vani terranei ed undici al primo piano”. Con delibera del 1887 venne deciso di eseguire una serie di ampliamenti e ristrutturazioni che furono completate nel 1893. Intanto, nel 1888 con “l’esproprio del giardino di proprietà Bizzozzaro e di alcune casupole della famiglia Adinolfi, fu sistemato lo spazio antistante”(12) che tuttora si affaccia sulla via Cappabianca, e venne realizzato l’ ingresso attuale. (13) Una migliore descrizione dell’edificio la dà il prof. Alberto Perconte nella sua dettagliata e pregevole opera: Santa Maria Capua Vetere pag. 90 dalla quale è tratto quanto segue: “Costruito il portico, internamente, furono realizzati lo scalone e la sala delle riunioni. I lavori furono eseguiti dall’ ing. Emilio Santillo. Successivamente tra il 1900 e il 1910, fu innalzato il secondo piano e rifatta in stile neoclassico la facciata…. Nel piano terra, a bugnato liscio, si aprono tre archi, che immettono nell’atrio dell’ingresso, e due finestre; il primo piano ha tre grandi balconi non aggettanti, separati da quattro coppie di semicolonne corinzie e due balconi con timpano triangolare;

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il secondo piano ripete i motivi del primo, ma i balconi centrali sono più piccoli; nel timpano, appena accennato, campeggia tra due leoni lo stemma civico”. Il terremoto del 1980 lo rese inagibile ed è tuttora in via di ristrutturazione. Poco dopo, sul lato sinistro della strada, è ubicato il palazzetto che vide i natali della religiosa Giulia Salzano. Nacque il 13 ottobre 1846 da Diego , capitano dei Lancieri di Ferdinando II e da Adelaide Valentino. Rimase orfana del padre all'età di quattro anni e venne affidata alle Suore della Carità del Regio Orfanotrofio di S. Nicola la Strada, dove restò fino all'età di 15 anni. Nel 1865 si trasferì con la famiglia a Casoria e avendo conseguito il diploma magistrale, insegnò nella scuola comunale della cittadina. Dopo una vita spesa ad istituire varie opere religiose fondò, a Casoria, l'Istituto delle “Suore Catechiste del Sacro Cuore”, che oggi opera in varie parti del mondo, si spense il 17 maggio 1929. Proclamata beata il 27 aprile 2003 da Papa Giovanni Paolo II , è stata proclamata Santa il 17 ottobre 2010. La ricorda una lapide posta sulla facciata della casa natale. In tempi recenti, è stata costruita anche un’altra strada, che si apre lungo il lato destro del fabbricato comunale. E’ intitolata alla memoria del sen. Francesco Lugnano. Per realizzare la quale, purtroppo, fu abbattuta la casa in cui vide i natali, il 4 dicembre 1853, Errico Malatesta. Il padre, Federico, era nativo di Napoli; la mamma, Lazzarina Rastoin, era di origine Marsigliese. Errico nacque nella nostra città, perché, sembra, che il genitore qui avesse una attività legata alla concia delle pelli. Comunque sia, nel 1868 la famiglia si trasferì a Napoli ed Errico, quindicenne, compi i suoi studi presso un collegio dei Padri Scolopi. Successivamente, all’Università di Napoli si iscrisse alla facoltà di medicina per tre anni, ma abbandonò gli studi per dedicarsi completamente alla politica. Visse a S. Maria “proprio nell’epicentro temporale della storia risorgimentale sammaritana, che non potè non incidere sul suo immaginario di ragazzo colmo di Spartaco e di

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Garibaldi, come riconobbe espressamente”. (14) Aveva fatti suoi gli ideali politici mazziniani, e fu “uno dei più grandi, tenaci, e fedeli apostoli di libertà, di emancipazione, di fraternità, che la storia tra Ottocento e Novecento ricordi, noto e studiato in tutto il mondo” (15). Morì a Roma il 20 luglio 1932. Vi sono moltissimi scritti che parlano di Errico Malatesta in modo molto più esauriente di quanto possa io esprimere in queste poche righe, e a cui rimando coloro che avranno la ventura di leggere questi miei appunti.

Poco più avanti, quasi dirimpetto all’ingresso del Municipio, all’angolo di via Riccio, (aperta nel 1832) è ubicato il palazzo appartenuto alla famiglia Di Napoli, originariamente ad un solo piano e ceduto successivamente alla famiglia Cappabianca, che lo ampliò, facendovi soprelevare il secondo. Gaetano Cappabianca nacque a S.Maria di Capua nel 1849 da Federico e da Luisa Saraceni (figlia di Gaetano Saraceni, altro benemerito sammaritano) Il suo nome è legato alla fondazione dell’Istituto per Ciechi e Sordomuti che ebbe sede nel palazzo di sua proprietà, e nella villa Cristina che sorgeva dirimpetto, entrambi nella via Municipio, che a lui venne intitolata nel 1925. Questi beni, che facevano parte di un ingente patrimonio, furono lasciati in eredità ad enti ed opere pie, affidate alle suore di qualsiasi ordine, con testamento del 21 luglio 1908. (16).

