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SamuelPHuntington-Loscontrodelleciviltàeilnuovoordinemondiale

Date post: 03-Jan-2016
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SAMUEL P. HUNTINGTON

Lo scontro delle civiltà

e il nuovo ordine mondiale

G A R Z A N T I

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Prima edizione: Settembre 1997

Traduzione dall'inglese di Sergio Minucci

Titolo originale dell'opera: The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order

Copyright © 1996 by Samuel P. Huntington

ISBN 88-11-59972-5

© Garzanti Editore s.p.a., 1997 Printed in Italy

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A N a n c y c h e h a s o p p o r t a t o lo «Scont ro»

col so r r i so sul le l a b b r a

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PREFAZIONE

Nell 'estate del 1993 la rivista «Foreign Affairs» pubblicò un mio saggio intitolato «Scontro tra le civiltà?». Quell 'art icolo, secondo gli editori della rivista, ha scatenato in questi tre anni un dibattito più intenso di quello provocato da qualsiasi altro articolo da loro pubblicato a part ire dagli anni Quaranta . Di certo più intenso di qualsiasi altra cosa abbia mai scritto. Rea-zioni e comment i sono piovuti da numerosissimi paesi di tutti i continenti . L 'opinione pubblica è rimasta impressionata, affa-scinata, offesa, atterrita e perplessa dalla mia tesi secondo cui l ' e lemento centrale e più pericoloso dello scenario politico in-ternazionale che va delineandosi oggi è il crescente conflitto tra g ruppi di diverse civiltà. Al di là di tutto, l 'articolo ha certa-men te toccato un nervo scoperto presso tutte le civiltà.

Alla luce dell ' interesse, dei f ra in tendiment i e delle contro-versie suscitati dall 'articolo, mi è sembrato o p p o r t u n o esplora-re più a f ondo i temi in esso affrontati . In genere , un m o d o co-struttivo di por re un prob lema è quello di avanzare un' ipotesi . L'articolo, il cui titolo conteneva un pun to interrogativo igno-rato pressoché da tutti, rappresentava un tentativo in tal senso. Questo libro in tende forni re una risposta più esauriente, ap-profondi ta e documen ta t a alla d o m a n d a posta dall 'articolo. L'obiettivo è quello di elaborare, precisare, completare e, lad-dove necessario, r idefinire i temi affrontat i nell 'articolo, non-ché di sviluppare nuove idee e sviscerare numeros i argoment i in esso assenti o solo superf icialmente accennati . Questi com-p rendono : il concetto di civiltà (al plurale); la quest ione del-l'esistenza o m e n o di u n a civiltà universale; il r appor to tra po-tere e cultura; i mutament i in atto negli equilibri di po tere tra le varie civiltà; l '«indigenizzazione» culturale nelle società non occidentali; la s trut tura politica delle civiltà; i conflitti generati dall 'universalismo occidentale, dall ' integralismo musu lmano e

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dal d inamismo cinese; la politica di a l l ineamento o di contrap-posizione in risposta al crescere della potenza cinese; cause e d inamiche delle guer re di faglia; il fu tu ro della civiltà occiden-tale e di quella mondiale . Un tema di fondamenta le importan-za non aff ronta to nell 'articolo era quello del fortissimo impat-to prodot to dallo sviluppo demograf ico in termini di instabilità e di equilibrio dei poteri. Un secondo tema di g rande rilevanza anch 'esso assente nell 'art icolo è sintetizzato nel titolo del libro e nella sua frase conclusiva: «Nell 'epoca che ci apprest iamo a vivere, gli scontri f ra civiltà rappresen tano la più grave minac-cia alla pace mondiale , e un ord ine internazionale basato sulle civiltà è la migliore protezione dal pericolo di u n a guer ra mon-diale».

Questo libro non vuole essere u n o studio di scienze sociali, quan to piuttosto un ' in terpre taz ione dell 'evoluzione mostrata dalla politica internazionale nel l 'epoca post-Guerra f redda . In-tende presentare un model lo interpretativo dello scenario po-litico mondiale che risulti valido per gli studiosi e utile per i po-litici. Il banco di prova della sua validità e utilità non sta nel considerare se esso contempli o m e n o tutto quanto avviene og-gigiorno nel campo della politica internazionale - cosa che ov-viamente non pot rebbe mai fare - , quan to piuttosto nel verifi-care se off ra o m e n o una lente attraverso cui osservare gli svi-luppi internazionali migliore e più utile di qua lunque model lo alternativo. Inoltre, nessun model lo è valido per l 'eternità. Se un approccio interpretativo di questo tipo, basato cioè sullo studio delle civiltà, p u ò risultare utile per comprende re la poli-tica internazionale a cavallo tra xx e xxi secolo, ciò non signifi-ca che lo sarebbe stato a metà xx secolo o che debba continua-re ad esserlo a metà del xxi.

Le idee che h a n n o dato vita all 'articolo e quindi a questo li-bro sono state espresse in pubblico per la pr ima volta in occa-sione di u n a «Bradley Lecture» tenuta all 'American Enterprise Institute di Washington nel l 'o t tobre del 1992 e successivamen-te elaborate in un saggio prepara to per un proget to dell 'Olin Institute dal titolo «The Changing Security Environment and American National Interests», sponsorizzato dalla Smith Ri-chardson Foundat ion. In seguito alla pubblicazione dell 'arti-colo, venni coinvolto in una serie infinita di seminari e dibatti-ti con esponent i del m o n d o accademico, governativo e im-

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prendi tor iale organizzati ai quat t ro angoli degli Stati Uniti sul tema dello «scontro». Inoltre, ho avuto la fo r tuna di partecipa-re a discussioni sull 'articolo e sulle tesi in esso con tenu te in molti altri paesi, tra cui Argentina, Belgio, Cina, Francia, Ger-mania, Inghil terra, Corea, Giappone, Lussemburgo, Russia, Arabia Saudita, Singapore, Sudafrica, Spagna, Svezia e Taiwan. Tali discussioni mi h a n n o por ta to a contat to con tutte le mag-giori civiltà del pianeta a eccezione di quella indù, e mi h a n n o permesso altresì di t rarre enormi benefici dalle opinioni e sug-gerimenti dei suoi partecipanti . Nel 1994 e 1995 ho tenuto a Harvard un seminario sulla na tura dell 'era post-Guerra f redda, e i comment i , sempre appassionati, a volte critici, degli studen-ti mi h a n n o offer to un ulteriore stimolo. La realizzazione di questo libro ha potu to inoltre beneficiare dello stimolante am-biente del J o h n M. Olin Institute for Strategie Studies e del Center for Internat ional Affairs di Harvard.

Il manoscrit to è stato letto in teramente da Michael C. Desch, Robert O. Keohane, Fareed Zakaria e R. Scott Z immermann , i cui comment i h a n n o consenti to significativi miglioramenti sia nella sostanza che nella s trut tura del libro. Durante tutta la ste-sura del testo, Scott Z i m m e r m a n n mi ha inoltre forni to un sup-por to indispensabile nel lavoro di ricerca; senza il suo costante, energico e competente aiuto questo libro non sarebbe mai sta-to completato nei tempi in cui è avvenuto. Un ruo lo importan-te h a n n o svolto anche i nostri collaboratori non laureati, Peter J u n e Christiana Briggs. Grace de Magistris ha digitato alcune pr ime versioni del manoscrit to, e Carol Edwards ha riorganiz-zato il manoscri t to con g rande impegno e superba efficienza un così gran n u m e r o di volte che credo debba ormai cono-scerne buona parte a memoria . Denise Shannon e Lynn Cox della Georges Borchard, e Robert Asahina, Rober t Bender e J o h a n n a Li della Simon & Schuster h a n n o seguito con entusia-smo e professionalità il libro lungo tutto il processo di pubbli-cazione. Sono immensamente grato a tutte queste persone per il contr ibuto da loro offer to alla realizzazione di quest 'opera , che h a n n o reso migliore di quan to sarebbe stata altr imenti . Delle manchevolezze che ancora presenta sono ovviamente l'u-nico responsabile.

Questo libro è stato reso possibile grazie al contr ibuto finan-ziario della J o h n M. Olin Foundat ion e della Smith Richardson

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Foundat ion. Senza la loro assistenza, il suo comple tamento sa-rebbe stato rinviato di anni. Apprezzo d u n q u e immensamente il generoso suppor to da essi of fer to a questa mia impresa. Lad-dove altre fondazioni h a n n o incentrato il propr io interesse su argoment i di politica interna, la Olin Foundat ion e la Smith Ri-chardson mer i tano un plauso particolare per il loro immuta to interesse e per il suppor to concreto offer to nei confront i di te-mi quali la guerra , la pace e la sicurezza nazionale e interna-zionale.

S. P. H.

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UN MONDO DI CIVILTÀ

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CAPITOLO PRIMO La n u o v a e r a de l l a po l i t i ca m o n d i a l e

Bandiere e identità culturale

Il 3 gennaio 1992, nell 'auditorium di un edifìcio governativo di Mosca si svolse un incontro tra studiosi russi e americani. Due settimane prima, l 'Unione Sovietica aveva cessato di esistere e la Federazione russa era diventata un paese indipendente . Di con-seguenza, la statua di Lenin che prima ornava il palco dell 'audi-torium era scomparsa, e al suo posto sulla parete di fondo, cam-peggiava la bandiera della Federazione russa. L'unico problema, come ebbe a osservare un delegato americano, era che la ban-diera era stata appesa alla rovescia. Allorché fu fatta notare la co-sa, alla prima interruzione dei lavori gli ospiti russi provvidero celermente e compostamente a correggere l 'errore.

Gli anni successivi alla Guerra f redda videro l'inizio di muta-ment i drammatici nelle identità dei popoli e nei simboli che le incarnavano. Il quadro politico mondiale iniziò a essere ricon-figurato in base a criteri culturali. Le bandiere appese alla ro-vescia fu rono un simbolo di tale transizione, ma sempre più nu-merose sono oggi le bandiere p ienamente e cor re t tamente di-spiegate al vento, e i russi e tanti altri popoli vanno mobilitan-dosi e marc iando dietro questi e altri simboli delle loro nuove identità culturali.

Il 18 aprile 1994 duemila persone scesero in piazza a Saraje-vo sventolando le bandiere dell 'Arabia Saudita e della Turchia. Esibendo tali vessilli, anziché quelli delle Nazioni Unite, della Nato o degli Stati Uniti, in tendevano identificarsi con i loro correligionari musulmani e mostrare al m o n d o intero chi fos-sero i loro veri amici e chi solo i presunti .

Il 16 ot tobre 1994 settantamila persone manifes tarono a Los Angeles sotto «un mare di bandiere messicane» per protestare contro la «Proposition 187», un r e f e r endum che se approvato

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avrebbe abrogato in California numerosi sussidi statali a tutti gli immigrati illegali e ai loro figli. «Perché scendono in strada a chiedere che questo paese dia loro l ' istruzione gratis svento-lando la bandiera messicana?», si chiese chi assisteva alla scena. «E la bandiera americana che dovrebbero sventolare». Due set-t imane dopo, una folla ancor più numerosa si riversò nuova-men te in strada. Questa volta i manifestanti sventolavano una bandiera americana, ma alla rovescia; una protesta che assicurò la vittoria della «Proposition 187» con il 59 per cento dei voti.

Nel m o n d o post-Guerra f r edda le bandiere sono important i , al pari di altri simboli di identità culturale: croci, mezzelune, e persino copricapi; perché la cultura è importante , e l ' identi tà culturale è per la gran parte degli uomini il valore primario. Il genere u m a n o sta scoprendo nuove, ma spesso anche vecchie identità, e sta marc iando sotto nuove (ma spesso anche vec-chie) bandiere che por tano a combat tere guer re contro nuovi (ma spesso anche vecchi) nemici.

Una ben triste Weltanschauung per questa nuova era è stata ben espressa dal demagogo nazionalista veneziano protagonista del romanzo di Michael Dibdin, Dead Lagoon: «Non esistono ve-ri amici senza veri nemici. Se non odiamo ciò che non siamo, non possiamo amare ciò che siamo. Sono queste le antiche ve-rità che stiamo dolorosamente r iscoprendo dopo un secolo e passa di ipocriti sentimentalismi. Chi osa negarle, nega la pro-pria famiglia, la propria tradizione, la propria cultura, il proprio diritto di nascita, la propria stessa persona! E non sarà perdona-to tanto facilmente». Statisti e studiosi non possono ignorare ta-li antiche verità: per tutti i popoli intenti a ricercare un ' ident i tà e a reinventarsi un vincolo d 'appar tenenza etnica, l'individua-zione di un nemico costituisce un elemento essenziale, e i foco-lai di inimicizia potenzialmente più pericolosi scoppiano sempre lungo le linee di faglia tra le principali civiltà del mondo.

La tesi di f ondo di questo saggio è che la cultura e le identità culturali - che al livello più ampio cor r i spondono a quelle del-le rispettive civiltà - siano alla base dei processi di coesione, di-sintegrazione e conflittualità che caratterizzano il m o n d o post-Guerra f redda. Le cinque parti in cui è suddiviso e laborano va-ri corollari di tale tesi.

Parte I: per la pr ima volta nella storia, lo scenario politico mondia le appare a un tempo mult ipolare e caratterizzato da

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un alto n u m e r o di civiltà diverse; modernizzazione non è sino-n imo di occidentalizzazione, e tale processo in atto non produ-ce alcuna forma significativa di civiltà universale, né l 'occiden-talizzazione delle società non occidentali.

Parte II: gli equilibri di potere tra le varie civiltà s tanno mu-tando: l ' inf luenza relativa del l 'Occidente è in calo; le civiltà asiatiche accrescono la loro forza economica, militare e politi-ca; il m o n d o islamico vive un 'esplosione demografica con con-seguenze destabilizzanti per i paesi musulmani e i loro vicini; le civiltà non occidentali in generale r ia f fermano il valore delle propr ie culture.

Parte III: emerge un ord ine mondiale fonda to sul concet to di «civiltà»: le società cul turalmente affini t endono a cooperare tra loro; i tentativi di alcune società di passare a un 'a l t ra civiltà falliscono; i vari paesi si raccolgono in torno agli stati guida del-la propr ia civiltà.

Parte IV: con le sue pretese universalistiche, l 'Occidente sta en t r ando sempre più in conflit to con altre civiltà, in particola-re con l'Islam e la Cina, men t re a livello locale lo scoppio di gue r re tribali, soprat tut to tra musulmani e non musulmani , provoca la «chiamata a raccolta dei paesi fratelli», innesca il pericolo di un 'espans ione del conflitto e induce perciò gli stati guida a tentare di porvi fine.

Parte V: la sopravvivenza dell 'Occidente dipende dalla volontà degli Stati Uniti di confermare la propria identità occidentale, e dalla capacità degli occidentali di accettare la propria civiltà co-me qualcosa di peculiare, ma non di universale, e di unire le proprie forze per rinnovarla e proteggerla dalle sfide provenien-ti dalle società non occidentali. La possibilità di scongiurare una guerra globale tra opposte civiltà dipende dalla disponibilità dei governanti del mondo ad accettare la natura «a più civiltà» del quadro politico mondiale e a cooperare alla sua preservazione.

Un mondo multipolare e a più civiltà

Per la prima volta nella storia dell 'epoca post-Guerra f redda, il quadro politico mondiale appare al contempo multipolare e suddiviso in più civiltà. Per gran parte dell'esistenza umana i contatti tra le varie civiltà sono stati intermittenti o del tutto

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inesistenti fino a che, con l'inizio dell 'era moderna , in torno al 1500, la politica mondiale assunse una duplice dimensione. Per oltre quat t rocento anni, gli stati nazionali del l 'Occidente - In-ghilterra, Francia, Austria, Prussia, Germania, Stati Uniti e altri - d iedero vita a un sistema internazionale multipolare all 'inter-no della civiltà occidentale e nel l 'ambito di tale sistema intera-girono, in pe renne lotta gli uni contro gli altri. Nel contempo, le nazioni occidentali si espansero e conquistarono, colonizza-rono o inf luenzarono for temente tutte le altre civiltà (Cartina 1.1). Durante la Guerra f redda, il quadro politico mondiale di-venne bipolare e il mondo si divise in tre parti. Un g ruppo di so-cietà più ricche e democratiche, guidate dagli Stati Uniti, en t rò in forte competizione - ideologica, politica, economica e a vol-te militare - con un g ruppo di società comuniste più povere, ca-peggiate dal l 'Unione Sovietica. Gran parte di tale conflitto si consumò al di fuori di questi due campi, nel Terzo Mondo, co-stituito da paesi spesso poveri, poli t icamente instabili, di recen-te indipendenza e che si definivano non allineati (Cartina 1.2).

Alla fine degli anni Ottanta del Novecento l'universo comuni-sta è crollato, e il sistema internazionale caratteristico della Guerra f redda è entrato a far parte della storia. Nel m o n d o post-Guerra fredda, le principali distinzioni tra i vari popoli non sono di carattere ideologico, politico o economico, bensì culturale. Popoli e nazioni tentano di r ispondere alla più basilare delle do-mande che un essere umano possa porsi: chi siamo? E lo fanno nel modo tradizionale in cui l'essere u m a n o ha sempre risposto: facendo riferimento alle cose che per lui hanno maggior signifi-cato. L 'uomo si autodefinisce in termini di progenie, religione, lingua, storia, valori, costumi e istituzioni. Si identifica con grup-pi culturali: tribù, gruppi etnici, comunità religiose, nazioni e, al livello più ampio, civiltà. L 'uomo utilizza la politica non solo per salvaguardare i propri interessi ma anche per definire la propria identità. Sappiamo chi siamo solo quando sappiamo chi non sia-mo e spesso solo quando sappiamo contro chi siamo.

Gli stati nazionali restano gli attori principali della scena in-ternazionale. Le loro azioni sono ispirate come in passato dal perseguimento del potere e della ricchezza, ma anche da prefe-renze, comunanze e differenze culturali. I principali raggruppa-menti di stati non sono più i tre blocchi creati dalla Guerra fred-da, ma le sette o otto maggiori civiltà del globo (Cartina 1.3). Le

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società non occidentali, particolarmente in Asia orientale, stan-no sviluppando le loro potenzialità economiche e creano le basi per l'acquisizione di una maggiore potenza militare e influenza politica. Via via che acquisiscono sempre maggiore potere e si-curezza di sé, le società non occidentali t endono a difendere sempre più strenuamente i propri valori culturali e a rifiutare quelli «imposti» loro dall 'Occidente. «Il sistema internazionale del xxi secolo», ha osservato Henry Kissinger, «...conterà almeno sei grandi potenze - Stati Uniti, Europa, Cina, Giappone, Russia e probabilmente India - e una miriade di paesi piccoli e medi».1

Le sei grandi potenze elencate da Kissinger appar tengono a ben cinque civiltà molto diverse tra loro. Oltre a esse, vi sono poi im-portanti stati islamici che per posizione geografica, sviluppo de-mografico e / o risorse petrolifere esercitano un ruolo molto in-fluente sulla scena internazionale. In questo nuovo mondo, la politica al livello locale è basata sul concetto di etnia, quella al li-vello globale sul concetto di civiltà. La rivalità tra superpotenze è stata soppiantata dallo scontro di civiltà.

In questo nuovo m o n d o i conflitti più profondi , laceranti e pericolosi non saranno quelli tra classi sociali, tra ricchi e pove-ri o tra altri gruppi caratterizzati in senso economico, bensì tra gruppi appartenent i ad entità culturali diverse. All ' interno del-le diverse civiltà si verificheranno guerre tribali e conflitti etnici. La violenza tra stati e gruppi appar tenent i a civiltà diverse pre-senta tuttavia il rischio di una possibile escalation via via che al-tri stati e gruppi accorrono in aiuto dei rispettivi «paesi fratel-li».2 Il sanguinoso scontro di clan in Somalia non presenta alcun rischio di ampliamento del conflitto; l 'al trettanto sanguinoso scontro di tribù in Rwanda ha delle implicazioni per l 'Uganda, lo Zaire e il Burundi , ma la cosa si fe rma lì; gli scontri di civiltà in Bosnia, nel Caucaso, in Asia centrale o nel Kashmir, viceversa, po t rebbero degenerare in guerre di dimensioni ben più vaste. Nel conflitto jugoslavo, la Russia ha offerto appoggio diploma-tico ai serbi, ment re Arabia Saudita, Turchia, Iran e Libia han-no forni to armi e denaro ai bosniaci, il tutto non per ragioni ideologiche, strategie di potere o interessi economici, ma per motivi di affinità culturale. «I conflitti culturali», ha osservato

1 Henry A. Kissinger, Diplomacy, New York, Simon & Schuster, 1994, pp. 23-4. 2 L'espressione è di H.D.S. Greenway, «Boston Globe», 3 dicembre 1992, p.19.

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L'Occidente e gli altri: 1920

| Parti del mondo dominate dall'Occidente I | Parti del mondo nominalmente o realmente indipendenti dall'Occidente

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| Mondo libero | j Blocco comunista

Paesi alleati

Il mondo all'epoca della Guerra fredda: 1960-1970

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Il mondo delle civiltà: dopo il 1990

| Occidentale Latino americana

| Africana Islamica | 1 Ortodossa

¡§§ Sinica | [ Buddista Xj] Indù [IIIIHl Giapponese

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Vàclav Havel, «stanno aumen tando sempre più e oggi sono più pericolosi di quanto lo siano mai stati in qualunque altra epoca storica»; e Jacques Delors si è detto d 'accordo sul fatto che «i fu-turi conflitti saranno innescati da fattori culturali più che eco-nomici o ideologici».3 E i conflitti culturali più pericolosi sono quelli che cor rono lungo le linee di faglia tra civiltà diverse.

Nel m o n d o post-Guerra f redda, la cultura è u n a forza al con-t empo disgregante e aggregante. Popolazioni divise dall ' ideo-logia ma cul turalmente omogenee vengono a unificarsi, come h a n n o fatto le due Germanie e come s tanno iniziando a fare le due Coree e le varie entità territoriali cinesi. Società uni te dal-l ' ideologia o da circostanze storiche ma appar tenent i a diffe-renti civiltà finiscono viceversa con lo sgretolarsi, com 'è acca-duto a l l 'Unione Sovietica, alla Jugoslavia, alla Bosnia, o p p u r e sono scosse da violente tensioni, come ad esempio in Ucraina, Nigeria, Sudan, India, Sri Lanka e in molti altri luoghi. I paesi cul turalmente affini cooperano sul p iano economico e politi-co. Le organizzazioni internazionali cui aderiscono stati cultu-ra lmente affini, come l 'Unione europea , h a n n o molto più suc-cesso di quelle che tentano di t rascendere le barr iere culturali. Per quarantac inque anni la «cortina di ferro» è stata la princi-pale barr iera di divisione del l 'Europa. Oggi tale barr iera si è spostata di diverse centinaia di chilometri a est e separa i po-poli cristiano-occidentali da quelli musulmani e ortodossi.

Gli assunti filosofici che caratterizzano valori, relazioni so-ciali, costumi e concezioni di vita in generale delle varie civiltà sono molto diversi tra loro. Il risveglio religioso in atto in gran parte del m o n d o acuisce ancor più tali differenze. Le culture possono cambiare, e la natura del loro impatto sugli scenari po-litici ed economici può variare da un per iodo all 'altro. Non c 'è dubbio, tuttavia, che le differenze più p ro fonde nello sviluppo politico ed economico delle varie civiltà siano radicate nella di-versità delle loro culture. Il boom economico dell'Asia orienta-le a f fonda le proprie radici nella peculiare cultura est-asiatica, e lo stesso vale per le difficoltà che incont rano le società est-asia-tiche nel creare stabili sistemi politici democratici. La cultura

3 Vàclav Havel, «The New Measure of Man», in «New York Times», 8 luglio 1994, p. A27; Jacques Delors, «Questions Concerning European Security», Address, International Institute f'or Strategie Studies, Bruxelles, 10 settembre 1993, p. 2.

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islamica spiega in gran par te il mancato successo della demo-crazia in quasi tutto il m o n d o musulmano. Gli sviluppi nelle so-cietà post-comuniste es teuropee e dell 'ex Unione Sovietica so-no stati determinat i dalla peculiare identità delle rispettive ci-viltà di appar tenenza. Quelle di tradizione cristiano-occidenta-le s tanno p rocedendo lungo la strada dello sviluppo economi-co e di un sistema politico democratico; le prospettive di svi-luppo economico e politico dei paesi ortodossi sono incerte; quelle delle repubbl iche musu lmane appa iono fosche.

L 'Occidente è e resterà per gli anni a venire la civiltà più po-tente. Il suo potere in relazione a quello di altre civiltà, tuttavia, si va progressivamente r iducendo . Dinanzi al tentativo occi-dentale di imporre i propr i valori e proteggere i propr i inte-ressi, le società non occidentali si trovano a un bivio. Alcune ten tano di emulare l 'Occidente e di unirsi o allinearsi a esso. Altre società, come quelle confuc iane o islamiche, t en tano di e spandere il propr io po te re economico e militare al fine di contrappors i a l l 'Occidente. Un e lemento chiave del quadro politico mondiale post-Guerra f r edda diventa quindi l ' intera-zione tra potere e cultura occidentale da un lato e potere e cul-tura delle civiltà non occidentali dall 'altro.

In sintesi, il m o n d o post-Guerra f r edda è un m o n d o compo-sto da sette o otto grandi civiltà. Le affinità e le dif ferenze cul-turali de t e rminano gli interessi, gli antagonismi e le associazio-ni tra stati. I paesi più important i del m o n d o appa r t engono in g rande prevalenza a civiltà diverse. I conflitti locali con mag-giori probabili tà di degenerare in guer re globali sono quelli tra g ruppi e stati appar tenent i a civiltà diverse. Il model lo do-minan te di sviluppo politico ed economico varia da u n a civiltà all 'altra. I principali nodi da sciogliere nel campo della politica internazionale r iguardano le differenze tra le varie civiltà. Il potere sta passando dalle tradizionali civiltà occidentali alle ci-viltà non occidentali. Lo scenario politico mondiale è diventato mult ipolare e caratterizzato da più civiltà.

Altri mondi?

Mappe e modelli. Questa immagine di un quadro politico mondia le post-Guerra f r edda domina to da fattori culturali e

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dalle interazioni tra stati e g ruppi di civiltà diverse è ovviamen-te u n a semplificazione. Omet te molte cose, ne distorce altre, ne nasconde altre ancora. E tuttavia, se in tendiamo riflettere ser iamente sul m o n d o in cui viviamo e agire concre tamente al-l ' in te rno di esso, una qualche sorta di cartina semplificata del-la realtà, di teoria, concetto, model lo o paradigma diventa in-dispensabile. In assenza di tali artifici intellettuali ci sarebbe soltanto, come ha af fermato William James, una «gran confu-sione». Il progresso intellettuale e scientifico, come T h o m a s Kuhn ha dimostrato nel suo classico La struttura delle rivoluzioni scientifiche, consiste nel sostituire un model lo sempre m e n o in grado di spiegare fatti nuovi o a p p e n a scoperti, con u n o nuovo capace di dare a tali fatti u n a spiegazione più soddisfacente. «Per essere accettata come modello», ha scritto Kuhn, «una teoria deve apparire migliore di altre teorie rivali, ma non ha bisogno di spiegare - e di fatto non lo fa mai - tutti gli eventi con i quali viene a misurarsi».' «Per potersi or ientare su un ter-reno sconosciuto», ha saggiamente osservato J o h n Lewis Gad-dis, «occorre di n o r m a una mappa». La cartografia, al pari del-la conoscenza in quan to tale, è u n a semplificazione necessaria che ci consente di vedere dove siamo e dove p o t r e m m o anda-re». L ' immagine - tipica della Guer ra f r edda - della competi-zione tra superpotenze, osserva Gaddis, ha rappresenta to un model lo di questo tipo, defini to per pr imo da Har ry T r u m a n come un «esercizio di cartografia geopolitica che illustra il pa-no rama internazionale in termini comprensibili a ch iunque , e che in tal m o d o ha prepara to la strada per la sofisticata strate-gia del con ten imento che sarebbe da lì a poco seguita». Visioni globali del m o n d o e teorie causali sono guide indispensabili per la politica internazionale. '

Per quaran t ' ann i studiosi e protagonisti degli affari interna-zionali h a n n o pensato e agito in accordo con tale model lo di

4 Thomas S. Kuhn, The Strutture ofSrientific Revolutions, Chicago, University of Chicago Press, 1962, pp. 17-8 (trad. it. La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Torino, Einaudi, 1978'). 5 John Lewis Gaddis, «Toward the Post-Cold War World», in «Foreign Af-faire», n. 70, Primavera 1991, p. 101; Judith Goldstein e Robert O. Keohane, «Ideas and Foreign Policy: An Analytical Framework», in Goldstein e Keoha-ne (a cura di), Ideas and Foreign Policy: Betiefs, Institutions, and Politicai Change, Ithaca, Cornell University Press, 1993, pp. 8-17.

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rappor t i internazionali , quello a p p u n t o det to della Guer ra f redda . Tale model lo non era certo in grado di spiegare ogni singolo f e n o m e n o della politica mondiale. Vi fu rono , per usare l 'espressione di Kuhn, molte anomalie, e a volte esso impedì a statisti e studiosi di prevedere sviluppi anche important i , quali ad esempio la rot tura sino-sovietica. E tuttavia, in quan to mo-dello semplificato di relazioni internazionali, teneva conto di u n n u m e r o di f enomen i important i maggiore di qualsiasi altro model lo alternativo, costituiva un quadro di par tenza essenzia-le per riflettere sulle relazioni internazionali , fu accettato qua-si universalmente e per due generazioni caratterizzò il m o d o di pensare la politica mondiale .

Modelli o cartine semplificate sono indispensabili per il pen-siero e le azioni de l l 'uomo. Possiamo scegliere di esplicitare ta-li teorie o modelli e usarli come guide di compor tamento , op-pure possiamo negare la necessità di tali guide e r i tenere di po-ter agire esclusivamente sulla base di specifici fatti «oggettivi», di ent rare «nel merito» di ogni singolo caso. Presumere di po-ter fare questo, tuttavia, significa semplicemente ingannare se stessi. Nel f ondo della nostra mente , infatti, covano pregiudizi, preconcet t i e opinioni che de t e rminano il nostro m o d o di per-cepire la realtà, di preselezionare i fatti che a t t raggono la no-stra at tenzione e il m o d o di giudicarne il meri to e la sostanza. Abbiamo bisogno di modelli espliciti o impliciti che ci consen-tano di:

1. ordinare e creare delle generalizzazioni in meri to alla realtà che ci circonda;

2. comprende re le relazioni causali tra i fenomeni ; 3. capire in anticipo e, se siamo fortunat i , p reannunz ia re gli

sviluppi futuri; 4. discernere cosa è impor tan te da cosa non lo è; 5. c o m p r e n d e r e quale strada seguire per conseguire i nostri

obiettivi.

Qua lunque tipo di mappa o model lo è un 'as t razione e sarà d u n q u e più utile per certi fini e m e n o per altri. Una mappa stradale ci indica come arrivare in automobile da A a B, ma non ci servirà a molto se stiamo pi lotando un aereo, nel qual caso avremo piuttosto bisogno di un 'apposi ta m a p p a con indi-

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cazione di aeroport i , radiofari, corridoi aerei e tracciati topo-grafici. Senza mappa, tuttavia, ci pe rde remmo. Quan to più u n a cartina è dettagliata, tanto più fede lmente r iproduce la realtà. E tuttavia u n a mappa eccessivamente minuziosa non p u ò servi-re a molti scopi. Se in tendiamo p rende re l 'autostrada per an-dare da una grande città a un 'al t ra , non ci occorre e p o t r e m m o anzi trovare con t roproducen te utilizzare u n a cartina piena di informazioni non attinenti alla rete autostradale e in cui questa viene a intrecciarsi e confonders i con u n a fitta ragnatela di ar-terie secondarie. D'al t ronde, u n a cartina che indicasse soltanto le autostrade nasconderebbe b u o n a par te della realtà delle co-se e non ci pe rmet te rebbe di scegliere strade alternative nel ca-so in cui l 'autostrada fosse bloccata a causa di un incidente. In breve, abbiamo bisogno di u n a cart ina che al con t empo mostri la realtà e la semplifichi nel m o d o più utile ai nostri fini. Alla fi-ne della Guerra f r edda f u r o n o proposte diverse mappe o mo-delli di relazioni internazionali .

Un solo mondo: euforia e armonia. Un model lo es t remamente diffuso era basato sul presupposto che la fine della Guerra fred-da significasse la fine dei grandi conflitti internazionali e la na-scita di un m o n d o relativamente armonioso. La formulazione più discussa di tale model lo è la tesi della «fine della storia» p ropugna ta da Francis Fukuyama.1 ' «E possibile», sostenne Fukuyama, «che siamo giunti [...] alla fine della storia in quan-to tale; vale a dire al capolinea dell 'evoluzione ideologica del-l 'umani tà e all'universalizzazione della democrazia liberale oc-cidentale quale fo rma ultima di governo dell 'umanità». Certo, qualche conflitto sarebbe ancora potu to scoppiare nel Terzo Mondo, ma la conflittualità al livello globale era ormai finita, e non soltanto in Europa. «E precisamente nel m o n d o non eu-ropeo» che sono occorsi i maggiori cambiamenti , particolar-men te in Cina e in Un ione Sovietica. La guer ra per motivi ideologici è giunta al termine. Fautori del marxismo-leninismo possono ancora esistere «in posti come Managua, Pyongyang e Cambridge, Massachusetts», ma nel complesso la democrazia li-

6 Una linea di pensiero parallela fondata non sulla fine della Guerra fredda bensì sull'esistenza di tendenze sociali ed economiche di lungo periodo de-stinate a sfociare in una «civiltà universale» viene discussa nel capitolo 3.

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berale ha trionfato. Il fu tu ro non sarà più dedi to ai grandi, vi-vificanti scontri di ideologie, ma piuttosto a risolvere concreti problemi economici e tecnici. E il tutto, concludeva a lquanto mes tamente Fukuyama, sarà a lquanto noioso.7

Tale aspettativa di a rmonia era ampiamente condivisa. Lea-der politici e intellettuali e laborarono previsioni di ugual se-gno. Il muro di Berlino era stato abbattuto, i regimi comunisti e rano crollati, le Nazioni Unite avrebbero acquisito un ' impor-tanza tutta nuova, gli ex paesi rivali della Guerra f r edda avreb-bero sviluppato rapport i di «collaborazione» e sarebbe stato si-glato un «grande patto» in grado di assicurare e salvaguardare la pace universale. Il presidente della nazione leader del m o n d o proclamò il «nuovo ordine mondiale»; il presidente di quella che - discutibilmente - è considerata la prima università del m o n d o impedì la nomina di un professore di studi sulla difesa e la sicurezza perché non ce n ' e ra più bisogno: «Evviva! Non dob-biamo più studiare la guerra, perché la guerra non esiste più».

Il m o m e n t o di euforia che seguì la fine della Guer ra f r edda generò un' i l lusione di a rmonia destinata ben presto a rivelarsi a p p u n t o tale. All'inizio degli anni Novanta il m o n d o era effet-tivamente cambiato ma non era diventato necessariamente più pacifico. Il mu tamen to era inevitabile, non al tret tanto il pro-gresso. Simili illusioni di a rmonia f iorirono, fugacemente , al te rmine di tutti gli altri grandi conflitti del xx secolo. La Prima guer ra mondia le avrebbe dovuto «porre fine alle guerre» e preparare il m o n d o alla democrazia. La Seconda guer ra mon-diale, secondo le parole di Franklin Roosevelt, avrebbe «messo fine al sistema di iniziative unilaterali, alle alleanze esclusive, agli equilibri di potere e a tutti gli altri espedienti tentati per se-coli e pun tua lmen te falliti». Al suo posto avremmo avuto una «organizzazione universale» di «nazioni amanti della pace» e l 'inizio di u n a «struttura di pace permanente». h La Prima guer-ra mondiale , tuttavia, partorì il comunismo, il fascismo e l'in-versione di u n a secolare tendenza alla democrazia. La Seconda guer ra mondia le produsse u n a Guer ra f r edda che coinvolse

7 Francis Fukuyama, «The End of History», in «The National Interest», n. 16, Estate 1989, pp. 4, 18; cfr. anche La fine della storia e l'ultimo uomo, Rizzoli, Mi-lano, 1992. 8 «Address to the Congress Reporting on the Yalta Conferenze», 1 marzo 1945, in Samuel I. Roseninan (a cura di), Public Papers and Addresses of Frank-lin I). Roosevelt, New York, Russell and Russell, 1969, voi. XIII, p. 586.

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l ' intero pianeta. L'illusione di a rmonia creatasi alla f ine della Guer ra f r edda è stata ben presto dissipata dal prol i ferare di conflitti razziali e di «pulizie etniche», dal mancato rispetto del-la legge e del l 'ordine, dal l ' insorgere di nuovi modell i di al-leanze e conflittualità tra stati, dalla rinascita di movimenti neo-comunisti e neofascisti, dall 'intensificarsi del fondamenta l i smo religioso, dalla f ine della «diplomazia dei sorrisi» e della «poli-tica dei sì» nei rapport i tra Russia e Occidente, dall ' incapacità de l l 'Onu e degli Stati Uniti di soppr imere i sanguinosi conflit-ti locali e dal l 'a t teggiamento sempre più de te rmina to di u n a Cina in via di espansione. Nei c inque anni trascorsi dalla cadu-ta del muro di Berlino la parola «genocidio» è stata pronuncia-ta molto più spesso che in tutti i lustri della Guerra f redda . Il model lo di un unico m o n d o armonioso appare palesemente t roppo distante dalla realtà per poter fungere da utile guida nel m o n d o post-Guerra f redda .

Due mondi: noi e loro. Se le aspettative di un unico m o n d o si manifes tano al te rmine di grandi conflitti, la tendenza a pensa-re in termini di un m o n d o diviso in due esiste da sempre nella storia del l 'umanità. Gli uomini sono sempre tentati di dividere l 'umani tà in «noi e loro», l 'uguale e il diverso, la propr ia civiltà e l 'altrui barbarie. Gli studiosi h a n n o analizzato il m o n d o in termini di Oriente e Occidente, Nord e Sud, centro e periferia. I musulmani lo h a n n o tradizionalmente diviso in Dar ai-Islam e Dar al-Harb, la d imora della pace e la d imora della guerra . Tale distinzione venne ripresa, e in un certo senso rovesciata, alla fi-ne della Guerra f redda dagli studiosi americani, i quali divisero il m o n d o in «aree di pace» e «aree di disordini». Le pr ime com-prendevano l 'Occidente e il Giappone, con circa il 15 per cen-to della popolazione mondiale , le seconde tutti gli altri.9

A seconda di come vengono definite le parti, la schematizza-zione di un m o n d o diviso in due pot rebbe in qualche misura

9 Si veda Max Singer e Aaron Wildasky, The Real World Order: Zones ofPeace, Zo-nes ofTunnoil, Chatham NJ, Chatham House, 1993; Robert O. Keohane e Jo-seph S. Nye, «Introduction: The End of the Cold War in Europe», in Keoha-ne, Nye e Stanley Hoffmann (a cura di), After the Cold War: International Insti-tutions and Stale Strategies in Europe, 1989-1991, Cambridge, Harvard University Press, 1993, p. 6; e James M. Goldgeier e Michael McFaul, «A Tale of Two Worlds: Core and Periphery in the Post-Cold War Era», in «International Or-ganization», n. 46, Primavera 1992, pp. 467-91.

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cor r i spondere alla realtà. La divisione più comune , defini ta con svariati nomi, è tra paesi ricchi (moderni , sviluppati) e pae-si poveri (arretrati, sottosviluppati o in via di sviluppo). Stori-camente correlata a tale divisione economica c 'è poi la divisio-ne culturale tra Occidente e Oriente , in cui l 'accento è posto m e n o su differenze di carattere economico e più su quelle di valori, filosofia e m o d o di vita.1" Pur r if let tendo alcuni elemen-ti di realtà, ciascuna di tali immagini presenta tuttavia dei limi-ti. I paesi ricchi e mode rn i condividono alcune caratteristiche che li differenziano dai paesi tradizionali e poveri, i quali pre-sentano a loro volta dei tratti in comune. Differenti livelli di be-nessere possono scatenare conflitti tra società, ma l 'esperienza dimostra che ciò accade pr incipalmente q u a n d o le società più ricche e potent i t en tano di conquistare e colonizzare quelle più povere e arretrate. L 'Occidente ha fatto esat tamente que-sto per quat t rocento anni; in seguito, alcune colonie si ribella-rono d a n d o vita a guer re di liberazione contro le potenze co-loniali, le quali avevano probabi lmente perso ogni ambizione imperiale. Nel m o n d o odierno, il processo di decolonizzazione è stato ormai completato e alle guer re coloniali di l iberazione si sono sostituiti conflitti tra i popoli liberati.

A un livello più generale, i conflitti tra paesi ricchi e paesi poveri sono poco probabili in quan to i secondi, se n o n in cir-costanze speciali, non h a n n o l 'uni tà politica, la forza economi-ca e le capacità militari per poter sfidare i primi. Lo sviluppo economico in Asia e in America latina sta in qualche m o d o of-fuscando quella che un t empo era la net ta divisione tra paesi abbienti e non abbienti. Gli stati ricchi po t rebbero ingaggiare tra loro guer re commerciali , gli stati poveri po t rebbero affron-tarsi in guer re militari; ma la possibilità di una guer ra di classe internazionale tra il Sud povero e il Nord ricco è un ' ipotesi al-t ret tanto avulsa dalla realtà di quella che postula l 'esistenza di un unico m o n d o armonioso.

Ancora m e n o utile risulta la divisione del m o n d o in senso culturale. A un certo livello, l 'Occidente può essere considera-to un 'en t i t à coesa. Cosa unisce, invece, le società non occiden-tali, oltre al fatto di essere non occidentali? Le civiltà giappo-

10 Si veda F. S. C. Northrop, The Meeting ofEast and West: An Inquiiy Concerning World Understanding, New York, Macmillan, 1946.

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nese, cinese, indù, musulmana e africana h a n n o ben poco in c o m u n e in termini di religione, s trut tura sociale, istituzioni e valori dominant i . L 'unità del m o n d o non occidentale e la con-trapposizione Est-Ovest sono miti creati dal l 'Occidente , che presentano i difetti tipici della teoria dell '«Orientalismo», di cui Edward Said ha giustamente criticato la tendenza a esaltare la «differenza tra ciò che è familiare ( l 'Europa, l 'Occidente , «noi»), e ciò che è estraneo ( l 'Oriente, l'Est, «loro»), e a pre-sumere un ' inna ta superiorità dei primi sui secondi." All 'epoca della Guerra f redda il m o n d o era r igidamente diviso da u n o spartiacque ideologico, ma n o n esisteva nessuno spartiacque culturale. La polarizzazione culturale tra «Est» e «Ovest» è in par te un 'u l te r iore conseguenza dell 'universale ma infelice abi-tudine di chiamare la civiltà europea civiltà occidentale. Anzi-ché di «Oriente e Occidente» sarebbe più appropr ia to parlare di «Occidente e gli altri», il che implica quanto m e n o l'esisten-za di più soggetti non occidentali. Il m o n d o è t roppo comples-so perché lo si possa con qualche profi t to dividere semplice-m e n t e in Nord e Sud da un p u n t o di vista economico e in Est e Ovest da u n pun to di vista culturale.

184 stati, più o meno. Una terza cartina del m o n d o post-Guerra f redda scaturisce da quella che viene spesso definita la teoria «realista» delle relazioni internazionali. Secondo tale teoria gli stati sono i protagonisti, anzi, gli unici attori di rilievo della sce-na internazionale; ma poiché il rappor to intercorrente tra gli stati è di anarchia, per garantire la propria sopravvivenza e sicu-rezza ciascuno di essi tenta invariabilmente di accrescere quanto più possibile il proprio potere. Se u n o stato ritiene che un altro stato stia accrescendo il proprio potere e diventi quindi una po-tenziale minaccia, tenterà di salvaguardare la propria sicurezza rafforzando a sua volta il proprio potere e / o alleandosi con altri stati. Gli interessi e le azioni dei circa 184 stati del m o n d o post-Guerra f redda sono desumibili in base a tali presupposti.12

11 Edward W. Said, Orientalism, New York, Pantheon Books, 1978, pp. 43-4 (trad. it. Orientalismo, Torino, Bollati-Boringhieri, 1991). 12 Si veda Kenneth N. Waltz, «The Emerging Structure of International Poli-tici», in «International Security», n. 18, Autunno 1993, pp. 44-79; John J. Mearsheimer, «Back to the Future: Instabilty in Europe after the Cold War», in «International Security», n. 15, Estate 1990, pp. 5-56.

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Tale q u a d r o «realista» del m o n d o è un utilissimo p u n t o di par tenza per lo studio delle relazioni in ternazional i e spiega molti dei compor t amen t i adottat i dai singoli paesi. Gli stati sono e res te ranno i protagonist i della scena politica in terna-zionale: cost i tuiscono eserciti, m a n t e n g o n o rappor t i diplo-matici, negoz iano trattati , c o m b a t t o n o guer re , con t ro l l ano organizzazioni internazional i , in f luenzano e in considerevole misura d e t e r m i n a n o la p roduz ione e il commerc io . I governi nazionali d a n n o priori tà alla salvaguardia dei rispettivi stati da minacce es terne (sebbene f iniscano spesso col dare invece pr ior i tà alla p ropr ia salvaguardia come governo dalle minac-ce in t e rne ) . Nel complesso, tale model lo «statalista» o f f r e ef-fe t t ivamente u n ' i m m a g i n e e u n a guida alla politica mondia le più realistici di q u a n t o facciano i modell i del m o n d o un ico o dei d u e mondi .

Anch'esso, tuttavia, presenta grossi limiti. Esso presume che tutti gli stati percepiscano i propr i interes-

si allo stesso modo e agiscano allo stesso modo . Il suo semplice presupposto che «il potere è tutto» è un p u n t o di par tenza per comprende re il compor t amen to dei singoli stati, ma n o n por ta molto lontano. Gli stati definiscono i propri interessi in termi-ni di potere ma anche di molte altre cose. Essi t en tano spesso, com'è ovvio, di assicurare un giusto equilibrio di poteri nell 'a-rena internazionale; ma se si limitassero a fare soltanto questo, alla fine degli anni Quaran ta i paesi del l 'Europa occidentale si sarebbero alleati con l 'Unione Sovietica contro gli Stati Uniti. Gli stati reagiscono soprat tut to a ciò che percepiscono come u n a minaccia, e a quel l 'epoca gli stati europei occidentali vide-ro nell 'Est una minaccia politica, ideologica e militare. Inter-p re ta rono i propr i interessi in u n m o d o che la teoria «realista» classica n o n avrebbe mai po tu to pronosticare. Valori, cultura e istituzioni inf luenzano fo r t emente il m o d o in cui gli stati defi-niscono i propr i interessi, e tali interessi vengono inoltre de-terminati non solo dai rispettivi valori e istituzioni in terne, ma anche da n o r m e e organismi internazionali . Al di sopra e al di là dei propr i interessi basilari in materia di sicurezza, tipi di sta-to diversi definiscono i propr i interessi in m o d o diverso, men-tre stati con culture e istituzioni simili avranno un c o m u n e sen-tire. Gli stati democratici p resen tano elementi di comunanza e d u n q u e evitano di combattersi. Il Canada non ha bisogno di al-

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learsi con un 'a l t ra potenza per scongiurare un ' invasione degli Stati Uniti.

A un livello generale, i presupposti del model lo statalista si sono rivelati validi in tutte le epoche storiche. Da questo pun to di vista, dunque , questi presupposti non ci aiutano a compren-dere in che m o d o il quadro politico mondia le post-Guerra f r edda si differenzierà da quello esistente pr ima e duran te la Guerra f redda . E tuttavia evidente che tali differenze esistono, e il m o d o in cui gli stati pe rseguono i propr i interessi cambia da un ' epoca all'altra. Nel m o n d o post-Guerra f redda , gli stati vanno sempre più de f inendo i propr i interessi in termini di ci-viltà di appar tenenza. T e n d o n o a cooperare e ad allearsi con stati di cultura uguale o simile, men t re accade più spesso che ent r ino in conflitto con paesi di diversa cultura. Ident i f icano la presenza di u n a possibile minaccia sulla base delle intenzioni palesate da altri stati, e tali intenzioni, n o n c h é il m o d o in cui vengono percepite, sono p r o f o n d a m e n t e condizionate da con-siderazioni di carattere culturale. I governanti e i cittadini di u n o stato si sentono m e n o minacciati da persone che ritengo-no cul turalmente affini e maggiormente affidabili in virtù di u n a comunanza di lingua, religione, valori, istituzioni e cultu-ra, e molto di più, invece, da stati le cui società h a n n o culture diverse e che quindi essi non possono comprende re o di cui non r i tengono di potersi fidare. Ora che non esiste più un 'U-n ione Sovietica marxista-leninista a minacciare il «mondo libe-ro» e gli Stati Uniti non p o n g o n o più un 'oppos ta minaccia al campo comunista, i paesi di en t rambi i mond i si sen tono sem-pre più minacciati da società cul turalmente diverse.

Sebbene gli stati restino gli attori principali della politica in-ternazionale, la loro sovranità, funzioni e potere vanno sempre più riducendosi. Le istituzioni internazionali r ivendicano oggi il diritto di giudicare e influenzare l 'operato dei singoli stati al-l ' in te rno dei loro stessi confini. In alcuni casi, soprat tut to in Europa, gli organismi internazionali h a n n o assunto funzioni important i che pr ima e rano prerogativa dei singoli stati, e sono state create potent i organizzazioni amministrative internazio-nali che si rivolgono di re t tamente ai singoli cittadini. Si è inne-scata u n a tendenza generalizzata che vede i governi statali per-dere potere anche attraverso la delega di important i funzioni ad autorità politiche regionali, provinciali e locali. In molti sta-

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ti, inclusi quelli del m o n d o sviluppato, esistono dei movimenti regionali fautori di u n a pronuncia ta au tonomia o di u n a vera e propr ia secessione. I governi statali h a n n o pe rdu to in conside-revole misura la capacità di controllare il flusso moneta r io in entrata e in uscita dal p ropr io paese e trovano sempre maggio-ri difficoltà a controllare quello di idee, tecnologia, beni e per-sone. In poche parole, i confini di stato sono diventati sempre più permeabili . Tutti questi sviluppi h a n n o indot to numeros i analisti a prevedere la graduale fine del granitico stato «a palla di biliardo» che sembra essere stata la n o r m a a part ire dal Trat-tato di Westfalia del 1648," e l ' emergere di un variegato, com-plesso e mul t i forme ord ine internazionale maggiormente si-mile a quello del l 'epoca medievale.

Caos totale. L ' indebol imento degli stati e il venir m e n o di al-cuni di essi contr ibuiscono a evocare u n a quar ta immagine, quella di un m o n d o domina to dall 'anarchia. Tale model lo pre-suppone: il crollo dell 'autori tà statale; la disgregazione degli stati, l ' intensificarsi dei conflitti tribali, etnici e religiosi; l'e-mergere di organizzazioni mafiose criminali internazionali ; l ' aumen to stratosferico del n u m e r o di rifugiati; la proliferazio-ne delle armi nucleari e di altri s t rumenti di distruzione di mas-sa; il diffondersi del terrorismo; il moltiplicarsi di massacri e operazioni di pulizia etnica. Tale immagine di un m o n d o in p ieno caos è illustrata e compendia ta con g rande incisività nei titoli di due penet rant i opere pubblicate nel 1933: Il mondo fuo-ri controllo di Zbigniew Brzezinski e Pandaemonium di Daniel Pa-trick Moynihan.14

Al pari del model lo statalista, il paradigma del caos si avvici-na molto alla realtà, off re un quadro accurato di b u o n a par te di quan to avviene nel m o n d o e, a differenza del pr imo, sottoli-nea i significativi mu tamen t i intervenuti nel quadro politico

13 Stephen D. Krasner contesta l'importanza del trattato di Westfalia come spartiacque. Si veda il suo «Westphalia and Ali That», in Goldstein e Keohane (a cura di), Ideas and Foreign Policy, pp. 235-64. 14 Zbignew Brzezinski, Out of Control: Global Turmoil on the Ève oflhe Twenty-fir-st Century, New York, Scribner, 1993 (trad. it. Il mondo fuori controllo, Milano, TEA, 1995); Daniel Patrick Moynihan, Pandaemonium: Ethnicity in Internatio-nal Politici, Oxford, Oxford University Press, 1993; si veda inoltre Robert Ka-plan, «The Corning Anarchy», in «Atlantic Monthly», n. 273 (Febbraio 1994), pp. 44-76.

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mondiale con la f ine della Guer ra f redda . È stato calcolato, ad esempio, che all'inizio del 1993 e rano in atto in tutto il m o n d o 48 guer re etniche, e che nella sola ex Unione Sovietica esiste-vano 164 «attriti e conflitti etnico-territoriali in materia di con-fini», di cui 30 e rano sfociati in qualche sorta di conflit to ar-mato . 1 'Ancor più di quello statalista, tuttavia, tale model lo pec-ca di un'eccessiva adesione alla realtà. Il m o n d o p u ò anche es-sere avvolto nel caos, ma n o n è to ta lmente privo di ordine . Un ' immagine di anarchia universale e indifferenziata of f re po-chi e lement i per c o m p r e n d e r e il m o n d o , per catalogare gli eventi e valutarne l ' importanza, per prevedere le possibili linee di sviluppo di tale anarchia, per distinguere tra i diversi tipi di caos e le loro svariate cause e conseguenze, e per sviluppare delle linee di indirizzo per gli uomini di governo.

Mondi a confronto: realismo, norma, previsioni

Tutti e quat t ro questi modelli o f f rono una diversa combina-zione di realismo e norma . Nessuno di essi, tuttavia, è privo di limiti e carenze. Si po t rebbe forse ovviare a tali difetti coniu-gando insieme più modelli e asserendo, ad esempio, che il m o n d o è impegnato in un processo parallelo di f rammentazio-ne e di integrazione."5 En t rambe le tendenze sono effettiva-men te in atto, e un model lo più complesso sarà cer tamente più ade ren te alla realtà di quan to po t rebbe esserlo u n o più semplice. Tale scelta, tuttavia, p remia il realismo a discapito della n o r m a e, se perseguita f ino in fondo , por te rebbe al rifiu-to di tutti i modelli o teorie. Inoltre, inglobando due tendenze opposte e simultanee, il model lo frammentazione-integrazione n o n spiega in quali circostanze prevarrebbe una tendenza e in

15 Si veda «New York Times», 7 febbraio 1993, pp. 1, 14; e Gabriel Schoen-feld, «Outer Limits», in «Post-Soviet Prospects», n. 17 (Gennaio 1993), p. 3, che cita le cifre fornite dal Ministero della Difesa russo. 16 Si veda Gaddis, «Toward the Post-Cold War World»; Benjamin R. Barber, «Jihad vs. McWorld», in «Adantic Monthly», n. 269 (Marzo 1992), pp. 53-63; e idem, Jihad vs. McWorld, New York, Times Books, 1995; Hans Mark, «After Victory in the Cold War: The Global Village or Tribal Warfare», in J. J. Lee e Walter Korter (a cura di), Europe in Transition: Politicai, Economie, and Security Prospects for the 1990s, LBJ School of Public Affairs, University of Texas at Au-stin, Marzo 1990, pp. 19-27.

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quali l 'altra. L'obiettivo è sviluppare un model lo in grado di contemplare gli eventi più important i e offr ire u n a compren-sione delle tendenze in atto migliore degli altri paradigmi a un uguale livello di astrazione intellettuale.

Questi quat t ro modelli sono inoltre incompatibili tra loro. Il m o n d o non può essere un 'en t i tà al con tempo coesa e netta-men te divisa tra Est ed Ovest o Nord e Sud. Né lo stato nazio-nale potrà mai fungere da fulcro delle relazioni internazionali se viene f r ammenta to e lacerato da guer re civili. Il m o n d o p u ò essere composto da un unico stato, oppu re da due, o da 184 stati, oppu re da un n u m e r o pressoché infinito di tribù, g ruppi etnici e nazionalità.

Vedere il m o n d o in termini di sette od otto civiltà pe rmet te di superare molti di questi problemi. Un simile approccio non sacrifica il realismo alla n o r m a come f a n n o i modelli del mon-do unico o dei due mondi , né sacrifica la n o r m a al realismo, come f a n n o i modelli statalista e del caos. Esso off re u n a corni-ce concet tualmente semplice per comprende re il m o n d o , di-st inguere quali tra i molteplici conflitti in atto sono important i e quali no, prevedere sviluppi fu tur i e offr ire linee di indirizzo alle élite polit iche. Esso, inoltre, contempla ed elabora ele-ment i propr i di altri modelli ed è maggiormente compatibile con essi di quanto questi lo siano gli uni con gli altri. Un ap-proccio basato sul concet to di civiltà, ad esempio, sostiene che:

• L' impulso all ' integrazione nel m o n d o è reale, ed è esatta-men te questo che genera resistenza ai distinguo culturali e a u n a maggiore presa di coscienza della propr ia civiltà di appar-tenenza.

• Il m o n d o è in un certo senso diviso in due, ma la distinzio-ne basilare è tra l 'Occidente in quan to odierna civiltà domi-nante e tutte le altre, le quali, tuttavia, h a n n o poco o nulla in c o m u n e tra loro. Il mondo , in altre parole, è diviso tra un ' en -tità occidentale fo r t emente coesa e u n a miriade di entità non occidentali.

• Gli stati nazionali sono e res teranno i protagonisti della politica internazionale, ma i loro interessi, legami e conflitti vengono determinat i in misura sempre maggiore da fattori ine-renti alla loro cultura e civiltà d ' appar tenenza .

• Il m o n d o è effet t ivamente avvolto nell 'anarchia, dilaniato

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da conflitti tribali e nazionali, ma i conflitti che p o n g o n o i mag-giori pericoli alla stabilità sono quelli tra stati o g rupp i appar-tenent i a civiltà diverse.

Un model lo «delle civiltà», dunque , mostra u n a mappa rela-t ivamente semplice ma non t roppo semplificata per capire quan to va accadendo nel m o n d o sul finire del xx secolo. Nes-sun model lo, tuttavia, va bene per sempre. Il model lo della Guerra f redda come criterio d ' in terpretazione della politica in-ternazionale è stato utile e impor tan te per quarant ' anni , ma al-la fine degli anni Ot tanta è diventato obsoleto, e pr ima o poi il model lo delle civiltà andrà incontro a un medesimo destino. Per l 'epoca attuale, tuttavia, of f re un 'u t i le guida per distingue-re tra cosa è impor tante e cosa lo è meno . Ad esempio, sappia-mo che poco m e n o della metà dei 48 conflitti etnici esistenti nel m o n d o all'inizio del 1993 coinvolgevano gruppi apparte-nent i a civiltà diverse. L 'approccio basato sulle civiltà indurreb-be il segretario generale delle Nazioni Unite e il segretario di Stato amer icano a concent rare i loro sforzi di pace su tali con-flitti, più di altri passibili di sfociare in guer re di più ampio rag-gio.

I modelli sviluppano anche previsioni, e un test basilare per verificare la validità e l 'utilità di un model lo rispetto a un altro è la maggiore precisione delle previsioni che consente di fare. Un model lo statalista, ad esempio, induce J o h n Mearsheimer a prevedere che «tra Ucraina e Russia la situazione è ormai ma-tura perché tra i due paesi esploda un'accesa rivalità in materia di sicurezza. Le grandi potenze divise da una linea di conf ine mol to estesa e non protetta, come quella che separa Russia e Ucraina, en t rano spesso in contrasto spinte dalla paura per la propr ia sicurezza. Russia e Ucraina pot rebbero superare tale dinamica e imparare a convivere in armonia , ma u n a soluzione di questo tipo sarebbe a lquanto inusuale».17 Un approccio ba-sato sulla civiltà, invece, t ende a sottolineare gli stretti legami storici, culturali e personali che uniscono Russia e Ucraina e il for te grado di assimilazione reciproca esistente tra le popola-zioni di en t rambi i paesi, e a r imarcare invece la p ro fonda ce-

17John J. Mearsheimer, «The Case for a Nuclear Deterrent», in «Foreign Af-faire», n. 72, Estate 1993, p. 54.

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sura culturale che divide l 'Ucraina orientale ortodossa e l'U-craina occidentale uniate, u n antico e basilare dato storico che Mearsheimer, fedele alla concezione «realista» degli stati in quan to entità coese e omogenee , ignora comple tamente . Lad-dove l 'approccio statalista evidenzia la possibilità di u n a guer ra russo-ucraina, il model lo fonda to sulle civiltà la r i t iene mol to poco probabile e sottolinea invece la possibilità che l 'Ucraina si spacchi in due, u n a divisione che la presenza di fattori cultura-li farebbe immaginare più violenta di quella cecoslovacca ma molto m e n o sanguinosa di quella jugoslava. Da tali previsioni divergenti scaturiscono a loro volta priorità politiche diverse. La previsione statalista di Mearsheimer di u n a possibile guer ra e della conquista del l 'Ucraina da par te russa lo induce a pro-pugnare il man ten imen to di armi nucleari in Ucraina. Un ap-proccio fonda to sulle civiltà, viceversa, incoraggerebbe la coo-perazione tra Russia e Ucraina, esorterebbe l 'Ucraina a disfar-si del p ropr io arsenale nucleare, p romuoverebbe f o r m e consi-stenti di assistenza economica e altre misure volte al manteni-m e n t o del l 'uni tà e de l l ' ind ipendenza ucraina e sponsorizze-rebbe iniziative speciali per far f ron te a u n a possibile spaccatu-ra dell 'Ucraina.

Molti impor tant i sviluppi successivi alla fine della Guer ra f r edda si sono dimostrati compatibili con il model lo della ci-viltà e prevedibili in base a esso. Questi comprendono : il crollo del l 'Unione Sovietica e della Jugoslavia, le guerre scoppiate nei loro ex territori, l'ascesa del fondamenta l i smo religioso in tut-to il mondo , i conflitti di identità scoppiati in Russia, Turchia e Messico, l 'intensificarsi dei conflitti commerciali tra Stati Uniti e Giappone, l 'opposizione degli stati islamici alla pressione oc-cidentale su Iraq e Libia, i tentativi degli stati islamici e confu-ciani di acquisire armi nucleari e i mezzi per impiegarle, l'a-scesa della Cina al ruo lo di g rande potenza, il consol idamento di nuovi regimi democratici in alcuni paesi e non in altri, la co-stante escalation militare in Asia orientale.

L ' importanza del model lo della civiltà per il m o n d o che va emergendo è dimostrata dal n u m e r o di eventi r ientrant i nel suo ambito concettuale verificatisi in sei mesi del 1993:

• il persistere e l 'intensificarsi degli scontri tra croati, musul-mani e serbi nell 'ex Jugoslavia;

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• il r ifiuto occidentale di garant ire un sostegno significativo ai musulmani bosniaci o di denunc ia re le atrocità croate con la stessa fermezza con cui f u r o n o denuncia te quelle serbe;

• la riluttanza della Russia a unirsi agli altri membr i del Con-siglio di sicurezza del l 'Onu nel convincere i serbi della Croazia a siglare la pace con il governo croato, e la proposta del l ' I ran e di altre nazioni musulmane di inviare diciottomila soldati a protezione dei musulmani bosniaci;

• l 'intensificarsi della guer ra tra a rmeni e azeri, le richieste di Turchia e Iran che gli a rmeni restituissero i territori conqui-stati, lo spiegamento di t ruppe turche sul confine azerbaigiano e di quelle iraniane al di là di tale confine, l ' a m m o n i m e n t o russo che l'iniziativa iraniana contribuiva ad u n a «escalation del conflitto» e lo spingeva «ai limiti o l t remodo pericolosi di u n a sua internazionalizzazione»;

• il perpetuarsi degli scontri tra t ruppe russe e guerriglieri mujaheddin in Asia centrale;

• la spaccatura verificatasi alla Conferenza sui diritti umani di Vienna tra l 'Occidente, guidato dal segretario di Stato ame-r icano Warren Christopher, che denunc iò il «relativismo cultu-rale» e u n a coalizione di paesi islamici e confuciani che rifiuta-vano 1'«universalismo occidentale»;

• la parallela riproposizione da par te degli strateghi militari russi e della Nato della «minaccia proveniente da Sud»;

• la votazione, avvenuta sulla base di netti e palesi schiera-ment i culturali, che ha assegnato a Sydney, anziché a Pechino, l 'organizzazione delle Olimpiadi del 2000.

• la vendita al Pakistan di component i missilistici da parte del-la Cina, la conseguente imposizione statunitense di sanzioni con-tro la Cina e lo scontro tra Stati Uniti e Cina su presunti trasferi-menti da parte di quest'ultima di tecnologia nucleare all'Iran;

• la violazione della morator ia e la ripresa dei test nucleari da par te della Cina, nonostante le veementi proteste degli Sta-ti Uniti, e il rifiuto della Corea del Nord di cont inuare a parte-cipare ai colloqui inerenti il p ropr io p rogramma di a rmamen-to nucleare;

• la rivelazione che il Dipar t imento di Stato americano stava pe r seguendo u n a politica di «doppio contenimento» nei con-front i di Iran e Iraq;

• l ' annuncio , da parte del Dipar t imento della Difesa statuni-

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tense, di u n a nuova strategia di preparazione a due «grandi conflitti regionali», u n o cont ro la Corea del Nord, l 'altro con-tro Iran o Iraq;

• l 'appel lo del pres idente i raniano alla costituzione di al-leanze con Cina e India in m o d o da poter «avere l 'ult ima pa-rola sugli eventi internazionali»;

• la nuova legislazione tedesca che limita drast icamente l'in-gresso dei profughi;

• l 'accordo tra il presidente russo Boris Eltsin e il presidente ucraino Leonid Kravciuk sulla dislocazione della flotta del Mar Nero e su altre questioni;

• il bombardamen to di Baghdad da parte degli Stati Uniti, il sostegno pressoché u n a n i m e a tale iniziativa espresso dai go-verni occidentali e la sua condanna , invece, da par te di quasi tutti i governi musulmani quale ulteriore esempio di politica dei «due pesi e due misure» adottata dal l 'Occidente;

• l ' inclusione del Sudan nel l 'e lenco di stati terroristi da par-te degli Stati Uniti e l 'accusa lanciata allo sceicco O m a r Abdel Rahman e ai suoi seguaci di cospirare al fine di «scatenare u n a guer ra di terrorismo metropol i tano contro gli Stati Uniti»;

• le migliori prospettive di u n a fu tura ammissione nella Nato di Polonia, Ungheria , Repubblica Ceca e Slovacchia;

• le elezioni politiche russe del 1993, che h a n n o dimostrato quanto la Russia sia un paese «in bilico», con le élites di po tere e la popolazione tutta ancora incerta se unirsi o contrapporsi al l 'Occidente.

Si po t rebbe compilare un elenco simile per quasi qualun-que altro semestre dei primi anni Novanta.

Nei primi anni della Guerra fredda, lo statista canadese Lester Pearson puntò con grande preveggenza l 'indice sulla rinascita e la vitalità delle società non occidentali. «Sarebbe assurdo», am-monì, «immaginare che queste nuove società politiche che van-no oggi nascendo a Est saranno pure e semplici copie di quelle alle quali noi occidentali siamo abituati. La rinascita di queste antiche civiltà assumerà fo rme nuove». Nel ricordare come «per diversi secoli» i rapporti internazionali fossero stati limitati in so-stanza ai rapporti tra gli stati europei, Pearson sostenne che «i problemi maggiormente gravidi di conseguenze non sorgono più tra nazioni appartenenti a un 'unica civiltà, ma tra le civiltà

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stesse».18 Il lungo periodo di bipolarismo causato dalla Guerra f redda ha ritardato gli sviluppi previsti da Pearson. La fine della Guerra fredda ha liberato quelle culture e civiltà pulsanti da lui individuate negli anni Cinquanta, e un gran numero di studenti e osservatori ha riconosciuto e sottolineato il nuovo ruolo assun-to da tali fattori nel quadro politico mondiale.19 «Per tutti quanti si interessano al mondo odierno», ha saggiamente ammoni to Fernand Braudel, «e ancor più per quanti desiderano prendere parte attiva al suo sviluppo, "conviene" imparare a leggere sulla cartina geografica del mondo quali sono le civiltà oggi esistenti, a definirne i confini, i rispettivi centri e periferie, le loro provin-ce e quale aria vi si respiri, le "condizioni" generali e particolari esistenti al loro interno. In caso contrario, potrebbero conse-guirne degli errori di prospettiva assolutamente catastrofici!».2"

18 Lester B. Pearson, Democracy in World Politics, Princeton, Princeton Univer-sity Press, 1995, pp. 82-3. 19Johan Galtung ha compiuto un'analisi molto simile alla mia sulla rilevanza delle sette od otto grandi civiltà e dei relativi stati guida nello scenario politico mondiale. Si veda il suo «The Emerging Conflict Formations», in Katharine e Majid Tehranian (a cura di), Restructuring for World Peace: On the Threshold of the Twenty-First Century, Cresskill NJ, Hampton Press, 1992, pp. 23-4. Galtung indi-vidua sette raggruppamenti regional-culturali emergenti dominati da paesi egemoni: Stati Uniti, Comunità europea, Giappone, Cina, Russia, India ed un «nucleo islamico». Altri autori che nei primi anni Novanta hanno avanzato te-si simili in relazione alle civiltà sono: Michael Lind, «America as an Ordinary Country», in «American Enterprise», n. 1, Settembre/Ottobre 1990, pp. 19-23; Barry Buzan, «New Patterns of Global Security in the Twenty-first Century», in «International Affairs», n. 67, 1991, pp. 441, 448-9; Robert Gilpin, «The Cycle of Great Powers: Has It Finally Been Broken?», Princeton University, inedito, 19 maggio 1993, p. 6 sgg.; William S. Lind, «North-South Relations: Returning to a World of Cultures in Conflict», in «Current World Leaders«, n. 35, Di-cembre 1992, pp. 1073-80; idem, «Defending Western Culture», in «Foreign Policy», n. 84 (Autunno 1994), pp. 40-50; idem, «Looking Back from 2992: A World History, cap. 13: The Disastrous 21st Century», in «Economist», 26 di-cembre 1992-8 gennaio 1993, pp. 17-9; idem, «The New World Order: Back to the Future», in «Economist», 8 gennaio 1994, pp. 21-3; idem, «A survey of De-fence and the Democracies», in «Economist», 1 settembre 1990; Zsolt Rosto-vanyi, «Clash of Civilizations and Cultures: Unity and Disunity of World Or-der», saggio indito, 29 marzo 1993; Michael Vlahos, «Culture and Foreign Po-licy», in «Foreign Policy», n. 82, Primavera 1991, pp. 59-78; Donald J. Puchala, «The History of the Future of International Relations», in «Ethics and Inter-national Affairs», n. 8, 1994, pp. 177-202; Mahdi Elmandjra, «Cultural Diver-sity: Key to Survival in the Future», documento presentato al Primo Congresso messicano sugli studi del futuro, Mexico City, Settembre 1994. Nel 1991 El-mandjra pubblicò in arabo un libro apparso l'anno successivo in francese col titolo Premiere Guerre Civilisationelle, Casablanca, Ed. Toubkal, 1982, 1994. 20 Fernand Braudel, On History, Chicago, University of Chicago Press, 1980, pp. 210-11 (tr. it. Scritti sulla storia, Mondadori, Milano 1973).

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CAPITOLO SECONDO Le civiltà nella storia e nel m o n d o con temporaneo

La natura delle civiltà

La storia umana è la storia delle civiltà. È impossibile pensare allo sviluppo del l 'umanità in termini diversi da questi, u n o svi-luppo che percorre intere generazioni di civiltà, dalle antiche civiltà sumera ed egizia a quella classica e centroamericana, a quella occidentale e islamica, alle successive manifestazioni di civiltà siniche e indù. Nel corso della storia le civiltà h a n n o rap-presentato per l ' uomo la più impor tante fonte di identificazio-ne. Di conseguenza, le origini, la nascita, lo sviluppo, le intera-zioni, l 'espansione, il declino e la fine delle civiltà sono state ac-curato oggetto di studio da parte di eminenti storici, sociologi e antropologi tra cui Max Weber, Emile Durkheim, Oswald Spen-gler, Pitirim Sorokin, Arnold Toynbee, Alfred Weber, A. L. Kroe-ber, Philip Bagby, Carroll Quigley, Rushton Coulborn , Chri-stopher Dawson, S. N. Eisenstadt, Fernand Braudel, William H. McNeill, Adda Bozeman, Immanue l Wallerstein e Felipe Fernàndez-Arnesto. ' Tutti questi studiosi (e molti altri ancora)

1 «La storia universale è la storia delle grandi culture», Oswald Spengler, De-dine of the West, New York, Knopf, 1926-1928, II, p. 170 (trad. it. Il tramonto del-l'Occidente, Milano, Longanesi , 1978). Tra le maggiori opere di questi studio-si che analizzano la natura e la dinamica del le civiltà troviamo: Max Weber, The Sociology of Religion, trad. ingl. Boston, Beacon Press, 1968 (trad. it. Sodo-logia della religione, Milano, Edizioni di Comunità, 1982); Emile Durkheim e Marcel Mauss, «Note o n the Not ion of Civilization», in «Social Research», n. 38, 1971, pp. 808-13; Oswald Spengler, Decline of the West, cit.; Pitirim Sorokin, Social and Cultural Dynamics, New York, American Book Co., 4 voli., 1937-1985 (trad. it. La dinamica sodale e culturale, Torino, Utet, 1975); Arnold Toynbee , A Study of History, London, Oxford University Press, 12 voli., 1934-1961; Alfred Weber, Kulturgeschichte als Kultursoziologie, Leiden, A. W. SijthofFs Uitgerver-smaatschappij N.V., 1935; A. L. Kroeber, Configurations of Culture Growth, Berkeley, University of California Press, 1944, e Style and Civilizations, West-port, CT, Greenwood Press, 1973; Philip Bagby, Culture and History: Prolegome-na to the Comparative Study of Civilizations, London, Longmans, Green, 1958;

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h a n n o prodot to una vasta, erudi ta e raffinata letteratura incen-trata sull'analisi comparata delle civiltà la quale, pur palesando differenze prospettiche, metodologiche e concettuali di vario grado, presenta tuttavia una generale concordanza di vedute in meri to alla natura, all ' identità e alla dinamica delle varie civiltà.

Primo. Esiste una distinzione tra «la civiltà» al singolare e «le civiltà» al plurale. Il concetto di civiltà fu sviluppato dai pensato-ri francesi del XVIII secolo in contrapposizione a quello di «bar-barie». La società civilizzata si distingueva dalla società primitiva per il suo carattere stanziale, u rbano e colto. Essere civili era be-ne, essere incivili era male. Il concetto di civiltà fu eletto a metro di giudizio delle società, e nel corso del xix secolo gli stati euro-pei profusero grandi sforzi intellettuali, diplomatici e politici per stabilire dei criteri in base ai quali decretare le società non eu-ropee sufficientemente «civilizzate» da poter essere ammesse nel sistema internazionale da essi dominato. Al contempo, si iniziò

Carroll Quigley, The Evolution of Civilizations: An Introduction to Historical Analy-sis, New York, Macmillan, 1961; Rushton Coulborn, The Origin of Civilized So-cieties, Princeton, Princeton University Press, 1959; S. N. Eisenstadt, «Cultural Traditions and Political Dynamics: T h e Origins and Modes o f l d e o l o g i c a l Po-litics», in «British Journal of Sociology», n. 32, Giugno 1981, pp. 155-81; Fer-nand Braudel, History of Civilizations, New York, Allen Lane-Penguin Press, 1994, e On History, Chicago, University of Chicago Press, 1980; William H. Mc-Neil, The Rise of the West: A History of the Human Community, Chicago, University of Chicago Press, 1963; Adda B. Bozeman, «Civilizations U n d e r Stress», in «Virginia Quarterly Review», n. 51 (Inverno 1975), pp. 1-18, Strategic Intelli-gence and Statecraft, Washington, Brassey's (US), 1992, e Politics and Culture in International History: From the Ancient Near East to the Opening of the Modern Age, New Brunswick, NJ, Transaction Publishers, 1994; Christopher Dawson, Dy-namics of World History, LeSalle, IL, Sherwood Sugden Co., 1978, e The Move-ment of World Revolution, New York, Sheed and Ward, 1959; Immanuel Wal-lerstein, Geopolitical and Geoculture: Essays on the Changing World-system, Cam-bridge, Cambridge University Press, 1992; Felipe Fernàndez-Armesto, Millen-nium: A History of the Last Thousand Years, New York, Scribners, 1955. A queste possiamo aggiungere l'ultima, tragicamente segnata, opera di Louis Hartz, A Synthesis of World History, Zurich, Humanity Press, 1983, il quale, «con straor-dinaria intuizione», c o m e osserva Samuel Beer, «prevede una divisione del genere u m a n o molto simile al l 'odierno mode l lo post-Guerra fredda» in cin-que grandi «aree culturali»: cristiana, musulmana, indù, confuciana e africa-na. Nota commemorativa su Louis Hartz, in «Harvard University Gazette», n. 89, 27 maggio 1994. Un'indispensabile panoramica riassuntiva ed introdutti-va all'analisi delle civiltà è quella di Matthew Melko, The Nature of Civilizations, Boston, Porter Sargent, 1969. Devo inoltre molto agli utili suggerimenti con-tenuti nel saggio critico sul mio articolo pubblicato su «Foreign Affairs» a fir-ma di Hayward W. Alker, Jr., «If N o t Hungt ington's "Civilizations", T h e n Whose?», saggio inedito, Massachusetts Institute of Technology, 25 marzo 1994.

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sempre più spesso a parlare di civiltà al plurale. Ciò significò la «rinuncia al concetto di civiltà definita come un ideale, o piutto-sto come l'ideale» e l ' abbandono del presupposto che esistesse un unico metro di giudizio per stabilire cosa fosse civile, «prero-gativa», secondo l'espressione di Braudel, di poche persone o gruppi privilegiati, 1'«élite» dell 'umanità. Esistevano invece mol-te civiltà, ciascuna delle quali civilizzata a suo modo. In breve, la civiltà al singolare «perse parte del proprio carattere distintivo», cosicché una civiltà intesa in senso plurale poteva di fatto essere completamente non civilizzata nel senso singolare del termine.2

Questo libro si occupa delle civiltà intese al plurale. La di-stinzione tra singolare e plurale conserva tuttavia g rande im-portanza, e l ' idea di civiltà al singolare è tornata a riaffiorare nella tesi che p ropugna l'esistenza di un 'un ica civiltà universa-le. Si tratta di u n a tesi n o n sostenibile, ma è tuttavia utile inda-gare, come fa remo nel capitolo conclusivo, se le civiltà stiano diventando o m e n o più civili.

Secondo. Eccetto che in Germania , una civiltà rappresenta sempre un ' ident i tà culturale. I pensatori tedeschi del xix seco-lo ope ra rono u n a netta distinzione tra il concetto di civiltà, che implicava la meccanica, la tecnologia e altri fattori materiali, e il concetto di cultura, che implicava invece valori, ideali e le più alte qualità morali, artistiche e intellettuali di u n a società. Tale distinzione è perdura ta a lungo nel pensiero tedesco ma è sta-ta rifiutata altrove. Alcuni antropologi sono giunti finanche a rovesciare tale rappor to e a parlare di culture in r i fer imento al-le società primitive, immodificabili, non urbane , e di civiltà in r i fer imento alle società più complesse, sviluppate, u rbane e di-namiche . Tali tentativi di dist inguere tra cultura e civiltà non h a n n o tuttavia attecchito, e al di là dei confini tedeschi esiste u n a pressoché totale concordanza con l 'opin ione di Braudel secondo cui è «illusorio voler separare, come f a n n o in Germa-nia, la cultura dalla civiltà che la produce».1

2 Braudel, On History, pp. 177-81, 212-14, e History of Civilizations, pp. 4-5; Gerrit W. Gong, The Standard, of «Civilization» in International Society, Oxford, Clarendon Press, 1984, pp. 81 sgg., 97-100; Wallerstein, Geopolitics and Geocul-ture, pp. 160 sgg. e 215 sgg.; Arnold J. Toynbee, Study of History, voi. X, pp. 274-5, e Civilization on Trial, New York, Oxford University Press, 1948, p. 24 (trad. it. Civiltà al paragone, Milano, Bompiani, 1983). 3 Braudel, On History, p. 205. Per una dettagliata panoramica delle definizio-ni dei termini cultura e civiltà, e in particolare della distinzione fatta al ri-

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Civiltà e cultura f a n n o en t r ambe r i fer imento allo stile di vita generale di un popolo, e u n a civiltà non è altro che u n a cultu-ra su larga scala. Ent rambe si r ichiamano a «valori, no rme , isti-tuzioni e modi di pensare ai quali generazioni successive di una data società h a n n o attribuito importanza basilare».4 Per Brau-del, u n a civiltà è «uno spazio, un ' "a rea culturale"», «un insieme di caratteristiche e di f enomen i culturali». Wallerstein la defi-nisce «una particolare concatenazione di elementi - visione del mondo , cultura (sia la cultura "alta" che quella materiale), con-suetudini e s trut ture - che fo rma u n a sorta di entità storica coesa e coesiste (seppur non sempre s imultaneamente) con al-tre varietà del medesimo fenomeno» . Per Dawson, u n a civiltà è il p rodo t to di «uno specifico, originale processo di creatività culturale sviluppato da un de te rmina to popolo», men t re per Durkheim e Mauss è «una sorta di società morale che abbraccia un certo n u m e r o di nazioni di cui ciascuna cultura non è che u n a specifica espressione del tutto». Per Spengler u n a civiltà è «l'inevitabile destino della Cultura ... gli stati più esterni e artifi-ciali di cui u n a specie u m a n a sviluppata è capace ... u n a con-clusione, il divenuto che succede al divenire». La cultura è il te-ma c o m u n e a qualsiasi definizione di civiltà. '

Gli elementi culturali di base che definiscono una civiltà ven-nero enucleati in termini classici dagli ateniesi allorché rassicu-ra rono gli spartani che mai li avrebbero traditi con i persiani:

Sono molto gravi i motivi che ci impedirebbero di agire così, anche se lo volessimo. Primo e principale le statue e le dimore degli dèi date

guardo in Germania, si veda A. L. Kroeber e Clyde Kluckhohn, Culture: A Cri-ticai Review of Concepii and Defmitions, Cambridge, Papers of the Peabody Mu-seum of American Archaeology and Ethnology, Harvard University, voi. XL-VII, n. 1, 1952, passim, ma soprattutto le pp. 15-29 (trad. it. Il concetto di cultu-ra, Bologna, Il Mulino, 19822). 4 Bozeman, «Civilizations Under Stress», p. 1. 5 Durkheim e Mauss, «Notion of Civilization», p. 811; Braudel, On History, pp. 177, 202; Melko, Nature oj Civilizations, p. 8; Wallerstein, Geopolitics and Geo-culture, p. 215; Dawson, Dynamics of World History, pp. 51, 402; Spengler, Decli-ne of the West, voi. I, p. 31. Particolare interessante, VInternational Encyclopedia ofthe Social Sciences (New York, Macmillan e Free Press, a cura di David L. Sil-ls, 17 voli., 1968), non contiene tra le sue voci principali il termine «civiltà» inteso al singolare o al plurale. Il «concetto di civiltà» (al singolare) è illu-strato in una sottosezione della voce «Rivoluzione urbana», mentre quello di civiltà al plurale viene menzionato di passaggio nella voce intitolata «Cultu-ra».

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alle fiamme e abbattute, che noi siamo tenuti a vendicare il più dura-mente possibile; altro che venire a patti con chi ne è responsabile! Poi c'è il senso della grecità, la comunanza di sangue e di lingua, di san-tuari e riti sacri, di usi e costumi simili, male sarebbe che gli ateniesi ne diventassero traditori.^

Sangue, lingua, religione e modo di vita erano quanto acco-munava i greci e li distingueva invece dai persiani e da altri po-poli non greci. Di tutti gli elementi formali che definiscono le civiltà, tuttavia, il più impor tante è generalmente la religione, come sottolineavano gli ateniesi. Quasi tutte le maggiori civiltà nella storia del l 'umani tà sono state s tret tamente identificate con le grandi religioni del mondo , e popolazioni di uguale lin-gua ed etnia ma di diversa religione possono benissimo massa-crarsi a vicenda, com'è accaduto in Libano, nell 'ex Jugoslavia e in India.7

Esiste una notevole corr ispondenza tra la divisione dei po-poli in civiltà, basata sulle caratteristiche culturali, e quella in razze, basata invece sulle caratteristiche fisiche. Civiltà e razza non sono tuttavia concetti equivalenti: popoli di uguale razza possono essere divisi da civiltà assai diverse, e popoli di razze di-verse possono appar tenere alla medesima civiltà. In particola-re, le grandi religioni missionarie, cristianesimo e islamismo, abbracciano società razziali molto e terogenee. Le distinzioni basilari che caratterizzano le diverse comuni tà u m a n e concer-n o n o i rispettivi valori, credenze, istituzioni e s trut ture sociali, non la statura fisica, il colore della pelle o la conformazione cranica.

Terzo. Le civiltà sono entità finite, vale a dire che nessuna delle sue unità costitutive p u ò essere compresa appieno senza riferimenti concreti alla civiltà di cui è parte. Le civiltà, ha so-stenuto Toynbee, «inglobano ma non sono inglobate da altre entità». U n a civiltà è una «totalità». Le civiltà, a f fe rma Melko,

presentano un certo grado di integrazione. Le parti che la compon-gono sono definite dal rapporto esistente tra ciascuna di esse e con il tutto. Se la civiltà è composta da stati, questi stati svilupperanno rap-porti maggiori tra loro piuttosto che con stati estranei alla loro civiltà.

6 Erodoto, Le Storie, Garzanti, Milano, 1990, vili, 144 (p. 121). 7 Edward A. Tiryakian, «Reflections on the Sociology of Civilizations», in «So-ciologica! Analysis», n. 35 (Estate 1974), p. 125.

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Gli scontri e gli scambi diplomatici saranno più frequenti. Saranno più interdipendenti economicamente, e saranno pervasi da correnti estetiche e filosofiche comuni."