In particolare l’asilo venne gestito dalle suore di S.Anna. Il 12 marzo del 1909 il Comune di S.Maria C.V. assunse l’amministrazione dell’Istituto. Il 29.12.1911, l’Asilo, con Regio Decreto n°121 viene nominato Ente morale. Nel 1916 durante la Prima Guerra Mondiale, il nostro Comune istituì un campo di raccolta per i profughi istriani e dalmati, che furono alloggiati, in parte, anche nel palazzo Cappabianca. A partire dallo stesso anno 1916, per i ciechi e i sordomuti, il Comune si fece carico, del ricovero, dell’istituzione e del funzionamento di appositi laboratori di falegnameria, calzoleria, e

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sartoria. Tutto ciò ha funzionato egregiamente fino agli anni sessanta del novecento. Negli anni successivi, essendovi ormai pochi ospiti, l’edificio fu destinato ad altri scopi sociali ed infine venne chiuso per restauri tuttora in corso (17). Sulle pareti dell’atrio dell’Istituto sono sistemate due lapidi. La prima per ricordare Gaetano Cappabianca:

GAETANO CAPPABIANCA

ANIMA GENEROSA CUORE ARDENTE DI CARITA’ CRISTIANA TUTTO IL SUO COSPICUO PATRIMONIO

DESTINO’ A SOLLIEVO DELLE SVENTURE QUESTO SONTUOSO EDIFICIO

CHE GIA’ ACCOLSE IL MUNIFICO BENEFATTORE

OGGI OFFRE TRANQUILLO RICOVERO A QUELLI

CHE SONO IMMERSI NELLA NOTTE PERPETUA E QUELLI

CHE HANNO IL LABBRO SUGGELLATO ALLA PAROLA A RICORDO

GLI AMMINISTRATORI POSERO

ANNO MCMXXVI

La seconda per ricordare il presidente dell'Istituto Gaetano Caporaso

IN QUESTO ASILO

DALLA FONDAZIONE PER CINQUE LUSTRI PRESIDENTE

SAGGIO PATERNO GAETANO CAPORASO

LUCI E ARMONIA D’AMORE DIFFONDENDO

REDESSE LA SVENTURA FACENDOLA SORRIDERE ALLA VITA

AD ESALTAZIONE ED ESEMPIO NEL XXII NOVEMBRE MCMXLI – XX

IL CONSIGLIO DI AMMINISTRAZIONE DELIBERO’ QUESTO RICORDO

Via Cappabianca termina poco più avanti.

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NOTE BIBLIOGRAFICHE (1) (A. Perconte – S. Maria di Capua – pag. 97). (2) (F. Palmieri pag.85 na ‘zalata pag.146) (3) (da F. Palmieri note estemporanee) (4) (Casiello - Di Stefano pag.59) (5) (A. Perconte – S.Maria di Capua pag.94) (6) (Casiello op.cit.) (7) (F.Palmieri – S.Maria C.V. note estemporanee pag. 88) (8) (Alberto Perconte Licatese - S.Maria Capua Vetere pag.89 ) (9) (Granata – Storia Sacra della città di Capua Tomo II - libro III Cap. I pag.53). (9.1)(G.Laurenza, Bicentenario ecc. pag. 94) (10) (Palmieri op.cit.pag.145) (11)(Palmieri op.cit.) (12)(A.Perconte – S.Maria C.V. pag.90) (13)(Palmieri. Na ‘Zalata.ecc. pag. 85 -86 ) (14)(Nicola Terracciano – Convegno di S.Maria C.V. giugno 2008- dedicato alle memorie risorgimentali e ad Errico Malatesta - tratto da “ il Caffè settimanale indipendente anno XI - n° 24 pag.10) (15)( N. Terracciano op. cit.) (16)(A.Perconte – S.Maria C.V. pag. 132) (17)(da S.Maria C.V. nei protagonisti della sua storia – LMV - dott. Laura Maria Vavuso pag. 36)

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CLANIS Il Clanio (Clanis o Clanius in latino), è un piccolo corso d’acqua, lungo circa 60 km, che nasce da alcune sorgenti nei pressi di Avella, antico centro osco conosciuto col nome di Abella, paese situato lungo la riva sinistra del fiume, allo sbocco di un valico del Monte Vergine nel massiccio del Partenio. La più importante fra le sorgenti, denominata Bocca d’Acqua, si trova presso il Campo di Summonte, un bel pianoro ricco di sorgenti di acqua pura. Altre sorgenti si trovano nel vicino Vallone delle Fontanelle. Il nome del fiume è di origine greca e la sua etimologia, secondo lo studioso Giuliano Maio, che scrisse su di esso un intero trattato, deriva dall’abbondanza di viole che spontaneamente nascevano lungo le sue rive. Nei tempi antichi il fiume aveva acque limpidissime ed era ricco di pesci. Notevoli tracce di insediamenti umani e di un fitto popolamento, risalenti alla fine del V millennio a. C., sono state rinvenute in tutto il territorio solcato dal fiume. A pochi chilometri dal centro di Avella si trovano gli esigui ruderi di un acquedotto costruito nel 410, gratuitamente dai suoi cittadini, su richiesta di S. Paolino, convogliando in esso le acque del fiume, per l’approvvigionamento idrico dei conventi presso Cimitile. Sulle sponde del fiume, furono installati dei mulini, mossi, appunto, dalle sue acque. Nei tempi più antichi, il Clanio, giunto nei pressi di Capua, scorreva parallelo al Volturno, ma poi, non avendo la forza sufficiente di attraversare le dune sabbiose della costa, piegava verso sud ed arrivava fino al lago Patria, dividendosi in due rami. Di essi uno terminava nel mare e l’altro terminava la sua corsa nel lago, formando una zona paludosa nei tratti circostanti. Nei pressi di Literno un fiumicello, avente lo stesso nome del paese, affluiva nel Clanis. Oggi è detto Foce di Patria.

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Nelle vicinanza del lago sorgeva Liternum, una delle colonie romane nate per far da guardia al litorale tirrenico. Era considerata una fra le più povere città della Campania. Nei pressi, Publio Cornelio Scipione l’Africano possedeva dei terreni ed una villa rustica in cui trascorse gli ultimi anni, dopo aver abbandonato Roma, dedicandosi, fra i suoi veterani, ad una vita di agricoltore e bonificatore, In essa morì alla età di 51 anni nel 183 a.C. Per la sua tomba, come fu riferito da Valerio Massimo, scrittore latino vissuto al tempo di Tiberio, volle la seguente iscrizione: “Ingrata Patria, ne ossa quidam mea habens : Ingrata Patria non avrai le mie ossa”. Alla parola Patria si collega il nome del Lago. La zona impaludata, e il lago stesso, veniva chiamata “Palus Literna ” e, sembra, che proprio nel lago, i primi greci avessero creato un porticciolo. In quei tempi lontani, l’acqua del fiume ristagnava anche in altre ampie zone della pianura campana. Vi era una serie di paludi che dalle zone circostanti Nola, Marigliano, Acerra, Afragola, Aversa arrivava al mare. Di questa realtà ne soffrì soprattutto Acerra. Infatti il Clanis attraversava il suo fertile territorio, ed impaludandosi presso la città, fu portatore di malaria, e con essa il rapido decadimento dell’antica Acerrae che, già al tempo di Virgilio, appariva spopolata. (vacuis Clanius non aequus Acerris = funesto il Clanis alla deserta Acerra). (1)

Il Clanis faceva da confine fra Suessola che si trovava sulla riva destra e Acerra sulla riva sinistra. Più tardi, il fiume segnò il limite fra il territorio bizantino di Napoli ed il territorio longobardo del ducato di Benevento che comprendeva anche Capua Vetere. Nel medioevo l’impaludamento aumentò e rese inabitabile anche un’ampia fascia della zona fra Capua e Napoli; Nel 1021 – 1022, i primi normanni giunti nelle nostre contrade posero i loro accampamenti presso il ponte a Selice sul Clanio, ma subito abbandonarono quei luoghi per la loro insalubrità.