Una civiltà è la più ampia entità culturale esistente. Villaggi, regioni, g ruppi etnici, nazionalità, g ruppi religiosi, p resentano tutti cul ture distinte a diversi livelli di eterogeneità culturale. La cultura di un paese dell 'Italia del Sud p u ò essere diversa da quella di u n o dell 'Italia settentrionale, ma ent rambi condivi-d o n o u n a cultura italiana che li distingue dai paesi tedeschi. Le comuni tà europee , a loro volta, condividono caratteristiche culturali che le dist inguono dalle comuni tà cinesi o indù. Ci-nesi, indù e occidentali, tuttavia, non sono par te integrante di u n a più ampia entità culturale: essi costituiscono delle civiltà. Una civiltà rappresenta d u n q u e il più vasto r aggruppamen to culturale di uomini ed il più ampio livello di identità culturale che l ' uomo possa raggiungere d o p o quello che distingue gli es-seri umani dalle altre specie. Essa viene definita sia da elemen-ti oggettivi comuni , quali la lingua, la storia, la religione, i co-stumi e le istituzioni, sia dal processo soggettivo di autoidentifi-cazione dei popoli . L 'uomo presenta vari livelli di identità: un abitante di Roma può definirsi con un variabile grado di inten-sità romano , italiano, cattolico, cristiano, eu ropeo od occiden-tale. La civiltà di appar tenenza è il livello di identificazione più ampio al quale aderisce stret tamente. Le civiltà rappresen tano il più ampio «noi» di cui ci sent iamo cul turalmente par te inte-grante in contrapposizione a tutti gli altri «loro». Le civiltà pos-sono comprende re un gran n u m e r o di persone, come ad esem-pio quella cinese, o un n u m e r o es t remamente esiguo, come ad esempio quella caraibica anglofona. La storia presenta nume-rosi casi di piccoli g ruppi di persone in possesso di una cultura distinta e privi di una qualsiasi identificazione culturale più am-pia. Sono state fatte distinzioni in termini di d imensione e im-por tanza tra civiltà principali e civiltà periferiche (Bagby) o tra civiltà fiorenti e civiltà estinte o aborti te sul nascere (Toynbee). In questo libro vengono analizzate quelle che sono considerate le maggiori civiltà della storia umana .

8 Toynbee, Study of History, voi. I, p. 455, cit. in Melko, Nature of Civilizations, pp. 8-9; e Braudel, On History, p. 202.

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Le civiltà n o n h a n n o confini ne t t amente delimitati, non h a n n o un inizio e una fine precisi. L 'uomo è in grado di ridefi-nire - e lo fa - la propria identità, cosicché fo rma e composi-zione delle civiltà vengono a cambiare nel tempo. Le culture dei popoli interagiscono e si sovrappongono, di m o d o che an-che il livello di somiglianza o diversità tra le culture delle sin-gole civiltà p u ò variare considerevolmente. Ciò nonostante , le civiltà sono entità es t remamente rilevanti e i confini che le se-parano, benché ra ramente ben definiti, sono confini reali.

Quar to . Le civiltà muoiono , ma h a n n o anche una vita molto lunga; si evolvono, si adattano, e sono le più dura ture tra tutti i tipi di associazione tra uomini , «realtà di estrema longue durée». La loro «essenza peculiare e particolare» consiste nella «loro prolungata continuità storica. Quella della civiltà è di fatto la più lunga di tutte le storie». Gli imperi sorgono e cadono, i go-verni vanno e vengono, le civiltà invece restano e «sopravvivo-no ai rivoluzionamenti politici, sociali, economici e finanche ideologici».9 «La storia internazionale», conclude Bozeman, «documenta appropr ia tamente la tesi secondo cui i sistemi po-litici sono espedienti transitori del tutto marginali rispetto alle civiltà, e che il destino di ciascuna comuni tà l inguisticamente e mora lmente coesa d ipende in ultima analisi dalla sopravviven-za di certe idee strutturali di f ondo alle quali le generazioni successive h a n n o aderito e che d u n q u e simboleggiano la conti-nuità della società».'" Prat icamente tutte le maggiori civiltà del m o n d o del xx secolo esistono da un millennio oppure , come accade in America latina, sono discendenti dirette di una pre-cedente civiltà di antica tradizione.

Oltre a vivere a lungo, le civiltà si evolvono. Sono entità di-namiche, fioriscono e deperiscono, si f o n d o n o e si dividono, e come sanno molti studiosi di storia, possono anche scomparire e finire seppellite dalla sabbia del tempo. Le fasi della loro evo-luzione sono definibili in vari modi. Quigley ritiene che le ci-viltà attraversino sette stadi: confluenza, gestazione, espansio-ne, epoca di conflittualità, impero universale, decadenza e in-vasione. Melko ha invece elaborato un model lo di con t inuo mutamento : da un sistema feudale consolidato a un sistema

9 Braudel, History of Civilizations, p. 35, e On History, pp. 209-10. 10 Bozeman, Strategie Intelligence and Statecraft, p. 26.

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feudale in transizione a un sistema statale consolidato a un si-stema statale in transizione a un sistema imperiale consolidato. Toynbee ritiene che la civiltà nasca come risposta a determina-te sfide e attraversi quindi un per iodo di sviluppo che implica un sempre maggiore controllo del propr io ambiente da par te di una minoranza creativa, cui fa seguito un per iodo di disor-dini, la nascita di u n o stato universale e infine la disintegrazio-ne. Pur presentando significative differenze, tutte queste teorie p r o p u g n a n o un medesimo percorso: evoluzione attraverso un per iodo di disordini o di conflittualità, nascita di u n o stato uni-versale, decad imento e disintegrazione."

Quinto. In quanto entità culturali e non politiche, le civiltà non provvedono di per sé a man tene re l 'ordine, amministrare la giustizia, raccogliere tasse, combat te re guerre , negoziare trattati o assolvere le altre incombenze solitamente espletate dai governi. La composizione politica delle civiltà varia da caso a caso e si modifica altresì nel t empo al l ' in terno di ciascuna di esse. In tal modo , una civiltà p u ò contenere una o più entità politiche. Tali entità possono essere città-stato, imperi , federa-zioni, confederazioni , stati nazionali, stati multinazionali, e tut-te possono avere svariate fo rme di governo. Via via che u n a ci-viltà si evolve, di n o r m a h a n n o luogo dei mutament i nel nu-mero e nella natura delle entità politiche che la costituiscono. In casi estremi, u n a civiltà può coincidere con un 'en t i t à politi-ca. La Cina, ha osservato Lucian Pye, è «una civiltà mascherata da stato».1" Il Giappone, invece, è effet t ivamente al con tempo una civiltà e u n o stato. La maggior parte delle civiltà, tuttavia, cont iene più stati o entità polit iche. Nel m o n d o m o d e r n o , gran par te delle civiltà cont iene due o più stati.

Infine, gli studiosi concordano genera lmente sull 'individua-zione delle maggiori civiltà della storia e su quelle esistenti nel m o n d o m o d e r n o , men t re invece dissentono spesso sul nume-ro totale di civiltà esistite nella storia. Quigley individua sedici casi storici evidenti più altri ot to mol to probabili. Toynbee fis-

11 Quigley, Evolution of ('.ivilizations, p. 146 sgg.; Melko, Nature of Civilizations, p. 101 sgg. Si veda D. C. Somervell, «Argument», nel suo compendio di Ar-nold f. Toynbee, A Study ofUistory, voli. I-M. Oxford, Oxford University Press, 1946, p. 569 sgg. 12 Lucian W. Pve, «China: Erratic State, Frustrated Society», in «Foreign Af-fairs», n. 69 (Autunno 1990), p. 58.

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sò tale n u m e r o pr ima a ventuno, poi a ventitré. Spengler elen-ca otto grandi culture, McNeill parla di nove civiltà in tutta la storia; anche Bagby vede nove grandi civiltà, o undici volendo separare Giappone e m o n d o ortodosso da Cina e Occidente . Braudel ha identificato nove e Rostovanij sette grandi civiltà con t emporanee . " Tali di f ferenze nascono in parte a seconda che si ri tenga che determinat i g ruppi culturali quali gli indiani o i cinesi abbiano posseduto nel corso della storia u n a singola civiltà, oppu re due o più civiltà s t re t tamente correlate, discen-dent i una dall 'altra. Nonos tan te tali d i f ferenze, tuttavia, l'i-dent i tà delle maggiori civiltà non è oggetto di discussioni. Esi-ste u n a «ragionevole convergenza di opinioni», conc lude Melko d o p o aver passato in rassegna tutta la let teratura sul te-ma, sull'esistenza di a lmeno dodici grandi civiltà, di cui sette ormai estinte (mesopotamica, egiziana, cretese, classica, bizan-tina, centroamericana, andina) e c inque ancora esistenti (ci-nese, giapponese, indiana, islamica e occidentale).14 A queste sei civiltà del m o n d o con t emporaneo sembra utile ai nostri fi-ni aggiungere quella la t inoamericana e forse anche quella africana.

Riassumendo, dunque , le maggiori civiltà c o n t e m p o r a n e e sono le seguenti.

Sinica. Tutti gli studiosi r iconoscono l'esistenza o di un 'uni -ca, distinta civiltà cinese risalente a lmeno al 1500 a.C. o forse anche a mille anni prima, o p p u r e di due civiltà cinesi, succe-dutesi tra loro nei primi secoli del l 'epoca cristiana. Nel mio ar-ticolo su «Foreign Affairs» definii tale civiltà «confuciana». E tuttavia più appropr ia to usare il te rmine «sinica». Sebbene il confucianes imo sia un e lemento cardine della civiltà cinese, quest 'ul t ima va ben al di là del confucianesimo e trascende la Cina in quan to entità politica. Il t e rmine «sinica», adottato da numeros i studiosi, sintetizza e ingloba in m o d o appropr ia to la cultura c o m u n e alla Cina e alle comuni tà cinesi dell'Asia sudo-

13 Si veda Quigley, Evolution of Civilizations, cit., cap. 3, soprattutto le pp. 77, 84; Max Weber, «The Social Psvchology of the World Religions», in H. H. Gerth e C. Wright Mills (cura e traduzione di), From Max Weber: Essays in So-ciology, London, Routledge, 1991, p. 267; Bagby, Culture and History, pp. 165-74; Spengler, Decline of the West, voi. II, p. 31 sgg; Toynbee, Study of History, voi. I, p. 133; voi. XII, pp. 546-7; Braudel, History of Civilizations, passim; McNeill, The Rise of the West, passim; e Rostovanyi, «Clash of Civilizations», pp. 8-9. 14 Melko, Nature of Civilizations, p. 133.

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rientale e delle altre regioni es terne alla Cina, e le culture affi-ni di Vietnam e Corea.

Giapponese. Alcuni studiosi f a n n o confluire le culture giap-ponese e cinese in un 'un ica civiltà estremo-orientale. La mag-gior par te di essi, tuttavia, considera il Giappone una civiltà a sé stante, d iscendente da quella cinese ed emersa nel pe r iodo compreso tra il 100 e il 400 d.C.

Indù. E stata ormai universalmente riconosciuta in India l'e-sistenza, a part ire a lmeno dal 1500 a.C., di u n a o più civiltà suc-cessive soli tamente denomina te indiana o indù, con u n a prefe-renza per quest 'ul t ima definizione per quanto r iguarda la ci-viltà più recente. In un m o d o o nell 'altro, a partire dal n mil-lennio a.C. l ' induismo ha svolto un ruo lo fondamenta le nella cultura indiana: «Più che u n a religione o un sistema sociale, es-so è il cuore stesso della civiltà indiana».1 ' L ' induismo ha conti-nuato a espletare tale ruolo anche in epoca moderna , sebbene lo stato indiano in quanto tale includa u n a cospicua comuni tà musulmana e varie altre minoranze culturali di minore entità. Al pari di «sinico», il t e rmine «indù» serve a dist inguere tra il n o m e della civiltà e quello del suo stato guida, cosa o p p o r t u n a quando , come in questi casi, la cultura della civiltà t rascende i confini di tale stato.

Islamica. Tutti i più eminent i studiosi r iconoscono l'esistenza di una distinta civiltà islamica. Originatosi nella penisola arabi-ca nel vii secolo d.C., l ' islamismo si diffuse r ap idamente in Nord Africa e nella penisola iberica nonché , a est, in Asia cen-trale, in India e in Asia sudorientale. Di conseguenza, all 'inter-no dell 'Islam coesistono numerose culture o sottociviltà a sé stanti, tra cui l 'araba, la turca, la persiana e la malaysiana.

Occidentale. La nascita della civiltà occidentale viene fatta ge-nera lmente risalire in torno al 700 o 800 d.C. Gli studiosi sono soliti suddividerla in tre rami principali: europeo, nordameri-cano e lat inoamericano.

Latinoamericana. L'America latina presenta tuttavia u n a pro-pria identi tà diversa da quella del l 'Occidente . Sebbene sia un ' emanaz ione diretta della civiltà europea, l 'America latina si è evoluta secondo un modello diverso da quello eu ropeo e nor-damericano. H a avuto una cultura corporativa e autoritaria che

15 Braudel, On Hìstory, p. 226.

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l 'Europa ha sper imenta to in misura mol to minore e che in Nord America è sempre stata assente. Sia l 'Europa che il Nord America h a n n o avvertito gli effetti della Riforma, inglobando al p ropr io in te rno sia la cultura cattolica che quella protestan-te. Storicamente, sebbene possano esserci oggigiorno dei mu-tamenti in tal senso, L'America latina è sempre stata esclusiva-men te cattolica. La civiltà la t inoamericana incorpora culture indigene, che in Europa non sono mai esistite e in Nord Ame-rica sono state spazzate via, e la cui importanza varia da paese a paese, con Messico, America centrale, Perù e Bolivia a un estre-m o e Argentina e Cile al l 'estremo opposto. L'evoluzione politi-ca e lo sviluppo economico latinoamericani h a n n o seguito stra-de comple tamente diverse da quelle prevalenti nei paesi nor-dadantici . Gli stessi lat inoamericani sono divisi in meri to alla propr ia autoidentificazione. Alcuni dicono: «Sì, facciamo parte dell 'Occidente». Altri sostengono: «No, possediamo u n a nostra cultura distinta», ed esiste u n ' a m p i a let teratura latino e norda-mericana che descrive le rispettive differenze culturali.16 L'A-merica latina p u ò essere considerata o una sottociviltà nell 'am-bito della civiltà occidentale, oppure u n a civiltà a sé stante stret-tamente associata al l 'Occidente e divisa in meri to alla sua ap-par tenenza o m e n o ad esso. Per un'analisi del l ' impatto politico delle civiltà sullo scacchiere internazionale, compresi i rappor-ti tra America latina da un lato e Nord America ed Europa dal-l 'altro, la seconda ipotesi appare più utile ed appropriata .

L 'Occidente , dunque , comprende l 'Europa, il Nord Ameri-ca, più altri paesi a for te colonizzazione europea quali l'Austra-lia e la Nuova Zelanda. Il r appor to tra le due principali unità costitutive del l 'Occidente , tuttavia, è muta to nel tempo. Per gran par te della loro storia, gli americani h a n n o def in i to la propr ia società in termini di contrapposizione al l 'Europa. L'A-merica era la patria della libertà, dell 'uguaglianza, delle op-por tuni tà , del fu turo; l 'Europa simboleggiava oppressione, conflitti di classe, gerarchia, arretratezza. Si arrivò finanche a sostenere che quella americana fosse u n a civiltà a sé stante. Ta-le presunta contrapposizione tra America e Europa fu soprat-

16 Per un ulteriore, importante contributo a questa letteratura offerto negli anni Novanta da uno studioso che conosce bene entrambe le culture, si veda Claudio Veliz, The New World of the GothicFox, Berkeley, University of Califor-nia Press, 1994.

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tutto conseguenza del fatto che, a lmeno fino alla fine del xix secolo, l 'America ebbe solo contatti sporadici con le civiltà non occidentali. Una volta affacciatisi sulla scena mondiale, tuttavia, gli Stati Uniti svilupparono ben presto un più forte senso di identificazione con l 'Europa." Se l 'America del l 'Ot tocento si definiva diversa e contrapposta al l 'Europa, l 'America del xx se-colo si è definita parte integrante e anzi e lemento di pun ta di una più ampia identità, l 'Occidente , c o m p r e n d e n t e anche l 'Europa.

Il t e rmine «l 'Occidente» viene oggi universalmente impie-gato per indicare quella che u n a volta si soleva definire Cristia-nità occidentale. Quella occidentale è d u n q u e l 'unica civiltà identificata da un pun to cardinale anziché dal n o m e di un par-ticolare popolo, religione o area geografica.18 Tale caratterizza-zione astrae la civiltà occidentale dal p ropr io contesto storico, geografico e culturale. Se s tor icamente la civiltà occidentale corr i sponde alla civiltà europea, nel l 'era m o d e r n a essa corri-sponde invece alla civiltà euroamer icana o nordatlantica. L'Eu-ropa, l 'America e il Nord Atlantico sono entità pe r fe t t amente individuabili su u n a cartina geografica, l 'Occidente no. Il ter-mine «Occidente» ha inoltre genera to il concet to di «occiden-talizzazione», p romuovendo un ' ingannevole sinonimia tra oc-

17 Si veda Charles A. e Mary R. Beard, The Rise of American Civilization, New York, Macmillan, 2 voli., 1927, e Max Lerner, America as a Civilization, New York, Simon 8c Schuster, 1957. Con fervore patriottico, Lerner sostiene che «Nel bene e nel male, l'America è quella che è: una cultura a p ieno titolo, con molti tratti costitutivi e propulsivi del tutto peculiari, rappresentante in-sieme alla Grecia e a Roma di una delle grandi civiltà distintive della storia». Egli, tuttavia, ammette anche che «senza quasi eccezioni di sorta, le grandi teorie della storia non contemplano il concetto di America come civiltà a se stante» (pp. 58-9). 18 L'utilizzo dei termini «Oriente» e «Occidente» per identificare delle aree geografiche è ingannevole ed etnocentrico. «Nord» e «Sud« presentano nei rispettivi poli dei punti di riferimento fissi universalmente accettati. «Orien-te» ed «Occidente» non hanno alcun analogo punto di riferimento. La que-stione è: oriente e occidente rispetto a cosa? Tutto dipende dal luogo in cui ci si trova. Si presume che i termini «Occidente» e «Oriente» facessero in ori-gine riferimento alle parti occidentale e orientale dell'Eurasia. Dal punto di vista di un americano, tuttavia, l'Estremo Oriente è di fatto l'Estremo Occi-dente. Per gran parte della storia cinese l 'Occidente ha significato l'India, mentre «in Giappone "l'Occidente" significava generalmente la Cina». Wil-liam E. Naff, «Reflections on the Question of "East and West" from the Point of View of japan», in «Comparative Civilizations Review», nn. 13-14 (Autunno 1985/Primavera 1986), p. 228.

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cidentalizzazione e modernizzazione: possiamo immaginare un Giappone che si sta «occidentalizzando», molto m e n o invece un Giappone che si sta «euroamericanizzando». Ad ogni mo-do, la civiltà euroamer icana viene oggi universalmente defini ta civiltà occidentale, e per tanto sarà qui adottato tale termine, nonos tante le sue gravi inadeguatezze.

Africana (forse). Ad eccezione di Braudel, la maggior par te dei più eminent i studiosi delle civiltà non riconosce u n a distin-ta civiltà africana. Il nord e la costa orientale del cont inente afr icano appa r t engono alla civiltà islamica. L'Etiopia ha tradi-zionalmente costituito u n a civiltà a sé. Altrove, l ' imperialismo e la colonizzazione europea h a n n o in t rodot to elementi della ci-viltà occidentale. In Sud Africa, i coloni olandesi, francesi e quindi inglesi det tero vita a u n a cultura europea o l t remodo va-riegata.19 Cosa ancor più importante , l ' imperialismo e u r o p e o introdusse il cristianesimo in gran par te del cont inente a sud del Sahara. In tutta l'Africa, tuttavia, pu r essendo le identità tribali assai intense e radicate, gli africani s tanno al con t empo sviluppando un senso sempre più forte della propria identità di africani in senso lato, e l 'Africa sub-sahariana po t rebbe anche dar vita a una sua distinta civiltà, con il Sud Africa nella possi-bile veste di stato guida.

La religione è un basilare e lemento caratterizzante delle ci-viltà, e come ha af fermato Chris topher Dawson «le grandi reli-gioni sono le fondamen ta su cui poggiano le grandi civiltà».2" Delle c inque «religioni mondiali» definite da Weber, quat t ro -cristianesimo, islamismo, induismo e confucianes imo - sono associate a grandi civiltà. La quinta, il buddismo, invece, no. Perché? Al pari dell ' islamismo e del cristianesimo, il buddismo si suddivise ben presto in due t ronconi principali, e al pari del cristianesimo non è sopravvissuto nella sua terra d 'or igine. A part ire dal i secolo d.C., il buddismo mahayana fu esportato in

19 Sul ruolo avuto da frammenti della civiltà europea nella creazione di nuo-ve società in Nord America, America latina, Sud Africa e Australia, si veda Louis Hartz, TheFounding of New Societies: Studies in the History of the United Sta-tes, Latin America, South Africa, Canada, and Australia, New York, Harcourt, Brace Se World , 1964. 20 Dawson, Dynamics of World History, p. 128. Si veda anche Mary C. Bateson, «Beyond Sovereignty: An Emerging Global Civilization», in R. B. J. Walker e Saul H. Mendlovitz (a cura di), Contending Sovereignties: Redefining Politicai Community, Boulder, Lynne Rienner, 1990, pp. 148-49.

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Cina e successivamente in Corea, Vietnam e Giappone. In que-ste società, esso venne in vario m o d o adattato, assimilato alla cultura autoctona (in Cina ad esempio, al confucianesimo e al taoismo) e soppresso. Per cui, sebbene il buddismo resti u n a componen te impor tan te delle loro culture, tali società non co-stituiscono e non si ident i f icherebbero come parte di u n a ci-viltà buddista. Esiste invece quella che p u ò essere legittima-men te descritta come u n a civiltà buddista therevada nello Sri Lanka, in Birmania, in Thailandia, nel Laos e in Cambogia. Inoltre, le popolazioni del Tibet, della Mongolia e del Bhutan h a n n o tradizionalmente adot ta to la variante lamaista del bud-dismo mahayana: tali società costituiscono una seconda area di civiltà buddista. Nel complesso, tuttavia, la virtuale estinzione del buddismo in India ed il suo ada t tamento e la sua incorpo-razione nelle culture esistenti in Cina e in Giappone s tanno a indicare che il buddismo,21 pu r essendo u n a grande religione, non ha costituito la base di u n a g rande civiltà."2

/ rapporti tra le civiltà

Incontri: le civiltà prima del 1500 d. C. I rapport i tra le civiltà hanno attraversato due fasi e oggi ne stanno vivendo una terza. Per oltre tremila anni successivi alla nascita delle prime civiltà, i

21 Toynbee classifica sia il buddismo theverada che quello lamaista tra le ci-viltà estinte. 22 Cosa dire della civiltà ebraica? La gran parte degli studiosi delle civiltà non ne fa menzione . In termini numerici, l 'ebraismo non è ovviamente una grande civiltà. Toynbee la descrive c o m e una civiltà estinta evolutasi dalla più antica civiltà siriaca. Storicamente è stata affiliata sia al cristianesimo che all'islamismo, e per diversi secoli gli ebrei hanno preservato la propria identità culturale all'interno della civiltà occidentale, ortodossa e islamica. Con la creazione dello stato di Israele, gli ebrei hanno acquisito tutti gli ele-menti costitutivi formali propri di una civiltà: religione, lingua, costumi, let-teratura, istituzioni e una propria dimora sia territoriale che politica. Ma co-sa dire dell ' identificazione individuale? Gli ebrei residenti in altre culture sono schierati lungo un ampio ventaglio di posizioni che va dalla totale identificazione dell'ebraismo con Israele, a un ebraismo solo nominale, fino alla totale identificazione con la civiltà in cui risiedono. Quest'ultima solu-zione, tuttavia, risulta adottata principalmente dagli ebrei che vivono in Oc-cidente. Si veda Mordecai M. Kaplan, Judaism as a Civilization, Philadelphia, Reconstructionist Press, 1981 (prima ediz ione 1934), in particolare le pp. 173-208.

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contatti tra esse sono stati, salvo alcune eccezioni, o del tutto inesistenti, o limitati, oppure intermittenti e intensi. La natura di tali contatti è ben compendiata nel termine impiegato dagli studiosi per descriverla: «incontri»."3 Le civiltà erano distanti nel tempo e nello spazio. Solo un piccolo numero di esse era pre-sente in ciascuna epoca storica, ed esiste una significativa distin-zione, come hanno sostenuto Benjamin Schwartz e Shmuel Ei-senstadt, tra civiltà dell'«Età assiale» e civiltà precedenti , a se-conda che riconoscessero o m e n o una distinzione tra «ordini trascendentali e ordini terreni». Le civiltà dell'«Età assiale», a differenza dei loro predecessori, possedevano dei miti trascen-dentali propagati da una distinta classe intellettuale: «i profeti e sacerdoti ebrei, i filosofi e i sofisti greci, i letterati cinesi, i bra-mini induisti, i sangha buddisti e gli ulema islamici».24 Alcune re-gioni hanno sperimentato due o tre generazioni di civiltà affilia-te, con la caduta di una, cui seguiva, dopo un intervallo di tem-po, l'avvento di una generazione successiva. La Figura 2.1 mo-stra una cartina semplificata (riprodotta da Carroll Quigley) dei rapporti tra le maggiori civiltà eurasiatiche nel corso del tempo.

Le civiltà e rano separate anche geograf icamente . Fino al 1500 la civiltà andina e quella cent roamericana non ebbero al-cun contat to né reciproco né con altre civiltà. Anche le pr ime civiltà fiorite nelle valli dei fiumi Nilo, Tigri-Eufrate, Indo e Fiu-me giallo non ebbero alcun tipo di rappor to . Alla fine, i con-tatti tra civiltà vennero a moltiplicarsi nel Medi ter raneo orien-tale, in Asia sudoccidentale e nel l ' India settentrionale. Tutta-via, le comunicazioni e i rappor t i commerciali e rano ostacolati

23 Si veda, ad esempio, Bernard Lewis, Islam and the West, New York, Oxford University Press, 1993 (trad. it. L'Europa e l'Islam, Bari, Laterza, 1995); Toyn-bee, Study of History, cap. IX, «Contacts between Civilizations in Space (En-counters between Contemporaries)», Vili , p. 88 sgg.; Benjamin Nelson, «Ci-vilizational Complexes and Intercivilizational Encounters», in «Sociological Analysis», n. 34 (Estate 1973), pp. 79-105. 24 S. N. Eisenstadt, «Cultural Traditions and Politicai Dynamics: The Origins and Modes of Ideological Politics», in «British Journal of Sociology», n. 32 (Giugno 1981), p. 157, e «The Axial Age: The Emergence of Transcendental Visions and the Rise of Clerics», in «Archives Europeennes de Sociologie», 22, n. 1, 1982, p. 298. Si veda anche Benjamin I. Schwartz, «The Age of Tran-scendence in Wisdom, Revolution, and Doubt: Perspectives o n the First Mil-lennium B.C.», in «Daedalus», n. 104 (Primavera 1975), p. 3. Il concetto di «Età assiale» è tratto da Karl Jaspers, Vom Ursprung und Ziel der Geschichte, Zu-rich, Artemisverlag, 1949.

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Figura 2.1 I^e civiltà dell'emisfero orientale

[Culture Neolitiche]

Fonte: Carroll Q u i n g l e y , The Evolulion of Civilizations: An Introductìon to Historical Analysis, Indianapol is , Liberty Press, 1979', p. 83.

dalle lunghe distanze che separavano le varie civiltà e dai limi-tati mezzi di trasporto disponibili per coprirle. Sebbene già esi-stesse un certo livello di scambi commerciali via mare nel Me-di te r raneo e ne l l 'Oceano Indiano, «fu il cavallo delle steppe, non il veliero transoceanico, il principale mezzo di t rasporto grazie al quale le diverse civiltà del mondo , così come questo appariva nel 1500 d.C., e rano collegate, per quel po ' di contat-ti reciproci effett ivamente esistenti».2"

Idee e tecnologie conf lui rono da u n a civiltà all'altra, ma tale processo impiegò spesso dei secoli. La più impor tante propa-gazione culturale che non fosse f ru t to di conquista fu forse la diffusione del buddismo in Cina, circa seicento anni dopo la sua nascita nel l ' India settentrionale. La stampa fu inventata in

25 Toynbee , Civilization on Trial, p. 69. Cfr. William H. McNeil , The Rise ofthe West, pp. 295-98, c h e sottol inea la misura in cui al l 'epoca dell 'avvento dell'e-ra cristiana «rotte commercial i organizzate, sia via terra c h e via mare, ... col-legavano le quattro grandi culture del cont inente» .

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Cina nell'viii secolo d.C., e i caratteri mobili nell'xi, ma tale tec-nologia non raggiunse l 'Europa pr ima del 1500. La carta fu in-trodotta in Cina nel n secolo d.C., giunse in Giappone nel VII e si diffuse a ovest in Asia centrale nell'viii, in Nord Africa nel x, in Spagna nel xn e in Nord Europa nel xm. Un'al t ra invenzione cinese, la polvere da sparo, risalente al ix secolo, si diffuse tra gli Arabi qualche centinaio di anni dopo e raggiunse l 'Europa nel xiv secolo.2"

I contat t i più significativi, e drammat ic i , tra civiltà si ebbe-ro a l lorché le popolazioni di u n a civiltà conqu i s t a rono ed eli-m i n a r o n o o soggiogarono quelle di un 'a l t ra . Di n o r m a , que-sti contat t i f u r o n o n o n solo violenti, ma anche fugaci e in-termit tent i . A par t i re dal VII secolo d.C., contat t i relat ivamen-te costanti e a tratti a n c h e intensi presero tuttavia a svilup-parsi tra Islam e Occ iden te e tra Islam e India. Il grosso dei r appor t i commercial i , culturali e militari si sviluppò tuttavia ne l l ' ambi to delle singole civiltà. Se da u n lato, ad esempio, India e Cina f u r o n o occas iona lmente invase e soggiogate da altri popol i (moghul , mongol i ) , dal l 'a l t ro e n t r a m b e queste civiltà spe r imen ta rono al p rop r io i n t e r n o l 'esistenza, pe r lun-ghi per iodi di t empo, di «stati guerr ier i». In ugual m o d o , i greci c o m b a t t e r o n o e c o m m e r c i a r o n o tra loro mol to più di q u a n t o non abb iano fat to con i persiani o con altri popol i non greci.

L'impatto: l'ascesa dell'Occidente. Il cristianesimo europeo iniziò a emergere come civiltà a sé stante nell'viii e ix secolo. Per diverse centinaia di anni, tuttavia, il suo livello di sviluppo segnò il passo rispetto a molte altre civiltà. La Cina sotto le dinastie T'ang, Sung e Ming, il mondo islamico dall'vm al xn secolo e Bisanzio dall'viii all'xi secolo superarono di gran lunga l 'Europa per ricchezza, estensione geografica, potenza militare e livello artistico, lettera-

26 Braudel, Ori History, p. 14: «... l'influenza culturale giunse a piccole dosi, ri-tardata dalla lunghezza e lentezza del viaggio da intraprendere. Se dobbiamo credere agli storici, le mode cinesi dell'era T'ang [618-907] viaggiarono così lentamente che raggiunsero l'isola di Cipro e la sfavillante corte di Lusignano solo nel xv secolo. Da lì, si diffusero, al più rapido ritmo degli scambi com-merciali nel Mediterraneo, all'eccentrica corte di Carlo vi, dove cappelli a pan di zucchero e scarpe appuntite divennero immesamente popolari, ere-dità di un m o n d o da tempo scomparso, così come la luce di stelle già estinte continua a raggiungerci».

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rio e scientifico.2' Tra l'xi e il xm secolo la cultura europea iniziò a svilupparsi, agevolata dalla «zelante e sistematica appropriazio-ne di elementi di valore dalle superiori civiltà dell'Islam e di Bi-sanzio, nonché dal processo di adattamento di tale eredità ai par-ticolari interessi e condizioni dell 'Occidente». Nello stesso perio-do, Ungheria, Polonia, Scandinavia e paesi baltici vennero con-vertite al cristianesimo occidentale, cui seguì l ' introduzione del diritto romano e di altri aspetti della civiltà occidentale; così po-sto, il confine orientale della civiltà occidentale si sarebbe poi sta-bilizzato su tale linea senza subire ulteriori modifiche di rilievo. Nel corso del XII e xm secolo gli occidentali tentarono di espan-dere con le armi il proprio controllo in Spagna, riuscendo a im-porre il proprio dominio sul Mediterraneo. Successivamente, tut-tavia, l'ascesa della potenza turca portò al crollo del «primo im-pero d 'ol tremare dell 'Europa occidentale».2" Ciò nonostante, nel 1500 il Rinascimento della cultura europea era già in pieno svi-luppo e il pluralismo sociale, l 'espansione del commercio e i pro-gressi tecnologici gettarono le basi per una nuova epoca nei rap-porti internazionali.

Tali limitati o intermittenti incontri multidirezionali tra civiltà cedettero il passo alla prolungata, opprimente , unidirezionale influenza dell 'Occidente su tutte le altre civiltà. La fine del xv se-colo vide la definitiva riconquista della penisola iberica a spese dei Mori e l'inizio della penetrazione portoghese in Asia e di quella spagnola nelle Americhe. Nei successivi duecentocin-quant 'anni l ' intero emisfero occidentale nonché una significati-va parte dell'Asia fu rono assoggettati al governo o al dominio europeo. La fine del xviii secolo vide una contrazione del con-trollo diretto europeo: dappr ima gli Stati Uniti, Haiti poi e quin-di la maggior parte dell 'America latina si ribellarono al dominio europeo e conquistarono l ' indipendenza. Nell 'ultimo scorcio del xix secolo, tuttavia, il risorto imperialismo occidentale estese il proprio controllo su gran parte dell'Africa, rafforzò l ' influen-za dell 'Occidente in India e in altre regioni asiatiche e all'inizio del xx secolo dominava diret tamente o indirettamente l ' intero Medio Oriente a eccezione della Turchia. L'Europa o le ex co-lonie europee (nelle Americhe) controllavano il 35 per cento

27 Si veda Toynbee, Study o/History, voi. Vil i , pp. 347-48. 28 McNeill, Rise o/the West, p. 547.'

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dell ' intera superficie terrestre nel 1800, il 67 per cento nel 1878 e l '84 per cento nel 1914. Nel 1920 tale percentuale era ancora maggiore in seguito alla spartizione del l ' Impero ot tomano tra Inghilterra, Francia e Italia. Nel 1800 l ' Impero britannico con-tava 2,4 milioni di chilometri quadrati e 20 milioni di cittadini. Nel 1900 l ' Impero vittoriano su cui non tramontava mai il sole comprendeva 26,4 milioni di chilometri quadrati e 390 milioni di sudditi.29 Nel corso dell 'espansione europea, le civiltà andina e centroamericana fu rono letteralmente spazzate via, quelle in-diana e islamica soggiogate al pari dell'Africa, e anche la Cina venne subordinata all 'influenza occidentale. Solo le civiltà russa, giapponese ed etiope, tutte e tre governate da autorità imperia-li for temente centralizzate, riuscirono a resistere ai furiosi attac-chi dell 'Occidente e a preservare un certo grado di indipenden-za. Per quattrocento anni i rapport i tra le civiltà si ridussero in pratica alla subordinazione di altre società alla civiltà occidenta-le.

Tra le cause di un così drammatico e straordinario sviluppo vi fu rono la struttura sociale e i rapport i di classe invalsi in Occi-dente, la nascita delle città e del commercio, la distribuzione del potere nelle società occidentali tra corona e parlamento e tra au-torità laiche e religiose, il senso di coscienza nazionale emer-gente tra i popoli dell 'Occidente e lo sviluppo delle burocrazie statali. L'origine immediata dell 'espansione occidentale fu tut-tavia di carattere tecnologico: l ' invenzione di navi transoceani-che capaci di raggiungere popoli distanti e lo sviluppo delle ca-pacità militari atte a conquistare tali popoli. «In larga parte», ha osservato Geoffrey Parker, «l'"ascesa dell 'Occidente" è stata fon-data sul ricorso alla forza, sul fatto che gli equilibri militari tra gli europei e i loro avversari d 'ol t reoceano sono stati costantemen-te a favore dei primi; ... la chiave del successo occidentale nella creazione tra il 1500 e il 1750 dei primi imperi realmente mon-diali va ricercata precisamente in quei progressi nell 'arte di fare guerra definiti "la rivoluzione militare"». L'espansione dell 'Oc-cidente fu altresì facilitata dalla superiore organizzazione, disci-plina e addestramento dei loro eserciti e successivamente dal su-periore livello di armamenti , mezzi di trasporto, organizzazione

29 D. K. Fieldhouse, Economies and Empire, 1830-1914, London, Macmillan, 1984, p. 3; F. J. C. Hearnshaw, Sea Power and Empire, London, George Harrap and Co, 1940, p. 179.

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logistica e sanitaria derivante dalla propria leadership nella Ri-voluzione industriale/" L 'Occidente conquistò il m o n d o non grazie alla forza delle proprie idee, dei propri valori o della pro-pria religione (ai quali ben pochi esponenti delle altre civiltà fu-rono convertiti), ma in virtù della superiore capacità di scatena-re violenza organizzata. Gli occidentali dimenticano spesso tale circostanza; i non occidentali non la dimenticano mai.

Nel 1910 il m o n d o era ormai un 'ent i tà politica ed economica coesa come mai prima nella storia dell 'uomo. La percentuale del commercio internazionale sul prodot to mondiale lordo giunse a livelli inusitati e mai più uguagliati fino agli anni Set-tanta e Ottanta. La percentuale degli investimenti internaziona-li rispetto agli investimenti totali toccò un livello superiore a quello di qualsiasi altra epoca." Civiltà era sinonimo di civiltà oc-cidentale, e l 'Occidente controllava o dominava la gran parte del mondo . Il diritto internazionale era il diritto internazionale occidentale, nella tradizione di Grozio. Il sistema internazionale era il sistema occidentale westfaliano di stati nazionali sovrani ma «civilizzati» e dei territori coloniali da essi controllati.

La nascita di tale sistema internazionale modellato dall 'Oc-cidente rappresentò il secondo g rande evento della scena poli-tica mondia le nei secoli successivi al 1500. Oltre al r appor to di domin io con le società non occidentali, i paesi occidentali in-teragivano rec iprocamente su un p iano di maggiore ugua-glianza. Tali interazioni tra entità politiche appar tenent i a una stessa civiltà ricalcavano fede lmente quelle invalse nel l 'ambito della civiltà cinese, indiana e greca: e rano cioè fonda te su u n a omogenei tà culturale che abbracciava «la lingua, la religione, l 'organizzazione giuridica e amministrativa, l 'agricoltura, le

30 Geoffrey Parker, The Mililary Revolution: Mililary Innovation and the Rise of the West, Cambridge, Cambridge University Press, 1988, p. 4 (trad. it. La rivo-luzione militare. Le innovazioni militari e il sorgere dell'Occidente, Bologna, Il Muli-no, 1990); Michael Howard, «The Military Factor in European Expansion» in Hedley Bull e Adam Watson (a cura di), The Expansion of International Society, Oxford, Clarendon Press, 1984, p. 33 sgg. 31 A. G. Kenwood e A. L. Lougheed, The Growth of the International Economy 1820-1990, London, Routledge, 1992, pp. 78-9, Angus Maddison, DynamicForces in Capitolisi Development, New York, Oxford University Press, 1991, pp. 326-7; Alan S. Blindcr, citato in «New York Times», 12 marzo 1995, p. 5E. Si veda an-chc Simon Kuznets, «Quantitative Aspects of the Economie Growth of Nations - X. Level and Structure ofTorcigli Trade: Long-term Trends», in «Economie Development and Cultural Change», n. 15 (Gennaio 1967, parte II), pp. 2-10.

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proprie tà terr iere e forse anche i legami di sangue». I popoli europei «avevano u n a cultura c o m u n e e mantenevano stretti conta ta attraverso un'att iva rete commerciale, un movimento costante di persone e un fittissimo intreccio di famiglie re-gnanti». Inoltre, essi e rano in pratica costantemente impegna-ti a farsi la guerra: tra gli stati europei la pace era l 'eccezione, non la regola." Sebbene per gran par te di questo per iodo l 'Im-pero o t tomano controllasse fino a un quar to di quella che ven-ne spesso considerata Europa, esso non fu mai considerato un m e m b r o del sistema internazionale europeo.

Per 150 anni i rapporti politici al l ' interno della civiltà occi-dentale f u r o n o dominat i dal g rande scisma religioso e dalle guerre religiose e dinastiche. Nel secolo e mezzo successivo alla Pace di Westfalia i conflitti del m o n d o occidentale f u r o n o in larga parte conflitti tra teste coronate: imperatori , monarchi as-soluti e monarchi costituzionali intenti a espandere il propr io appara to amministrativo, il p ropr io esercito, la propr ia forza economica mercantilista e, cosa più importante, il territorio su cui regnavano. Nel corso di tale processo crearono degli stati nazionali, e a partire dalla Rivoluzione francese il più diffuso modello di contrapposizione conflittuale fu quello tra nazioni anziché tra sovrani. Nel 1793, come ha osservato R. R. Palmer, «Le guer re di sovrani e rano ormai finite, ed erano cominciate le guer re di popoli».33 Tale modello, caratteristico del xix seco-lo, è dura to fino alla Prima guer ra mondiale.

Nel 1917, in conseguenza della Rivoluzione russa, ai conflitti tra gli stati nazionali si aggiunsero i conflitti di ideologie, dappri-ma tra fascismo, comunismo e democrazia liberale, quindi tra gli ultimi due. Negli anni della Guerra f redda tali ideologie si incar-narono nelle due superpotenze, ciascuna delle quali definì la propria identità attraverso la propria ideologia e nessuna delle quali era uno stato nazionale nel senso della tradizione europea. L'ascesa al potere del marxismo dapprima in Russia e quindi in Cina e in Vietnam rappresentò una fase di transizione dal sistema

32 Charles Tilly, «Reflections on the History of European State-making», in Tilly (a cura di), The Formation of National States in Western Europe, Princeton, Princeton University Press, 1975, p. 18. 33 R. R. Palmer, «Frederick the Great, Guibert, Bulow: From Dynastic to Na-tional War», in Peter Paret (a cura di), Makers of Modem Strategy from Machia-velli to the NucUar Age, Princeton, Princeton University Press, 1986, p. 119.

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europeo internazionale a un sistema post-europeo a più civiltà. Il marxismo è stato un prodotto della civiltà europea, ma in Europa non ha mai attecchito e non si è mai propagato, mentre invece fu importato in Russia, Cina e Vietnam da élite dirigenti rivoluzio-narie e modernizzatrici. Lenin, Mao e H o Chi-minh lo adattaro-no ai propri fini e lo utilizzarono per sfidare il potere occidenta-le, mobilitare le rispettive popolazioni e affermare l ' identità e l 'autonomia nazionale dei propri paesi nei confronti dell'Occi-dente. Il crollo di tale ideologia in Unione Sovietica e il suo so-stanziale addomesticamento in Cina e Vietnam non significa ne-cessariamente, tuttavia, che tali società importeranno l'altra ideo-logia occidentale, quella della democrazia liberale. Gli occiden-tali che lo pensano resteranno probabilmente sorpresi dalla crea-tività, tempra e autorevolezza delle culture non occidentali.

Interazioni: un sistema a più civiltà. Nel xx secolo, i rapport i tra le varie civiltà sono d u n q u e passati da una fase caratterizzata dall ' influenza unidirezionale di u n a civiltà su tutte le altre a una serie di interazioni variegate e multidirezionali tra tutte le civiltà, ed en t rambe le caratteristiche di f ondo della preceden-te era di rappor t i tra civiltà h a n n o cominciato a scomparire.

In pr imo luogo, per rifarci alle due espressioni preferite dagli storici, l '«espansione dell 'Occidente» è terminata, ed è iniziata la «rivolta contro l 'Occidente». Seppur in modo lento, con pau-se e inversioni di rotta, il potere dell 'Occidente è diminuito in rappor to a quello di altre civiltà. La cartina del m o n d o del 1990 assomiglia ben poco a quella del 1920. Gli equilibri mondiali in materia di potere militare ed economico e di autorità politica so-no mutati (e verranno esaminati in maggior dettaglio in un ca-pitolo successivo). L'Occidente ha continuato a esercitare un ' in-fluenza significativa su altre società, ma i rapporti tra la civiltà oc-cidentale e le altre civiltà sono stati sempre più caratterizzati dal-le reazioni degli occidentali agli sviluppi occorsi in tali civiltà. Lungi dall'essere semplicemente oggetti passivi di una storia for-giata dall 'Occidente, le società non occidentali stanno diventan-do in misura sempre maggiore, artefici e protagoniste tanto del-la propria storia quanto di quella dell 'Occidente.

In secondo luogo, come risultato di tali sviluppi, il sistema in-ternazionale si è espanso oltre i confini occidentali e ha inglo-bato in sé una pluralità di civiltà. Nel contempo, i conflitti tra gli

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stati occidentali - che per secoli hanno caratterizzato quel tipo di sistema - sono giunti al termine. Alla fine del xx secolo la ci-viltà occidentale è ormai uscita dalla fase di sviluppo caratteriz-zata da un coacervo di «stati guerrieri» per passare alla costru-zione di uno «stato universale». Tale fase era ancora incompleta, con il raggruppamento degli stati nazionali occidentali in due stati semiuniversali, in Europa e in Nord America. Queste due entità, e le loro unità costitutive, sono tuttavia unite da una rete straordinariamente fitta di vincoli istituzionali formali e infor-mali. Gli stati universali delle precedenti civiltà e rano imperi. Ma poiché l'espressione politica della civiltà occidentale è la de-mocrazia, l 'emergente stato universale della civiltà occidentale non è un impero ma piuttosto un complesso di federazioni, con-federazioni e regimi e organizzazioni internazionali.

Le grandi ideologie politiche del xx secolo c o m p r e n d o n o il liberalismo, il socialismo, l 'anarchismo, il corporativismo, il marxismo, il comunismo, la socialdemocrazia, il conservatori-smo, il nazionalismo, il fascismo, la democrazia d ' ispirazione cristiana. Tutte queste ideologie h a n n o un e lemento in comu-ne: sono prodott i della civiltà occidentale. Nessun'al tra civiltà ha dato vita a un ' ideologia politica di rilievo. L 'Occidente, dal canto suo, non ha mai prodot to u n a grande religione. Tra le maggiori religioni del m o n d o nessuna nasce in Occidente e tutte, nella maggior parte dei casi, sono antecedent i a esso. Via via che il m o n d o esce dalla sua fase occidentale, le ideologie che h a n n o caratterizzato l 'epoca più recente di queste civiltà t endono a declinare e il loro posto è preso dalle religioni e da altre espressioni culturali di identità e di appar tenenza . La se-parazione westfaliana tra religione e politica internazionale, un prodot to idiosincratico della civiltà occidentale, si sta ormai av-viando alla fine e la religione, come osserva Edward Mortimer, «penetrerà probabi lmente in misura sempre maggiore negli af-fari internazionali»." Lo scontro di ideologie sviluppatosi nel-l 'ambito della civiltà occidentale sta lasciando il posto a u n o scontro di culture e di religioni tra civiltà diverse.

La geografia politica mondiale è passata dal l 'unico m o n d o del 1920 ai tre mondi degli anni Sessanta agli oltre sei m o n d i degli anni Novanta. Parallelamente, gli imperi occidentali uni-

34 Edward Mortimer, «Christianity and Islam», in «International Affaire», n. 67 (Gennaio 1991), p. 7.

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versali del 1920 si sono ridotti al ben più circoscritto «Mondo li-bero» degli anni Sessanta ( comprenden te molti stati non occi-dentali avversari del comunismo) , e quindi a l l 'ancor più ri-stretto «Occidente» degli anni Novanta. Una t rasformazione che tra il 1988 e il 1993 ha avuto quale riflesso semantico il parziale disuso del te rmine stesso «Mondo libero» e la diffusio-ne dell 'espressione «Occidente» intesa nel senso di civiltà occi-dentale (si veda la tabella 2.1). Un passaggio riflesso altresì nei r iferimenti , sempre più f requent i , all'Islam come a un fenome-no politico-culturale, alla «Grande Cina», alla Russia e ai paesi attigui dell 'ex impero, a l l 'Unione europea: tutti termini che ri-marcano le rispettive civiltà di appar tenenza . I rapport i tra le diverse civiltà sono in questa terza fase molto più f requent i e in-tensi di quan to lo siano stati nella prima, e molto più paritari e reciproci rispetto alla seconda. Inoltre, diversamente dall 'epo-ca della Guerra f redda, non esiste un 'un ica p ro fonda linea di demarcazione ideologica, quanto piuttosto svariate divisioni sia tra l 'Occidente e le altre civiltà che al l ' in terno delle numerose civiltà non occidentali.

Un sistema internazionale, ha sostenuto Hedley Bull, si crea «quando due o più stati sviluppano un livello di contatti e u n a capacità di influenza sulle altrui decisioni tali da indur re cia-

Tabella 2.1 Utilizzo dei termini «Mondo libero» e «Occidente•

Numero di riferimenti % di modifiche 1988 1993 nei riferimenti

«New York Times» Mondo libero 71 44 - 3 8 Occidente 46 144 +213 «Washington Post» Mondo libero 112 67 - 4 0 Occidente 36 87 +142 Congresso Usa Mondo libero 356 114 - 6 8 Occidente 7 10 +43

Fonte: I^exis/Nexis. Il numero delle citazioni si riferisce ad articoli o rap-porti contenenti i termini sopraindicati. I riferimenti al termine «Occi-dente» sono stati ricontrollati per accertarsi che nei rispettivi ambiti contestuali esso indicasse effettivamente una civiltà o entità politica.

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scuno di essi a comportarsi - a lmeno in qualche misura - come una sola entità». Una società internazionale, tuttavia, esiste so-lo q u a n d o gli stati appar tenen t i a u n sistema internazionale h a n n o «interessi comuni e valori comuni», «si considerano vin-colati da un codice di regole comuni», «lavorano congiunta-men te alla creazione di istituzioni comuni», e possiedono «una cultura o u n a civiltà comune».3 ' Al pari dei loro predecessori sumeri, greci, ellenici, cinesi, indiani e islamici, anche il siste-ma internazionale eu ropeo affermatosi dal XVIII al xix secolo fu una società internazionale. Nel xix e xx secolo il sistema inter-nazionale eu ropeo si espanse, fino a comprende re società pra-t icamente di tutte le civiltà esistenti. Alcune istituzioni e con-suetudini europee sono anche state esportate in queste società, che tuttavia sono ancora prive di quella cultura comune che sta alla base della società internazionale europea. Nel linguaggio tipico della teoria bri tannica delle relazioni internazionali , il m o n d o od ie rno è un sistema internazionale ben sviluppato, ma u n a società internazionale ancora p ro fondamen te primiti-va.

Ciascuna civiltà si considera il centro del mondo e descrive la propria storia come trama principale della storia umana. Ciò è stato forse ancor più vero per l 'Europa rispetto alle altre culture. Tali interpretazioni monocentr iche, tuttavia, assumono sempre minore utilità e rilevanza in un m o n d o costituito da più civiltà. Da tempo ormai gli studiosi delle civiltà hanno riconosciuto que-sto semplice truismo. Nel 1918 Spengler denunciò la miope vi-sione della storia prevalente in Occidente, con la sua netta divi-sione in tre epoche - antica, medievale, moderna - che hanno un significato solo per l 'Occidente. E necessario, osservò Spen-gler, abbandonare un simile «approccio tolemaico alla storia» a favore di un approccio copernicano, e sostituire «la vacua fin-zione di un 'unica storia lineare, con la realtà di una pluralità di

35 Hedley Bull, The Anarchica! Society, New York, Columbia University Press, 1977, pp. 9-13. Si veda anche Adam Watson, The Evolution of International So-ciety, London, Routledge, 1992; e Barry Buzan, «From International System to International Society: Structural Realism and Regime Theory Meet the En-glish School», in «International Organization», n. 47 (Estate 1993), pp. 327-352, che distingue tra modell i «di civiltà» e modell i «funzionali» di società in-ternazionale e conc lude che «le società internazionali basate su un'unica ci-viltà h a n n o avuto un ruolo dominante nella storia», e che «non risulta esista-no esempi di società internazionali funzionali pure» (p. 336).

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possenti culture».36 Alcuni decenni dopo, Toynbee criticò il «provincialismo e l ' impertinenza» dell 'Occidente manifestatisi nella «egocentrica illusione» che il m o n d o ruotasse in torno ad esso, che esistesse un «Oriente inamovibile» e che il «progresso» fosse qualcosa di inevitabile. Al pari di Spengler respinse la teo-ria dello sviluppo unitario della storia, l ' idea che esista «un uni-co f iume della civiltà, il nostro, e che tutti gli altri o sono suoi af-fluenti o vanno a spegnersi nelle sabbie del deserto»." Cin-q u a n t a n n i dopo Toynbee, anche Braudel sostenne la necessità di elaborare un più ampio quadro interpretativo per riuscire a comprendere «i grandi conflitti culturali esistenti nel m o n d o e la molteplicità delle sue civiltà».38 Le illusioni e i pregiudizi de-nunciati da questi studiosi, tuttavia, sono ancora oggi, alla fine del xx secolo, ben vivi, e traggono nuova linfa vitale nella diffusa, provinciale convinzione che la civiltà europea dell 'Occidente sia la civiltà universale dell ' intero globo.

36 Spengler, Decline of the West, vol. I, pp. 93-4. 37 Toynbee, Study of History, vol. I, p. 149 sgg., 154, 157 sgg. 38 Braudel, On History, p. xxxiii.

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CAPITOLO TERZO Una civiltà universale? Modernizzazione e occidentalizzazione

Civiltà universale: significati

E stato sostenuto che l 'epoca attuale stia assistendo alla na-scita di quella che V. S. Naipaul ha defini to una «civiltà univer-sale».1 Cosa si in tende con tale definizione? In generale, impli-ca l ' idea di u n processo di aggregazione culturale del l 'umani tà e la sempre più diffusa accettazione di valori, credenze, orien-tamenti , usi e istituzioni comuni da par te dei popoli di tutto il mondo . Più specificamente, tale concetto può implicare alcune tesi p r o f o n d e ma non per t inent i , altre per t inent i ma non profonde , altre ancora non per t inent i e superficiali.

Pr ima tesi: gli esseri umani di pressoché tutte le civiltà con-dividono certi principi (ad esempio che l 'omicidio sia un cri-mine) e certe istituzioni (ad esempio un qualche tipo di orga-nizzazione familiare) di fondo . Quasi tutti i membr i di quasi tutte le società condividono u n c o m u n e «senso morale», u n a moralità minima di f ondo relativa ai concetti di bene e male.2

Se per civiltà universale si in tende questo, tale concet to è qual-cosa di p r o f o n d o e di es t remamente importante , ma al con-t empo non è né nuovo né per t inente . Il fatto che nel corso della storia l ' uomo abbia condiviso alcuni valori e istituzioni fondamenta l i p u ò forse spiegare alcune costanti del comporta-men to umano , ma non serve a spiegare o far luce sulla storia,

1. V. S. Naipaul, «Our Universal Civilization», The 1990 Wriston Lecture, The Manhattan Institute, in «New York Review of Books», 30 ottobre 1990, p. 20. 2 Si veda James Q. Wilson, The Maral Sense, New York, Free Press, 1993 (trad. it. Il senso morale, Milano, Edizioni di Comunità, 1995); Michael Walzer, Thick and Thìn: Moral Argumenl at Home and Abroad, Notre Dame, University of Notre Dame Press, 1994, soprattutto i capp. 1 e 4; e per una breve disamina, Frances V. Harbour, «Basic Moral Values: A Shared Core», in «Ethics and International Affairs», n. 9, 1995, pp. 155-70.

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che è fatta di mutament i nel compor t amen to umano . Inoltre, se esiste u n a civiltà universale c o m u n e all ' intera umanità , qua-le te rmine adopere remo allora per identificare i maggiori rag-g ruppamen t i culturali della razza umana? L 'umani tà è suddivi-sa in sot togruppi: tribù, nazioni ed entità culturali in generale. Solitamente, essi vengono definiti civiltà. Se il t e rmine civiltà viene ampliato e attribuito esclusivamente a tutto quan to è co-m u n e al l 'umanità intera, allora o bisogna inventare un nuovo te rmine che caratterizzi i maggiori r aggruppament i in cui è suddivisa l 'umani tà tutta, oppu re dobbiamo r i tenere che tali raggruppament i , ampi ma non comprenden t i l ' intero genere umano , t endano a scomparire. Vaclav Havel, ad esempio, ha sostenuto che «oggi viviamo in un 'un ica civiltà globale», la qua-le, tuttavia, «non è altro che un sottile strato di vernice» che «copre o nasconde l ' immensa varietà di culture, di popoli , di m o n d i religiosi, di tradizioni storiche e di secolari atteggia-ment i brulicanti "al di sotto" di esso»/1 E tuttavia, se restringia-m o l 'uso del te rmine «civiltà» al solo livello globale e designa-mo come «culture» o «sottociviltà» tutte le maggiori entità cul-turali s toricamente sempre defini te civiltà, o t t e r remo soltanto u n a gran confusione semantica.4

Seconda tesi: il t e rmine «civiltà universale» p u ò essere im-piegato per indicare ciò che le società civili h a n n o in comune , ad esempio le città e la let teratura, e che le dist ingue dalle so-cietà primitive e dai barbari . E questo, evidentemente , il si-gnificato «al singolare» at tr ibuito al t e rmine nel xvin secolo, e in tal senso u n a cultura universale sta effet t ivamente emer-gendo , con o r ro re dei vari ant ropologi e di quant 'a l t r i guar-d a n o con sgomento alla scomparsa dei popol i primitivi. La ci-viltà intesa in questo senso si sta g radua lmente e s p a n d e n d o

3 Vaclav Havel, «Civilization's Thin Veneer», in «Harvard Magazine», n. 97 (Luglio-Agosto 1995), p. 32. 4 Hayward Alker ha acutamente osservato come nel mio articolo su «Foreign Affairs» il sottoscritto «rifiutasse per definizione» l'idea di una civiltà univer-sale de f inendo la civiltà come «il più ampio raggruppamento culturale di es-seri umani ed il livello più alto di identità culturale da essi posseduto dopo quello che distingue gli umani dalle altre specie». Questo è, naturalmente, il modo in cui il termine è stato impiegato dalla gran parte degli studiosi della civiltà. In questo capitolo, tuttavia, ammorbidisco tale definizione, conce-dendo la possibilità che popoli di tutto il m o n d o si identifichino con una di-stinta cultura globale che accompagna o soppianta le civiltà nel senso occi-dentale, islamico o sinico del termine.

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nel corso della storia umana , e il d i f fondersi della civiltà al sin-golare è stato del tut to compatibi le con l 'esistenza di molte ci-viltà al plurale.

Terza tesi: il termine «civiltà universale» pot rebbe riferirsi a idee, valori e dottr ine oggigiorno condivise da molti popoli del-la civiltà occidentale e da alcuni popoli di altre civiltà. Potrem-mo definire questa ipotesi «Cultura di Davos». Ogni anno, un migliaio circa di imprendi tor i , banchieri , funzionari di gover-no, intellettuali e giornalisti provenienti da svariati paesi si riu-niscono a Davos, in Svizzera, per partecipare al Forum mon-diale sull 'economia. Quasi tutti i partecipanti sono laureati in scienze fisiche, scienze sociali, economia o giurisprudenza, la-vorano con le parole e / o con i numer i , par lano ragionevol-men te bene inglese, sono stati assunti da governi, aziende e istituti accademici per attività di respiro internazionale e si re-cano di f r equen te all 'estero. Tutti condividono in linea di mas-sima gli ideali dell ' individualismo, del l 'economia di merca to e della democrazia politica, valori comuni , questi, ai popoli della civiltà occidentale. I delegati presenti a Davos control lano pra-t icamente tutti gli organismi internazionali , moltissimi governi nazionali e il grosso del potenziale economico e militare del pianeta. La Cultura di Davos ha, quindi , un ' impor tanza straor-dinaria. A livello mondiale , tuttavia, quante sono le persone che la condividono? Al di fuor i del l 'Occidente, si tratta proba-bi lmente di m e n o di 50 milioni, ossia l ' I per cento della popo-lazione mondiale, o forse addir i t tura un decimo del l ' I per cen-to della popolazione mondiale . Essa è ben lungi dall 'essere una cultura universale; oltretutto, non necessariamente quant i la condividono de tengono un saldo potere nelle rispettive società di provenienza. Questa «cultura intellettuale comune», ha os-servato Hedley Bull, «esiste solo al livello di élite; in molte so-cietà le sue radici sono o l t remodo fragili ... [ed] è dubbio che finanche al livello diplomatico essa abbracci quella che veniva definita u n a cultura morale c o m u n e o un insieme di valori co-muni , intesi come qualcosa di distinto da u n a cultura intellet-tuale comune». '

Quar ta tesi: p rende corpo l ' idea che il diffondersi in tutto il

5 Hedley Bull, The Anarchical Society: A Study Order in World Politici, New York, Columbia University Press, 1977, p. 317.

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m o n d o del model lo consumistico e della cultura popolare oc-cidentali stia d a n d o vita a u n a civiltà universale. Questa tesi non è né p ro fonda né per t inente . Nel corso della storia è sem-pre accaduto che le m o d e culturali fossero trasmesse da civiltà a civiltà. Le innovazioni in t rodot te in una civiltà vengono rego-la rmente assorbite da altre civiltà, ma si tratta o di f enomen i tecnici privi di conseguenze culturali significative, o di m o d e che vanno e vengono senza alterare la cultura di f ondo della ci-viltà che le recepisce. Tali importazioni «fanno presa» nella ci-viltà di destinazione o pe rché esotiche e affascinanti o perché vengono imposte. Nei secoli passati il m o n d o occidentale è sta-to per iodicamente pervaso da folate di entusiasmo per svariati aspetti della cultura cinese o indù. Nel xix secolo, le importa-zioni culturali dal l 'Occidente divennero popolari in Cina e In-dia perché sembravano in qualche m o d o riflettere la potenza occidentale. La tesi oggigiorno invalsa secondo cui la diffusio-ne a livello monda le della cultura pop e dei beni di consumo rappresent i il t r ionfo della civiltà occidentale svilisce la cultura occidentale. L'essenza della civiltà occidentale è la Magna Car-ta, n o n il «Big Mac».6 Il fatto che i non occidentali possano di-vorare il secondo non ha alcuna att inenza con la loro accetta-zione della prima.

Così come n o n ha alcuna att inenza con i loro at teggiamenti nei conf ron t i del l 'Occidente . In qualche parte del Medio Or ien te po t rebbe benissimo esserci un g ruppe t to di ragazzi che indossa jeans, beve Coca-Cola, ascolta musica rap e tra u n a genuflessione e l'altra alla Mecca mette una bomba su un aereo di linea statunitense. Negli anni Settanta e Ot tanta del Nove-cento gli americani h a n n o compra to milioni di automobili , te-levisori, videocamere e apparecchi elettronici giapponesi senza per questo essersi «giapponesizzati» e sviluppando anzi nel con tempo un at teggiamento sempre più antagonistico nei con-front i del Giappone. Solo u n ' i n g e n u a arroganza p u ò indur re gli occidentali a credere che i n o n occidentali ve r ranno «occi-dentalizzati» sempl icemente acquis tando merci occidentali . Che immagine dà l 'Occidente di se stesso se gli occidentali identif icano la loro civiltà con bibite gasate, pantaloni alla mo-da e cibi ipercalorici?

6 Un prodotto della catena alimentare americana McDonald's (n.d.t.).

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U n a versione leggermente più sofisticata della tesi sulla cul-tura popolare universale è incentrata n o n sui beni di consumo in generale, ma sui mezzi di comunicazione, su Hollywood an-ziché sulla Coca-Cola. Il controllo dell 'America sull ' industria mondia le cinematografica, televisiva e delle videocassette è su-per iore persino al dominio da essa esercitato nel campo del-l ' industria aeronautica. Dei cento film più visti in tutto il mon-do nel 1993, ot tantot to e rano americani, men t re due organiz-zazioni americane e due eu ropee d o m i n a n o la raccolta e diffu-sione delle notizie su base mondiale.7 Tale situazione riflette due fenomeni . Il p r imo è l 'universalità dell ' interesse u m a n o per l 'amore, il sesso, la violenza, il mistero, l 'eroismo e la ric-chezza, n o n c h é l'abilità delle grandi società, pr inc ipa lmente americane, di t rarre vantaggio da esso. Scarsa o nulla è tuttavia l 'evidenza a sostegno della tesi secondo cui l ' emergere di un si-stema di comunicazioni globale stia p r o d u c e n d o una conver-genza significativa di valori e atteggiamenti. «Spettacolo», ha osservato Michael Vlahos, «non significa conversione cultura-le». Il secondo f e n o m e n o è questo: l ' uomo interpreta il flusso di comunicazioni attraverso l 'ottica dei propr i valori e punt i di vista soggettivi. «Le stesse immagini trasmesse contemporanea-men te nelle case di tutto il mondo», osserva Kishore Mahbu-bani, «scatenano reazioni opposte. Nelle case occidentali si ap-p laude q u a n d o i missili Cruise colpiscono Baghdad. La gran parte degli spettatori non occidentali, invece, nota come l'Oc-cidente reagisca p ron tamente alle iniziative di paesi n o n di raz-za bianca come l 'Iraq e la Somalia, ma non a quelle di popoli bianchi, come i serbi; un segnale, questo, pericoloso da qual-siasi p u n t o di vista»."

La comunicazione globale è u n a delle più important i mani-festazioni con t emporanee della potenza occidentale. Tale ege-monia , tuttavia, incoraggia gli esponent i politici populisti delle

7 John Rockwell, «The New Colossus: American Culture as Power Export», e AA.W. , «Channel-Surfing Through U.S. Culture in 20 Lands», in «New York Times», 30 gennaio 1994, sez. 2, p. 1 sgg; David RiefF, «A Global Culture», in «World PolicyJournal», n. 10 (Inverno 199S4) , pp. 73-81. 8 Michael Vlahos, «Culture and Foreign Policy», in «Foreign Policy», n. 82 (Primavera 1991), p. 69; Kishore Mahbubani, «The Dangers of Decadence: Wliat the Rest Can Teach the West», in «Foreign AfFairs», n. 72 (Settembre-Ottobre 1993), p. 12.

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società non occidentali a denunc ia re l ' imperial ismo culturale occidentale e a incitare l ' op in ione pubblica in te rna a salva-guardare la sopravvivenza e l ' integrità della propr ia cultura au-toctona. Il dominio pressoché totale del l 'Occidente sui mezzi di comunicaz ione mondial i costituisce d u n q u e u n a g rande fon te di r isent imento e ostilità dei popol i non occidentali nei conf ront i del l 'Occidente . Inoltre, nei pr imi anni Novanta la modernizzazione e lo sviluppo economico avviati nelle società non occidentali stavano p o r t a n d o alla nascita di industrie di comunicazioni a carattere regionale e locale che facevano leva sui particolari gusti di tali società.9 Nel 1994, ad esempio, la CNN Internat ional calcolò di avere un ' aud ience potenziale di 55 milioni di spettatori, pari al l ' I per cento circa della popola-zione mondia le (una percentuale cur iosamente equivalente in termini numeric i e in gran par te senza dubbio cor r i spondente in termini culturali agli esponent i della Cultura di Davos), e il suo pres idente a f fe rmò che le sue trasmissioni in l ingua ingle-se avrebbero potu to raggiungere in f u tu ro dal 2 al 4 per cento del mercato. Per cui sarebbero nate reti televisive regionali (va-le a dire incentrate su u n a specifica civiltà) che avrebbero tra-smesso in spagnolo, giapponese, arabo, f rancese (per l 'Africa occidentale) e in altre l ingue. La «Redazione globale», h a n n o concluso tre studiosi, «si trova ancora davanti a u n a Torre di Babele».10 Ronald Dore ha dimostrato con grande incisività co-me stia nascendo una cultura intellettuale universale tra diplo-matici e funzionar i governativi. Anch'egli , tuttavia, g iunge a u n a comprovata conclusione in mer i to alle inf luenze esercita-te da u n sistema di comunicazioni ancor più intensificato: «A parità di tutte le altre condizioni [il corsivo è suo], un flusso di co-municazioni sempre più intenso dovrebbe p rodu r r e u n a mag-giore comunanza di sent imenti tra le nazioni, o quan to m e n o tra le classi medie, o nella peggiore delle ipotesi tra i diploma-tici di tutto il mondo»; ma, aggiunge, «alcune tra le possibili

9 Aaron L. Friedberg, «The Future of American Power», in «Politicai Science Quarterly», n. 109 (Primavera 1994), p. 15. 10 Richard Parker, «The Mith of Global News», in «New Perspectives Quarterly», n. 11 (Inverno 1994), pp. 41-44; Michael Gurevitch, Mark R. Levy e Itzhak Roeh, «The Global Newsroom: convergences and diversities in the globalization of television news», in Peter Dahlgren e Colin Sparks (a cura di), Communication and Citizenship: Journalism and the Public Sphere in the New Media, London, Routledge, 1991, p. 215.

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condizioni di disparità po t rebbero avere u n a grandissima rile-vanza»."

Lingua. Gli elementi basilari di u n a qualsiasi cultura o civiltà sono la l ingua e la religione. Se stesse emergendo u n a civiltà universale, dovrebbe essere in atto u n a tendenza alla nascita di u n a lingua universale e di u n a religione universale. U n a tesi in tal senso viene spesso avanzata in relazione alla lingua. «La lin-gua universale è l'inglese», come ha osservato il diret tore del «Wall Street Journal».1" Ciò p u ò significare due cose, di cui so-lo u n a sosterrebbe la tesi di u n a civiltà universale. La pr ima è che u n a par te sempre più ampia della popolazione mondia le parla inglese. Non esiste tuttavia alcuna prova a sostegno di ta-le tesi, men t r e gli indizi più consistenti di cui disponiamo, e che c o m u n q u e non possono essere molto precisi, d imost rano esat tamente il contrario. I dati disponibili, che coprono oltre un t ren tennio (1958-1992), indicano che la tendenza mondia-le in materia di diffusione delle lingue non ha subito modifi-che sostanziali; che la percentuale di persone che par lano in-glese, francese, tedesco, russo e giapponese ha registrato u n a significativa riduzione; che un declino seppur di minore entità si è verificato nel n u m e r o di persone che par lano mandar ino; e che è invece aumenta ta la percentuale di persone che par lano hindi , malese-indonesiano, arabo, bengalese, spagnolo, porto-ghese e altre lingue. La percentuale di persone che in tutto il m o n d o par lano inglese è scesa dal 9,8 per cento di tutti coloro che nel 1958 conoscevano lingue parlate da a lmeno un milione di persone, al 7,6 per cento nel 1992 (Tabella 3.1). La propor-zione della popolazione mondia le che parla le c inque princi-pali l ingue occidentali (inglese, francese, tedesco, por toghese, spagnolo) è scesa dal 24,1 per cento del 1958 al 20,8 per cento del 1992. Nel 1992 il n u m e r o di persone che parlavano man-dar ino costituiva il 15,2 per cento della popolazione mondiale , il dopp io di quelli che par lano inglese, e un altro 3,6 pe r cento parlava altri tipi di cinese (Tabella 3.2).

11 Ronald Dore, «Unity and Diversity in World Culture», in Hedley Bull e Adam Watson (a cura di), The Expansion of International Society, Oxford, Oxford University Press, 1984, p. 423. 12 Robert L. Bartley, «The Case for Optimism - The West Should Believe in Itself», in «Foreign Affairs», n. 72 (Settembre-Ottobre 1993), p. 16.

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Tabella 3.1 Percentuale della popolazione mondiale che pratica le principali lingue*

Lingua 1958 1970 1980 1992

Arabo 2,7 2,9 3,3 3,5 Bengalese 2,7 2,9 3,2 3,2 Inglese 9,8 9,1 8,7 7,6 Hindi 5,2 5,3 5,3 6,4 Mandarino 15,6 16,6 15,8 15,2 Russo 5,5 5,6 6,0 4,9 Spagnolo 5,0 5,2 5,5 6,1

* Numero totale di persone che conoscono lingue parlate da 1 milio-ne o più di persone. Fonte: percentuali calcolate sulla base dei dati compilati dal Professor Sidney S. Culbert, dipartimento di Psicologia della University of Wa-shington, Seattle, sul numero di persone che conoscono lingue par-late da un milione o più di persone e riportate annualmente nel World Almanac and Book ofFacts. Le sue stime comprendono soggetti sia «madrelingua» che «non madrelingua» e derivano da censimenti nazionali, indagini su campioni di popolazione, analisi di trasmissio-ni radiofoniche e televisive, dati sullo sviluppo demografico ed altre fonti.

Tabella 3.2 Numero e percentuale della popolazione mondiale che pratica le princi-pali lingue cinesi e occidentali

1958 1992 N. praticanti % N. praticanti %

Lingua (in milioni) del mondo (in milioni) del mondo

Mandarino 444 15,6 907 15,2 Cantonese 43 1,5 65 1,1 Wu 39 1,4 64 1,1 Min 36 1,3 50 0,8 Hakka 19 0,7 33 0,6

Lingue cinesi 581 20,5 1119 18,8

Inglese 278 9,8 456 7,6 Spagnolo 142 5,0 362 6,1 Portoghese 74 2,6 177 3,0 Tedesco 120 4,2 119 2,0 Francese 70 2,5 123 2,1

Lingue occidentali 684 24,1 1237 20,8

Totale del mondo 2845 44,5 5979 39,4

Fonte: percentuali calcolate dai dati sulle lingue compilati dal Pro-fessor Sidney S. Culbert, dipardmento di psicologia della University of Washington, Seatde, e riportati in World Almanac and Book ofFacts degli anni 1959 e 1993

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Da un lato, una lingua sconosciuta al 92 per cento della po-polazione mondiale non p u ò essere considerata la l ingua uni-versale. Dall 'altro tuttavia possiamo definirla tale se si tratta del-lo s t rumento che popoli di diversa lingua e cultura utilizzano per comunicare , se è la l ingua f ranca del m o n d o o, in termini linguistici, la principale «lingua di comunicazione generale» (Language of Wider Communica t ion , o LWC).13 Chi deve co-municare con gli altri ha bisogno di un mezzo per farlo. Si p u ò r icorrere a in terpret i e t radut tor i professionisti che par lano co r ren temente due o più lingue, ma si tratta di un sistema an-tiquato, lento e costoso. Ecco perché nel corso della storia ab-biamo sempre assistito a l l 'emergere di l ingue f ranche . Il latino nel m o n d o classico e medievale, il francese per svariati secoli in Occidente, lo swahili in molte regioni dell 'Africa e l ' inglese in gran par te del m o n d o nella seconda metà del xx secolo. Diplo-matici, imprenditori , scienziati, turisti e relative agenzie di sup-por to , piloti di aerei e control lori di volo necessitano di u n mezzo per comunicare eff icacemente gli uni con gli altri, e og-gi questo mezzo è in larga par te l 'inglese.

Da questo pun to di vista, l 'inglese è il principale mezzo di co-municazione interculturale del pianeta, così come il calendario cristiano è il mezzo impiegato in tutto il m o n d o per calcolare il tempo, i numer i arabi sono il sistema mondiale di conteggio e il sistema metrico è il criterio di misurazione invalso in grandissi-ma parte del pianeta. L'utilizzo dell 'inglese per tali fini, tuttavia, è un mezzo di comunicazione interculturale, e in quanto tale pre-suppone l'esistenza di culture diverse. Una lingua franca è un m o d o di superare le differenze linguistiche e culturali, non di eliminarle. E u n o s t rumento di comunicazione, non una fonte di identità e comunanza. Il fatto che un banchiere giapponese e un imprendi tore indonesiano comunichino in inglese non si-gnifica, infatti, che u n o qua lunque dei due si sia anglicizzato od occidentalizzato. Lo stesso discorso vale per u n o svizzero di lin-gua tedesca e u n o di lingua francese, i quali possono comuni-care indif ferentemente tra loro in inglese oppure in u n a delle

13 Si veda joshua A. Fishman, «The Spread of English as a New Perpsective for the Study of Language Maintenance and Language Shift», in Joshua A. Fishman, Robert L. Cooper e Andrew W. Conrad, The Spread of English: The Sociologa of English as an Addilional Language, Rowley, MA, Newbury House, 1977, p. 108 sgg.

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rispettive lingue nazionali. Allo stesso modo, il man ten imen to dell 'inglese come seconda lingua nazionale in India, nonostan-te i p rogrammi di Nehru in senso opposto, testimoniano l'in-tenso desiderio della popolazione indiana non di lingua hindi di preservare la propria lingua e cultura e la necessità per l'In-dia di restare u n a società multilinguistica.

Come ha osservato l ' eminen te linguista Joshua Fishman, è più facile accettare una lingua come lingua franca se essa non è identificata con un particolare g r u p p o etnico, religione o ideo-logia. In passato, l 'inglese ha avuto molte di queste caratteriz-zazioni, men t re in seguito è stato «de-etnicizzato (del tutto o in grandissima parte)», così come in passato è avvenuto con l'ac-cadico, l 'aramaico, il greco e il latino. «Fa parte del relativo successo dell ' inglese come lingua secondaria il fatto che all'in-circa nell'ultimo quarto di secolo i suoi padri - sia inglesi che ame-ricani - non siano stati omologati a un preciso contesto etnico o ideologico» [il corsivo è dell 'autore].1 1 L'uso dell ' inglese per le comunicazioni interculturali aiuta in tal m o d o a preservare e anzi a rafforzare le peculiari identità culturali dei popoli . Pro-prio perché desiderano preservare la propria identità cultura-le, utilizzano l 'inglese per comunicare con persone di altre cul-ture.

Le persone che par lano inglese ai quat t ro angoli del m o n d o finiscono altresì sempre più col parlare diversi tipi di inglese. La lingua inglese viene assorbita e arricchita di colorazioni lo-cali che la t rasformano in u n a pletora di idiomi locali netta-men te distinti dall ' inglese br i tannico o americano e che in ca-si estremi risultano pressoché incomprensibil i tra loro, così co-me avviene con i molti idiomi cinesi. L'inglese nigeriano, l'in-glese indiano e altri tipi di inglese vengono incorporati nelle ri-spettive culture locali e con t inue ranno presumibi lmente a dif-ferenziarsi fino a diventare lingue affini ma distinte, così come le l ingue romanze sono emanazioni dal latino. A differenza dell ' italiano, del francese e dello spagnolo, tuttavia, queste lin-gue derivate dall ' inglese saranno parlate soltanto da u n a pic-cola par te delle rispettive società oppure ver ranno utilizzate pr incipalmente per fini comunicativi tra particolari g ruppi lin-guistici.

14 Fishman, «Sprcad of English as New Pcrspcctive», pp. 118-19.

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Un esempio di tutti questi processi in atto ci viene of fer to dall ' India. Nel 1983 in India c ' e rano 18 milioni di persone che parlavano inglese su una popolazione complessiva di 733 mi-lioni; nel 1991 si era passati a 20 milioni su 867. La percentua-le di coloro che conoscono l 'inglese rispetto alla popolazione totale è quindi rimasta relativamente stabile tra il 2 e il 4 per cento.1 ' Al di là di un 'é l i te relativamente esigua, l ' inglese non serve neanche come lingua franca. «La verità pura e semplice», sostengono due professori di inglese dell 'Università di Nuova Delhi, «è che quando dal Kashmir si scende alla pun ta meri-dionale del Kanyakumari, il mezzo di comunicazione migliore è u n a varietà di hindi anziché l'inglese». Inoltre, l 'inglese in-diano va sempre più acquisendo propr ie caratteristiche pecu-liari, si sta «indianizzando», o piuttosto sarebbe meglio dire che va sempre più «indigenizzandosi» via via che a u m e n t a n o le dif-ferenze nell ' inglese parlato dai popoli delle più svariate lin-gue."1 L'inglese viene sempre più assorbito nella cultura india-na, così come in epoche precedent i è accaduto al sanscrito o al persiano.

Nel corso della storia, la diffusione delle lingue nel m o n d o ha sempre ricalcato la diffusione del potere. Le lingue più dif-fuse - inglese, mandar ino , spagnolo, francese, arabo, russo -sono o sono state le lingue di stati imperiali che ne promossero attivamente l 'adozione da par te di altri popoli. Un m u t a m e n t o nella di f fusione del po tere p roduce un analogo m u t a m e n t o nell 'utilizzo delle l ingue. «Due secoli di domin io coloniale, commerciale, industriale, scientifico e tributario da par te di in-glesi e americani h a n n o lasciato in tutto il m o n d o u n a forte im-pron ta nel campo dell ' istruzione superiore, dell 'ar te di gover-no, del commercio e della tecnologia».1 ' Francia e Inghil terra h a n n o sempre insistito aff inché nelle rispettive colonie si par-

15 Randolf Quirk, in Braj B. Kachru, The Indianization of English, Delhi, Oxford, 1983, p. ii; R. S. Gupta e Kapil Kapoor (a cura di), English and India Issues and Problems, Delhi, Academic Foundation, 1991, p. 21. Cfr. Sarvepalli Gopal, «The English Language in India», in «Encounter», n. 73 (Luglio-Agosto 1989), p. 16, il quale calcola che 35 milioni di indiani «parlano e scrivono un qualche tipo di inglese». World Bank, World Development Report 1985, 1991, New York, Oxford University Press, tabella 1. 16 Kapoor e Gupta, «Introduction», in Gupta e Kapoor (a cura di), English in India, p. 21; Gopal, «English Language», p. 16. 17 Fishman, «Spread of English as New Perspective», p. 115.

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lasse la loro lingua. Dopo l ' indipendenza, tuttavia, gran par te delle colonie ha tentato in diversa misura e con diverso succes-so di sostituire la l ingua imperiale con quella autoctona. Ai tempi del massimo splendore de l l 'Unione Sovietica, il russo era la lingua f ranca da Praga a Hanoi . Al declino della potenza russa si è accompagnato un parallelo declino nell 'uso del russo come seconda lingua. Come accade con altre fo rme di cultura, un accresciuto potere genera al con tempo un at teggiamento linguistico più assertivo in chi lo det iene e una maggiore pro-pensione in tutti gli altri a imparare quella lingua. Nei concita-ti giorni che seguirono la caduta del m u r o di Berlino, q u a n d o sembrava che la Germania unificata dovesse essere il nuovo-Behemot, tra i delegati tedeschi ai vari incontri internazionali (e che conoscevano l'inglese) si verificò u n a notevole tendenza a esprimersi in tedesco. L'ascesa della potenza economica del Giappone ha stimolato lo studio del giapponese, e lo sviluppo economico della Cina sta p r o d u c e n d o un parallelo exploit del-la lingua cinese. Quest 'u l t ima sta rap idamente soppiantando l'inglese come lingua principale di H o n g Kong,1* e alla luce del ruolo svolto dalle varie comuni tà cinesi in Asia sudorientale è diventata la lingua nella quale viene conclusa la gran par te de-gli affari internazionali in quell 'area. Via via che il potere del-l 'Occidente si r iduce rispetto a quello di altre civiltà, l 'uso del-l 'inglese e di altre lingue occidentali a l l ' in terno di altre società e come mezzo di comunicazione tra nazioni verrà anch 'esso len tamente a scemare. Se in un fu tu ro r emoto la Cina sop-pianterà l 'Occidente come civiltà dominan te del pianeta, l'in-glese cederà al mandar ino la palma di lingua franca mondiale .

Via via che le ex colonie reclamavano e conquistavano l'in-dipendenza, la promozione o l ' impiego delle lingue autoctone e l 'abolizione della lingua imperiale fu per le élite nazionaliste un m o d o di distinguersi dal l 'Occidente colonialista e definire la propria identità. In seguito al l ' indipendenza, tuttavia, tali éli-te avvertirono l 'esigenza di distinguersi dal resto della popola-zione locale. La buona conoscenza dell ' inglese, del francese o di un 'a l t ra lingua occidentale offrì loro tale segno di distinzio-ne. Di conseguenza, accade spesso che le élite delle società non occidentali riescano a comunicare meglio con gli occidentali o

18 Si veda «Newsweek», 19 luglio 1993, p. 22.

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tra di loro che non con i comuni cittadini dei loro stessi paesi (una situazione simile a quella verificatasi in Occidente nel xvii e xviii secolo, quando gli aristocratici di paesi diversi comuni-cavano agevolmente tra loro in francese ma non conoscevano l ' idioma del loro stesso paese). Nelle società non occidentali sembrano essere oggi in atto due tendenze opposte. Da un la-to, l ' inglese è sempre più utilizzato al livello universitario per p reparare adegua tamente i laureati a scendere in lizza nella competizione mondiale per la conquista di capitali e clienti. Dall'altro, le pressioni sociali e politiche spingono sempre più a un utilizzo generalizzato delle lingue autoctone, cosicché l'ara-bo sostituisce il francese in Nord Africa, l 'u rdu subentra all'in-glese come lingua di governo e delle classi colte in Pakistan, men t re in India i mezzi di comunicazione nel l ' idioma locale sostituiscono quelli in lingua inglese. Un tale sviluppo fu previ-sto già nel 1948 dalla Commissione indiana per l ' is truzione pubblica, allorché sostenne che «l'uso dell ' inglese ... divide il popolo in due distinte nazioni, i pochi che governano e i molti che sono governati, gli uni incapaci di parlare la lingua degli al-tri, ent rambi incapaci di comprendersi». Q u a r a n t a n n i dopo, la persistenza dell 'inglese come lingua d'élite aveva di fatto rea-lizzato tale previsione e creato «una situazione innaturale in un sistema democrat ico basato sul suffragio universale. ... L'In-dia di l ingua inglese e l ' India pol i t icamente attiva vengono sempre più a divergere», s t imolando «tensioni tra l 'elite di mi-noranza che conosce l 'inglese e i molti milioni di semplici cit-tadini - armati del loro diritto di voto - che non lo parlano».19

Nella misura in cui le società non occidentali d a n n o vita a isti-tuzioni democra t iche e le loro popolazioni par tec ipano più ampiamente alla vita politica, l 'uso delle lingue occidentali ten-de a ridursi e gli idiomi locali finiscono col prevalere.

La fine del l ' impero sovietico e della Guerra f r edda ha sti-molato la proliferazione e la rinascita di l ingue soppresse o di-menticate. In gran par te delle ex repubbl iche sovietiche sono oggi in atto pressanti tentativi di r idare vita alle varie l ingue tradizionali. Estone, lettone, lituano, ucraino, georgiano e ar-m e n o sono oggi lingue nazionali di stati indipendent i . La stes-

19 Cit. in R. N. Srivastava e V. P. Sharma, «Indian English Today», in Gupta e Kapoor (a cura di), English in India, p. 191; Gopal, «English Language», p. 17.

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sa reviviscenza linguistica ha avuto luogo tra le repubbliche mu-sulmane: Azerbaigian, Kirghizistan, Turkmenis tan e Uzbeki-stan h a n n o modificato il propr io alfabeto, passando dai carat-teri cirillici dei loro ex dominator i russi a quelli occidentali dei loro consanguinei turchi, men t r e il Tagikistan, di l ingua per-siana, ha adottato i caratteri arabi. I serbi, dal canto loro, chia-m a n o oggi la loro lingua serbo e non più serbo-croato, e sono passati dal carattere latino dei loro avversari cattolici a quello cirillico dei loro consanguinei russi. Paral lelamente, oggi i croati ch iamano la loro lingua croato e stanno ten tando di epu-rarla di tutte le parole di origine turca e straniera in generale, men t r e gli stessi «imprestiti turchi e arabi, sedimenti linguistici a r icordo della presenza nei Balcani, protrattasi per 450 anni, de l l ' Impero o t tomano, sono tornat i in voga» in Bosnia.2" Le lingue vengono d u n q u e a riallinearsi e ridefinirsi in base alle identi tà e ai confini delle civiltà. Alla f rammentaz ione del po-tere fa seguito quella delle lingue.