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Per potersi rendere conto di ciò che erano le terre campane assoggettate alle acque dei vari fiumicelli che in esse scorrevano, è necessario riscoprire una pagina composta, nell’aprile del 1939, da Amedeo Maiuri, archeologo e arguto scrittore, le cui opere dovrebbero essere lette, dagli appassionati di archeologia, almeno una volta. “Bisogna dare un’occhiata alle vecchie carte del Reame per comprendere quel che era, prima della vecchia bonifica fatta dal Vicerè Conte di Lemos nel 1616 e dell’incompiuta bonifica borbonica, la viabilità fra il Garigliano ed il Volturno, fra il Volturno ed il Clanis; e a che era ridotto lo stato di quelle terre che Cicerone, in tempi gravi di penuria, aveva chiamato horreum legionum, solarium annonae, dopo alcuni secoli di abbandono e di barbarie. Sommersi i campi intorno a Mondragone dalla palude che vi ristagnava fin dal lago di Carinola; sfocianti il Savone e il Rio dei Lanzi in un unico immenso stagno chiuso dalle dune del litorale: il corso del Clanis mutato in una palude tra casali e borghi natanti come isole; affibiati nomi tristi a luoghi febbricosi (Vico di Pantano e Madonna di Pantano); perduta ogni traccia della Via Appia là dove correva più superba a traverso campi alti di farro e ricche mansiones dell’agro Falerno; scomparsa la colonia Urbana al nono miglio da Casilino; sepolta la Via Domitiana tra boscaglie e paludi; mutato il corso del Volturno da più ampie insaccature e sostituito il gran ponte domizianéo dalla zattera del traghetto. L’ultima traccia di percorribilità è negli itinerari che dopo quello della tabula Peutingeriana, cominciano ad essere lacunosi. Nel 1343 il Petrarca, dopo aver scritto il poema dell’Africa, non oserà più valicare le colline di Baia per giunger fino al sepolcro di Scipione a Liternum sul lago di Patria. Per un viaggiatore di lunga lena qual’egli era, adusato ai rischi che il viaggiare allora comportava, le poche miglia che separavano Baia da Cuma e Cuma da Literno, erano insormontabili. Sui campi sommersi ci si avventurerà ormai con la chiatta di palude e, sui sentieri malcerti, la giumenta del buttero avanzerà guardinga fiutando con il suo sicuro istinto l’insidia delle trémmole, delle marcite che nascondono inghiottitoi di fango. E il pescatore di palude, urtando con il remo il duro silice della strada, penserà a un mondo

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lontano scomparso, a un’opera diabolica e maledetta e favoleggerà d’una Via dei diavoli e d’un Ponte dei diavoli.!”. (2)

Ecco altra descrizione del luogo tratta da un diploma di Re Roberto del 1312. “Le acque colaticcie dei regi Lagni giravano per vie non libere e tortuose: offrivano limacciosi sudiciumi ed altre sordidezze, prodottevi dai depositi, dalle parate ed altri ostacoli frapposti dalla umana malizia. L’alveo dei regi Lagni era talmente pieno ed ingrombo, che nei terreni , pei quali fluiva l’acqua stessa, nelle grandi piogge, succedeva, che la eccedente copia ne infestava l’aria, generava epidemie, svelleva i termini designanti la proprietà dei fondi, da impedire finanche la raccolta dei frutti”. (3)

L’opera di bonifica del territorio percorso dal Clanio, per volere del vicerè don Pedro di Toledo fu iniziata verso il 1539, con qualche modesta opera per regolare il deflusso delle acque. Venne dato un maggiore impulso ai lavori, dal vicerè spagnolo Don Ferrante Ruiz de Castro conte di Lemos, il quale volle bonificare una zona più vasta. Inoltre, il vicerè dettò il primo regolamento per la manutenzione dei nuovi canali. Il progetto, senz’altro imponente, fu affidato, fin dal 1593, a Domenico Fontana, ingegnere maggiore della città e del regno. (nato a Melide, sul lago di Lugano, nel Canton Ticino nel 1543 e morto a Napoli nel 1607). I lavori iniziati verso i primi anni del 1600, alla morte del Fontana si fermarono. Furono ripresi, con maggiore impulso, nel 1610, sotto la direzione di Giulio Cesare Fontana, figlio di Domenico. Prosciugati i terreni della piana del Clanio, si ottenne un miglioramento della produzione agraria e,in parte, si risolse l’ afflizione della malaria. Don Pedro Fernandez de Castro, successore del precedente conte di Lemos, il 29 febbraio 1616, emanò un provvedimento per la sistemazione dei terreni bonificati in modo da essere utilizzati per la macerazione della canapa. Il provvedimento fu rinnovato e completato dai successori. L’antico corso del fiume fu parzialmente modificato e canalizzato.”.. la novella civiltà ha saputo rendere innocue,

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incanalandole per la topografica inclinazione della pianura e separandole ai sensi del duplice naturale livello della medesima. In quello tra oriente e settentrione del territorio si fecero scorrere le acque vive del Mefito e del Gorgone; nell’altro tra il mezzogiorno e l’occidente della città di Acerra, in triplice alveo si fecero scorrere le acque colaticci delle colline nolane. (4)

Le acque vive del Gorgone e del Mefito, unite al Ponte di questo nome, dopo il Pagliarone ed il Molino Vecchio, si scaricavano al Ponte di Casella. I lavori di Pietro di Toledo negli attuali Regi Lagni e quelli del Conte di Lemos, sulla Forcina, han fatto cangiare aspetto a tutta la regione. (5)