Religione. L'avvento di una religione universale è al tret tanto improbabile di quello di u n a lingua universale. La fine del xx secolo ha registrato una reviviscenza generale delle varie reli-gioni in tutto il m o n d o (si vedano le pp. 131-142). Tale feno-m e n o ha implicato l 'intensificarsi della coscienza religiosa e la nascita di movimenti fondamentalist i , r inforzando in tal m o d o le differenze tra le religioni pu r senza necessariamente impli-care mutamen t i significativi a livello mondia le nelle percen-tuali di adepti alle diverse fedi. I dati disponibili sulla diffusio-ne delle religioni nel m o n d o sono ancora più f rammenta r i e inattendibili di quelli sulla diffusione delle lingue. La tabella 3.3 illustra dati tratti da u n a fonte ampiamente utilizzata. Que-sti e altri dati d imostrano come la forza numer ica delle diverse religioni del pianeta non abbia subito nel corso del Novecento modif iche sostanziali. La variazione più significativa indicata dalla tabella è l ' aumento percentua le dei soggetti classificati come «non religiosi» ed «atei», che passano congiun tamente dallo 0,2 per cento nel 1900 al 20,9 per cento nel 1980. Tale da-to pot rebbe presumibi lmente indicare un processo di crescen-

20 «New York Times», 16 luglio 1993, p. A9; «Boston Globe», 15 luglio 1993, p. 13.

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te disaffezione dalla religione, e che nel 1980 la rinascita reli-giosa fosse appena agli inizi. Senonché, a tale aumen to del 20,7 per cen to del n u m e r o di non credent i fa riscontro una paralle-la r iduzione del 19 per cento dei soggetti classificati nelle «reli-gioni popolar i cinesi», che passano dal 23,5 per cento del 1900 al 4,5 del 1980. Tali variazioni pressoché identiche suggerisco-no che con l'avvento del comunismo il grosso della popolazio-ne cinese sia stata semplicemente riclassificata, vale a dire spo-stata dalla categoria dei seguaci delle religioni popolari a quel-la dei n o n credenti .

Tabella 3.3 Percentuale della popolazione mondiale che aderisce alle maggiori tra-dizioni religiose

Anno 1900 1970 1980 1985 2000 Religione (stima) (stima)

Cristiana occidentale 26,9 30,6 30,0 29,7 29,9 Cristiana ortodossa 7,5 3,1 2,8 2,7 2,4 Musulmana 12,4 15,3 16,5 17,1 19,2 Nessuna 0,2 15,0 16,4 16,9 17,1 Induista 12,5 12,8 13,3 13,5 13,7 Buddista 7,8 6,4 6,3 6,2 5,7 Popolare cinese 23,5 5,9 4,5 3,9 2,5 Tribale 6,6 2,4 2,1 1,9 1,6 Ateista 0,0 4,6 4,5 4,4 4,2

Fonte: David B. Barret (a cura di), World, Christian Enciclopédia: A Com-parative study of churches and religions in the modem world a.d. 1900-2000, Oxford, Oxford University Press, 1982.

Aument i reali mostra invece la tabella per quanto riguarda la percentuale della popolazione mondiale aderente alle due re-ligioni che vantano il maggior n u m e r o di proseliti - l'islami-smo e il cristianesimo - nel corso di o t tant 'anni . I cristiani oc-cidentali e rano stimati al 26,9 per cento della popolazione mondiale nel 1900 e al 30 per cento nel 1980. Ancora maggio-re appare l ' aumento dei musulmani , che passano dal 12,4 per cento nel 1900 al 16,5 o, secondo altre stime, al 18 per cento nel 1980. Negli ultimi decenni del xx secolo sia l ' islamismo sia il cristianesimo h a n n o avuto notevole diffusione in Africa, men t re in Corea del Sud si è avuto un massiccio accostamento al cristianesimo. Le società in rapida espansione, nelle quali la

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religione tradizionale non riesce ad adeguarsi ai bisogni della modernizzazione, o f f rono grandi possibilità di d i f fusione sia per il cristianesimo occidentale sia per l 'islamismo. In tali so-cietà, i protagonisti di maggior successo della cultura occiden-tale n o n sono gli economisti neoclassici, i democratici da cro-ciata o i dirigenti di multinazionali; sono, e con t inueranno pro-babi lmente a essere, i missionari cristiani. Né Adam Smith né T h o m a s Jefferson po t ranno mai soddisfare i bisogni psicologi-ci, emotivi, morali e sociali degli emigrati dei centri u rbani e dei diplomati della pr ima generazione. Forse neanche Gesù Cristo riuscirà a farlo, ma è probabile che abbia maggiori chan-ces.

Nel lungo per iodo, tuttavia, il vero vincitore sarà Maometto . Se il cristianesimo si d i f fonde pr inc ipa lmente attraverso l'ar-ma della conversione, l ' islamismo lo fa con quelle della con-versione e della r iproduzione. La percentuale di cristiani nel m o n d o ha raggiunto la pun ta massima del 30 per cento circa negli anni Ot tan ta del Novecento, si è poi stabilizzata; attual-men te è in fase di declino e nel 2025 si attesterà sul 25 per cen-to circa della popolazione mondia le . In conseguenza degli al-tissimi tassi di crescita demograf ica (si veda il capitolo 9), la percentua le di musulmani nel m o n d o cont inuerà a crescere a r i tmo sostenuto, r agg iungendo il 20 per cento della popola-zione mondia le all ' incirca a cavallo del secolo, supe rando il n u m e r o di cristiani qualche a n n o d o p o e toccando probabil-m e n t e il 30 pe r cento della popolaz ione mondia le en t ro il 2025.2'

Civiltà universale: argomentazioni

Il concet to di civiltà universale è un prodot to distintivo della civiltà occidentale. Nel xix secolo l ' idea della «responsabilità de l l ' uomo bianco» contribuì a giustificare l 'estensione del do-minio politico ed economico occidentale sulle altre società. Al-la fine del xx secolo il concetto di civiltà universale contribuisce

21 Oltre alle stime contenute nella «World Christian Encyclopedia», si vedano quelle di Jean Bourgeois-Pichat, «Le nombre des hommes: Etat et prospective», in Albert Jacquard et al., Les Scientifiques Parlent, Paris, Hachette, 1987, pp. 140, 143, 151, 154-56.

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a giustificare il dominio culturale del l 'Occidente su altre so-cietà e la necessità per queste ult ime di imitare istituzioni e mo-di di vita occidentali. L'universalismo è l ' ideologia dominan te del l 'Occidente nei confront i delle culture non occidentali. Co-me spesso accade con gli ibridi o i convertiti, tra i più accesi fautori della civiltà universale troviamo intellettuali emigrati in Occidente, quali ad esempio Naipaul e Fouas Ajami, per i qua-li tale principio fornisce u n a risposta del tutto soddisfacente al-la d o m a n d a di fondo: «Chi sono io?». «Schiavi negri dei bian-chi»: così un intellettuale arabo ha definito tutti questi emigra-ti." L'idea di una civiltà universale trova infatti scarso seguito presso altre civiltà. I non occidentali definiscono occidentale ciò che gli occidentali definiscono universale. Ciò che gli occi-dentali vedono come un utile mezzo di integrazione globale, ad esempio la diffusione planetaria dei mezzi di comunicazio-ne, viene denuncia to dai non occidentali come ne fando impe-rialismo occidentale. L ' integrazione del m o n d o in u n ' u n i c a entità è percepita dai non occidentali come u n a minaccia.

La tesi secondo cui starebbe emergendo una qualche sorta di civiltà universale si basa su tre presupposti . Primo, la convin-zione, di cui abbiamo discusso nel capitolo 1, che il crollo del comunismo sovietico abbia significato la fine della storia e la vittoria universale della democrazia liberale in tutto il m o n d o . Tale presupposto cont iene un er rore di f ondo che p o t r e m m o definire il «sofisma dell 'unica alternativa». E infatti fonda to sul-l 'errata convinzione, tipica della Guer ra f redda, che l 'unica al-ternativa al comunismo sia la democrazia liberale e che la scomparsa del pr imo comport i automat icamente la diffusione su scala universale della seconda. E no to invece come nel mon-do con temporaneo esistano molte f o r m e di autoritarismo, na-zionalismo, corporativismo e comunismo di mercato (ad esem-pio in Cina) vive e vegete. Cosa ancor più importante , esistono poi le diverse alternative religiose che t rascendono il m o n d o percepi to in termini di ideologie secolari. Nel m o n d o moder-no, la religione è una forza fondamenta le , forse la forza per ec-cellenza capace di motivare e mobilitare le masse. Pensare che poiché il comunismo sovietico è crollato l 'Occidente abbia

22 Edward Said su V. S. Naipaul, cit. in Brent Staples, «Con Men and Conquerors», in «New York Times Book Review», 22 maggio 1994, p. 42.

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conquistato il m o n d o una volta e per sempre e che musulmani , cinesi, indiani e altri popoli si stiano precipi tando ad abbrac-ciare il liberalismo occidentale quale unica alternativa, è pu ra arroganza. La divisione de l l 'umani tà prodot ta dalla Guer ra f r edda è venuta meno, ma le ben più fondamenta l i divisioni del l 'umani tà in termini di etnia, religione e civiltà restano im-muta te e innescano nuovi conflitti.

Secondo, c 'è chi ritiene che u n a maggiore interazione tra i popoli - commercio, investimenti, turismo, mass-media, comu-nicazioni elet troniche in generale - stia gene rando un 'un i ca cultura planetaria. I progressi tecnologici compiuti nel campo dei trasporti e delle comunicazioni h a n n o cer tamente reso più agevole e m e n o costoso muovere denaro , beni, persone, cono-scenze, idee e immagini in tutto il mondo . Nessuno dubita che il traffico internazionale di tutti questi articoli sia aumenta to . Molti dubbi, invece, solleva l ' impatto prodot to da tale aumen to del traffico. Lo sviluppo commerciale, ad esempio, aumen ta o r iduce la probabilità di conflitti? La tesi che r iduca le probabi-lità di guerra tra nazioni è quanto m e n o non comprovata, men-tre esistono numerosi indizi del contrario. Il commercio inter-nazionale si è espanso in m o d o significativo negli anni Sessan-ta e Settanta del Novecento, e nel decennio successivo la Guer-ra f r edda giunse al termine. Nel 1913, tuttavia, il commercio in-ternazionale registrava livelli record, ma ciò non impedì che negli anni immedia tamente successivi le nazioni si massacras-sero a vicenda in una guer ra di dimensioni senza precedenti.2 3

Se anche a un livello così alto il commerc io internazionale non è in grado di impedire una guerra , quando potrà mai riuscirvi? L'esperienza storica semplicemente non supporta la tesi libe-rale, internazionalista, secondo cui il commercio promuove-rebbe la pace. Nuovi studi compiuti negli anni Novanta get tano ulteriori dubbi su tale ipotesi. U n o di essi, ad esempio, conclu-de che «livelli crescenti di scambi commerciali po t rebbero co-stituire un fattore fo r temente disgregativo ... per la politica in-ternazionale», e che «è improbabile che lo sviluppo del com-mercio nel sistema internazionale possa, di per sé, agevolare la

23 A. G. Kenwood e A. L. Lougheed, The Growth of the International Economy 1820-1990, London, Routledgè, 1992', pp. 78-9. Angus Maddison, Dynamic Force.s hi Capitalist Development, New York, Oxford University Press, 1991, pp. 326-7; Alan S. Blinder, «New York Times», 12 marzo 1995, p. 5E.

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distensione o promuovere u n a maggiore stabilità internaziona-le».24 Un altro studio sostiene che alti livelli d ' in te rd ipendenza economica «possono essere u n o stimolo alla pace come alla guerra , a seconda delle aspettative sui futur i sviluppi commer-ciali». L ' in te rd ipendenza economica promuove la pace solo «quando gli stati pronost icano che tali alti livelli di interscam-bio con t inue ranno per un prevedibile futuro». Se invece gli stati non r i tengono possibile la cont inuazione di tale alto livel-lo di in terdipendenza, è probabile che ne consegua u n a guer-ra.2"'

Tale incapacità del commerc io e delle comunicazioni di ge-nerare pace o sentimenti di comunanza ben coincide con i ri-sultati delle r icerche delle scienze sociali. Nel campo della psi-cologia sociale, la teoria della differenziazione sostiene che l ' uomo si autodefinisce in rappor to a quan to lo r e n d e diverso dagli altri a l l ' in terno di un de te rmina to contesto: « l 'uomo per-cepisce se stesso nei termini delle caratteristiche che lo distin-guono dagli altri, soprat tut to da quant i appar t engono al suo stesso ambiente sociale ... u n a psicologa in compagnia di u n a dozzina di altre d o n n e che si occupano d 'al t ro si considererà u n a psicologa; in compagnia di u n a dozzina di psicologhe, si considererà u n a donna».2 61 popoli definiscono la propr ia iden-tità per esclusione. Via via che l 'intensificarsi delle comunica-zioni, del commercio e dei viaggi moltiplica le interazioni tra le diverse civiltà, i popoli d a n n o sempre maggiore impor tanza al-la peculiare civiltà che li identifica. Due europei , un tedesco e un francese, che vengono a contat to si ident i f icheranno rispet-tivamente come un tedesco e un francese. Se due europei , u n o tedesco e l 'altro francese, vengono a contat to con due arabi, u n o saudita e l 'altro egiziano, si ident i f icheranno rispettiva-men te come europei e arabi. L ' immigrazione nordaf r icana in Francia genera ostilità tra i francesi e al con tempo u n a miglio-re disposizione nei confront i del l ' immigrazione polacca, vale a

24 David M. Rowe, «The Trade and Security Paradox in International Po-litics», documento inedito, Ohio State University, 15 settembre 1994, p. 16. 25 Dale C. Copeland, «Economie Interdependence and War: A Theory of Tra-de Expectations», in «International Security», n. 20 (Primavera 1996), p. 25. 26 William J. McGuire e Claire V. McGuire, «Content and Process in the Experience of Self», in «Advances in Experimental Social Psychology», n. 21, 1988, p. 102.

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dire di cittadini cattolici ed europei . Gli americani reagiscono molto peggio agli investimenti nel loro paese fatti da giappo-nesi che a quelli provenienti dal Canada e dai paesi europei . In ugual modo , come ha osservato Donald Horowitz, «in quella che era la regione orientale della Nigeria, un ibo po t rebbe es-sere... un ibo owerri o un ibo onitsha. A Lagos, è semplicemen-te un ibo. A Londra è un nigeriano. A New York è un africa-no».2 ' Nel campo della sociologia, la teoria della globalizzazio-ne giunge d u n q u e a questa conclusione: «in un m o n d o sempre più globalizzato, caratterizzato da un livello s traordinariamente alto d ' in te rd ipendenza tra civiltà, società e così via, n o n c h é dal-la diffusa consapevolezza di tale stato di cose, si verifica un'^sa-sperazione della propria autocoscienza etnica, sociale e cultura-le». La reviviscenza della religione su scala planetaria, «il ritor-no al sacro», è u n a risposta alla percezione del m o n d o come di «un 'unica casa».28

L'Occidente e la modernizzazione

Il terzo e più generale presupposto a sostegno della tesi se-condo cui starebbe emergendo u n a civiltà universale considera una simile entità come il risultato dei p rofondi processi di mo-dernizzazione avviati a partire dal XVIII secolo. Modernizzazione significa industrializzazione, urbanizzazione, maggiori livelli di alfabetizzazione, istruzione, ricchezza e mobilità sociale, non-ché s t rut ture occupazionali più complesse e diversificate. La modernizzazione è un prodot to della straordinaria espansione delle conoscenze tecniche e scientifiche iniziata a part i re dal xviii secolo e che ha permesso a l l 'uomo di controllare e pla-smare il p ropr io ambiente in modi totalmente nuovi. La mo-dernizzazione è un processo rivoluzionario paragonabile sol-tanto al passaggio dalle società primitive a quelle civilizzate, va-

27 Donald L. Horowitz, «Ethnic Conflict Managemente for Policy-Makers», in Joseph V. Montville e Hans Binnendijk (a cura di), Conflict and Peacemaking in Multiethnic Societies, Lexington, MA., Lexington Books, 1990, p. 121. 28 Roland Robertson, «Globalization Theory and Civilizational Analysis», in «Comparative Civilizations Review», n. 17, (Autunno 1987), p. 22; Jeffrey A. Shad, Jr., «Globalization and Islamic Resurgence», in «Comparative Civiliza-tions Review», n. 19 (Autunno 1988), p. 67.

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le a dire alla nascita della civiltà al singolare, iniziata nelle valli del Tigri e dell 'Eufrate, del Nilo e del l ' Indo in to rno al 5000 a.C." Atteggiamenti, valori, conoscenze e cultura degli uomini di una società m o d e r n a differiscono fo r temente da quelli pro-pri di u n a società tradizionale. In quan to pr ima civiltà a mo-dernizzarsi, l 'Occidente è in testa nel processo di acquisizione di una cultura moderna . Via via che altre società acquisiscono modelli simili in mater ia di educazione, lavoro, ricchezza e strut tura di classe, viene sostenuto, tale cultura m o d e r n a occi-dentale diventerà la cultura universale del pianeta.

Che esistano differenze significative tra culture m o d e r n e e culture tradizionali è fuor di dubbio. Da ciò, tuttavia, non con-segue necessariamente che le società con culture m o d e r n e as-somiglino di più tra loro di quanto non somiglino tra loro quel-le con culture tradizionali. Ovviamente, un m o n d o composto da società al tamente m o d e r n e e società for temente tradizionali sarà m e n o omogeneo di un m o n d o in cui tutte le società pre-sentano un livello un i fo rmemente alto di moderni tà . Ma cosa accadrebbe in un m o n d o composto solo da società tradizionali? Un tale m o n d o esisteva fino poche centinaia di anni fa: era for-se m e n o omogeneo di quanto pot rebbe presumibilmente esser-lo un fu tu ro m o n d o composto da tutte società moderne? Pro-babi lmente no. «La Cina dei Ming ... era cer tamente più vicina alla Francia dei Valois», sostiene Braudel, «di quanto lo sia la Ci-na di Mao Tze-tung alla Francia della Quinta Repubblica».M

Vi sono tuttavia due motivi per i quali le società m o d e r n e po-trebbero assomigliarsi più di quanto non facciano le società tra-dizionali. Primo, la maggiore interazione tra società m o d e r n e può anche non generare una cultura comune, ma cer tamente facilita il t rasferimento di tecniche, invenzioni e consuetudini da u n a società all'altra con una rapidità e a un livello impossibi-li da raggiungere nel m o n d o tradizionale. Secondo, la società tradizionale era fondata sull'agricoltura; quella moderna invece sull 'industria, la quale p u ò evolversi dall ' industria artigiana al-

29 Si veda Cyril E. Black, The Dynamics of Modemization: A Study in Comparative History, New York, Harper Se Row, 1966, pp. 1-34; Reinhard Bendix, «Tradition and Modernity Reconsidered», in «Comparative Studies in Society and History», n. 9 (Aprile 1967), pp. 292-93. 30 Fernand Braudel, On History, Chicago, University of Chicago Press, 1980,

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l ' industria pesante classica fino all ' industria tecnologica. I mo-delli di sviluppo agricolo e la strut tura sociale che ne consegue d ipendono , in misura molto maggiore rispetto ai modelli indu-striali, dal l 'ambiente naturale, i quali variano a seconda del cli-ma e del tipo di terreno, e po t rebbero d u n q u e dar vita a fo rme diverse di proprietà, di struttura sociale e di governo. Pur rico-noscendo tutti i meriti della tesi della civiltà idraulica di Wittfo-gel, l 'agricoltura fondata sulla costruzione di massicci sistemi di irrigazione promuove senza dubbio l'avvento di sistemi politici centralizzati e burocratici. E non potrebbe essere altrimenti. Un te r reno fertile e un buon clima t endono a incoraggiare lo svi-luppo di piantagioni su vasta scala e conseguentemente u n a strut tura sociale composta da u n a piccola élite di ricchi latifon-disti e un ' ampia classe di contadini, schiavi o servi che lavorano nelle piantagioni. Condizioni inadatte all 'agricoltura su larga scala po t rebbero invece incoraggiare la nascita di una società di agricoltori indipendent i . Nelle società agricole, in breve, la strut tura sociale è forgiata dalla geografia. L'industria, al con-trario, d ipende in misura molto minore dall 'ambiente naturale. Le differenze in terne alle organizzazioni industriali derivano più faci lmente da differenze di cultura e struttura sociale che non dalle condizioni geografiche, e ment re le pr ime possono presumibi lmente essere ricomposte, le seconde no.

Le società m o d e r n e hanno d u n q u e molto in comune. Ma de-vono necessariamente confluire nell 'omogeneità? La tesi a favo-re del sì è fondata sul presupposto che la società mode rna deb-ba convergere verso un unico tipo di società, quella occidentale, che la civiltà moderna sia la civiltà occidentale, e che la civiltà oc-cidentale sia la civiltà moderna . Tale tipo di identificazione, tut-tavia, è totalmente er roneo. La civiltà occidentale è emersa nel-l'vin e ix secolo ed ha sviluppato i propri caratteri distintivi nei secoli successivi, ma non ha iniziato il proprio processo di mo-dernizzazione prima del xvii e XVIII secolo. L 'Occidente era Oc-cidente molto pr ima di essere moderno . Le caratteristiche pe-culiari dell 'Occidente, quelle che lo dist inguono da altre civiltà, sono antecedenti alla sua modernizzazione.

Quali e rano d u n q u e le caratteristiche distintive della società occidentale nelle centinaia di anni che precedet tero la sua mo-dernizzazione? Vari studiosi h a n n o forni to risposte che pur dif-ferenziandosi su alcuni aspetti specifici concordano nell'indivi-

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duare un certo n u m e r o di istituzioni, consuetudini e credenze che possono legit t imamente essere identificate come il fulcro della civiltà occidentale. Esse sono:31

L'eredità classica. In quan to civiltà di terza generazione, l 'Oc-cidente ha ereditato molto dalle civiltà precedent i , e in parti-colare da quella classica. I lasciti della civiltà classica all'Occi-dente sono o l t remodo numerosi , e c o m p r e n d o n o la filosofia e il razionalismo greci, il diritto romano, il latino, il cristianesi-mo. Anche le civiltà islamica e ortodossa vantano numeros i la-sciti dalla civiltà classica, ma in misura inf ini tamente inferiore rispetto al l 'Occidente.

Cattolicesimo e protestantesimo. Il cristianesimo occidentale, dappr ima solo il cattolicesimo, quindi anche il protestantesi-mo, rappresenta storicamente l ' e lemento distintivo più impor-tante della civiltà occidentale. Per buona parte del suo p r imo millennio, anzi, quella che oggi è conosciuta come civiltà occi-dentale è stata definita cristianità occidentale. Tra i popoli cri-stiani del l 'Occidente esisteva un p ro fondo senso di comunanza e u n a ben radicata coscienza della loro diversità da turchi, mo-ri, bizantini e altri popoli; in n o m e di Dio, oltre che dell 'oro, gli occidentali par t i rono alla conquista del m o n d o nel XVI se-colo. La Riforma e Cont ror i forma e la divisione del m o n d o cri-stiano occidentale in un Nord protestante e un Sud cattolico sono anch'essi tratti caratteristici della storia occidentale, total-

31 La letteratura sui caratteri distintivi della civiltà occidentale è, natural-mente, sterminata. Si veda, tra gli altri, William H. McNeil, Rise of the West: A History of the Human Community, Chicago, University of Chicago Press, 1963; Braudel, On History, e le sue opere pecedenti; Immanuel Wallerstein, Geopoli-tics and Geoculture: Essays on the Changing World-System, Cambridge, Cambridge University Press, 1991. Karl W. Deutsch ha prodotto un esauriente, succinto e suggestivo raffronto tra l 'Occidente e nove altre civiltà sulla base di ventuno fattori geografici, culturali, economici , tecnologici, sociali e politici, in cui sottolinea la differenza esistente tra il primo e le altre. Si veda Karl W. Deutsch, «On Nationalism, World Regions, and the Nature of the West», in Per Torsvik (a cura di), Mobilization, Center-Periphery Structures, and Nation-building: A Volume in Commemoration of Stein Rokkan, Bergen, Universitetsforla-get, 1981, pp. 51-93. Per un succinto riepilogo dei tratti distintivi e più salienti della civiltà occidentale nel 1500, si veda Charles Tilly, «Reflections on the History of European State-making», in Tilly (a cura di), The Formation of National States in Western Europe, Princeton, Princeton University Press, 1975, p. 18 sgg.

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mente assenti nel m o n d o ortodosso orientale e in gran parte ri-mossi dal l 'esperienza lat inoamericana.

Lingue europee. In quanto e lemento di disunzione fra popoli di culture diverse la lingua è seconda soltanto alla religione. L'Oc-cidente differisce da buona parte delle altre civiltà per il gran nu-mero di idiomi utilizzati. Giapponese, hindi, mandar ino, russo e arabo sono universalmente riconosciute come le lingue princi-pali delle rispettive civiltà. L'Occidente ha ereditato il latino, ma in seguito emerse un certo numero di nazioni e con esse le rela-tive lingue nazionali, grosso m o d o raggruppate nelle due grandi categorie delle lingue romanze e germaniche. Nel xvi secolo tali lingue di n o r m a avevano già assunto la loro forma odierna.

Separazione Ira autorità spirituale e temporale. Nel corso della sto-ria occidentale, la Chiesa prima, e molte chiese poi, h a n n o con-dotto un'esistenza separata dallo Stato. Il dualismo tra Dio e Ce-sare, Chiesa e Stato, autorità spirituale ed autorità temporale è sempre stato un elemento prevalente nella cultura occidentale. Solo nella civiltà indù troviamo una distinzione altrettanto netta tra politica e religione. Nell'Islam, Dio è Cesare; in Cina e Giap-pone Cesare è Dio; nel m o n d o ortodosso, Dio è il braccio destro di Cesare. La separazione e i ricorrenti conflitti tra Stato e Chie-sa che caratterizzano la civiltà occidentale non sono esistiti in nessun'altra civiltà. Tale separazione di autorità ha contribuito in modo incommensurabile allo sviluppo della libertà in Occidente.

Stato di diritto. Il concetto della centralità del diritto per un 'e-sistenza civile fu eredi tato dai romani . I pensatori medievali e laborarono l ' idea del diritto naturale, in base al quale i sovra-ni e rano tenuti a esercitare il propr io potere, e l ' Inghi l terra sviluppò la tradizione della «common law». Durante la fase as-solutista del xvi e xvii secolo, lo stato di diritto fu osservato più in teoria che in pratica; tuttavia l ' idea che il potere u m a n o do-vesse essere subordinato a qualche condiz ionamento es terno rimase in vigore: «Non sub homine sed sub Deo et lege». La tradi-zione dello stato di diritto gettò le basi del costituzionalismo e della difesa dei diritti umani - diritto di proprie tà incluso -contro l'esercizio arbitrario del potere. In gran parte delle altre civiltà il ruo lo del diritto nel l 'educazione del pensiero e dell'a-zione u m a n a è stato molto m e n o rilevante.

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Pluralismo sociale. Nel caso della storia, la società occidentale ha avuto un carattere marcatamente pluralista. Come osserva Deutsch, l ' e lemento distintivo del l 'Occidente «è la nascita e la persistenza di svariati gruppi autonomi non fondati su legami di sangue o sull'istituto del matrimonio».32 A parure dal vi e vii se-colo, tali g ruppi compresero in un pr imo m o m e n t o monasteri , ordini monastici e gilde, per poi espandersi fino a comprende-re in molte aree d 'Europa u n a svariata gamma di altre organiz-zazioni e società.33 Al pluralismo di associazioni si accompagnò un pluralismo di classi. Gran par te delle società europee occi-dentali comprendeva un'aristocrazia relativamente forte e au-tonoma, un ' ampia classe contadina e una piccola ma importan-te classe mercantile. In molte nazioni europee la forza dell'ari-stocrazia feudale ebbe un ruolo part icolarmente rilevante qua-le f r e n o all 'espansione dell 'assolutismo. Tale pluralismo con-trasta for temente con la povertà della società civile, la debolez-za dell'aristocrazia e la forza degli imperi burocratici centraliz-zati esistenti con temporaneamente in Russia, Cina, nelle terre o t tomane e in altre società non occidentali.

Corpi rappresentativi. Il pluralismo sociale dette ben presto vi-ta a stati, par lamenti e altre istituzioni nate per d i fendere gli in-teressi dell'aristocrazia, del clero, dei mercanti e di altri gruppi . Tali organismi incarnavano fo rme di rappresentanza che in se-guito ài sono evolute nelle istituzioni della democrazia moder-na. In alcuni casi, nel per iodo dell 'assolutismo f u r o n o aboliti o il loro potere drast icamente ridotto. Anche q u a n d o ciò accad-de, tuttavia, po te rono in seguito essere riportati in vita, come ad esempio in Francia, e funge re da veicolo di u n a più vasta par tecipazione politica. Nessun 'al t ra civiltà con t emporanea possiede una simile tradizione di organismi rappresentativi ri-salenti a un millennio addietro. Anche al livello locale, a parti-re all 'incirca dal ix secolo, movimenti di autogoverno presero a svilupparsi nelle città italiane e quindi a espandersi verso nord , «costringendo vescovi, baroni locali e altri grandi nobili a con-dividere il potere con i borghesi e spesso, alla fine, a conse-

32 Deutsch, «Nationalism, World Regions, and the West», p. 77. 33 Si veda Robert D. Putnam, MakingDemoaracy Work: Civil Tradilion in Modem Italy, Princeton, Princeton University Press, 1993, p. 121 sgg. (trad. it. La tradizione civile nelle regioni italiane, Milano, Mondadori, 1993).

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gnarglielo del tutto».14 Alla rappresentanza a livello nazionale si accompagnò d u n q u e u n a certo grado di au tonomia locale del tutto assente in altre regioni del mondo .

Individualismo. Molte di queste caratteristiche della civiltà oc-cidentale h a n n o contribuito allo sviluppo di un forte senso in-dividualista e a una tradizione di diritti e libertà individuali as-solutamente senza uguali tra le società civili. L'Individualismo si sviluppò nel xiv e xv secolo, ment re il diritto alla libera scelta in-dividuale - quella che Deutsch definisce «la rivoluzione di Ro-meo e Giulietta» - prevalse a part ire dal xvn secolo. Furono espresse, anche se non universalmente accettate, anche le ri-vendicazioni alla parità di diritti per tutti gli individui («L'uomo più povero d ' Inghil terra ha una vita da vivere esattamente come l ' uomo più ricco»). L'individualismo r imane una caratteristica assolutamente peculiare del l 'Occidente rispetto alle altre civiltà del xx secolo. In un'analisi svolta su campioni simili di cinquan-ta paesi, tra i primi venti paesi in cui il tema dell 'individualismo trovava maggiore preminenza figuravano tutte le nazioni occi-dentali, ad eccezione del Portogallo, più Israele.' ' L 'autore di un 'a l t ra indagine interculturale sul tema dell ' individualismo e del collettivismo ha anch'egli rilevato il p redominio dell'indivi-dualismo in Occidente di contro al prevalere altrove del collet-tivismo, conc ludendone che «i valori ritenuti più importanti in Occidente sono quelli m e n o important i su scala mondiale». Tanto gli occidentali quanto i non occidentali indicano dun-que nell ' individualismo la caratteristica maggiormente peculia-re dell 'Occidente. '"

34 Deutsch, in Torsvik (a cura di), Mobilization, p. 78. Si veda anche Stein Rokkan, «Dimensions of State Formation and Nation-Building: A Possibile Paradigm for Research on Variations within Europe», in Charles Tilly, The Formation of National States in Western Europe, Princeton, Princeton University Press, 1975, p. 576; e Putnam, Making Democracy Work, pp. 124-27. 35 Geert Hofstede, «National Cultures in Four Dimensions: A Research-based Theory of Cultural Diferences among Nations», in «International Studies of Management and Organization», n. 13, 1983, p. 52. 36 Harry C. Triandis, «Cross-Cultural Studies of Individualism and Collectivism», in Nebraska Symposium on Motivation 1989, Lincoln, University of Nebraska Press, 1990, pp. 44-133, e «New York Times», 25 dicembre 1990, p. 41. Si veda anche George C. Lodge ed Ezra F. Vogel (a cura di), Ideology and National Competitiveness: An Analysis of Nine Countries, Boston, Harvard Business School Press, 1987, passim.

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Questo elenco non p re tende certo di esaurire tutti i caratte-ri peculiari della civiltà occidentale, né in tende ovviamente im-plicare che tali caratteristiche siano state sempre ed universal-men te presenti nella società occidentale: i tanti despoti che la storia occidentale ci ha regalato ignorarono sistematicamente lo stato di diritto e sospesero gli organi rappresentativi. Né esso in tende suggerire che nessuna di tali caratteristiche sia mai ap-parsa in altre civiltà: il Corano e la sharia f u n g o n o da leggi fon-damental i delle società islamiche, m e n t r e Giappone e India presentano sistemi classisti paragonabili a quelli del l 'Occidente (e forse propr io per questo sono le uniche tra le grandi società non occidentali a vantare u n a lunga tradizione di governi de-mocratici). Preso singolarmente, quasi nessuno di tali fattori costituisce un e lemento peculiare della civiltà occidentale; ciò che contraddist ingue l 'Occidente è la loro presenza congiunta. Tali concezioni, modi di vita e istituzioni h a n n o semplicemen-te prevalso in Occidente più che in altre società e f o r m a n o q u a n t o m e n o u n a parte del nucleo costitutivo tradizionale del-la civiltà occidentale. Costituiscono la parte occidentale ma non m o d e r n a del l 'Occidente; sono anche in gran par te i fatto-ri che h a n n o permesso al l 'Occidente di assumere il c o m a n d o nel processo di modernizzazione del mondo .

Reazioni all'Occidente e alla modernizzazione

L'espansione del l 'Occidente ha stimolato la modernizzazio-ne e l 'occidentalizzazione delle società non occidentali. Le éli-te politiche e intellettuali di quelle società h a n n o risposto al-l ' inf luenza occidentale fondamen ta lmen te in tre modi: rifiu-tando ent rambe; abbracciando ent rambe; abbracciando la pri-ma e rifiutando la seconda."

Rifiuto totale. Sin dai primi contatti con l 'Occidente, risalenti al 1542, e fino a metà xix secolo il Giappone ha adot ta to u n a

37 I dibattiti sull'interazione tra civilità f iniscono inevitabilmente col produr-re una qualche variante di tale tipologia di risposte. Si veda Arnold J. Toyn-bee, Study ofHistory, London, Oxford University Press, 1935-61, voi. II, p. 187 sgg.; voi. Vil i , pp. 152-3, 214; John L. Esposito, The Islamic Threat: Myth or Rea-lity, New York, Oxford University Press, 1992, pp. 53-62; Daniel Pipes, In the Path of God: Islam and Politicai Power, New York, Basic Books, 1983, pp. 105-42.

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politica di sostanziale rifiuto del l 'Occidente, consen tendo solo f o r m e limitate di modernizzazione, ad esempio nel settore de-gli a rmament i , e vietando severamente ogni fo rma di importa-zione della cultura occidentale e del cristianesimo in particola-re. A metà del xvii secolo gli occidentali f u r o n o addir i t tura espulsi fisicamente dal paese. Questa posizione di totale chiu-sura si concluse con l ' aper tura forzata del Giappone da par te del c o m m o d o r o Perry nel 1854 e poi con i notevoli sforzi di ap-p rend imen to dal l 'Occidente successivi alla restaurazione Meiji del 1868. Per diversi secoli anche la Cina ha tentato di impedi-re qualsiasi f o rma significativa di modernizzazione o di occi-dentalizzazione. Emissari cristiani f u r o n o ammessi in Cina nel 1601 per esserne cacciati nel 1722. A differenza del Giappone, la politica di chiusura della Cina a f fonda in gran parte le pro-prie radici nel l ' immagine di Regno di Mezzo che il paese colti-va di sé e nella fe rma convinzione della superiorità della cultu-ra cinese rispetto a quella di tutti gli altri popoli. L ' isolamento cinese, al pari di quello giapponese, venne infranto con le armi dal l ' Inghi l terra nella Guer ra de l l 'oppio del 1839-42. Come questi esempi suggeriscono, nel corso del xix secolo il potere occidentale rese sempre più difficile e alla fine impossibile per le società non occidentali aderire a strategie di totale isola-mento .

Nel xx secolo, i progressi compiuti nel campo dei mezzi di t rasporto e di comunicazione e il processo di in te rd ipendenza planetaria h a n n o accresciuto in m o d o drammat ico i costi della politica di isolamento. Fatta eccezione per piccole e isolate co-muni tà rurali disposte a vivere a un mero livello di sussistenza, il rifiuto totale sia della modernizzazione sia dell 'occidentaliz-zazione è pressoché impossibile in un m o n d o che va diventan-do sempre più m o d e r n o e sempre più interconnesso. «Solo i fondamental is t i più estremi», scrive Daniel Pipes a proposi to dell 'Islam, «rifiutano sia la modernizzazione sia l 'occidentaliz-zazione. Essi get tano i televisori nei fiumi, vietano gli orologi da polso e bandiscono il motore a combust ione interna. L'inat-tuabilità del loro p rogramma limita tuttavia fo r t emente la ca-pacità di attrazione di tali gruppi , e in diversi casi - ad esempio gli Yen Izala di Kano, gli assassini di Sadat, gli assalitori di mo-schee alla Mecca e alcuni g rupp i dakwah malaysiani - le scon-fitte r iportate a seguito di violenti scontri con le autorità h a n n o

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por ta to a u n a loro pressoché completa sparizione».18 Un desti-no, questo, che caratterizza di solito le politiche di chiusura to-tale. Il fanatismo, per usare l 'espressione di Toynbee, è sempli-cemente u n a strada impraticabile.

Kemalismo. Una seconda possibile risposta a l l 'Occidente è quello che Toynbee definisce «Erodianesimo», vale a dire l'a-per tura sia alla modernizzazione sia all 'occidentalizzazione, e si basa sul presupposto che la modernizzazione sia desiderabile e necessaria, che la cultura autoctona sia incompatibile con la modernizzazione e vada d u n q u e abbandona ta o abolita, e che per potersi modernizzare con successo la società debba occi-dentalizzarsi in toto. Modernizzazione e occidentalizzazione si rafforzano a vicenda e devono procedere di pari passo. Questo approccio fu teorizzato da alcuni intellettuali giapponesi e ci-nesi del tardo xix secolo, secondo i quali per potersi moderniz-zare le loro società avrebbero dovuto abbandonare la propr ia lingua tradizionale e adottare l ' inglese come lingua nazionale. Questa opinione, com'è facile capire, ha avuto miglior acco-glienza in Occidente che non tra le élite non occidentali. Il suo messaggio è: «Per avere successo, devi essere come noi; il no-stro sistema è l 'unico possibile». La tesi è che «i valori religiosi, i precetti morali e le s trut ture sociali di queste società [non oc-cidentali] sono estranee q u a n d o non ostili ai valori e ai modi di vita della società industriale», per cui lo sviluppo economico «richiede u n a radicale riedificazione della vita e della società nonché , spesso, una reinterpretazione del significato stesso del-l'esistenza così come è stata concepita da quanti vivono in que-ste civiltà».19 Pipes sostiene la medesima tesi in relazione all'I-slam:

Per sfuggire all'anomia, i musulmani non hanno altra scelta, poiché la modernizzazione richiede necessariamente l'occidentalizzazione. ... L'Islam non offre una via di modernizzazione alternativa. ... Il se-colarismo è una strada obbligata. La scienza e la tecnologia moderne richiedono un assorbimento dei processi mentali che le accompa-gnano. Lo stesso vale anche per le istituzioni politiche. Poiché il con-tenuto va emulato non meno della forma, occorre che il predominio

38 Pipes, Path o/God, p. 349. 39 William PfaiF, «Reflections: Economie Development», in «New Yorker», 25 dicembre 1978, p. 47.

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della civiltà occidentale sia apertamente riconosciuto aftinché si pos-sa imparare da esso. Le lingue europee e le istituzioni educative occi-dentali non possono essere evitate, anche se queste ultime promuo-vono indubbiamente l'indipendenza di pensiero e modelli di vita più spigliati. Solo quando accetteranno esplicitamente il modello occi-dentale i musulmani saranno in grado di attrezzarsi tecnicamente e quindi di svilupparsi.4"

Sessan tanni pr ima che fossero scritte queste parole, Mustafa Remai Ataturk era giunto a conclusioni simili, c reando dalle ro-vine de l l ' Impero o t tomano u n a nuova Turchia e lanciandosi in un g rande tentativo di occidentalizzarla e modernizzarla. Im-boccando questa strada e r i f iutando il passato islamico Ataturk fece della Turchia un «paese in bilico», u n a società musu lmana per religione, tradizioni, costumi e istituzioni, ma con u n a clas-se dir igente decisa a render la mode rna , occidentale e legata al-l 'Occidente . Negli ultimi anni del xx secolo vari paesi h a n n o adot ta to tale via kemalista e s tanno ten tando di sostituire l'i-dent i tà occidentale alla propria . I loro sforzi in tal senso ver-r a n n o analizzati nel capitolo 6.

Riformismo. La posizione di chiusura totale implica il vano tentativo di isolare u n a società da un m o n d o m o d e r n o la cui presenza va facendosi sempre più stringente. Il kemalismo im-plica il difficile e traumatico compito di distruggere una cultu-ra vecchia di secoli e sostituirla con u n a totalmente nuova im-porta ta da un 'a l t ra civiltà. Una terza strada consiste nel tentare di uni re modernizzazione e preservazione dei valori, costumi e istituzioni autoctoni di una data società. Tale soluzione è stata, comprensibi lmente , la più popolare tra le élite non occidenta-li. In Cina, nelle ult ime fasi della dinastia Ching lo slogan fu 77-Yong, «Cultura cinese per i principi di fondo , cultura occiden-tale pe r i fini pratici». In Giappone fu Wakon, Yosei, «Spirito giapponese, tecnica occidentale». In Egitto, negli anni Trenta de l l 'Ot tocen to M u h a m m e d Ali «tentò di realizzare u n a mo-dernizzazione tecnica senza un'eccessiva occidentalizzazione culturale», ma fu in seguito costretto dall 'esercito br i tannico a abbandona re buona par te delle sue r i forme in tal senso. Di conseguenza, osserva Ali Mazrui, «le sorti dell 'Egitto n o n han-no ricalcato né la strada giapponese di modernizzazione tecni-

40 Pipes, Path ofGod, pp. 197-8.

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ca senza occidentalizzazione culturale, né quella di Ataturk di una modernizzazione tecnica attraverso l 'occidentalizzazione culturale».11 Nell 'ul t imo scorcio del xix secolo, tuttavia, Jamal ai-Din ai-Afghani, M u h a m m e d Abduh ed altri r i formatori ten-tarono una nuova riconciliazione tra Islam e moderni tà , soste-n e n d o «la compatibilità dell 'Islam con le scienze sociali e con il meglio del pensiero occidentale» e f o r n e n d o u n a «giustifica-zione islamica per l 'accettazione di idee e istituzioni mode rne , fossero esse scientifiche, tecnologiche o politiche (costituzio-nalismo e governo rappresentat ivo)»/2 Si trattava di u n rifor-mismo ad ampio raggio, con tendenze kemaliste, che accettava non solo il concetto di modern i t à ma anche alcune istituzioni occidentali . Un r i formismo di questo tipo è stato la risposta p redominan te al l 'Occidente da par te delle élite musu lmane per c inquant 'anni , dagli anni Settanta del l 'Ot tocento agli anni Venti del Novecento, allorché fu messo in discussione dall'av-vento del kemalismo pr ima e quindi da un r i formismo molto più pu ro nella veste del fondamenta l ismo.