Il Fontana fece ripulire i fondali melmosi dei canali già costruiti, fece accrescere la loro pendenza, fece rettificare i corsi d’acqua più tortuosi, mantenne divise le acque provenienti dai monti da quelle drenate. “…al Fontana spetta per primo il merito di aver alberato gli argini degli alvei a meglio rassodare il terreno”, con filari di pini che formano lunghe vie porticate di verde, e “…bisogna riconoscere che è questo il più grandioso porticato che fantasia e genio di architetto potesse ideare e costruire”. (6)

Per superare le dune sabbiose, si dovette scavare, in alcune zone, un nuovo letto e si cercò anche un nuovo sbocco che venne aperto in località Ponte a Mare nel comune di Castel Volturno, quasi a metà strada fra la foce del Volturno ed il lago Patria. Una parte dell’antico corso del Clanis si può ritrovare seguendo il cosiddetto Canale di Vena che giunge fino al succitato lago scorrendo quasi parallelo alla SS Domitiana. L’opera si interruppe per mancanza di fondi e solo tra il 1730 ed il 1750 furono ripresi i lavori, anche se con essi non si riuscì a risanare completamente tutto il territorio, tanto che ancora nei primi anni dell’Ottocento le campagne spesso si allagavano e le colture subivano danni consistenti. Venne costituito anche il corpo dei Guardalagni..

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Successivamente, Ferdinando I di Borbone diede grande impulso alle opere di bonifica intorno a Napoli e Ferdinando II su consiglio di Carlo Afan De Rivera, con una legge del 1839, fece studiare dalla “Consulta dei reali domini” il problema della bonifica delle terre paludose e sterili del regno, del rimboschimento dei monti, dello sviluppo dell’agricoltura, della pastorizia, ecc, e diede inizio ai lavori. In essi il re investi oltre un milione di ducati, una somma pari a circa 15 milioni di euro. Inoltre, con un decreto dell’11 maggio 1855, pose le basi per l’amministrazione generale della stessa bonifica. L’opera di bonifica della pianura campana, in epoca fascista, iniziò verso la fine del 1939 ed nei primi mesi del 1940, XVIII anno era fascista, come si può ancora leggere sulla facciata di qualche podere. Furono bonificati i terreni nei dintorni della strada che da Aversa porta a Villa Literno e che attraversa i paesi di San Marcellino, San Cipriano d’Aversa, Casal di Principe. Attraverso l’Opera Nazionale Combattenti, istituita nel dicembre del 1917, i reduci della I Guerra Mondiale, nei primi anni quaranta del novecento, potenziarono l’agricoltura della regione bonificando nel cuore dei “Mazzoni” alcune migliaia di ettari di territorio paludoso, costruendovi centinaia di poderi con possibilità di riscatto da parte dei coloni. L’ONC realizzò anche la bonifica di Licola e Varcaturo località dall’altra parte del lago Patria, verso Cuma. La bonifica fu completata negli anni successivi alla seconda guerra mondiale quasi alla fine degli anni cinquanta. Complessivamente,il territorio bonificato dai Regi Lagni risultò avere una superficie di circa 1100 kmq. (km 45 x 25 circa). Il cammino delle acque verso il mare era ed è alquanto articolato. Il Clanio che un tempo costeggiava l’antica Abellae, ora attraversa la moderna Avella.. Poi, si dirige a nord di Nola e di Cimitile, fra i paesi di Tufino e Risigliano, Cutignano e Cicciano e poco dopo prende il nome di Canale di Bosco Fangone. Bosco di Nola e Bosco Fangone erano territori paludosi che alcune famiglie di agricoltori ivi residenti cercarono di prosciugare con

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canali di drenaggio. Nacque così, la frazione chiamata Polvica, a sud di San Felice a Cancello e al confine di Acerra Poco più avanti, in prossimità del Ponte dei Fusari, il fiume accoglie le acque del Lagno di Nola che a sua volta riceve quelle del Torrente Sciminaro. Al ponte dei Fusari, il Clanio perde i connotati suoi specifici e diventa il principale dei canali artificiali costruiti per la bonifica di quelle terre. In esso, poco dopo, si riversano sia le acque del ruscello del Mefito ricche di acido solforico e con una temperatura che si aggira sui 17°, che sgorgano dal bosco di Calabricito dove sorgeva l’antica Suessula. Descrivendo una ampia curva, passa a sud di Acerrae, quasi circondandola. Dirige poi le sue acque verso Caivano, e supera la SS 87 Sannitica sotto il ponte Epitaffio, così detto per una iscrizione che si trova nelle sue vicinanze. Poco dopo, nei pressi del Ponte Carbonara, un affluente si riversa nei R. Lagni. Il canale principale prosegue verso Marcianise e giunge al Ponte a Selice sulla SS 7 bis. Su questo ponte, confine fra la giurisdizione Capuana ed Aversana, venne eretta una statua in onore di un santo, oggi sconosciuto, a protezione dei viandanti, andata perduta. Ne dà notizia il Granata a pag. 337 della sua opera. Questa strada ripercorre il tracciato della via Campana che da Capua raggiungeva Pozzuoli. Anche un’altra strada, la via Atellana, partiva dall’antica città, attraversava il Clanio con un ponte che oggi prende il nome di Ponte Rotto situato presso il borgo di Casapuzzano e raggiungeva Atella. Nei pressi di Carditello, il fiume incanalato passa sotto il ponte S. Antonio che si trova sulla provinciale per Casaluce. Il castello che qui sorge, fatto costruire dal normanno Rainulfo Drengot, era difeso da ampi fossati in cui venivano convogliate le acque provenienti dal Clanio. Superato il ponte Annecchino sulla provinciale per Casal di Principe, riceve le acque del ruscello Apramo, poco dopo quelle del canale scolmatore Sciummarello proveniente da Grazzanise, supera il ponte Bonito, poco più avanti accetta le acque del canale detto il Lagno Vecchio e quelle del canale detto Prospero del Tufo provenienti da Cancello e Arnone e, finalmente, raggiunge il mare in località Ponte a Mare.

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Il complesso sistema dei canali, per mezzo dei quali potettero essere risanate quelle zone per molti secoli afflitte da gravi problemi di insalubrità, prese il nome di Regi Lagni. Furono chiamati Regi per rispetto ai monarchi che si impegnarono nella Bonifica. La parola Lagno deriva dalla corruzione del nome del fiume: Clanius, Lanius, Laneum, Lanio, Lagno. Da qui nacque anche la denominazione Terra Lanei.

SANT’ ANDREA DEI LAGNI

Dalla parola Lagno, corruzione del nome del Clanio (Clanius, Lanius, Laneum, Lanio, Lagno), prende nome il casale di S. Andrea dei Lagni, oggi, non più frazione, ma rione di S. Maria C. V. Il Casale faceva parte della Terra Lanei. Le poche case rurali, sorte intorno alle vestigia di un antico pagus o di una villa rustica suburbana situata nel territorio compreso fra la via Atellana e la via Cumana, ebbero un ulteriore sviluppo nel XV sec. allorquando venne reintrodotta la lavorazione della canapa e formarono così un piccolo agglomerato urbano. Secondo l’arcivescovo Francesco Granata, le strade che uscivano da Capua, passando nei pressi o attraversando i luoghi dove poi sarebbe sorto il Casale di S. Andrea, erano tre: 1) La via Atellana che passando attraverso la Porta dallo stesso nome e superato il Ponte Rotto, si dirigeva verso la città di Atella, che occupava gli spazi dove oggi si trovano i paesi di S.Arpino, Orta di Atella, Frattamaggiore, e proseguiva verso Napoli. La via Cavalieri di Vittorio Veneto, di S. Andrea, ne ricalca il tracciato, che scompare fra i campi, dopo aver superate le ultime case del rione. 2) La via Consolare Campana, usciva da Porta Cumana, ed andava avanti scavalcando il Clanio con un ponte che oggi viene chiamato Ponte a Selice, cioè Ponte di Pietra. Dell’antico ponte sembra che non vi siano più tracce visibili; è rimasto solo il nome.

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Lungo questa via, appena fuori della città, nel 1810 furono ritrovati, alcuni sepolcri adorni di bassorilievi d’elegantissima scultura su bianco marmo. (6.1)

Essi furono trasportati in Napoli presso l’abitazione del Duca di Carignano a cui apparteneva il fondo in cui furono trovati (G. Rucca – Capua antica – pag.122) Di questa strada si conserva tuttora qualche traccia. Infatti ad Aversa, in via D. Cirillo, si possono incontrare ancora due o tre pietre miliari sistemate nelle facciate di alcune abitazioni. La Consolare Campana giungeva a Pozzuoli e poi a Cuma. 3) La via Marittima, lasciava la città attraverso la Porta Linternina o Marittima. Essa passava fra i Casali, oggi chiamati S. Tammaro e Savignano, attraversava i terreni dove ora sorge il complesso di Carditello, ed arrivava fino a Vico di Pantano nei pressi di Liternum e proseguiva fino al lago Patria. (7) Del tracciato di questa strada, purtroppo non si riconosce nulla. Inoltre è da ricordare che nei campi presso S. Andrea correva il decumanus maximus. Di esso, in questa zona, non si trovano più tracce visibili perché cancellate dalle antiche paludi. Il documento più antico che riporta notizie del Casale di S. Andrea risale al 19 luglio 1512. In esso si dice in “Terra Lanei” vi erano 15 casali; fra essi S. Andrea, Savignano e S. Lucia. Scrive, nel 1766 il Granata: ”Questo Casale ha preso la denominazione di S. Andrea dei Lagni per essere la di lui Chiesa Parrocchiale, che ha titolo di S.Andrea, situata unitamente collo stesso casale in mezzo a tanti laghi, che anticamente circondavano l’intero paese e per i pubblici, e privati lagni, che vi sono vicini...In questo Casale vi è il parroco, che ha cura di Anime in circa quattrocento settantacinque..”. (8) E’ indubbio che la Chiesa sia sorta dopo la traslazione delle reliquie di S. Andrea nel regno di Napoli, al termine della IV crociata, indetta dal papa Innocenzo III nel 1203, e che si concluse con la caduta di Costantinopoli. “…le portò seco in Italia il cardinale Pietro Capuano Arcivescovo di Amalfi, legato Apostolico nelle parti orientali nelli dì 8 maggio 1208”.