Queste tre alternative - chiusura totale, kemalismo e rifor-mismo - si basano su diversi presupposti in meri to a cosa sia possibile e cosa desiderabile. Per i fautori della chiusura totale, sia la modernizzazione che l 'occidentalizzazione sono fenome-ni indesiderabili, che è possibile rifiutare. Per i kemalisti, sia la modernizzazione che l 'occidentalizzazione sono desiderabili (la seconda perché s t rumento indispensabile per il raggiungi-men to della prima) e possibili. Per i riformisti, la modernizza-zione è desiderabile e possibile anche senza occidentalizzazio-ne, che invece non è desiderabile. Esistono d u n q u e dei contra-sti tra la teoria del rifiuto totale e quella kemalista in meri to al-la desiderabilità della modernizzazione e dell 'occidentalizza-zione, e tra kemalismo e r i formismo sulla possibilità di poter acquisire la modernizzazione senza occidentalizzazione.

La Figura 3.1 illustra questi tre diversi indirizzi. Quel lo di chiusura totale resterebbe f e r m o al Punto A; quello kemalista g iungerebbe diagonalmente al Pun to B; quello riformista avan-zerebbe orizzontalmente verso il Punto C. Qual è, tuttavia, il

41 Ali Al-Amin Mazrui, CulturalForces in World Politici, London, James Currey, 1990, pp. 4-5. 42 Esposito, Islamic Threat, p. 55 e, più in generale, le pp. 55-62; Pipes, Path of God, pp. 114-20.

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Figura 3.1 Risposte alternative all'impatto dell'Occidente

Modernizzazione

percorso realmente compiuto dalle società? Ovviamente, cia-scuna società non occidentale ha seguito un propr io corso, che pot rebbe anche differire in m o d o sostanziale da questi tre mo-delli. Mazrui arriva a sostenere che Egitto e Africa h a n n o pro-ceduto verso il Punto D attraverso un «doloroso processo di occidentalizzazione culturale senza modernizzazione tecnologi-ca». Nella misura in cui le risposte delle società non occidenta-li a l l 'Occidente possono in qualche m o d o indicare un model lo genera le di modernizzazione ed occidentalizzazione, questo sembra procedere lungo la curva A-E. Inizialmente, occidenta-lizzazione e modernizzazione sono stret tamente correlate: la società non occidentale assorbe elementi sostanziali della cul-tura occidentale ed avanza len tamente verso la modernizzazio-ne. Via via che il r i tmo della modernizzazione aumenta , tutta-via, il tasso di occidentalizzazione si r iduce e la cultura autocto-na torna a emergere. In seguito, l 'ulteriore modernizzazione fi-nisce con l 'al terare gli equilibri di potere tra l 'Occidente e la

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società non occidentale, a l imenta il potere e l 'autost ima di quella società e rafforza in essa il senso di appar tenenza alla propria cultura.

Nelle pr ime fasi del processo di mu tamen to , dunque , l'oc-cidentalizzazione stimola la modernizzazione. Nelle ult ime, la modernizzazione promuove la de-occidentalizzazione e la ri-nascita della cul tura au toc tona in due modi: al livello sociale, la modernizzazione accresce il po te re economico, militare e politico della società nel suo complesso e stimola i membr i di quella società ad avere f iducia nella propr ia cultura e a riven-dicare la p ropr ia au tonomia culturale; al livello individuale, man m a n o che i tradizionali legami e rappor t i sociali vengono a lacerarsi, la modernizzazione genera sentimenti di alienazio-ne e anomia che scatenano crisi di identi tà alle quali la reli-gione of f re u n a risposta. La Figura 3.2 illustra in f o r m a sem-plificata questo flusso causale.

Un simile ipotetico model lo generale è congruen te sia con la teoria delle scienze sociali che con l 'esperienza storica. Nel riesaminare approfond i tamente gli indizi a disposizione relati-vi alla «ipotesi dell ' invarianza», Rainer Baum conclude che «l'incessante ricerca da par te de l l ' uomo di un 'au tor i tà ricono-sciuta e di un 'a l t re t tanto riconosciuta au tonomia personale si estrinseca in modi cul turalmente diversi. In questo campo non esiste alcuna convergenza verso un m o n d o cul turalmente sem-pre più omogeneo . Invece, sembra esserci un ' invarianza nei modell i sviluppatisi in f o r m e distinte nelle diverse fasi stori-che»." La teoria degli «imprestiti», così come è stata elaborata tra gli altri da Frobenius, Spengler e Bozeman, sottolinea la mi-sura in cui le civiltà destinatarie acquisiscono in m o d o selettivo determinat i aspetti di altre società e li adat tano, li t ras formano e li assimilano in m o d o da preservare e rafforzare la sopravvi-venza dei valori di fondo , o paideuma, della propria cul tura ."

43 Rainer C. Baum, «Authority and Identity The Invariance Hypothesis II», in «Zeitschrift fùr Soziologie», n. 6 (Ottobre 1977), pp. 368-9. Si veda anche Rainer C. Baum, «Authority Codes: The Invariance Hypothesis», in «Zeitschrift fur Soziologie, n. 6 (Gennaio 1977), pp. 5-28. 44 Si veda Adda B. Bozeman, «Civilizations Under Stress», in «Virginia Quarterly Review», n. 51 (Inverno 1975), p. 5 sgg; Leo Frobenius, Paideuma: Umrisse einer Kultur-und Seelenlehre, Munich, C. H. Beck, 1921, p. 11 sgg.; Oswald Spengler, TheDecline ofthe West, New York, Alfred A. Knopf, 2 voli., 1926, 1928, voi. II, p. 7 (trad. it. Il tramonto dell'Occidente, Milano, Longanesi, 1978).

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Figura 3.2 Modernizzazione e rinascita culturale

Società Maggior potere economico, milit"'" politico

Modernizzazione

Alienazione e crisi d'identità

Rinascita culturale e religiosa

Individuo

Quasi tutte le civiltà non occidentali del m o n d o esistono da al-m e n o un millennio - in alcuni casi da diversi millenni - e tutte vantano un più o m e n o lungo elenco di acquisizioni, mutua te da altre civiltà e finalizzate alla sopravvivenza della propria . L ' importazione cinese del buddismo dall 'India, concordano gli studiosi, fu ben lungi dal causare l '«indianizzazione» della Ci-na. I cinesi adat tarono il buddismo ai propr i fini e alle propr ie necessità; la cultura cinese rimase t ipicamente cinese. Fino a oggi i cinesi h a n n o cos tantemente sconfitto i reiterati tentativi occidentali di convertirli al cristianesimo. Se a un certo p u n t o dovessero impor ta re il cristianesimo, c 'è da at tendersi che verrà anch 'esso assorbito e adattato in m o d o da rafforzare il sempi te rno paideuma cinese. Allo stesso modo, gli arabi musul-mani acquisirono, apprezzarono e utilizzarono 1'«eredità elle-nica per scopi essenzialmente utilitaristici. Essendo interessati soprat tut to ad acquisire certe caratteristiche esteriori o deter-minati aspetti tecnici, essi seppero come ignorare tutti gli ele-menti presenti nel pensiero greco che erano in conflit to con la 'verità' stabilita dalle loro n o r m e e precetti coranici».4 ' La me-desima strada seguì il Giappone, che nel VII secolo impor tò la cultura cinese compiendo la «trasformazione di propria inizia-tiva, libero da pressioni economiche e militari» all 'alta civiltà. «Nei secoli successivi, a periodi di relativo isolamento dalle in-f luenze del l 'Occidente - du ran te i quali i precedent i impresti-ti venivano elaborati e quelli più utili assimilati - si a l te rnarono periodi di rinnovati contatti e acquisizioni culturali».46 Attra-verso tutte queste fasi, la cultura giapponese ha man tenu to il p ropr io carattere peculiare.

45 Bozeman, «Civilizations under stress», p. 7. 46 William E. Naff, «Reflections on the Quest ion of East and West from the Point o f View of Japan», in «Comparative Civilizations Review», nn. 1 3 / 1 4 (Autunno 1985 e Primavera 1986), p. '222.

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La variante modera ta della tesi kemalista, secondo cui le so-cietà non occidentali potrebbero modernizzarsi attraverso u n a lo-ro occidentalizzazione, resta ancora da provare. La sua variante estrema, secondo cui per modernizzarsi le società n o n occi-dentali debbano occidentalizzarsi, non si p ropone come tesi uni-versale, ma solleva tuttavia la questione: esistono società non occidentali in cui gli ostacoli posti alla modernizzazione dalla cultura indigena sono così grandi da richiedere, se la si vuole perseguire, la sua sostituzione comple ta con la cul tura occi-dentale? In teoria, questa ipotesi dovrebbe dimostrarsi più pro-babile con le culture consumistiche che non con quelle stru-mentali . Queste ultime sono «società nelle quali esiste un no-tevole grado di separazione e indipendenza tra fini in termedi e fini ultimi». Tali sistemi «riescono a innovarsi agevolmente di-spiegando il man to della tradizione sul mu tamen to stesso. ... Possono innovarsi senza dar mostra di alterare a f o n d o le pro-prie istituzioni sociali. Piuttosto, l ' innovazione viene messa al servizio della tradizione». I sistemi consumistici, invece, «sono caratterizzati da una forte correlazione tra fini in te rmedi e fini ultimi ... la società, lo stato, l 'autori tà e via dicendo, f a n n o tutti par te di un complesso sistema fo r t emente solidaristico in cui il pr incipio della religione come guida alla conoscenza è dila-gante. Tali sistemi sono sempre stati ostili alle innovazioni».17

Apter utilizza queste categorie per analizzare i mutament i av-venuti nelle tribù africane. Eisenstadt applica un'analisi paral-lela alle grandi civiltà asiatiche e giunge a u n a conclusione ana-loga. La trasformazione in terna è «for temente agevolata dal-l ' au tonomia delle istituzioni sociali, culturali e politiche».48 Per-ciò, le più strumental i società giapponese e induista h a n n o av-viato il loro processo di modernizzazione pr ima e in m o d o più agevole di quanto abbiano fatto le società confuciane e islami-che, dimostrandosi maggiormente capaci di importare la tec-nologia m o d e r n a e di utilizzarla per promuovere la p ropr ia cultura. La società cinese e quella islamica devono d u n q u e o ri-

47 David E. Apter, «The Role of Traditionalism in the Politicai Modernization of Ghana and Uganda», in «World Politics», n. 13 (Ottobre 1960), pp. 47-68. 48 S. N. Eisenstad, «Transformation of Social, Politicai, and Cultural Orders in Modernization», in «American Sociological Review», n. 30 (Ottobre 1965), pp. 659-73.

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nunciare sia alla modernizzazione che all 'occidentalizzazione, oppure abbracciarle ent rambe? L'alternativa non appare così drastica. Oltre al Giappone, anche Singapore, Taiwan, Arabia Saudita e, in minor misura, Iran sono diventate società moder-ne senza diventare occidentali. Di fatto, il tentativo dello shah di seguire un corso kemalista ha genera to una reazione forte-men te antioccidentale ma non an t imoderna , ment re la Cina sembra aver chiaramente imboccato u n a via riformista.

Le società islamiche h a n n o palesato u n a certa difficoltà a modernizzarsi , e Pipes sostiene la propr ia tesi che l 'occidenta-lizzazione sia un requisito indispensabile por tando ad esempio i conflitti sorti tra l 'Islam e la modern i t à in settori economici quali le leggi sul profit to, sul d igiuno e sulla successione, non-ché la partecipazione delle d o n n e alla forza lavoro. Anche lui, tuttavia, concorda con Maxine Rodinson, secondo cui «non c 'è nulla che indichi in m o d o incontrovertibile che la religione musu lmana impedisce al m o n d o musu lmano di svilupparsi se-condo i canoni del capitalismo mode rno» e sostiene che in quasi tutti i settori di carattere n o n economico,

Islam e modernizzazione non sono in contrapposizione. I fedeli mu-sulmani possono coltivare le scienze, lavorare con grande profitto nelle fabbriche o utilizzare armi sofisticate. La modernizzazione non impone alcuna particolare ideologia politica o assetto istituzionale; elezioni, confini nazionali, organizzazioni civili e tutti gli altri ele-menti distintivi della vita occidentale non sono necessari per la cre-scita economica. Come fede religiosa, l'islamismo soddisfa in pari modo consulenti aziendali e contadini. La sharia non dice nulla sui mutamenti che accompagnano la modernizzazione, quali ad esempio il passaggio dall'agricoltura all'industria, dalla campagna alla città o dalla stabilità alla mobilità sociale; né interviene su questioni quali l'i-struzione di massa, la diffusione delle comunicazioni, nuove forme di trasporti o l'assistenza sanitaria.4'1

Analogamente, anche i più strenui sostenitori dell'antiocci-dentalismo e della rinascita delle culture autoctone non esitano a impiegare tecnologie m o d e r n e quali la posta elettronica, le vi-deocassette e la televisione per promuovere la loro causa.

Modernizzazione, in definitiva, non significa necessariamen-

49 Pipes, Path ofGod, pp. 191, 107.

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te occidentalizzazione. Le società n o n occidentali possono mo-dernizzarsi, e l ' h anno fatto, senza abbandonare la propr ia cul-tura e senza adottare in blocco valori, istituzioni e costumi oc-cidentali. Il che, peraltro, sarebbe pressoché impossibile: qua-lunque ostacolo posto dalle culture non occidentali alla mo-dernizzazione impallidirebbe dinanzi a quelli posti all 'occiden-talizzazione. Come osserva Braudel, sarebbe quasi «fanciulle-sco» pensare che la modernizzazione o «il tr ionfo della civiltà al singolare» met te rebbe f ine della pluralità di culture storiche incarnate per secoli nelle grandi civiltà del pianeta.>0 Al contra-rio, la modernizzazione rafforza tali culture e r iduce il potere relativo del l 'Occidente. Sotto molti important i aspetti, il mon-do sta diventando più m o d e r n o e m e n o occidentale.

50 Braudel, On History, pp. 212-3.

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I MUTAMENTI IN AITO NEGLI EQUILIBRI TRA LE CIVILTÀ

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CAPITOLO QUARTO Il declino del l 'Occidente: potere, cultura e indigenizzazione

Il potere occidentale: dominio e declino

Due sono le immagini ricorrenti del potere dell 'Occidente in rapporto alle altre civiltà. La prima è un ' immagine di tr ionfante e pressoché totale dominio. La disintegrazione del l 'Unione So-vietica ha eliminato dalla scena l 'unico serio antagonista del-l 'Occidente, e di conseguenza il m o n d o è e sarà configurato in base a obiettivi, priorità e interessi delle principali nazioni occi-dentali, forse con l'occasionale collaborazione del Giappone. In quanto unica superpotenza rimasta, gli Stati Uniti p r e n d o n o in-sieme a Francia e Gran Bretagna tutte le più importanti decisio-ni in materia di politica e sicurezza, e insieme a Germania e Giappone tutte quelle in materia di economia. L'Occidente è l 'unica civiltà ad avere interessi sostanziali in tutte le altre civiltà o regioni del m o n d o nonché la capacità di influenzarne gli indi-rizzi politici, economici e di sicurezza. Le società appartenenti ad altre civiltà hanno di n o r m a bisogno dell 'aiuto occidentale per raggiungere i propri obiettivi e difendere i propri interessi. Le nazioni occidentali, come ha ben riassunto u n o studioso,

• Possiedono e dir igono il sistema bancario internazionale • Control lano tutte le valute pregiate • Sono il principale acquirente del m o n d o • Forniscono la maggior par te dei prodott i finiti del m o n d o • Dominano i mercati internazionali dei capitali • Esercitano u n a considerevole leadership morale a l l ' in terno

di molte società • Sono in grado di compiere massicci interventi militari • Control lano tutte le rotte navali • Sono all 'avanguardia della ricerca e sviluppo in campo tecni-

co e scientifico

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• Control lano i settori di pun ta dell ' istruzione tecnica • Dominano lo spazio • Dominano l 'industria aerospaziale • Dominano le comunicazioni internazionali • Dominano l 'industria degli a rmament i ad alta tecnologia1

La seconda immagine del l 'Occidente è comple tamente di-versa. E l ' immagine di u n a civiltà in declino, il cui potere poli-tico, economico e militare in ambito internazionale va sempre più r iducendosi rispetto a quello di altre civiltà. La vittoria del-l 'Occidente nella guerra f r edda ha por ta to non al tr ionfo, ma all 'esaurimento. L'Occidente è sempre più afflitto da problemi e bisogni interni: crescita economica lenta, disoccupazione, enormi disavanzi pubblici, un 'e t ica del lavoro in declino, bassi tassi di risparmio nonché - in molti paesi compresi gli Stati Uniti - disintegrazione sociale, droga e criminalità. Il potere economico si sta rapidamente spostando in Asia orientale, e al-tret tanto iniziano a fare anche il potere militare e l ' inf luenza politica. L'India è a un passo dal decollo economico, men t re il m o n d o islamico mostra nei confront i del l 'Occidente un'ostilità sempre maggiore. La remissività delle altre società nei con-front i delle imposizioni e dei det tami occidentali sta rapida-men te svanendo, al pari del senso di autostima e della volontà di p redomin io dello stesso Occidente . La fine degli anni Ot-tanta ha visto un intenso dibattito sul presunto declino degli Stati Uniti, e a metà anni Novanta Aaron Fridberg ha concluso:

Sotto molti e importanti aspetti il loro [degli Stati Uniti] potere relati-vo diminuirà a un ritmo sempre crescente. In termini di pure e sem-plici capacità economiche, la posizione degli Stati Uniti in relazione al Giappone e in futuro anche alla Cina è probabilmente destinata a peg-giorare ancora. In campo militare, l'equilibrio di potere in termini di capacità reali tra gli Stati Uniti e un certo numero di potenze regionali in fase di sviluppo (comprese probabilmente Iran, India e Cina) si spo-sterà dal centro alla periferia. Parte del potere strutturale dell'America passerà ad altre nazioni; parte (compresa una parte del suo potere «persuasivo») finirà nelle mani di organismi non governativi, quali ad esempio le società multinazionali."

1 Jeffrey R. Barnett, «Exclusion as National Security Policy», in «Parameters», n. 24 (Primavera 1994), p. 54. 2 Aaron I.. Friedberg, «The Future of American Power», in «Politicai Science Quarterly», n. 109 (Primavera 1994), pp. 20-1.

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Quale di queste due opposte immagini del fu tu ro ruo lo del-l 'Occidente nel m o n d o descrive la realtà? La risposta, natural-mente , è: en t rambe. L 'Occidente occupa oggi u n a posizione dominan te e resterà il n u m e r o u n o in termini di potere e in-fluenza per b u o n a par te del xxi secolo. Nel contempo, tuttavia, si sta verif icando un graduale, inesorabile e fondamenta le mu-tamento nei rappor t i di forze tra le varie civiltà, e il potere del-l 'Occidente in rappor to a quello di altre civiltà cont inuerà a declinare. Via via che il pr imato del l 'Occidente si r iduce, buo-na par te del suo attuale po tere finirà semplicemente con lo svanire, e quella restante verrà distribuita su base regionale tra le altre grandi civiltà e i rispettivi stati guida. L ' aumento di po-tere più significativo viene oggi registrato, e cont inuerà a es-serlo in fu turo , dalle civiltà asiatiche, con la Cina che sta gra-dua lmente assumendo il ruolo di maggior antagonista dell 'Oc-cidente in fat to di influenza su scala mondiale . Tali spostamen-ti di potere tra civiltà por tano e po r t e r anno anche in fu tu ro le società non occidentali a un maggiore desiderio di affermazio-ne culturale e a rifiutare sempre più decisamente la cultura oc-cidentale.

Il declino dell 'Occidente presenta tre caratteristiche di fondo. Primo, è un processo lento. L'ascesa del l 'Occidente d u r ò

qua t t rocen to anni; la sua recessione po t rebbe r ichiedere un t empo al tret tanto lungo. Negli anni Ot tan ta l ' eminen te stu-dioso inglese Hedley Bull sostenne che «possiamo dire che il domin io e u r o p e o od occidentale sulla società internazionale universale abbia raggiunto il p ropr io apogeo i n t o r n o al 1900».' Il p r imo volume del l 'opera di Spengler vide la luce nel 1918 e da allora il «declino del l 'Occidente» è stato un tema centrale nella storia del xx secolo. Tale processo si è prot ra t to per lunga par te del secolo, ma oggi po t rebbe registrare u n a net ta accelerazione. La crescita economica e degli altri indici di sviluppo di un paese seguono soli tamente u n a curva a esse: un avvio lento, quindi u n a rapida accelerazione seguita da un ra l len tamento e quindi da un assestamento. Anche il decl ino di un paese pot rebbe seguire una sorta di curva a esse oppo-

3 Hedlev Bull, «The Revolt Against the Worst», in Hedley Bull e Adam Wat-son (a cura di), Expansion of International Society, Oxford, Oxford University Press, 1984, p. 219.

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sta, c o m ' è accaduto a l l 'Unione Sovietica: inizialmente mode-rato, qu ind i sempre più rap ido f ino a toccare il fondo . Il decli-n o de l l 'Occ iden te è ancora nella sua pr ima fase, quella più lenta, m a pr ima o poi po t rebbe subire u n a drammat ica acce-lerazione.

Secondo, il processo di decl ino non è un moto un i fo rme, bensì u n f e n o m e n o fo r temente irregolare con pause, inversio-ni e dimostrazioni di forza successive a manifestazioni di debo-lezza. Le società democra t iche aper te del l 'Occidente h a n n o grandi capacità di autor innovamento . Inoltre, a differenza di molte civiltà, l 'Occidente ha avuto due grandi centri di potere. Il decl ino che Bull ha visto iniziare in to rno al 1900 era essen-zialmente il declino della c o m p o n e n t e europea della civiltà oc-cidentale. Dal 1910 al 1945 l 'Europa è stata in te rnamente divi-sa e lacerata da problemi economici, sociali e politici. Negli an-ni Quaranta , tuttavia, ebbe inizio la fase americana di predo-minio occidentale, e nel 1945 gli Stati Uniti quasi domina rono per breve t empo il m o n d o in u n a misura paragonabile al pote-re congiunto de tenu to dalle potenze alleate nel 1918. La deco-lonizzazione postbellica ridusse u l ter iormente l ' influenza eu-ropea ma non quella dell 'America, che al tradizionale impero territoriale sostituì un nuovo imperialismo transnazionale. Ne-gli anni della Guerra f redda, tuttavia, la potenza militare ame-ricana fu raggiunta da quella sovietica, e il potere economico statunitense diminuì rispetto a quello giapponese. Ciò nono-stante, si ebbero periodici tentativi di rinascita militare ed eco-nomica. Nel 1991 un altro eminente studioso britannico, Barry Buzan, sostenne che «la realtà di f ondo è che oggi il cent ro ha una posizione più dominan te e la periferia u n a posizione più subordinata di quanto sia mai avvenuto dall 'inizio della deco-lonizzazione».4 La veridicità di tale affermazione, tuttavia, viene meno man m a n o che si affievolisce la vittoria militare da cui es-sa ebbe origine.

Terzo, potere significa la capacità, di un g ruppo o di un in-dividuo, di modificare la condot ta di un altro g r u p p o o indivi-duo. Ciò p u ò avvenire mediante induzione, costrizione o esor-tazione e richiede da parte di chi det iene il potere grandi ri-

4 Barry G. Buzan, «New Patterns of Global Security in the Twentv-first Cen-tury», in «International Affairs», n. 67 (Luglio 1991), p. 451.

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sorse economiche, militari, istituzionali, demograf iche, politi-che, tecnologiche, sociali e via dicendo. Il potere di u n o stato o di un g r u p p o viene quindi calcolato r appor t ando le sue risorse a quelle degli stati o g ruppi che sta ten tando di influenzare. La percentuale di buona parte (ma non tutte) delle risorse dete-nute dal l 'Occidente ha raggiunto la pun ta massima all'inizio del xx secolo ed inizia ora a calare rispetto a quelle di altre ci-viltà.

Territorio e popolazione. Nel 1490 le società occidentali control-lavano gran par te della penisola europea al di qua dei Balcani, all'incirca 2,5 milioni di chilometri quadrati su u n a superficie terrestre complessiva (escludendo l 'Antartide) di circa 85 mi-lioni di chilometri quadrati . Nel 1920, al culmine della propr ia espansione territoriale, l 'Occidente governava diret tamente un territorio di circa 41 milioni di chilometri quadrati , poco più della metà del pianeta. Nel 1933 tale controllo si era ridotto del-la metà, passando a circa 20 milioni di chilometri quadrati . L 'Occidente era in tal m o d o tornato al propr io tradizionale nu-cleo europeo, più i vasti territori colonizzati del Nord America, dell'Australia e della Nuova Zelanda. La superficie territoriale delle società islamiche indipendent i , viceversa, è passata dai 2,8 milioni di chilometri quadrati del 1920 agli oltre 17 milioni del 1993. Mutamenti di ugual segno si sono avuti anche dal pun to di vista del controllo della popolazione. Nel 1900 gli occidenta-li costituivano all'incirca il 30 per cento della popolazione mon-diale, e gli stati occidentali governavano quasi il 45 per cento di tale popolazione nel 1900 e il 48 per cento nel 1920. Nel 1993, a eccezione di alcuni piccoli residui imperiali come H o n g Kong, gli stati occidentali governavano esclusivamente le popolazioni occidentali. Queste ammontavano a poco più del 13 per cento del l 'umanità e sono destinate a scendere a circa l ' i l per cento en t ro l'inizio del nuovo secolo e al 10 per cento en t ro il 2025.1

In termini di popolazione complessiva, nel 1933 l 'Occidente oc-cupava il quar to posto alle spalle delle civiltà sinica, islamica e indù.

5 Project 2025 (bozza), 20 settembre 1991, p. 7; World Bank, World Develop-ment Report 1990, Oxford, Oxford University Press, 1990, pp. 229, 244; The World Almanac and Book ofFarts 1990, Mahwah, NJ, Funk Se Wagnalls, 1989, p. 539.

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Tabella 4.1 Territorio sotto il controllo politico delle varie civiltà, 1900-1993

Terr i tor io sot to il c o n t r o l l o po l i t i co de l l e civiltà, 1900-1993

Anno Occid. Afric. Sinica Indù Islam. Giapp. Latino Ortod. Altre amer.

1900 20290 164 4317 54 3592 161 7721 8733 7468 1920 25447 400 3913 54 1811 261 8098 10258 2258 1971 12806 4636 3936 1316 9183 142 7833 10346 2302 1993 12711 5682 3923 1279 11054 145 7819 7169 2718

S t ime de l territorio m o n d i a l e in p e r c e n t u a l e *

1900 38,7 0,3 8,2 0,1 6,8 0,3 14,7 16,6 14,3 1920 48,5 0,8 7,5 0,1 3,5 0,5 15,4 19,5 4,3 1971 24,4 8,8 7,5 2,5 17,5 0,3 14,9 19,7 4,4 1993 24,2 10,8 7,5 2,4 21,1 0,3 14,9 13,7 5,2

Nota: Quote territoriali basate sui confini statali in vigore nell'anno indicato * La cifra sulla superficie emersa del globo di 8.320.000 Km" non comprende l'Antartide. Fonti: Statesman's Year-Book, New York, St. Martin's Press, 1901-1927; World Book Atlas, Chicago, Field Enterprises Educational Corp., 1970; Britannica Book of the Year, Chicago, Encyclopaedia Britannica Inc., 1992-1994.

Tabella 4.2 Popolazione dei paesi appartenenti alle maggiori civiltà della terra, 1993 (in migliaia)

Sinica 1.340.900 Latinoamericana 507.500 Islamica 927.600 Africana 392.100 Indù 915.800 Ortodossa 261.300 Occidentale 805.400 Giapponese 124.700

Fonte: tabella elaborata in base ai dati contenuti in Encyclopedia Bri-tannica, 1994 Book of the Year, Chicago, Encyclopedia Britannica, 1994, pp. 764-69.

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Dal p u n t o di vista quantitativo, dunque , gli occidentali rap-presentano u n a minoranza sempre più esigua della popolazio-ne mondiale . Anche dal p u n t o di vista qualitativo, tuttavia, gli equilibri tra l 'Occidente e le altre popolazioni s tanno mutan-do. I popoli dei paesi non occidentali s tanno diventando più agiati, più urbanizzati, più alfabetizzati, meglio istruiti. Nei pri-mi anni Novanta i tassi di mortali tà infantile in America latina, Africa, Medio Oriente , Asia meridionale, Asia orientale e Asia sudorientale oscillavano tra un terzo e un quar to rispetto a quelli di t ren t ' anni prima. La speranza di vita in queste regioni era aumenta ta significativamente con progressi che andavano dagli undici anni dell 'Africa ai ventitré dell'Asia orientale. Nei primi anni Sessanta, in gran par te del Terzo M o n d o il tasso di alfabetizzazione non raggiungeva un terzo della popolazione adulta; nei primi anni Novanta, fatta eccezione per l 'Africa era-no pochissimi i paesi con un tasso di alfabetizzazione inferiore al 50 per cento. Circa la metà degli indiani e quasi i due terzi dei cinesi sapevano leggere e scrivere. Nel 1970 il tasso medio di alfabetizzazione nei paesi in via di sviluppo era del 41 per cento rispetto a quello dei paesi sviluppati; nel 1992 si era pas-sati al 71 per cento. Nei primi anni Novanta, in tutte le regioni del m o n d o a eccezione dell 'Africa, il 100 per cento dei bambi-ni f requentavano la scuola e lementare . Cosa ancor più signifi-cativa, nei pr imi anni Sessanta in Asia, America latina, Medio Oriente e Africa, m e n o di un terzo dei bambini f requentavano la scuola secondaria; nei primi anni Novanta, ad eccezione del-l'Africa, tale percentuale era arrivata al 50 per cento. Nel 1960 i residenti u rbani costituivano m e n o di un quar to della popo-lazione del m o n d o m e n o sviluppato; tra il 1960 e il 1992 tale percentuale era passata dal 49 al 73 per cento in America lati-na, dal 34 al 55 per cento nei paesi arabi, dal 14 al 29 per cen-to in Africa, dal 18 al 27 per cento in Cina e dal 19 al 26 per cento in India/ '

6 United Nations Development Program, Human Development Report 1994, New York, Oxford University Press, 1994, pp. 136-7, 207-11; World Bank, «World Development Indicators», World Development Report 1984, 1986, 1990, 1994; Bruce Russet et al., World Handbook of Political and Social Indicators, New Haven, Yale University Press, 1994, pp. 222-6.

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Tabella 4.3 Percentuali della popolazione mondiale sotto il controllo politico delle ci-viltà, 1900-2025

Anno [Totale Occid. Afric. Sinica Indù Islam. Giapp. Latino Ortod. Altre mondo] amer.

1900 [1,6] 44,3 0,4 19,3 0,3 4,2 3,5 3,2 8,5 16,3 1920 [1,9] 48,1 0,7 17,3 0,3 2,4 4,1 4,6 13,9 8,6 1971 [3,7] 14,4 5,6 22,8 15,2 13,0 2,8 8,4 10,0 5,5 1990 [5,3] 14,7 8,2 24,3 16,3 13,4 2,3 9,2 6,5 5,1 1995 [5,8] 13,1 9,5 24,0 16,4 15,9' 2,2 9,3 6,12 3,5 2010 [7,2] 11,5 11,7 22,3 17,1 17,9' 1,8 10,3 5,42 2,0 2025 [8,5] 10,11 14,4 21,0 16,9 19,2' 1,5 9,2 4,92 2,8

Note: Cifre calcolate in base ai confini nazionali relativi all'anno indi-cato. Le cifre relative agli anni 1995, 2010 e 2025 sono calcolate in ba-se ai confini del 1994. "In miliardi 1 I dati non includono i membri della Comunità di Stati Indipenden-ti e della Bosnia 2 1 dati includono Comunità di Stati Indipendenti, Georgia ed ex Ju-goslavia Fonti: United Nations, Population Division, Department for Econo-mie and Social Information and Policy Analysis, World Population Pro-speets, The 1992 Revision, New York, United Nations, 1993; Statesman's YearBook, New York, St. Martin's Press, 1901-1927; World Almanac and Book ofFacts, New York, Press Pub. Co., 1970-1993.

Questi mutament i nei livelli di alfabetizzazione, istruzione e urbanizzazione h a n n o creato popolazioni socialmente mobili con maggiori capacità e aspettative, le quali possono essere mobilitate a fini politici in modi impensabili ai tempi dei con-tadini analfabeti . Una nazione con un alto tasso di mobilità so-ciale è più potente . Nel 1953, q u a n d o in Iran la percentuale di alfabetizzazione era inferiore al 15 per cento e la popolazione u r b a n a non raggiungeva il 17 per cento, Kermit Roosevelt e un g ruppe t to di funzionari della Cia soppressero con relativa faci-lità un ' insur rez ione scoppiata in quel paese e re insediarono lo shah sul t rono. Nel 1979, q u a n d o il 50 per cento degli iraniani e rano istruiti e il 47 per cento viveva in città, nessun dispiego di potenza militare americana avrebbe po tu to man tene re lo shah sul t rono. Un significativo divario separa ancor oggi cinesi, in-diani, arabi e africani da occidentali, giapponesi e russi; esso

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tuttavia si sta rap idamente colmando. Al t empo stesso, un nuo-vo e diverso tipo di divario sta oggi p r e n d e n d o forma. L'età media di occidentali, giapponesi e russi si mant iene ormai co-s tantemente stabile, e la maggior percentuale di popolazione che ha smesso di lavorare impone un onere sempre più gravo-so sulla parte produttiva della popolazione. Altre civiltà sono oberate da un gran n u m e r o di bambini , ma i bambini sono fu-turi lavoratori e soldati.

Attività economica. Anche la percentuale occidentale dell'atti-vità economica mondiale ha raggiunto il culmine negli anni Venti, ma a partire dalla Seconda guer ra mondiale ha iniziato a declinare. Nel 1750 la Cina rappresentava quasi un terzo, l 'In-dia quasi un quar to e l 'Occidente m e n o di un quinto della pro-duzione manifat tur iera mondiale . Nel 1830 l 'Occidente aveva superato la Cina, e nei decenni successivi, come osserva Paul Bairoch, l ' industrializzazione del l 'Occidente por tò alla de-in-dustrializzazione nel resto del m o n d o . Nel 1913 la p roduz ione manifat tur iera dei paesi non occidentali era due terzi circa di quella del 1800. Dalla metà del xix secolo, la percentuale occi-dentale crebbe in misura spettacolare, raggiungendo nel 1928 la pun ta massima dell '84,2 per cento della produzione mani-fat turiera mondiale . In seguito, tale percentuale iniziò a decli-nare a causa di un tasso di crescita modesto, n o n c h é della rapi-da espansione produttiva dei paesi m e n o industrializzati d o p o la Seconda guer ra mondiale . Nel 1980, l 'Occidente deteneva il 57,8 per cento della p roduz ione manifat tur iera mondiale , al-l ' incirca la stessa percentuale di 120 anni prima.7

I dati sull'attività economica nel per iodo precedente la Se-conda guer ra mondiale non sono affidabili. Nel 1950, tuttavia, l 'Occidente costituiva all 'incirca il 64 per cento del p rodot to mondia le lordo; negli anni Ottanta , tale percentuale era scesa al 49 per cento (Tabella 4.5). Secondo una stima, nel 1991 quat t ro delle sette maggiori potenze economiche del m o n d o e rano paesi non occidentali: Giappone (al secondo posto), Ci-na (terzo), Russia (sesto) e India (settimo). Nel 1992 gli Stati

7 Paul Bairoch, «International Industrialization Levels from 1750 to 1980», in «Journal of European Economie History», n. 11 (Autunno 1982), pp. 296, 304.

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Tabella 4.4 Suddivisione della produzione manifatturiera mondiale per civiltà o paese, 1750-1980 (in percentuale. Totale = 100%)

Paese 1750 1800 1830 1860 1880 19001913 1928 1938 1953 19631973 1980 Occidente 18,2 23,3 31,1 53,7 68,8 77,4 81,6 84,2 78,6 74,6 65,4 61,2 57,8 Cina 32,8 33,3 29,8 19,7 12,5 6,2 3,6 3,4 3,1 2,3 3,5 3,9 5,0 Giappone 3,8 3,5 2,8 2,6 2,4 2,4 2,7 3,3 5,2 2,9 5,1 8,8 9,1 India/Pakistan24,5 19,7 17,6 8,6 2,8 1,7 1,4 1,9 2,4 1,7 1,8 2,1 2,3 Russia/Urss* 5,0 5,6 5,6 7,0 7,6 8,8 8,2 5,3 9,0 16,0 20,9 20,1 21,1 Brasile/Messico - - - 0,8 0,6 0,7 0,8 0,8 0,8 0,9 1,2 1,6 2,2 Altri 15,7 14,6 13,1 7,6 5,3 2,8 1,7 1,1 0,9 1,6 2,1 2,3 2,5

* Inclusi i paesi del Patto di Varsavia durante gli anni della Guerra fredda Fonte: Paul Bairoch, «International Industrialization Levels from 1750 to 1980», in «Journal of European Economie History», n. 11 (Autunno 1982), pp. 269-334.

Uniti e rano la maggiore economia del mondo , e le pr ime dieci potenze economiche del m o n d o comprendevano c inque paesi occidentali più gli stati leader di altre c inque civiltà: Cina, Giap-pone, India, Russia e Brasile. Stime verosimili indicano che nel 2020 le pr ime cinque economie mondial i appa r t e r r anno a cin-que diverse civiltà e che tra le pr ime dieci vi saranno solo tre paesi occidentali . Il decl ino relativo del l 'Occidente è, ovvia-mente , addebitabile in buona par te al l ' impetuoso sviluppo eco-nomico est-asiatico.8

I semplici dati statistici sull'attività economica nascondono tuttavia gran par te del vantaggio di cui gode l 'Occidente in ter-mini di qualità. L 'Occidente e il Giappone d o m i n a n o quasi comple tamente le industrie a tecnologia avanzata. Queste tec-nologie, tuttavia, vanno ormai sempre più d i f fondendosi nel m o n d o e l 'Occidente - se in tende preservare la propr ia supe-riorità - farà di tutto per con tenere il più possibile tale proces-so di diffusione. Ma propr io a causa degli stretti legami che lo

8 «Economist», 15 maggio 1993, p. 83, che cita l'International Monetary Found, World Economie Outlook, «The Global Economy», in «Economist», 1 ot-tobre 1994, pp. 3-9; «Wall Street Journal», 17 maggio 1993, p. A12; Nicholas D. Kristof, «The Rise of China», in «Foreign Affaire», n. 72 (Novembre-Di-cembre 1993), p. 61; Kishore Mahbubani, «The Pacific Way», in «Foreign Af-faire», n. 74 (Gennaio-Febbraio 1995), pp. 100-3.

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Tabella 4.5 Suddivisione per civiltà dell'attività economica mondiale, 1950-1992 (%)

Anno Occid. Afric. Sinica Indù Islam. Giapp. Latino Ortod." Altre" amer.

1950 64,1 0,2 3,3 3,8 2,9 3,1 5,6 16,0 1,0 1970 53,4 1,7 4,8 3,0 4,6 7,8 6,2 17,4 1,1 1980 48,6 2,0 6,4 2,7 6,3 8,5 7,7 16,4 1,4 1992 48,9 2,1 10,0 3,5 11,0 8,0 8,3 6,2 2,0

La stima relativa alla civiltà ortodossa per il 1992 comprende l'ex Urss e l'ex Jugoslavia * «Altre» comprende altre civiltà e gli errori di approssimazione. Fonti: le percentuali per gli anni 1950, 1970 e 1980 sono state calco-late sulla base dei dati in dollari costanti contenuti in Herbert Block, The Planetary Produci in 1980: A Creative Pause?, Washington D.C., Bu-reau of Public Affaire, U.S. Dept. of State, 1981, pp. 30-45. Le percen-tuali per il 1992 sono state calcolate in base alle stime sulla parità di potere d'acquisto fatte dalla Banca mondiale e contenute nella tabel-la 30 del World Development R£port 1994, New York, Oxford University Press, 1994.

stesso Occidente ha stabilito, rallentare la diffusione di tecno-logia nelle altre civiltà appare impresa sempre più ardua, tanto più in assenza di un specifica e ben riconosciuta minaccia - co-me duran te la Guerra f r edda - che consentiva un (seppur mo-desto) controllo del pa t r imonio tecnologico.

Sembra probabile che, per b u o n a par te della propr ia storia, quella cinese sia stata la maggiore economia del m o n d o . La dif fusione di tecnologia e lo sviluppo economico delle società non occidentali nella seconda metà del xx secolo s tanno oggi p r o d u c e n d o un r i to rno a quella situazione storica. Si t rat terà di un processo lento, ma è probabi le che en t ro la metà del xxi secolo, se non prima, il model lo di distribuzione della produ-zione economica tra le principali civiltà verrà a ricalcare quel-lo del 1800. Il bisecolare domin io occidentale de l l ' economia mondia le giungerà al capolinea.

Capacità militare. La potenza militare ha quat t ro dimensioni: quantitativa (il n u m e r o di uomini , armi, apparecchia ture e ri-sorse); tecnologica (efficacia e sofisticatezza di armi ed appa-recchia ture) ; organizzativa (coesione, disciplina, addestra-

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m e n t o e mora le delle t ruppe , efficacia dei rappor t i di coman-do e di control lo) ; e sociale (capacità e p ropens ione di u n a so-cietà all 'uso della forza mili tare). Negli anni Venti l 'Occidente era mol to più avanti di ch iunque altro in tutte e quat t ro i cam-pi; negli ann i successivi tuttavia la sua potenza militare si è ri-dot ta r ispetto a quella di altre civiltà: un declino, questo, evi-denziato dal muta to r appo r to numer ico del personale milita-re, u n o dei quat t ro e lement i - anche se ovviamente n o n il più impor tan te - che caratterizzano la forza militare di u n paese. Modernizzazione e crescita economica gene rano negli stati il desiderio e le risorse economiche necessarie per sviluppare le p ropr ie capacità militari, e sono ben pochi quelli che vi r inun-ciano. Negli ann i Trenta del Novecento, Giappone e Un ione Sovietica cos t ru i rono u n possente appara to militare, com'eb-bero m o d o di dimostrare nella Seconda guer ra mondia le . Al-l ' epoca della Guer ra f r e d d a l 'Un ione Sovietica era u n a delle due maggiori po tenze militari del m o n d o . Oggi soltanto l 'Oc-cidente è in g rado di dislocare ingenti forze militari conven-zionali in ogni angolo del globo. Che cont inui a m a n t e n e r e ta-le capacità non è affatto sicuro, ma appare ragionevolmente certo, tuttavia, che nessuno stato o g r u p p o di stati n o n occi-dentale svilupperà u n a capacità comparabi le per i prossimi de-cenni.

Nel complesso, per quan to r iguarda l 'evoluzione delle capa-cità militari a livello globale gli anni successivi alla Guer ra fred-da sono stati dominat i da c inque tendenze fondamental i .

1) Le forze armate sovietiche sono state smantellate subito d o p o che l 'Unione Sovietica ha cessato di esistere. A par te la Russia, solo l 'Ucraina ha ereditato u n potenziale militare signi-ficativo. L'esercito russo ha subito u n a drastica r iduzione e si è ritirato dal l 'Europa centrale e dagli stati baltici; il Patto di Var-savia è stato sciolto; l 'obiettivo di competere con la Marina sta-tunitense è stato abbandonato ; le attrezzature militari sono sta-te vendute o p p u r e abbandona te a se stesse e rese inutilizzabili; il bilancio della Difesa ha subito drastici tagli; la demoralizza-zione è dilagata tra le t ruppe come tra il corpo ufficiali. Nel con tempo, i vertici militari russi vanno r idef inendo dot t r ina e ambito operativo, r is trut turandosi in funzione della difesa dei cittadini russi e della soluzione dei conflitti regionali presenti nei paesi limitrofi.