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( Summonte – Historia della città e Regno di Napoli – tomo IV, pag. 324”. “Probabilmente il culto del Santo era stato diffuso dagli amalfitani – che a Capua abitavano nel quartiere ad Malfitanum (piazza dei Giudici) – i quali avevano una vera e propria devozione per il Santo…” (9) Nel tesoro della cattedrale di Capua è conservato, come reliquia, un dito del Santo. Vane sono risultate, finora, le ricerche per conoscere quale sia la data precisa in cui venne edificata la Chiesa di S.Andrea dei Lagni. Le prime notizie certe inerenti l’edificio ecclesiastico di S. Andrea Apostolo, risalgono al 1570, poiché da questa data iniziano le annotazioni nei registri parrocchiali. L’attuale chiesa, invece, fu edificata nel 1630 circa e benedetta dal primicerio di S. Maria Maggiore, Don Giuliano Saccone. La facciata è in stile neoclassico; venne restaurata nel 1993. L’interno presenta una sola navata con copertura a volta. Nella chiesa si conserva l’affresco di una Madonna con Bambino denominata, secondo la tradizione popolare, la Madonna della Stella. . Si dice che questo affresco, risalente al 1400-1500, si trovasse, in tempi precedenti, presso un’altra chiesa situata nel casale di Pecugnano, luogo alquanto malfamato per via delle meritrici che ivi abitavano. Pertanto “…l’allora Arcivescovo Antonio Melzi ( 1661-1667), avendo saputo delle immorali abitudini di tale casale, ordinò di levare immediatamente il SS.mo Sacramento della Eucaristia ed i Sacramenti di detta chiesa Parrocchiale, i suoi materiali e vasi sacri e li fece trasportare in detta chiesa parrocchiale di S. Andrea; nello stesso tempo ordinò al parroco di S. Andrea di andare a celebrare la S. Messa nei giorni festivi, per comodità delle persone che là vivono in particolare nei tempi delle fatiche”.(10)

I pochi abitanti del Casale di Pecugnano a poco a poco si inserirono nella comunità di S. Andrea e il piccolo villaggio scomparve completamente. L’appellativo “Pecugnano” era già noto al tempo dei Normanni. In uno studio sulle pergamene risalenti a tale periodo, a pag. 269 il prof. G. Bova riporta la seguente notizia : Marzo 1180 – Archivio Capitolare. Gaida……vende sei pezze di terre tra’ confini della terra del Lagno, nel luogo detto Pocugnani a domino Tomaso Graforti… “.

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In località Pecugnano (da pecus, bestiame), vi era uno spazio adibito a pascolo: “locus ubi dicitur – a li mangia boj”. Nei pressi, sorgevano “l’ecclesia S. Angeli de Picugnano” e l’ecclesia S. Rufi”. (11) Altri piccoli agglomerati erano sparsi nelle campagne intorno a S. Andrea Fra essi è da ricordare Savignano, poche case nei pressi della strada regia che da Capua volge ad Aversa, l’attuale SS 7 bis. Oggi, di questo casale non si vedono più nemmeno le rovine, solo un leggero rialzo nella uniformità della campagna circostante. Ne troviamo notizie negli scritti del Granata il quale nella sua Storia Sacra ci fa sapere che la chiesa parrocchiale del casale era sotto il titolo di S. Maria delle Grazie, e il parroco aveva la cura di centodieci anime. Oltre alla succitata chiesa, presso il casale vi era anche una cappella che aveva l’obbligo di dare, come dote maritale ad una onesta zitella del paese, dieci ducati. In tempi più antichi, nei pressi di Savignano o fra Savignano e Pecugnano, vi era anche un convento di Monache, che dovette essere abbandonato. Oggi, il nome di una strada campestre, via delle Monache, ne conserva il ricordo. In un campo, all’incrocio di due strade rurali, un muro smozzicato, si alza solitario e triste: sono i ruderi della chiesa di S. Secondino appartenuta al suddetto Casale; se ne ha notizia in un documento del luglio 1269. (12)

Poco distante da Savignano, esisteva un altro pagus: il Casale dello Staffoli o Staffaro che venne soppresso e unito al vicino Casale di S. Lucia, così chiamato dal nome della sua parrocchia Altre stradine che percorrono i campi tra la via Campana e la strada regia proveniente dalla moderna Capua, riportano ancora i nomi dei paghi scomparsi. Le ragioni che portarono alla totale scomparsa di questi casali, finora non sono state svelate.