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2) La precipitosa contrazione del l ' appara to militare russo ha stimolato u n a più lenta ma significativa riduzione delle spe-se, dei cont ingent i e del potenziale militare del l 'Occidente . Sotto le amministrazioni Bush e Clinton, il budget militare sta-tunitense ha subito una contrazione del 35 per cento, passando dai 342,3 miliardi di dollari (valuta del 1994) nel 1990 ai 222,3 miliardi nel 1998, a n n o in cui l ' appara to militare nel suo com-plesso oscillerà tra la metà e i due terzi di quello che era alla fi-ne della Guer ra f redda. Il personale militare complessivo pas-serà da 2,1 a 1,4 milioni di unità. Molti dei principali program-mi di a r m a m e n t o sono stati e vengono a tutt 'oggi cancellati. Tra il 1985 e il 1995 gli acquisti annui di armi sono passati da 29 a 6 navi, da 943 a 127 aerei, da 720 a 0 carri armati e da 48 a 18 missili strategici. A partire dalla fine degli anni Ottanta , In-ghilterra, Germania e, in minor misura, Francia h a n n o avviato una parallela contrazione del p ropr io apparato militare e delle spese per la difesa. A metà anni Novanta la Germania prevede-va di por ta re i propr i effettivi da 370.000 a 340.000 o forse an-che a 320.000 unità, e la Francia di passare dalle 290.000 uni tà del 1990 a 225.000 nel 1997. Il personale militare br i tannico è passato da 377.000 unità nel 1985 a 274.800 nel 1993.1 membr i europei della Nato h a n n o inoltre r idot to la dura ta del servizio

Tabella 4.6 Suddivisione per civiltà del personale militare nel mondo (%)

Anno Occid. Afric. Sinica Indù Islam Giapp. Latino Ortod. Altre [Totale1]

Giapp. amer.

1900 [10.086] 43,7 1,6 10,0 0,4 16,7 1,8 9,4 16,6 0,1 1920 [8.645] 48,5 3,8 17,4 0,4 3,6 2,9 10,2 12,8* 0,5 1970 [23.991] 26,8 2,1 24,7 6,6 10,4 0,3 4,0 25,1 2,3 1991 [25.797] 21,1 3,4 25,7 4,8 20,0 1,0 6,3 14,3 3,5

Note: Le stime sono basate sui confini nazionali in vigore nell'anno indicato. 1 In migliaia. " La componente sovietica della cifra è una stima per l'anno 1924 fat-ta da J.M. Mackintosh in B.H. Liddell-Hart, The Red Army: The Red Army 1918 to 1945, The, Soviet Army 1946 to present, New York, Har-court, Brace, 1956. Fonti: U.S. Arms Control and Disarmament Agency, World Military Expenditures and Arms Transfers, Washington, D.C., The Agency, 1971-1994; Statesman's Year-Book, New York, St. Martin's Press, 1901-1927.

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militare di leva e discusso la possibilità di abolire completa-men te l 'istituto della coscrizione.

3) Le tendenze in atto in Asia orientale sono molto diverse da quelle prevalenti in Russia e in Occidente. Aument i delle spese militari e ra f forzamento del l 'apparato militare sono al-l 'ordine del giorno. La Cina ha fat to da battistrada in tal senso. Stimolate sia dalla maggiore prosperi tà in te rna che dall'escala-tion cinese, anche altre nazioni est-asiatiche stanno moderniz-zando ed e spandendo il propr io esercito. Il Giappone ha con-t inuato a migliorare il suo già a l tamente sofisticato appara to militare; Taiwan, Corea del Sud, Thailandia, Malaysia, Singa-pore e Indonesia h a n n o tutte aumenta to le spese per la difesa e s tanno acquistando aerei, carri armati e navi da Russia, Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Germania e altri paesi. Mentre le spese per la difesa della Nato h a n n o registrato tra il 1985 e il 1993 u n a riduzione di circa il 10 per cento passando da 539,6 a 485 miliardi di dollari (valuta del 1993), in Asia orientale sono aumenta te del 50 per cento, passando nello stesso per iodo da 89,8 a 134,8 miliardi di dollari.9

4) Gli arsenali militari, comprese le armi di distruzione di massa, si s tanno d i f fondendo in tutto il mondo . Di pari passo con lo sviluppo economico, i vari paesi acquisiscono la capacità di p r o d u r r e armi. Tra gli anni Sessanta e Ottanta, ad esempio, il n u m e r o di paesi del Terzo M o n d o produt tor i di aerei da combat t imento è passato da u n o a otto; i produt tor i di carri ar-mati, da u n o a sei; di elicotteri, da u n o a sei; di missili tattici, da zero a sette. Gli anni Novanta h a n n o registrato u n a generale tendenza alla globalizzazione dell ' industria per la difesa, cosa che probabi lmente r idurrà ancor più il vantaggio militare del-l 'Occidente." ' Molte società non occidentali o possiedono armi nucleari (Russia, Cina, Israele, India, Pakistan e forse Corea del Nord) , o s tanno ten tando in tutti i modi di en t ra rne in pos-sesso (Iran, Iraq, Libia e forse Algeria) o si s tanno at trezzando in m o d o da poterle avere rap idamente ove se ne verificasse la necessità (Giappone) .

9 International Institute for Strategie Studies, «Tables and Analysis», The Mi-lilary Balance 1994-95, London, Brassey's, 1994. 10 Project 2025, p. 13; Richard A. Bitzinger, The Globalization of Arms Production: Defense Markets in Transition, Washington, D.C., Defense Budget Project, 1993, passim.

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5) Tutte queste linee di sviluppo indicano nella regionaliz-zazione la tendenza principale della strategia e del po tere mili-tari nel m o n d o post-Guerra f redda . Essa fornisce la giustifica-zione logica per la r iduzione del potenziale militare russo e americano e la crescita di quello di altri stati. La Russia non ha più u n a capacità di in tervento militare globale, ma sta concen-t rando la propr ia strategia e le propr ie forze sui paesi dell 'ex impero. La Cina ha or ienta to la propr ia strategia verso u n a proiezione delle propr ie forze al l 'esterno su scala locale e ver-so la difesa degli interessi cinesi in Asia orientale. Anche i pae-si europei s tanno r ior ientando le propr ie forze, sia in sede Na-to sia in sede comunitaria, per far f ron te all'instabilità che per-vade la periferia del l 'Europa occidentale. Gli Stati Uniti h a n n o esplicitamente muta to la propr ia strategia militare da u n a poli-tica di con ten imento e di conf ron to con l 'Unione Sovietica su scala globale a una che le pe rmet ta di far f ronte parallelamen-te alle cont ingenze regionali del Golfo Persico e del Nord-Est asiatico. Non sembra, tuttavia, che gli Stati Uniti abbiano le ca-pacità militari per poter raggiungere questo obiettivo. Per sconfiggere l 'Iraq, l 'America ha dispiegato nel Golfo Persico il 75 per cento della propria flotta di aerei tattici, il 42 per cento dei suoi mode rn i carri armati da guerra , il 46 per cento delle portaerei , il 37 per cento del personale militare di terra ed il 46 per cento di quello di mare. Alla luce della fu tura cospicua ri-duzione delle propr ie forze armate, per gli Stati Uniti sarà già difficile poter effet tuare un intervento, figuriamoci due, con-tro le maggiori potenze regionali esterne all 'emisfero occiden-tale. La sicurezza militare nel m o n d o d ipende sempre più non dalla distribuzione globale del potere e dalle azioni delle su-perpotenze , ma bensì dalla distribuzione del potere a l l ' in terno di ciascuna regione del m o n d o e dal m o d o in cui gli stati guida delle diverse civiltà si muoveranno.

In conclusione, nel complesso l 'Occidente resterà la civiltà più potente fino ai primi decenni del xxi secolo. In seguito, conti-nuerà probabilmente a detenere un sostanziale vantaggio nel campo del personale scientifico, della ricerca e sviluppo e dell'in-novazione tecnologica militare e civile. Il controllo sulle altre fon-ti di potere, tuttavia, sta sempre più suddividendosi tra gli stati guida e i principali paesi delle civiltà non occidentali. Il controllo di queste risorse da parte dell 'Occidente raggiunse il culmine ne-

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gli anni Venti, cui seguì l'inizio di un lento ma signifìcadvo decli-no. Negli anni Venti del Duemila, cento anni dopo aver toccato la punta massima, l 'Occidente controllerà probabilmente il 24 per cento circa della superficie del pianeta (rispetto al 49 per cento di un secolo prima), il 10 per cento di tutta la popolazione mondia-le (rispetto al 48 per cento) e forse il 15-20 per cento della popo-lazione socialmente atdva, circa il 30 per cento dell'attività eco-nomica mondiale (rispetto ad una punta massima verosimile del 70 per cento), forse il 25 per cento della produzione manifattu-riera (rispetto all'84 per cento) e m e n o del 10 per cento del per-sonale militare di tutto il m o n d o (rispetto al 45 per cento).

Nel 1919, Woodrow Wilson, Lloyd George e Georges Clemen-ceau messi insieme controllavano il mondo . Comodamente se-duti a Parigi, decidevano quali paesi avrebbero continuato a esi-stere e quali no; quali nuovi stati sarebbero stati creati, quali ne sarebbero stati i confini e chi li avrebbe governati, e in che m o d o il Medio Oriente e altre parti del m o n d o sarebbero state spartite tra le potenze vincitrici. Decidevano anche in merito a un possi-bile intervento militare in Russia e alle concessioni economiche da imporre alla Cina. Cento anni dopo, nessun g ruppo ristretto di statisti pot rebbe mai detenere un potere paragonabile al loro, e ove mai si creasse non sarebbe certo costituito da tre leader oc-cidentali, ma bensì dai leader degli stati guida delle sette o otto maggiori civiltà del mondo. I successori di Reagan, della That-cher, di Mitterand e di Kohl dovranno rivaleggiare con quelli di Deng Xiaoping, Nakasone, Gandhi , Eltsin, Khomeini e Suharto. L'epoca del dominio occidentale sarà giunta al termine. Nel frat-tempo, il declino dell 'Occidente e la nascita di altri centri di po-tere sta già promuovendo un processo di indigenizzazione a li-vello globale e la rinascita delle culture non occidentali.

Indigenizzazione: la rinascita delle culture non occidentali

La distribuzione delle culture nel m o n d o rispecchia la distri-buzione del potere. Il commercio p u ò seguire o m e n o la ban-diera, ma la cultura segue quasi sempre il potere. Nel corso del-l ' intera storia umana l 'espansione del potere di una civiltà si è di n o r m a verificata paral lelamente al fiorire della propria cul-tura e ha quasi sempre compor ta to il ricorso a quel potere per

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estendere i propri valori, costumi e istituzioni ad altre civiltà. Una civiltà universale richiede u n potere universale. Il potere di Roma creò u n a civiltà quasi universale circoscritta al m o n d o classico. Il potere occidentale, nella veste del colonialismo eu-ropeo nel xix secolo e del l 'egemonia americana nel xx, ha este-so la cultura occidentale a buona par te del m o n d o contempo-raneo. Il colonialismo europeo è scomparso; l 'egemonia ameri-cana va riducendosi; il risultato è un 'eros ione della cultura oc-cidentale via via che usi, costumi, lingue, credenze e istituzioni autoctone di grande tradizione storica to rnano alla ribalta. Il crescente potere che la modernizzazione ha regalato alle so-cietà non occidentali sta po r t ando in tutto il m o n d o a u n a revi-viscenza delle culture non occidentali."

Esiste tuttavia una differenza, ha sostenuto Joseph Nye, tra il «potere coercitivo» {hardpower), vale a dire il potere di coman-dare facendo leva sulla forza economica e militare, e il «potere persuasivo» {softpower), cioè la capacità di u n o stato di indur re «altri paesi a volere ciò che esso stesso vuole» in virtù dell 'attrat-tiva esercitata dalla propria cultura e ideologia. Come lo stesso Nye riconosce, il m o n d o sta assistendo a una grande diffusione del potere coercitivo, e le nazioni maggiori «sono m e n o capaci che in passato di utilizzare le loro fonti di potere tradizionali per raggiungere i propri obiettivi». Nye sostiene quindi che se «la cultura e l ' ideologia [di u n o stato] sono attraenti, gli altri sa-r anno più disposti ad accettare» la sua leadership, per cui il po-tere persuasivo è «altrettanto impor tante del potere di coman-do coercitivo».12 Cos'è, tuttavia, che rende attraenti una cultura e un' ideologia? Esse diventano attraenti quando si ritiene che i loro fondament i siano l 'autorevolezza e il successo materiale. Il potere persuasivo è tale solo q u a n d o poggia su un f o n d a m e n t o

11 II nesso tra potere e cultura viene pressoché totalmente ignorato sia tra i fautori dell'avvento di civiltà universale, sia da chi sostiene che l'occidenta-lizzazione sia un prerequisito della modernizzazione. Essi rifiutano di am-mettere che l'espansione e il consol idamento del dominio occidentale sul m o n d o è una conseguenza logica della loro tesi, e che se si consente ad altre società di determinare autonomamente il proprio destino, queste rinvigori-ranno vecchie credenze, usi e costumi che, secondo i teorici della cultura universale, sono nemici del progresso. Ben di rado, tuttavia, quanti propu-gnano le virtù di una civiltà universale propugnano anche le virtù di un im-pero universale. 12 Joseph S. Nye, «The Changing Nature of World Power», in «Politicai Science Quarterly», n. 105 (Estate 1990), pp. 181-2.

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di po tere coercitivo. Un aumen to di potere coercitivo militare ed economico produce una maggiore autostima, arroganza e convinzione nella superiorità della propria cultura (cioè del po-tere persuasivo) rispetto ad altri popoli, e accresce altresì la pro-pria attrattiva agli occhi di altre società. Una riduzione del po-tere economico e militare genera dubbi, crisi di identità e ten-tativi di trovare in altre culture la chiave del successo economi-co, militare e politico. Quan to più le società non occidentali ac-crescono le propr ie capacità economiche, militari e politiche, tanto più f e rmamente sbandiereranno le virtù della propria cul-tura, dei propr i valori e delle proprie istituzioni.

L'ideologia comunista affascinò i popoli di tutto il m o n d o negli anni Cinquanta e Sessanta, quando fu associata al successo economico e alla potenza militare del l 'Unione Sovietica. Tale fascino svanì allorché l 'economia sovietica iniziò a ristagnare e non fu più in grado di sostenere il potenziale militare del paese. I valori e le istituzioni del l 'Occidente h a n n o affascinato i popo-li di altre culture che vedevano in essi la fonte del suo potere e della sua ricchezza. E un processo che si perpe tua da secoli. Tra il 1000 e il 1300, sostiene William McNeill, il cristianesimo, il di-ritto r o m a n o e altri elementi della cultura occidentale vennero adottati da ungheresi , polacchi e lituani, e questa «accettazione della civiltà occidentale fu stimolata da un misto di paura e am-mirazione per le virtù militari dei sovrani occidentali».13 Via via che il potere del l 'Occidente viene a ridursi, diminuiscono an-che sia la propr ia capacità di imporre ad altre civiltà i suoi idea-li di rispetto per i diritti umani , liberalismo e democrazia, sia l'attrattiva stessa di questi ideali agli occhi di altre civiltà.

Questa inversione di tendenza è del resto già in atto. Per sva-riati secoli i popoli non occidentali h a n n o invidiato il benesse-re economico, la raffinatezza tecnologica, la potenza militare e la coesione politica delle società occidentali. Cercarono il se-greto di questo successo nei valori e nelle istituzioni occidenta-li, e al lorché r i tennero di aver individuato la chiave giusta, ten-ta rono di applicarla alla propr ia società. Per diventare ricchi e potent i occorreva diventare come l 'Occidente. Oggi tuttavia in Asia orientale la teoria kemalista è scomparsa. Le popolazioni

13 William H. McNeill, The Rise oflhe West: A History o/the Human Community, Chicago, University of Chicago Press, 1963, p. 545.

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di questa regione attribuiscono il loro impetuoso sviluppo eco-nomico non all ' importazione della cultura occidentale, quan to viceversa alla rigida adesione alla propr ia cultura. Il successo li premia, sostengono, perché si sono differenziati dall 'Occiden-te. Al t empo in cui si sentivano deboli in rappor to all 'Occiden-te, le società n o n occidentali si r ichiamarono ai valori occiden-tali del l 'autodeterminazione, del liberalismo, della democrazia e de l l ' indipendenza per giustificare la loro opposizione al do-minio occidentale. Adesso che non sono più deboli e che al contrar io diventano sempre più forti, queste stesse società non esitano a scagliarsi cont ro quegli stessi valori in precedenza uti-lizzati per promuovere i propr i interessi. La rivolta contro l 'Oc-cidente venne originariamente legittimata mediante la propu-gnazione dell 'universalità dei valori occidentali; oggi viene le-gittimata mediante la propugnaz ione della superiorità dei va-lori non occidentali.

L ' insorgere di simili at teggiamenti è una manifestazione di quella che Ronald Dore ha defini to il « fenomeno di indigeniz-zazione della seconda generazione». Sia nelle ex colonie occi-dentali che in paesi ind ipendent i come Cina e Giappone, «la pr ima generazione "modernizzatrice" o "post-indipendenza" è stata spesso addestrata in università straniere (occidentali) e ha assorbito u n linguaggio cosmopolita di s tampo occidentale. Forse anche perché q u a n d o si recavano all 'estero per la pr ima volta questi giovani e rano ancora inesperti e faci lmente im-pressionabili, l 'assorbimento di valori e modi di vita occidenta-li poteva risultare molto profondo». Gran parte della (ben più vasta) seconda generazione, viceversa, p u ò studiare in patria, nelle università costruite dalla pr ima generazione e nelle quali p redomina sempre più l ' idioma locale anziché quello colonia-le. Queste università «off rono un contat to mol to più diluito con la cultura metropol i tana internazionale», e «la cultura vie-ne rielaborata in senso autoctono attraverso le traduzioni, soli-tamente di bassa qualità e limitata a pochi ambiti». I laureati in queste università soffrono il p redominio della generazione pre-cedente addestrata all 'estero pe r cui sovente «soggiacciono ai richiami dei movimenti di opposizione localistici».14 Via via che

14 Ronald Dore, «Unity and Diversity in Contemporary World Culture», in Bull e Watson (a cura di), Expansionism of International Society, pp. 420-1.

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l ' influenza occidentale viene a ridursi, i giovani aspiranti leader possono guardare sempre m e n o al l 'Occidente come fon te di potere e ricchezza, e devono trovare la strada per il successo al-l ' in te rno della propria società, adeguandosi perciò ai valori e alla cultura di quella società.

Il processo d ' indigenizzazione n o n deve c o m u n q u e at tende-re l 'avvento della seconda generazione. I dirigenti più capaci, lungimiranti e flessibili della pr ima generazione provvedono infatti a riconvertirsi da sé. Tre illustri esempi al r iguardo sono M o h a m m e d Ali J innah , Har ry Lee e Solomon Bandaranaike. Tutti laureati a pieni voti, rispettivamente a Oxford, Cambridge e Lincoln's Inn, eminent i avvocati ed esponent i p i enamen te occidentalizzati delle élite delle rispettive società. J i n n a h era un convinto laicista. Lee era, secondo le parole di un ministro di gabinet to br i tannico, «il miglior danna to inglese a est di Suez». Bandaranaike fu educato alla fede cristiana. E tuttavia, per po te r guidare i loro paesi a l l ' indipendenza e quindi gover-narli negli anni seguenti dovettero riconvertirsi alle rispettive culture tradizionali cambiando identità, nome, fede e abbiglia-mento . L'avvocato inglese M. A. J i n n a h divenne il pakistano Quaid-i-Azam; Harry Lee diventò Lee Kuan Yew. Il laicista Jin-nah si t rasformò in un fervente sostenitore dell 'Islam quale f o n d a m e n t o dello stato pakistano. L'anglicizzato Lee imparò il manda r ino e divenne un e loquente divulgatore del confucia-nesimo. Il cristiano Bandaranaike si convertì al buddismo e si r ichiamò al nazionalismo singalese.

Indigenizzazione è stata la parola d 'o rd ine in tutto il m o n d o non occidentale negli anni Ot tan ta e Novanta. La rinascita del-l'Islam e la «re-islamizzazione» sono temi centrali nelle società musulmane . In India la tendenza prevalente è il rifiuto degli usi e costumi occidentali e l '«induizzazione» della politica e della società. In Asia orientale i governi p romuovono il confu-cianesimo e i leader politici e intellettuali par lano di «asianiz-zare» i propr i paesi. A metà anni Ot tanta il Giappone fu osses-sionato dal «Nihonjinron, o teoria del Giappone e del giappo-nese». In seguito, un noto intellettuale n ipponico sostenne che storicamente il Giappone ha sempre attraversato «cicli di im-portazione di culture straniere» e altri cicli di «"indigenizzazio-ne" di quelle culture median te duplicazione e ada t tamento , con inevitabili disordini causati all 'esaurirsi degli impulsi crea-

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tivi importati dal l 'Occidente; a questa fase, infine, ne succede-va u n a di r iaper tura al m o n d o esterno». Attualmente il Giap-pone «sta attraversando la seconda fase di questo ciclo».1' Con la fine della Guerra f r edda la Russia è tornata ad essere un pae-se «in bilico», con il r iemergere del classico scontro tra occi-dentalisti e slavofili. Da un decenn io a questa parte, tuttavia, la tendenza generale si è spostata a favore dei secondi, con l'occi-dentalizzato Gorbacèv che ha ceduto il passo a Eltsin, russo nel-lo stile e occidentale nei valori, il quale era a sua volta minac-ciato da Zirinovskij e da altri nazionalisti che incarnavano l'e-p i tome dell ' indigenizzazione ortodossa russa.

Il processo di indigenizzazione è u l ter iormente favorito dal paradosso della democrazia: l 'adozione di istituzioni democra-tiche occidentali da par te delle società non occidentali con-sente lo sviluppo e finanche l'avvento al potere di movimenti politici antioccidentali. Negli anni Sessanta e Settanta del No-vecento i governi occidentalizzati e filoccidentali di vari paesi in via di sviluppo f u r o n o minacciati da rivoluzioni e colpi di sta-to; negli anni Ot tanta e Novanta h a n n o corso e co r rono tutto-ra il rischio sempre maggiore di essere rimossi in seguito a ele-zioni politiche. La democratizzazione fa a pugni con l 'occiden-talizzazione, e quello democrat ico è per sua stessa na tura un processo di provincializzazione anziché d'internazionalizzazio-ne. Gli esponent i politici delle società non occidentali non vin-cono le elezioni facendo vedere a tutti quan to sono occidenta-li. Al contrario, la competizione elettorale li induce ad abbrac-ciare quelli che considerano i valori prevalenti nel paese, e que-sti h a n n o solitamente un carattere etnico, nazionalista e reli-gioso.

Risultato di tutto ciò è la mobilitazione popolare contro le classi dirigenti formatesi in Occidente e d ' ispirazione filocci-dentale. Nelle poche elezioni politiche svoltesi nei paesi mu-sulmani i g ruppi fondamental is t i islamici h a n n o o t tenuto buo-ni risultati e in Algeria sarebbero addiri t tura giunti al potere se l 'esercito non avesse invalidato le elezioni del 1992. In India, la

15 William E. NafF, «Reflections on the Question of "East and West" from the Point of'View ofjapan», in «Comparative Civilizations Review», n. 1 3 / 1 4 (Au-tunno 1985/Primavera 1986), p. 219; Arata Isokazi, «Escaping the Cycle of Eternai Resources», in «New Perspectives Quarterly», n. 9 (Primavera 1992), p. 18.

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ricerca del sostegno popola re ha presumibi lmente incoraggia-to sia gli appelli al l 'unità tribale che la violenza tra comuni tà diverse."' Nello Sri Lanka, la democrazia permise al Partito del-la libertà singalese di scavalcare nel 1956 l 'elitario e filocciden-tale Partito nazionale uni to , e negli anni Ot tanta consentì la nascita del movimento nazionalista singalese Pathika Chinta-naya. Prima del 1949, sia le classi dirigenti del Sud Africa sia quelle del l 'Occidente consideravano la Repubblica Sudafrica-na un paese occidentale. Con l'avvento al potere del regime del l ' apar the id , tuttavia, i governi occidentali iniziarono gra-dua lmente a es t romettere il Sud Africa dal campo occidentale, sebbene i sudafricani di pelle bianca continuassero a conside-rarsi occidentali . Per po te r r ip rendere il propr io posto in seno al l 'ordine internazionale occidentale, questi ultimi h a n n o do-vuto far propr ie le istituzioni democrat iche occidentali, le qua-li a loro volta h a n n o p rodo t to l'ascesa al potere di u n a élite ne-ra fo r t emen te occidentalizzata. Se tuttavia dovesse avere effet to anche qui il fat tore della seconda generazione, i loro successo-ri avranno un aspetto mol to più marca tamente xhosa, zulù e africano, e il Sud Africa finirà sempre più con l 'autoidentifi-carsi come u n o stato africano.

Più volte, pr ima del xix secolo, bizantini, arabi, cinesi, otto-mani, mongol i e russi po te rono vantare la propria forza e i pro-pri successi rispetto a quelli del l 'Occidente . E sempre, in tali occasioni, essi si mos t ra rono sprezzanti dell ' inferiorità cultura-le, dell 'arretratezza istituzionale, della corruzione e della deca-denza occidentali. Via via che i successi del l 'Occidente vengo-no progressivamente a scemare, tali at teggiamenti t e n d o n o a r icomparire. Più potere por ta con sé una maggiore autostima culturale. I popoli non occidentali sen tono di «non essere più costretti a subire». L'Iran è un caso estremo in tal senso ma, co-me ha nota to un osservatore, «i valori occidentali vengono ri-fiutati in modi diversi ma non m e n o decisi anche in Malaysia, Indonesia, Singapore, Cina e Giappone».17 Oggi assistiamo alla «fine del l 'epoca del progresso» dominata dalle ideologie occi-

16 Richard Sission, «Culture and Democratization in India», in Larry Dia-mond, Politicai Culture and Democracy in Deueloping Countnes, Boulder, Lynne Rienner, 1993, pp. 55-61. 17 Graham E. Fuller, «The Appeal ol lran», in «National Interest», n. 37 (Au-tunno 1994), p. 95.

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dentali per entrare in u n ' e r a in cui svariate e diverse civiltà ver-r anno ad interagire, competere , coesistere e adattarsi recipro-camente. '" Questo processo globale di indigenizzazione ha la sua manifestazione più evidente nella reviviscenza della reli-gione in tante parti del m o n d o e, più specificamente, nella ri-nascita culturale in atto nei paesi asiatici ed islamici, in par te generata dal loro dinamismo economico e demografico.

La rivincita di Dio

Nella pr ima metà del xx secolo le élite intellettuali h a n n o di n o r m a creduto che la modernizzazione economica e sociale dovesse por tare alla scomparsa della religione quale e lemento significativo dell 'esistenza umana . Tale convinzione era comu-ne tanto a chi l 'applaudiva quan to a chi la deplorava. I laicisti modernizzatori guardavano con soddisfazione al fatto che la scienza, il razionalismo e il pragmat ismo stessero spazzando via le superstizioni, i miti, gli irrazionalismi e i rituali che e rano al-la base delle religioni esistenti. La società emergente sarebbe stata tollerante, razionale, pragmatica, progressista, umanistica e laica. Dal canto loro, i conservatori mettevano in guardia con-tro le terribili conseguenze che avrebbero accompagna to la scomparsa delle credenze e delle istituzioni religiose e della guida morale offerta dalla religione al compor t amen to u m a n o individuale e collettivo. Il risultato finale sarebbe stato anar-chia, depravazione, distruzione della vita civile. «Se n o n avrai Dio (e Lui è un Dio geloso)», disse T. S. Eliot, «allora dovrai os-sequiare Hitler o Stalin».1'1

La seconda metà del xx secolo ha dimostrato l ' infondatezza di quelle speranze come di quelle paure . La modernizzazione economica e sociale ha raggiunto dimensioni mondiali , eppure al t empo stesso si è verificata una generale rinascita religiosa. Questo f enomeno , la revanche deDieu, come l 'ha definita Gille Kepel, ha interessato tutti i continenti , tutte le civiltà, pratica-men te tutù i paesi. A metà degli anni Settanta, osserva Kepel, la

18 Eisuke Sakakibara, «The End of Progressivism: A Search for New Goals», in «Foreign Affairs», n. 74 (Settembre-Ottobre 1995), pp. 8-14. 19 T. S. Eliot, Idea of a Christian Soàety, New York, Harcourt, Brace and Com-pany, 1940, p. 64 (tr. it. L'idea di una società cristiana, Milano, Edizioni di Co-munità, 1983).

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tendenza alla secolarizzazione e al l 'adat tamento della religione al laicismo imperante «invertì la rotta. Venne alla luce un nuo-vo approccio religioso, volto non più a un adeguamen to ai va-lori laici, bensì al recupero della sacralità invece come fonda-men to dell 'organizzazione della società, se necessario anche attraverso un cambiamento della società stessa. Questa posizio-ne, variamente articolata, invocava il distacco da u n moderni -smo rivelatosi fallace nel m o m e n t o in cui aveva voluto allonta-narsi da Dio. Il pun to in quest ione non era più un aggiorna-mento2", ma u n a «seconda "evangelizzazione del l 'Europa". L'o-biettivo insomma non era più modernizzare l'Islam, ma bensì "islamizzare la modernità"».21

Tale rinascita religiosa ha in par te comporta to l 'espansione di alcune religioni, che h a n n o conquistato nuovi proseliti in so-cietà dalle quali e rano in precedenza assenti. Ma soprattut to ha significato il r i torno e r invigorimento delle religioni tradizio-nali delle rispettive comunità , n o n c h é l 'at tr ibuzione a esse di nuovi significati. Cristianesimo, islamismo, ebraismo, indui-smo, buddismo, ortodossia h a n n o goduto tutte di un rinnovato impulso in termini di adesione e partecipazione popolare . Al-l ' in terno di ciascuna di queste religioni sono sorti movimenti fondamentalist i dediti alla purificazione delle propr ie dot t r ine e istituzioni, nonché a una riconfigurazione dei compor tamen-ti individuali, sociali e pubblici in accordo con i dogmi religio-si. I movimenti fondamental is t i sono un f e n o m e n o di alto pro-filo e possono esercitare un ' impor t an te influenza politica. Tut-tavia, essi sono soltanto le increspature di superficie di una ben più grande e impetuosa ondata religiosa che alla fine del xx se-colo sta d a n d o un nuovo volto all'esistenza umana. La rinascita religiosa in atto in tutto il m o n d o trascende di gran lunga le at-tività degli estremisti fondamental is t i . In un n u m e r o sempre maggiore di società si manifesta nella vita e nel lavoro quoti-diani dei suoi membri , riflettendosi sugli at teggiamenti e sui programmi dei rispettivi governi. La rinascita culturale che nel-la laica cultura confuciana assume l 'aspetto di una diffusione di valori asiatici, nel resto del m o n d o si manifesta attraverso la

20 In italiano nel testo [n .d . t ] 21 Gilles Kepel, Revenge ofGod: The Resurgence of ¡slam, Christianily andJudaism in the Modem World, trad. ingl. University Park, PA, Pennsylvania State Uni-versity Press, 1994, p. 2. (tr. it. La rivincita di Dio, Rizzoli, Milano, 1991).

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diffusione dei valori religiosi. La «de-secolarizzazione del mon-do», ha osservato George Weigel, è u n o dei f enomeni sociali più significativi di questa fine secolo.22

L'onnipresenza e l ' importanza della religione si è manifesta-ta in tutta la sua drammatica evidenza negli ex stati comunisti. Riempiendo il vuoto lasciato dal crollo dell 'ideologia, la rinasci-ta religiosa è divampata in tutti questi paesi, dall 'Albania al Viet-nam. In Russia la fede ortodossa ha avuto u n a vera e propria esplosione. Nel 1994 il 30 per cento dei russi al di sotto dei ven-ticinque anni a f fermò di essere passato dall 'ateismo alla fede in Dio. Il n u m e r o di chiese attive nell 'area di Mosca è passato da 50 nel 1988 a 250 nel 1993. Tutti i leader politici del paese, sen-za distinzione di sorta, sono diventati molto rispettosi della reli-gione e il governo un suo attivo sostenitore. Nelle città russe, commentò nel 1993 un acuto osservatore, «il suono delle cam-pane delle chiese è tornato a r iempire l'aria. Cupole dorate di fresco scintillano al sole. Chiese fino a poco tempo addietro ri-dotte ad un ammasso di rovine oggi riecheggiano di canti me-ravigliosi. Le chiese sono i luoghi più affollati della città».23 Pa-rallelamente alla rinascita dell 'ortodossia nelle repubbliche sla-ve, una reviviscenza islamica ha travolto tutta l'Asia centrale. Nel 1989 esistevano in Asia centrale 160 moschee e un medressah (se-minar io islamico); all'inizio del 1993 c ' e rano circa diecimila moschee e dieci medressah. Benché caratterizzata anche dalla na-scita di alcuni movimenti politici fondamentalist i ed incorag-giata es ternamente da Arabia Saudita, Iran e Pakistan, questo fe-n o m e n o si presenta pr incipalmente come un movimento cultu-rale con u n a base sociale molto vasta.24

Come si spiega una simile rinascita religiosa a livello mon-diale? Ovviamente, esistono fattori specifici operant i in singoli paesi e civiltà. Sarebbe ingenuo, tuttavia, pensare che tante sva-riate cause abbiano p rodo t to sviluppi uguali e simultanei in b u o n a par te del mondo . Un f e n o m e n o di dimensioni generali

22 George Weigel, «Religion and Peace: An Argument Complexif ìed», in «Washington Quarterly», n. 14 (Primavera 1991), p. 27. 23 James H. Billington, «The Case for Orthodoxy», in «New Republic», 30 maggio 1994, p. 26; Suzanne Massie, «Back to the Future», in «Boston Glo-be», 28 marzo 1993, p. 72. 24 «Economist», 8 gennaio 1993, p. 46; James Rupe« , «Dateline Tashkent: Post-Soviet Central Asia», in «Foreign Policy», n. 87 (Estate 1992), p. 180.

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esige u n a spiegazione generale. Per quan to gli eventi succedu-tisi in particolari paesi possano essere stati influenzati da fatto-ri specifici, non c 'è dubbio che debbano esserci state delle mo-tivazioni d 'o rd ine generale. Quali?

La causa più ovvia, saliente e impor tan te è esat tamente la stessa che si pensava spiegasse la mor te della religione: i pro-cessi di modernizzazione sociale, economica e culturale divam-pati nel m o n d o nella seconda metà del xx secolo. Sistemi che avevano offer to ai cittadini identi tà e autori tà sono crollati. Masse di uomin i e d o n n e si spostano dalle campagne alle città, rec idono le loro propr ie radici e si tuf fano in un nuovo lavoro oppure restano disoccupati. Interagiscono con u n a moltitudi-ne di stranieri e stabiliscono nuovi tipi di rapport i sociali. Ne-cessitano di nuove fonti di identificazione, nuove e stabili for-me di comunanza , nuovi corpi di regole morali che d iano un senso e u n o scopo alla loro vita. La religione, sia quella tradi-zionale che quella fondamental is ta , r isponde a tutte queste ne-cessità. Come Lee Kuan Yew ha spiegato a proposito dell'Asia orientale:

Le nostre sono società agricole che si sono industrializzate nel corso di una o due generazioni. Ciò che in Occidente è accaduto nel corso di duecento anni o più, qui sta accadendo nell'arco di cinquant'anni circa o anche meno. Tutto è compresso in un ridottissimo lasso di tempo, ed è dunque inevitabile che vi siano problemi e disfunzioni. Se guardiamo ai paesi in rapido sviluppo - Corea, Thailandia, Hong Kong e Singapore - possiamo notare l'esplosione di un unico feno-meno straordinario: l'avvento della religione. ... I costumi e le reli-gioni tradizionali - il culto degli antenati, lo sciamanesimo - non sod-disfano più appieno. C'è la ricerca di una spiegazione più alta circa il fine dell'umanità, del perché esistiamo. Tutto questo si accompagna a periodi di grande stress sociale.2'

Gli uomini n o n vivono di solo cervello. Non possono pensa-re e agire razionalmente nel perseguimento del p ropr io inte-resse fino a q u a n d o non g iungono a u n a definizione di se stes-si. La politica del profi t to p re suppone u n a identità. In tempi di rapidi mutament i sociali le identità si dissolvono, l ' io deve es-

25 Fareed Zakaria, «Culture Is Destiny: A Conversation with Lee Kuan Yew», in «Foreign Affairs», n. 73 (Marzo-Aprile 1994), p. 118.

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sere ridefinito, occorre creare nuove identità. Le questioni di identità assumono priorità rispetto a quelle di interesse. Gli uo-mini sen tono il bisogno di capire: Chi sono? A chi appar tengo? La rel igione o f f re risposte soddisfacenti , e i g ruppi religiosi rappresen tano piccole comuni tà sociali in grado di sostituire quelle pe rdu te a seguito de l l ' inurbamento . Tut te le religioni, ha osservato Hassan Al-Turabi, forniscono «un senso di iden-tità e o r i en tamen to nella vita». In tale processo, inoltre, gli uo-mini r i scoprono le p ropr ie identi tà storiche o ne creano di nuove. Q u a l u n q u e fine universalistico possano avere, le reli-gioni forn iscono agli uomini un senso di identità stabilendo u n a distinzione di f o n d o tra credent i e non credenti , tra un «noi» super iore ed un «altro» diverso e inferiore.2r>

Nel m o n d o musulmano, sostiene Bernard Lewis, si è avuta u n a «tendenza r icorrente , in tempi di emergenza, ad indivi-duare la propr ia fonte principale di identità e di fedeltà nella comuni tà religiosa, vale a dire in un ' ident i tà definita non già da criteri etnici o geografici bensì dall 'islamismo». Anche Gil-les Kepel sottolinea l ' importanza fondamenta le di questa ricer-ca di identità: «La re-islamizzazione "dal basso" è innanzi tut to un m o d o di ricostruire un ' ident i tà in un m o n d o che ha perdu-to di significato ed è diventato amor fo ed alienante».27 In India, «una nuova identità indù è in via di costituzione» come risposta alle tensioni ed all 'alienazione creata dalla modernizzazione».2" In Russia, la rinascita religiosa è il risultato «di u n o s t renuo de-siderio di trovare un ' ident i tà che solo la Chiesa ortodossa, uni-co legame ancora n o n reciso con il p ropr io passato millenario, p u ò offrire», così come nelle repubbl iche islamiche la medesi-ma rinascita deriva «dalle più p ro fonde aspirazioni dei popoli centroasiatici: poter a f fe rmare quelle identità che Mosca aveva soppresso per decenni».2 91 movimenti fondamentalist i , in par-

26 Hassan Al-Turabi, «The Islamic Awakening's Second Wave», in «New Per-spectives Quarterly», n. 9 (Estate 1992), pp. 52-5; Ted G. Jelen, The Politicai Mohilization ofReligious Belief, New York, Praeger, 1991, p. 55 sgg. 27 Bernard Lewis, «Islamic Revolution», in «New York Review of Books», 21 gennaio 1988, p. 47; Kepel, Revenge of God, p. 82. 28 Sudhir Kakar, «The Colors of Violence: Cultural Identities, Religion, and Conflict», manoscritto inedito, cap. 6, «A New Hindu Identity», p. 11. 29 Suzanne Massie, «Back to the Future», p. 72; Rupert, «Dateline Tashkent», p. 180.

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ticolare, rappresentano «un m o d o di superare l 'esperienza del caos, la perdi ta d ' identi tà , di o r ien tamento e di s t rut ture socia-li sicure causate dalla rapida in t roduzione di modelli politici e sociali di s tampo occidentale, del laicismo, della cultura scien-tifica e dello sviluppo economico». I «movimenti [ fondamen-talisti] davvero important i», concorda William H. McNeill, «...sono quelli che f a n n o proseliti in tutti gli strati sociali e si d i f f o n d o n o pe rché r i spondono , o sembrano r ispondere , ai nuovi bisogni de l l 'uomo. ... Non è un caso che tutti questi mo-vimenti siano sorti in paesi in cui la pressione demograf ica r ende impossibile per gran par te della popolazione il perpe-tuarsi del vecchio model lo del villaggio e in cui le comunica-zioni di massa, impernia te su u n o stile di vita u rbano , pene-t rando nei villaggi h a n n o iniziato a corrodere una tradizione di vita agreste vecchia di secoli».1"

Più in generale, il rifiorire della religione in tutto il m o n d o è una reazione al laicismo, al relativismo morale e all 'autoindul-genza, e la riproposizione di valori quali l 'ordine, la disciplina, il lavoro, l 'aiuto reciproco e la solidarietà. I gruppi religiosi vengo-no incontro ai bisogni sociali lasciati insoddisfatti dalle organiz-zazioni statali. Questi comprendono servizi medici ed ospedalie-ri, asili n ido e scuole, assistenza agli anziani, pronto intervento in caso di terremoti ed altre catastrofi, sostegno sociale ed assisten-ziale in periodi di difficoltà economiche. La disgregazione del-l 'ordine e della società civile crea dei vuoti che a volte vengono riempiti dai gruppi religiosi, spesso fondamentalisti.11

Se le religioni tradizionali dominant i non soddisfano i biso-gni emotivi e sociali dei disadattati, altri g ruppi religiosi prov-vedono a farlo, accrescendo in tal m o d o sia la propr ia consi-stenza numer ica che l ' importanza della religione nella vita so-ciale e politica. La Corea del Sud è sempre stata per tradizione un paese prevalentemente buddista, con una presenza cristiana »

30 Rosemary Radford Ruther, «A World 011 Fire with Faith», in «New York Ti-mes Book Review», 26 gennaio 1992, p. 10; William H. McNeill, «Fundamen-talism and the World of the 1990s», in Martin E. Marty e R. Scott Appleby (a cura di), Fundamentalisms and Society, Chicago, University of Chicago Press, 1993, p. 561. 31 «New York Times», 15 gennaio 1993, p. A9; Henry Clement Moore, Images of Development: Egyptian Engineers in Search of Industry, Cambridge, M.I.T. Press, 1980, pp. 227-8.

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valutabile nel 1950 in to rno all'1-3 per cento. Q u a n d o il paese imboccò la strada di rapido sviluppo economico, con u n a mas-siccia urbanizzazione e u n a for te differenziazione occupazio-nale, il buddismo si rivelò del tutto inadeguato. «Per i milioni di persone riversatesi nelle città e per molti di coloro che rima-sero in una campagna c o m u n q u e stravolta, il quiescente bud-dismo della vecchia epoca agraria perse tutto il suo fascino. Il cristianesimo, con il suo messaggio di salvezza personale e di dest ino individuale, offriva un confor to più sicuro in u n ' e p o c a di confus ione e mutamento».3 2 A metà anni Ot tanta i cristiani, per la gran par te presbiteriani e cattolici, rappresentavano al-m e n o il 30 per cento della popolazione sudcoreana.

Un mu tamen to simile e parallelo si è verificato in America latina. Qui il n u m e r o dei protestanti è passato da 7 milioni cir-ca nel 1960 a 50 milioni nel 1990.1 motivi di tale successo, am-misero i vescovi cattolici lat inoamericani nel 1989, comprende-vano la «lentezza [della Chiesa cattolica] nel l 'adeguarsi agli aspetti tecnici della vita urbana» e «la sua struttura, che a volte la r ende incapace di r i spondere ai bisogni psicologici dell 'uo-mo moderno» . A differenza della Chiesa cattolica, ha osservato un sacerdote brasiliano, le chiese protestanti soddisfano «i bi-sogni più intimi del l 'uomo: calore umano , confor to , profon-dità dell 'esperienza spirituale». La diffusione del protestantesi-m o tra i poveri dell 'America latina non significa tanto la sosti-tuzione di una religione con un'al tra , quanto piuttosto u n a cre-scita de l l ' impegno e della partecipazione religiosa nella misura della crescita della popolazione protestante. In Brasile, ad esempio, nei primi anni Novanta il 20 per cento della popola-zione si definiva protestante e il 73 per cento cattolica, eppure la domenica 20 milioni di persone si recavano nelle chiese pro-testanti e circa 12 milioni in quelle cattoliche.33 Al pari delle al-tre religioni universali, il cristianesimo sta vivendo un momen-to di rinascita connesso alla modernizzazione, e in America la* tina ha acquisito u n a fo rma protestante più che cattolica.