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LA CANAPA La coltivazione della canapa era già in uso al tempo dei romani.

Nei primi anni del 1200, nelle nostre terre si coltivava e si lavorava la canapa. “A partire dal XIII secolo compaiono nella nostra documentazione i toponimi “alla Canna Longa” (1221), “S.Maria de Cannellios” (1259), e soprattutto i mestieri di “funarius” relativo alla lavorazione delle funi di canapa (1214), di “cannolese” (1208) o di “cannabarius”, lavoratore della canapa,(1230). (13) Queste date fanno cadere ciò che comunemente si ritiene, cioè che la lavorazione della canapa fosse stata introdotta in Terra di Lavoro fin dal XV sec., su disposizione di Alfonso I d’Aragona (1416-1458). Coltivazione e lavorazione vennero solo reintrodotte da questo monarca. La “Terra Lanei” si prestava a tale coltivazione sia per la fertilità del suolo sia per la disponibilità delle acque del vicino Clanio, che potevano essere facilmente utilizzate per la macerazione delle piante. Le piante venivano seminate verso la metà di marzo; alla fine di giugno e per tutto il mese di luglio si procedeva alla estirpazione delle ormai cresciute piante. All’estirpazione e non al taglio: le braccia avvolgevano una certa quantità di steli e tiravano su: Si “scavava u cannule”. Poi gli steli venivano stesi al sole ad asciugare, e di tanto in tanto si giravano per rendere omogenea l’essiccazione. Qualche giorno all’esposizione solare bastava per far cadere le foglie ormai secche, scuotendo e sfregando fra loro gli steli. Questa operazione, fatta in campagna sotto il cocente sole di luglio, si chiamava “scutuliatura”: “si scutuliava ‘u cannule”. Gli steli venivano raccolti in fasci, i cosidetti “mattuli”. Si toglievano le radici. Terminata questa prima fase, i fasci appesantiti da grosse pietre, e sommersi in grosse vasche piene d’acqua, anch’esse chiamate lagni, venivano fatti macerare per otto – dieci giorni al fine di sciogliere il collagene, permettendo così, la separazione della corteccia dal fusto. Dopo la macerazione i fasci, disposti in covoni, si facevano asciugare al sole. Successivamente, venivano trasportati presso le

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spaziose aie dei proprietari, per essere battuti con un tipico attrezzo ricavato da un tronco di albero, la “macennula”. Si frantumava, con essa, la parte legnosa dello stelo riducendola a pezzetti, i cosidetti “cannaucciuli”, permettendo così la separazione dei filamenti tessili. Le fibre ottenute venivano “spatuliate”, per liberarle dai residui più piccoli ancora attaccati, e alla fine, venivano pettinate.. Il prodotto ottenuto con un lavoro non certo leggero, era un semilavorato. Veniva immagazzinato e poi distribuito ai centri di lavorazione

NOTE BIBLIOGRAFICHE (1) ( Verg. Georg.II 225) (2) (A. Maiuri - “Passeggiate Campane – pag. 116) (3) (da Gaetano Caporale – notizie Storiche della Città di Acerra- - pag.297) (4) (G. Caporale – op. cit. pag 48) (5) (G. Caporale – op. cit. pag. 13) (6) (A. Maiuri – Passeggiate campane - pag. 90)

(6.1) (G. Rucca – Capua antica pag. 89) (7) (F.Granata - Storia Civile di Capua – libro I – pag. 82).

(8) (F.Granata – Storia Sacra della Chiesa Metrop. di Capua – lib. III pag. 40) (9) (G.Bova – Le Pergamene Sveve – vol. I pag. 46). (10) (da “La Parrocchia di S.Andrea Apostolo nella storia” - pag. 23). (11) (G. Bove – La vita quotidiana a Capua - pag. 9 – 11). (12) (G. Bova - “Tra Seduciti e Burlassi nella Capua Vetere medievale” a pag. 82). (13) (G: Bova – Pergamene Sveve – vol. II pag. 95).

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Indice TERRA DI LAVORO pag. 1 PIAZZA MAZZINI “ 21 CORSO GARIBALDI “ 40 RICORDI GARIBALDINI “ 79 VIA ROBERTO D’ANGIO’ “ 100 VIA CAPPABIANCA “ 117 CLANIS – S. ANDREA DEI LAGNI “ 126


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