32 Henry Scott Stokes, «Korea's Church Militant», in «New York Times Ma-gazine», 28 novembre 1972, p. 68. 33 Rev. Edward J. Dougherty, S. J., in «New York Times», 4 luglio 1993, p. 10; Timothy Goodman, «Latin America's Reformation», in «American Enterpri-se», n. 2 (Luglio-Agosto 1991), p. 43; «New York Times», 11 luglio 1993, p. 1; «Time», 21 gennaio 1991, p. 69.

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In Corea del Sud e in America latina, mutament i di ugual se-gno rif let tono l ' incapacità del budd i smo e del cattolicesimo tradizionale di soddisfare i bisogni psicologici, emotivi e sociali di quanti subiscono i traumi della modernizzazione, ment re in altre parti del m o n d o l 'entità del f e n o m e n o d ipende dalla mi-sura in cui la religione prevalente è in grado di soddisfare tali bisogni. Alla luce della sua aridità emotiva, il confucianesimo appare par t icolarmente vulnerabile. Nei paesi confuciani, pro-testantesimo e cattolicesimo po t rebbero esercitare un'attrattiva simile a quella esercitata dal protestantesimo evangelico sui la-t inoamericani, dal cristianesimo sui sudcoreani e dal fonda-mentalismo su musulmani e induisti. Nella Cina di fine anni Ottanta, con la crescita de l l ' economia anche il cristianesimo andò di f fondendosi «soprattutto tra i giovani». Oggi i cinesi cristiani sono forse 50 milioni. Il governo ha tentato di impedi-re la loro proliferazione ar res tando ministri del culto, missio-nari ed evangelisti, vietando e soppr imendo cer imonie e atti-vità religiose nonché , nel 1994, varando u n a legge che proibi-sce agli stranieri di fare proselitismo o di organizzare scuole o altre organizzazioni religiose e vietando ai gruppi religiosi di in t raprendere attività ind ipendent i e finanziate dall 'esterno. A Singapore, come in Cina, circa il 5 per cento della popolazione è cristiana. Tra la fine degli anni Ot tanta e i primi anni Novan-ta il governo ammonì gli evangelisti a non sconvolgere «i deli-cati equilibri religiosi» del paese, gettò in carcere gli attivisti, ivi compresi alcuni funzionar i delle organizzazioni cattoliche, e vessò in vario m o d o gruppi e persone di fede c r i s t i a n a . C o n la fine della Guerra f r edda ed il susseguente rilassamento del cli-ma politico, le chiese occidentali sono penetra te anche nelle ex repubbliche sovietiche ortodosse, compe tendo con le rivitaliz-zate chiese locali. Anche qui, come in Cina, si è tenta to di stroncare la loro opera di proselitismo. Nel 1993, su richiesta della Chiesa ortodossa il par lamento russo approvò un decreto che imponeva ai gruppi religiosi stranieri che in tendevano compiere attività pedagogiche o missionarie di farsi accreditare presso lo stato o di affiliarsi a un 'organizzazione religiosa russa. Il presidente Eltsin, tuttavia, si rifiutò di t ramutare tale decre to

34 «Economist», 6 maggio 1989, p. 23; 11 novembre 1989, p. 41; «Times» (Londra), 12 aprile 1990, p. 12; «Observer», 27 maggio 1990, p. 18.

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in legge.'1 Da quanto è dato di vedere, sembra c o m u n q u e che nel complesso la revanche deDieu premi prevalentemente le re-ligioni locali: solo laddove i bisogni spirituali ravvivati dalla mo-dernizzazione non vengono soddisfatti dalle fedi tradizionali la gente si rivolge a religioni d ' impor taz ione emotivamente più appaganti .

Ol t re ai traumi psicologici, emotivi e sociali della moderniz-zazione, altri stimoli alla rinascita religiosa sono stati la ritirata del l 'Occidente e la fine della Guerra f redda. A part ire dal xix secolo, gli atteggiamenti delle civiltà non occidentali nei con-front i de l l 'Occidente si sono evoluti attraverso u n a serie di ideologie impor ta te dal l 'Occidente . Nel l 'Ot tocento , le élite non occidentali assimilarono i valori liberali occidentali, e le lo-ro pr ime manifestazioni di opposizione all 'Occidente vestirono i panni del nazionalismo liberale. Nel xx secolo, le élite russe, asiatiche, arabe, afr icane e la t inoamericane impor t a rono l'i-deologia socialista e marxista, cui coniugarono il nazionalismo come s t rumento di opposizione all ' imperialismo occidentale. Il crollo del comunismo in Unione Sovietica, le p ro fonde mo-difiche cui è stato sottoposto in Cina e la comprovata incapa-cità delle economie socialiste di creare u n o sviluppo adeguato h a n n o prodot to un vuoto ideologico. Governi, g ruppi e orga-nismi internazionali del l 'Occidente, quali ad esempio il Fondo monetar io internazionale e la Banca mondiale , h a n n o tentato di r iempire questo vuoto con le dot tr ine della neo-ortodossia economica e della democrazia politica. Non si sa in che misura tali dot t r ine po t ranno avere un impatto dura turo sulle culture non occidentali. Nel f ra t tempo, tuttavia, i popoli vedono nel comunismo nient 'a l t ro che l 'ul t imo deus laico sconfitto, e in assenza di nuove e seducenti divinità secolari si volgono con sollievo e passione al Dio religioso. La religione viene d u n q u e a sostituire l ' ideologia, e il nazionalismo religioso soppianta il nazionalismo laico.31'

I movimenti per la rinascita religiosa sono antisecolari, an-tiuniversalistici e, a eccezione di quelli d ' ispirazione cristiana, antioccidentali . Rifiutano altresì il relativismo, l 'egotismo e il

35 «New York Times», 16 luglio 1993, p. A9; «Boston Globe», 15 luglio 1993, p. 13. 36 Si veda Mark Juergensmeyer, The New Colà War? Religious Nationalism Con-fronti the Serular State, Berkeley, University of California Press, 1993.

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consumismo associati a quello che Bruce B. Lawrence ha defi-nito «modernismo» come f e n o m e n o distinto dalla «moder-nità». Nel complesso, questi movimenti non respingono feno-meni quali urbanizzazione, industrializzazione, sviluppo, capi-talismo, scienza e tecnologia e tut to quan to essi implicano per l 'organizzazione della società. In tal senso, non sono affat to an-t imoderni . Accettano, come osserva Lee Kuan Yew, la moder-nizzazione, «l'inevitabilità della scienza e della tecnologia non-ché il cambiamento di modi di vita che esse comportano»; essi tuttavia sono «sordi all ' idea di farsi occidentalizzare». Né il na-zionalismo né il socialismo, a f ferma Al-Turabi, h a n n o prodot to sviluppo nel m o n d o islamico. «La religione», per contro, «è il motore dello sviluppo», e un islamismo purificato svolgerà nel-l 'epoca con temporanea un ruolo paragonabile a quello avuto dall 'etica protestante nella storia del l 'Occidente . Né la religio-ne è incompatibile con lo sviluppo di u n o stato moderno . 3 ' I movimenti fondamental is t i islamici h a n n o o t tenu to maggior successo nelle società musu lmane più avanzate e apparente-mente più laicizzate quali Algeria, Iran, Egitto, Libano e Tuni-sia.18 I movimenti religiosi, e in particolare quelli fondamenta-listi, sono molto abili nello sfrut tare le più m o d e r n e tecniche organizzative e comunicative per d i f fondere il loro messaggio, come dimostra lo spettacolare successo o t tenuto dal tele-evan-gelismo protestante in America centrale.

I protagonisti della rinascita religiosa provengono da tutte le classi sociali, ma in particolare da due ceti, ent rambi di estra-zione u rbana ed entrambi socialmente mobili. Gli e lementi di fresca urbanizzazione h a n n o genera lmente bisogno di soste-gno e guida emotiva, sociale e materiale, tutte cose che i grup-pi religiosi o f f rono più di ch iunque altri. Per loro, come ha os-servato Régis Debray, la religione non è «l 'oppio dei popoli, ma la vitamina dei deboli».39 L'altro ceto principale è la nuova classe media in cui si incarna il « fenomeno dell 'indigenizzazio-

37 Zakaria, «Conversation with Lee Kuan Yew», cit., p. 118; Al-Turabi, «Isla-mic Awakening», p. 53. Si veda Terrance Carroll, «Secularization and States of Modernity»^ in «World Politics», n. 36 (Aprile 1984), pp. 362-82. 38 John L. Esposito, The Islamic Threat: Mith or Reality, New York, Oxford Uni-versity Press, 1992, p. 10. 39 Régis Debray, «God and the Political Planet», in «New Perspectives Quar-terly», n. 11 (Primavera 1994), p. 15.

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ne della seconda generazione» rilevato da Dorè. Nei paesi mu-sulmani come altrove, la rinascita religiosa è un f e n o m e n o ur-bano e coinvolge persone di mentali tà moderna , istruite, im-pegnate in carriere di successo in ambito professionale, statale e commerciale.1" Tra i musulmani , i giovani sono religiosi, i lo-ro genitori laici. Pressoché uguale è la situazione con l ' indui-smo, dove i leader dei rinati movimenti religiosi appa r t engono alla seconda generazione indigenizzata e sono spesso «impren-ditori e amministratori di successo» che la stampa indiana eti-chetta come «Scuppies», yuppie color zafferano. I loro sosteni-tori dei primi anni Novanta provenivano in misura sempre maggiore dalle fila della «solida classe media indù dell 'India», cioè «commercianti e ragionieri, avvocati ed ingegneri»; oppu-re dai ranghi ciei suoi «alti funzionari pubblici, intellettuali e giornalisti».11 In Corea del Sud, negli anni Sessanta e Settanta gente della stessa estrazione cominciò ad affollare le chiese cat-toliche e presbiteriane.

La religione, autoctona o importa ta che sia, o f f re dei valori ed un senso di o r ien tamento alle élite emergent i delle società in via di modernizzazione. «L'attribuire valore a u n a religione tradizionale», ha osservato Ronald Dorè, «è una rivendicazione di pari dignità nei confront i delle altre nazioni dominanti , non-ché spesso - come obiettivo più immedia to - di u n a classe diri-gente locale che ha abbracciato valori e stili di vita di quelle stesse nazioni». «Più di ogni altra cosa», osserva William Mc-Neill, «la r iaffermazione dell ' islamismo, quale che sia la fo rma specifica di settarismo da esso assunta, significa il r ipudio del-l ' inf luenza americana e europea sulla società autoctona, sulle sue scelte politiche e sui suoi valori morali».12 In tal senso, la ri-nascita delle religioni non occidentali è la più possente mani-festazione di antioccidentalismo esibita dalle società non occi-dentali. Non costituisce un rifiuto della moderni tà : è un rifiuto

40 Esposito, hlximic Threat, p. 10; Gilles Kepel, cit. in Sophie Lannes, «La re-vanche de Dieu - Interview with Gilles Kepel», in «Geopolitique», n. 33 (Pri-mavera 1991), p. 14; Moore, Images of Development, pp. 214-6. 41 Juergensmeyer, The New Gold War, p. 71; Edward A. Gargan, «Hindu Rage Against Muslims Transforming Indiati Politics», in «New York Times», 17 set-tembre 1993, p. Al; Khushwaht Singh, «India, the Hindu State», in «New York Times», 3 agosto 1993, p. A l 7 . 42 Dorè in Bull e Watson (a cura di), Expansion of International Society, p. 411; McNeill in Martv e Appleby (a cura di), Fundamentalisms and Society, p. 569.

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del l 'Occidente e della cultura laica, relativista e degenera ta ad esso associata. E un rifiuto di quella che è stata definita l'«in-tossicazione occidentale» delle società non occidentali. E una dichiarazione di ind ipendenza culturale dal l 'Occidente, la fie-ra dichiarazione che «saremo modern i , ma non saremo come voi».

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CAPITOLO QUINTO Economia, demograf ia e civiltà antagoniste

Indigenizzazione e rinascita religiosa sono f enomen i di di-mensioni globali. Tuttavia si sono palesati con maggiore evi-denza nel tentativo di af fermazione della propr ia identità cul-turale da parte dell'Asia e dell 'Islam e dalla sfida che tali civiltà, le più d inamiche dell 'ul t imo quar to del xx secolo, h a n n o lan-ciato al l 'Occidente. La sfida islamica si esplicita nella dilagante rinascita culturale, sociale e politica dell ' islamismo nel m o n d o musu lmano e nel parallelo rifiuto dei valori e delle istituzioni occidentali. La sfida asiatica trova espressione in tutte le civiltà est-asiatiche - sinica, giapponese, buddista e musulmana - e ri-marca le differenze culturali rispetto al l 'Occidente nonché , a volte, certi e lementi comuni , identificati per lopiù nel confu-cianesimo. Asiatici e musulmani p roc lamano entrambi la supe-riorità della propr ia cultura rispetto a quella occidentale. Per contro, i popoli di altre civiltà non occidentali - indù, ortodos-sa, lat inoamericana, africana - pu r r ivendicando il carattere di-stintivo della propria cultura, quan to m e n o fino a metà anni Novanta esitavano a proclamare la propr ia superiorità su quel-la occidentale. Asia e Islam sono d u n q u e sole, e a volte alleate, nella loro sfida all 'Occidente.

Dietro queste sfide vi sono motivi correlati ma diversi. Il desi-derio di affermazione asiatico si fonda sulla crescita economica; quello musulmano scaturisce in considerevole misura dalla mo-bilità sociale e dallo sviluppo demografico. Ent rambe le sfide h a n n o - e cont inueranno ad avere nel xxi secolo - conseguenze for temente destabilizzanti sul quadro politico mondiale. La na-tura di tali conseguenze, tuttavia, differisce in m o d o significati-vo. Lo sviluppo economico della Cina e delle altre società asiati-che fornisce ai rispettivi governi gli incentivi e le risorse neces-sari a supportare una maggior intransigenza nei rapport i con gli altri paesi. La crescita demografica nei paesi musulmani, e in

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particolare l 'espansione della fascia d 'e tà compresa tra i quin-dici e i ventiquattro anni, al imenta il fondamental ismo, il terro-rismo, l ' insurrezionismo e il flusso migratorio. La crescita eco-nomica rafforza i governi asiatici, quella demografica minaccia i governi musulmani e le società non musulmane.

L'affermazione asiatica

Lo sviluppo economico dell'Asia orientale è stato u n o dei fe-nomeni più significativi della seconda metà del xxi secolo. Ha avuto origine in Giappone negli anni Cinquanta, e per un certo periodo si pensò che il Giappone fosse la tipica eccezione che conferma la regola: un paese non occidentale modernizzatosi con successo e diventato economicamente sviluppato. Invece, il processo di sviluppo economico si diffuse alle «quattro tigri» (Hong Kong, Taiwan, Corea del Sud, Singapore), per allargarsi poi a Cina, Malaysia, Thailandia e Indonesia e infine alle Filippi-ne, all 'India e al Vietnam. Tutti questi paesi da oltre un decennio sostengono tassi medi di crescita annua dell'8-10 per cento e ol-tre. Un 'espansione altrettanto spettacolare degli scambi com-merciali ha avuto luogo dappr ima tra l'Asia e il resto del m o n d o e quindi all ' interno del continente asiatico. Questa per formance economica contrasta in modo stridente con il modesto tasso di crescita delle economie europea ed americana e con la stagna-zione che ha colpito buona parte del resto del mondo .

L'eccezione, d u n q u e non è più limitata al solo Giappone, ma sta investendo l ' intero cont inente asiatico. Le equazioni Occi-dente = ricchezza, non-Occidente = sottosviluppo non sopravvi-veranno al xx secolo. La trasformazione è stata sorprendente-mente rapida. Come ha osservato Kishore Mahbubani , Gran Bretagna e Stati Uniti impiegarono rispettivamente cinquantot-to e quarantasette anni per raddoppiare la loro produzione pro capite; il Giappone ci è riuscito in trentatré anni, l ' Indonesia in diciassette, la Corea del Sud in undici e la Cina in dieci. Negli anni Ot tanta e nella prima metà degli anni Novanta l 'economia cinese è cresciuta a un tasso medio a n n u o dell '8 per cento, se-guita a ruota dalle tigri asiatiche (Figura 5.1). «L'area economi-ca cinese», dichiarò la Banca mondiale nel 1993, è diventata il «quarto polo di sviluppo» del m o n d o accanto a Stati Uniti,

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Giappone e Germania. Quasi tutte le stime concordano sul fat-to che all'inizio del xxi secolo l 'economia cinese diventerà la pr ima del mondo . Se negli anni Novanta l'Asia annoverava tra le sue fila la seconda e la terza maggiore economia del mondo , entro il 2020 pot rebbe vantarne quattro tra le pr ime cinque e sette tra le pr ime dieci. Per quella data le società asiatiche po-trebbero rappresentare oltre il 40 per cento dell'attività econo-mica mondiale . Anche la maggior parte delle economie più competitive saranno probabi lmente asiatiche.1 Se anche la cre-scita economica asiatica si stabilizzasse più rapidamente di quan-to ci si at tende, le conseguenze dello sviluppo raggiunto sino a oggi sarebbero già enormi sia per l'Asia sia per il m o n d o intero.

Lo sviluppo economico dell'Asia orientale sta al terando gli equilibri di potere tra Asia e Occidente, e in particolare con gli Stati Uniti. Una forte crescita economica genera autostima e de-siderio di affermazione in chi la produce e ne beneficia. La ric-chezza, al pari del potere, è considerata una prova di virtù, una dimostrazione di superiorità morale e culturale. Una volta rag-giunto il successo economico, gli est-asiatici hanno valorizzato la propria cultura, a f fermando la superiorità dei propri valori e del proprio stile di vita rispetto a quelli dell 'Occidente e di altri pae-si. Le società asiatiche sono sempre meno ricettive alle richieste e agli interessi degli Stati Uniti e sempre più in grado di resistere alle pressioni americane o di altri paesi occidentali.

U n a «rinascita culturale», osservò nel 1993 l 'ambasciatore Tommy Koh, «sta scuotendo l ' intera Asia». Essa compor ta una «sempre maggiore fiducia in sé», il che significa che gli asiatici «non considerano più tutto quan to è occidentale o amer icano come il meglio».2 Questa rinascita si manifesta in modo sempre più marcato sia nell ' identi tà culturale dei singoli paesi asiatici, sia nei valori comuni alle culture asiatiche che le dis t inguono dalla cultura occidentale. Il significato di questo processo è ben visibile nel mu tamen to in atto nei rapport i tra le due maggiori società est-asiatiche e la cultura occidentale.

1 Kishore Mahbubani, «The Pacific Way», in «Foreign Affairs», n. 74 (Gennaio-Febbraio 1995), pp. 100-3; IMD Executive Opinion Survey, in «Economist», 6 maggio 1995, p. 5; World Bank, Global Economie Prospects and the Developing Countries 1993, Washington, 1993, pp. 66-7. 2 Tommy Kohl, America's Role in Asia: Asian Views, Asia Foundation, Center for Asian Pacific Affairs, Report No. 13, Novembre 1993, p. 1.

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• USA — r— Tigri • • •• • • Giappone

— — C i n a •••••••••Europa

Fonte: World Bank, World Tables 1995, 1991, Baltimore, J o h n s Hopkins Uni-versity Press, 1995, 1991; Directorate-General of Budget, Account ing and Sta-tistics, R. O. C., Statistical Abstract of National Incoine, Taiwan Area, Republic of China, 1951-1995 Nota: i dati illustrati rappresentano m e d i e ponderate triennali.

In seguito alla penetrazione occidentale in Cina e Giappone alla metà del xix secolo, d o p o una t emporanea infatuazione per il kemalismo le élite dominant i op ta rono per una strategia riformista. Con la Restaurazione Meiji in Giappone salì al po-tere un dinamico g ruppo di r iformatori , che studiarono e adot-tarono tecniche, costumi e istituzioni occidentali, avviando co-sì il processo di modernizzazione del paese. Nel contempo, tut-tavia, fecero in modo da preservare i tratti salienti della cultura tradizionale nipponica, il che contr ibuì sotto molti aspetti al processo di modernizzazione e permise al Giappone di r ipren-dere, r i formulare e utilizzare certi e lementi della loro tradizio-ne per giustificare e legittimare la politica imperialista perse-guita negli anni Trenta e Quaran ta di questo secolo. In Cina,

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invece, la decadente dinastia Ching non fu capace di adattarsi al l ' impatto con l 'Occidente: il paese finì sconfitto, sfruttato e umiliato dal Giappone da un lato e dalle potenze europee dal-l 'altro. Al crollo della dinastia nel 1910 seguirono divisioni, guer ra civile e il r ichiamo da par te di leader politici ed intellet-tuali di diverse ideologie a valori e principi occidentali in con-trasto tra loro: i tre precetti di Sun Yat Sen - «Nazionalismo, Democrazia e Benessere», il l iberismo di Liang Ch'i-ch'ao, il Marxismo-Leninismo di Mao Tse-tung. Alla fine degli anni Quaran ta il model lo sovietico finì col prevalere sui valori occi-dentali - nazionalismo, liberalismo, democrazia, cristianesimo - e la Cina divenne u n a società socialista.

In Giappone, la disfatta subita nella Seconda guer ra mon-diale produsse un caos culturale non m e n o generalizzato. «E molto difficile per noi», osservò nel 1994 un occidentale esper-to di cose nipponiche, «capire oggi appieno come tutto - reli-gione, cultura, ogni singolo aspetto dell 'esistenza intellettuale di questo paese - fosse stato messo al servizio della guerra . La sconfitta bellica fu per i giapponesi u n o shock assoluto».1 Ne conclusero che l ' intero sistema n ipponico fosse da buttare, men t re tutto quanto proveniva dal l 'Occidente e in particolare dalla potenza vincitrice, gli Stati Uniti, finì per diventare buono e desiderabile. E, così, come la Cina emulava l 'Unione Sovieti-ca, il Giappone tentò di emulare l 'America.

Alla fine degli anni Settanta, l ' incapacità del comunismo di p r o d u r r e sviluppo economico e il successo del capitalismo in Giappone e poi sempre più anche in altre società asiatiche con-vinsero la nuova classe dirigente cinese ad allontanarsi dal mo-dello sovietico. Il crollo dell 'Urss un decennio più tardi ratificò l ' inadeguatezza di tale modello. A questo punto , i cinesi dovet-tero af f rontare il d i lemma se volgersi a Occidente oppure pun-tare su se stessi. Molti intellettuali e altre personalità invocaro-no la completa occidentalizzazione del paese, u n a tendenza che raggiunse il culmine sia culturale che di popolari tà con la serie televisiva RiverElegy e con la «Dea della democrazia» eret-ta in Piazza T ienanmen . Questo or ien tamento filoccidentale, tuttavia, non trovò il sostegno né delle poche centinaia di per-sone che contavano a Pechino, né degli o t tocento milioni di

3 Alex Kerr, «Japan Times», 6 novembre 1994, p. 10.

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contadini che abitavano le campagne. La completa occidenta-lizzazione non era più realizzabile nel xx secolo di quan to lo fosse alla fine del xix. La leadership cinese scelse invece u n a nuova versione di Ti-Yong. capitalismo e partecipazione all'eco-nomia mondiale da un lato, autori tarismo e r i torno alla tradi-zionale cultura cinese dall 'altro. Alla legittimità rivoluzionaria del Marxismo-Leninismo il regime sostituì da un lato la legitti-mità produttivistica derivante dal l ' impetuoso sviluppo econo-mico e dall 'altro quella nazionalista fomenta ta attraverso il ri-chiamo ai tratti distintivi della cultura cinese. «Il regime post-Piazza Tienanmen», osservò un commenta tore , «ha entusiasti-camente abbracciato il nazionalismo cinese come nuova fonte di legittimità» sobillando ad arte l 'ant iamericanismo al fine di giustificare il propr io potere e le propr ie scelte.1 Nasce d u n q u e un nazionalismo culturale cinese, che un dir igente di H o n g Kong nel 1994 ha riassunto cosi: «Noi cinesi ci sentiamo nazio-nalisti come mai era accaduto prima. Siamo cinesi e siamo or-gogliosi di esserlo». Sempre in Cina, nei primi anni Novanta iniziò a svilupparsi un «desiderio generale di tutto quan to è au-tent icamente cinese, ossia - spesso - patriarcale, sciovinista e autoritario. Nell 'ambito di tale r i torno alle proprie radici stori-che, la democrazia viene screditata e considerata, al pari del le-ninismo, niente più che un 'a l t ra imposizione straniera».1

All'inizio del xx secolo gli intellettuali cinesi, paraf rasando inconsapevolmente Weber, ident if icarono nel confucianesimo l 'origine dell 'arretratezza cinese. A fine secolo, i leader politici cinesi, paraf rasando i sociologi occidentali, celebrano il confu-cianesimo, come fonte del loro progresso. Negli anni Ottanta , il governo iniziò a promuovere l ' interesse per il confucianesi-mo che i leader del parti to def in i rono «corrente principale» della cultura cinese/' Il confucianesimo suscitò na tura lmente

4 Yasheng Huang, «Why China Will No i Collapse», in «Foreign Policy», n. 95 (Estate 1995), p. 57. 5 «Cable News Network», 10 maggio 1994; Edward Friedman, «A Failed C.hinese Modernity», in «Daedalus», n. 122 (Primavera 1993), p. 5; Perry Link, «China's "Core" Problem», in ibid., pp. 201-4. 6 «Economist», 21 gennaio 1995, pp. 38-9; William Theodore de Bary, «The New Confucianism in Beijing», in «American Scholar», n. 64, (Primavera 1995), p. 175 sgg.; Benjamin L. Self, «Changing Role for Confucianism in China», in «Woodrow Wilson Center Report», n. 7 (Settembre 1995), pp. 4-5; «New York Times», 26 agosto 1991, p. A19.

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anche l 'entusiasmo di Lee Kuan Yew, che vide in esso u n a delle chiavi del successo di Singapore e dei cui valori si fece portavo-ce in tutto il mondo . Negli anni Novanta, il governo di Taiwan si è autodef in i to «erede del pensiero confuciano» e il presi-den te Lee Teng-hui ha individuato le radici del processo di de-mocratizzazione taiwanese nel suo «patrimonio culturale» ci-nese risalente a Kao Yao (xxi secolo a.C.), Confucio (v secolo a.C.) e Mencio (IH secolo a.C.).7 Sia che desiderino giustificare l 'autoritarismo, sia che in t endano promuovere la democrazia, i leader cinesi r icercano la propr ia legittimazione nella c o m u n e cultura cinese e non nei precetti importat i dal l 'Occidente.

Il nazionalismo promosso dal regime di Pechino è un nazio-nalismo Han , e questo contribuisce a eliminare le differenze linguistiche, regionali ed economiche per il 90 per cento della popolazione cinese. Al t empo stesso, tuttavia, enfatizza le diffe-renze con le minoranze etniche n o n cinesi, che costituiscono m e n o del 10 per cento del l ' intera popolazione della Cina ma occupano il 60 per cento del territorio. Il nazionalismo offre inoltre u n a base per l 'opposizione di regime al cristianesimo, alle organizzazioni cristiane e al proselitismo cristiano, che toc-ca forse il 5 per cento della popolazione e p ropone u n a fede di s tampo occidentale alternativa al vuoto lasciato dal crollo del Maoismo-Leninismo.

In tanto , l ' impetuoso sviluppo economico registrato dal Giappone negli anni Ottanta, di cont ro al presunto fal l imento e «declino» del sistema sociale ed economico americano, pro-dusse nei giapponesi un crescente disincanto verso i modelli occidentali e la sempre più f e rma convinzione che le motiva-zioni del successo andassero ricercate a l l ' in terno della propr ia cultura. La cultura nipponica, che nel 1945, por tò al disastro militare e dovette quindi essere ripudiata, nel 1985 por tò , vice-versa, al t r ionfo economico e potè d u n q u e essere nuovamente abbracciata. La maggior familiarità dei giapponesi con la so-cietà occidentale permise loro di «rendersi conto che essere occidentali non è qualcosa di intr insecamente meraviglioso». Se i giapponesi della Restaurazione Meiji adot ta rono una poli-tica di «al lontanamento dall'Asia e avvicinamento all 'Europa»,

7 Lee Teng-hui, «Chinese Culture and Politicai Renewal», in «Journal of Democracv», n. 6 (Ottobre 1995), pp. 6-8.

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i giapponesi della rinascita culturale di f ine xx secolo h a n n o perseguito u n a politica di «al lontanamento dall 'America e di avvicinamento all'Asia».8 Tale tendenza ha implicato in p r imo luogo un processo di r innovata identificazione con le tradizio-ni culturali n ipponiche e la riscoperta dei valori propr i di quel-le tradizioni; e in secondo luogo - e lemento questo più com-plesso - un tentativo di «asianizzare» il Giappone identifican-dolo, a dispetto della sua peculiare civiltà, con una più genera-le «cultura asiatica». Vista la profondi tà con cui alla fine della Seconda guer ra mondiale il Giappone, a differenza della Cina, si identificò con l 'Occidente, e visto che quest 'ult imo, quali che siano i suoi difetti, non è crollato totalmente come invece è ac-caduto al l 'Unione Sovietica, si capisce come il Giappone non abbia mai avuto un incentivo a p r e n d e r e le distanze dall 'Occi-dente paragonabile a quello che spinse la Cina a distanziarsi sia dal model lo sovietico che da quello occidentale. D'al tro canto, la peculiarità della civiltà giapponese, il r icordo dell ' imperiali-smo n ipponico ancora vivo in altri paesi e la rilevanza econo-mica della Cina in gran par te degli altri paesi asiatici significa-no anche che per il Giappone sarà più facile distaccarsi dal-l 'Occidente che non congiungersi all'Asia.9 Nel riasserire la propr ia identità culturale, il Giappone sottolinea la propria pe-culiarità e le proprie differenze sia rispetto alla cultura occi-dentale che a quella asiatica.

Se cinesi e giapponesi h a n n o scoperto nuovi valori nelle ri-spettive culture, a unirli è la c o m u n e riassunzione del valore della cultura asiatica in generale rispetto a quella dell 'Occiden-te. L'industrializzazione e il conseguente sviluppo economico h a n n o dato vita negli anni Ot tanta e Novanta a un f e n o m e n o che può ben essere definito «l 'affermazione asiatica»: un insie-me di atteggiamenti fondato su quat t ro punt i chiave.

1) Gli asiatici r i tengono che il rapido sviluppo economico dell'Asia li por terà ben presto a sorpassare l 'Occidente in ter-mini di attività economica e ad acquisire perciò un potere sem-pre maggiore in campo internazionale rispetto a quello del-l 'Occidente . La crescita economica stimola nelle società asiati-

8 Alex Kerr, in «Japan Times», 6 novembre 1994, p. 10; Kazuhiko Ozawa, «Ambivalence in Asia», in «Japan Update», n. 44 (Maggio 1995), pp. 18-9. 9 Per alcuni di tali problemi, si veda Ivan P. Hall, «Japan's Asia Card», in «National Interest», il. 38 (Inverno 1994-95), p. 19 sgg.

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che un senso di potenza n o n c h é la manifesta convinzione di poter tener testa all 'Occidente. «Sono finiti i tempi in cui quan-do gli Stati Uniti starnutivano il Giappone prendeva il raffred-dore», dichiarò un impor tan te giornalista n ipponico nel 1993, e un funzionar io malaysiano, r i p r endendo la metafora medica, disse anzi che «se anche l 'America si buscasse un febbrone , al-l'Asia non verrebbe neanche un colpo di tosse». Nei loro rap-porti con gli Stati Uniti, a f fe rmò un altro leader asiatico, per gli asiatici era «finita l 'epoca della soggezione ed era iniziata quel-la della replica». «Il crescente benessere dell'Asia», a f fe rmò il vice pr imo ministro malaysiano, «significa che essa è ora in gra-do di offrire serie alternative agli accordi politici, sociali ed eco-nomici vigenti in campo internazionale».1" Ciò significa anche, sostengono gli est-asiatici, che l 'Occidente sta rapidamente per-d e n d o il potere di impor re alle società asiatiche propr i canoni in mater ia di diritti umani ed altri valori.

2) Secondo, per gli asiatici il successo economico conseguito è in gran parte un prodot to specifico della cultura asiatica, su-periore a quella decadente dell 'Occidente. Negli esaltanti anni Ottanta, quando l 'economia, le esportazioni, la bilancia com-merciale e le riserve di valuta estera del Giappone toccarono lo zenit, i giapponesi, al pari dei sauditi in passato, cominciarono a vantarsi del proprio potere economico, con t rapponendolo con disprezzo al declino dell 'Occidente. Anche in questa occasione, il successo fu attribuito alla superiorità della loro cultura. Nei primi anni Novanta, il trionfalismo asiatico trovò nuova espres-sione in quella che non p u ò altrimenti essere definita che 1'«of-fensiva culturale di Singapore». Da Lee Kuan Yew in poi, i lea-der politici di Singapore vantarono lo sviluppo asiatico contrap-p o n e n d o le virtù della cultura asiatica, nella fattispecie quella confuciana, artefice del successo - ordine, disciplina, responsa-bilità familiare, lavoro duro, collettivismo, astemia - all 'autoin-dulgenza, indolenza, individualismo, criminalità dilagante, mi-nor istruzione, mancanza di rispetto per l 'autorità e «sclerotiz-zazione mentale» responsabili del declino occidentale. Per com-

10 Casimir Yorst, «America's Role in Asia: One Year Later», Asia Foundation, Center for Asian Pacific Affairs, Report No. 15, Febbraio 1994, p. 4; Yoichi Funabashi, «The Asianization of Asia», in «Foreign Affairs», n. 72 (Novembre-Dicembre 1993), p. 78; Anwar Ibrahim, «International Herald Tribune», 31 gennaio 1994, p. 6.

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petere con l 'Oriente, si sostenne, gli Stati Uniti «devono mette-re in discussione le proprie convinzioni di f ondo in meri to alla propria organizzazione sociale e politica e, al contempo, impa-rare una cosa o due dalle società est-asiatiche»."

Per gli est-asiatici, insomma, il successo conseguito è princi-pa lmente il f ru t to dell 'accento posto dalla propria cultura sul-la collettività anziché sull ' individuo. «I valori e i costumi comu-nitari dei paesi est-asiatici - Giappone, Corea, Taiwan, H o n g Kong e Singapore - si sono dimostrati altrettanti vantaggi nel processo di recupero», sostiene Lee Kuan Yew. «I valori propu-gnati dalla cultura est-asiatica, quali la priorità degli interessi della collettività su quelli dell ' individuo, sorreggono lo sforzo di g r u p p o globale necessario per un rapido sviluppo». «L'etica del lavoro di giapponesi e coreani, fatta di disciplina, dedizione e diligenza», sostiene il p r imo ministro malaysiano, «è stato il motore dello sviluppo economico e sociale dei rispettivi paesi. Questa etica nasce dalla convinzione che il g r u p p o e il paese siano più importanti dell'individuo».12

3) Pur r iconoscendo le differenze esistenti tra le società e ci-viltà asiatiche, gli est-asiatici p r o p u g n a n o al c o n t e m p o l'esi-stenza di significativi valori comuni . Fondamenta le tra questi, ha osservato un dissidente cinese, è «il sistema di valori del con-fucianesimo, cui la storia ha reso onore e che è condiviso dalla gran parte dei paesi della regione», e in particolare la sua sot-tolineatura dei concetti di parsimonia, famiglia, lavoro, disci-plina. Ugualmente impor tan te è il comune rifiuto dell'indivi-dualismo e il prevalere di un autori tarismo «morbido» o di for-me molto limitate di democrazia. Le società asiatiche h a n n o un c o m u n e interesse che li differenzia dal l 'Occidente: la difesa dei loro valori distintivi e la p romozione dei propr i interessi economici. Ciò ha richiesto lo sviluppo di nuove fo rme di coo-perazione interasiatica, come ad esempio l ' ampl iamento del-l'Associazione delle nazioni dell'Asia sudorientale e la creazio-

11 Kishore Mahbubani, «Asia and a United States in Decline», in «Washington Quarterly», n. 17 (Primavera 1994), pp. 5-23. Per una replica, si veda Eric Jones, «Asia's Fate: A Response to the Singapore School», in «National Interest», n. 35 (Primavera 1994), pp. 18-28. 12 Mahathir bin Mohamad, Mare jirenma (Il di lemma malaysiano), Tokyo, Imure Bunkajigyo, 1983, p. 267, cit. in Ogura Kazuo, «A Cali for a New Concept of Asia», in «Japan Echo», n. 20 (Autunno 1993), p. 40.

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ne di un Comitato per l ' economia est-asiatica. Se l ' interesse economico immedia to delle società est-asiatiche è man tene re l'accesso ai mercati occidentali, nel lungo per iodo il regionali-smo economico finirà probabi lmente col prevalere: per questo l'Asia orientale deve sempre più incentivare gli scambi com-merciali e gli investimenti interasiatici.11 In particolare, è ne-cessario che il Giappone, in quan to paese leader dello sviluppo asiatico, met ta fine alla sua tradizionale «politica di de-asianiz-zazione e di occidentalizzazione» per imboccare «la strada del-la ri-asianizzazione» o, in termini più generali, per promuovere «l'asianizzazione dell'Asia», come ha già fatto governo di Sin-gapore.14

4) Gli est-asiatici a f f e rmano che lo sviluppo e i valori asiatici sono modell i che altre società n o n occidentali dovrebbero emulare per poter raggiungere l 'Occidente, e che l 'Occidente dovrebbe fare propr i al fine di rinnovarsi. Il «modello di svi-luppo anglosassone, tanto osannato negli ultimi q u a r a n t a n n i come il m o d o migliore di modernizzare le economie delle na-zioni in via di sviluppo e di costruire un efficace sistema politi-co, non sta funzionando», sostengono. Al suo posto va sempre più suben t rando il model lo est-asiatico, via via che svariati pae-si, dal Messico al Cile, dall ' Iran alla Turchia alle ex repubbl iche sovietiche, t en tano oggi di t rarre lezione dal loro successo, co-sì come le generazioni precedent i ten tarono di trarle dal suc-cesso occidentale. L'Asia deve «trasmettere al resto del m o n d o i valori asiatici, che h a n n o rilevanza universale ... la trasmissio-ne di questi ideali compor ta l 'esportazione del model lo sociale asiatico ed est-asiatico in particolare». E necessario che il Giap-p o n e e altri paesi asiatici p romuovano la «globalizzazione del-l 'area del Pacifico», che «globalizzino l'Asia» e quindi «forgino con decisione il carattere del nuovo ordine mondiale».1"

13 Li Xiangiu, «A Post-Cold War Alternative from East Asia», in «Straits Times», 10 febbraio 1992, p. 24. 14 Yotaro Kobayashi, «Re-Asianize Japan», in «New Perspectives Quarterly», n. 9 (Inverno 1992), p. 20; Funabashi, «The Asianization of Asia», cit., p. 75 sgg.; George Yong-Soon Yee, «New East Asia in a Multicultural World», in «International Herald Tribune», 15 luglio 1992, p. 8. 15 Yoichi Funabashi, «Globalize Asia», in «New Perspectives Quarterly», n. 9 (Inverno 1992), pp. 23-4; Kishore M. Mahbubani, «The West and the Rest», in «National Interest», n. 28 (Estate 1992), p. 7; Hazuo, «New Concept of Asia», p. 41.

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Le società potent i sono universalistiche, quelle deboli sono particolaristiche. La sempre maggiore fiducia in sé che perva-de le società est-asiatiche ha dato vita a una sorta di universali-smo asiatico paragonabile a quello che ha contraddist into l 'Oc-cidente. «I valori asiatici sono valori universali. I valori europei sono valori europei», dichiarò nel 1996 il p r imo ministro Mahathir ai capi di governo europei.10 A tutto ciò si aggiunge poi u n «Occidentalismo» asiatico che dipinge l 'Occidente con le stesse tinte fosche e prive di s fumature con cui l 'Orientali-smo occidentale era una volta accusato di guardare al l 'Oriente. Per gli est-asiatici la prosperi tà economica è prova di superio-rità morale . Se in fu tu ro l ' India dovesse soppiantare l'Asia or ientale come area di più in tenso sviluppo economico del m o n d o , è bene che il m o n d o si prepar i ad af f rontare lunghe disquisizioni sulla superiorità della cultura indù, sul contr ibuto offer to dal sistema a caste allo sviluppo economico e su come, t o r n a n d o alle proprie radici e superando la perniciosa eredità occidentale lasciata dall ' imperialismo britannico, l ' India abbia finalmente conquistato il posto che le competeva nel gotha del-le civiltà. L 'affermazione culturale segue a ruo ta il successo ma-teriale; il potere coercitivo genera il po te re persuasivo.

La Rinascita islamica

Mentre gli asiatici, forti del loro sviluppo economico, diven-tavano sempre più agguerriti, grandi masse di musulmani si ri-volgevano con temporaneamen te all'Islam come fonte di iden-tità, o r ien tamento , stabilità, legittimità, sviluppo, po tere e spe-ranza, una speranza simboleggiata nello slogan «La soluzione è l 'Islam». La Rinascita islamica," in tutta la sua ampiezza e

16 «Economist», 9 marzo 1996, p. 33. 17 Qualche lettore potrebbe domandarsi perché la parola «Rinascita» dell'e-spressione «Rinascita islamica» è in maiuscolo. Il motivo è che essa si riferisce ad un evento storico estremamente importante che coinvolge un quinto o forse più dell'umanità; vale a dire che è importante almeno quanto la Rivo-luzione americana, la Rivoluzione francese o la Rivoluzione russa, la cui «r» viene di solito scritta in maiuscolo, e che è simile e paragonabile alla Riforma protestante nella società occidentale, la cui «r» iniziale viene anch'essa quasi sempre scritta in maiuscolo.

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profondi tà , rappresenta l 'ul t imo stadio dell ' incessante proces-so di definizione dei rapport i tra civiltà islamica e Occidente , un tentativo di trovare la «soluzione» non nelle ideologie occi-dentali ma nell 'Islam. In essa troviamo l 'accettazione della mo-derni tà , il rifiuto della cultura occidentale e la r innovata ade-sione all'Islam quale guida culturale, religiosa, sociale e polidca alla vita nel m o n d o mode rno . Come un alto funzionar io saudi-ta spiegò nel 1994, «le "importazioni straniere" vanno bene in quan to "oggetti" sfavillanti o di alta tecnologia. Ma le intangi-bili istituzioni sociali e politiche importa te da fuori possono ri-sultare letali: chiedete in proposi to allo Shah dell ' Iran. ... L'i-slamismo per noi non è soltanto u n a religione, ma un m o d o di vita. Noi sauditi desideriamo modernizzarci , ma n o n vogliamo necessariamente occidentalizzarci».1"

La Rinascita islamica incarna il tentativo dei musulmani di raggiungere tale obiettivo. Si tratta di un vasto movimento in-tellettuale, culturale, sociale e politico che pervade l ' intero m o n d o islamico. Il fondamental ismo islamico genera lmente in-teso come islamismo politico è solo un componen te del ben più ampio f e n o m e n o di reviviscenza delle idee, dei costumi e del linguaggio islamici e del r iaccostamento all'islamismo da par te delle popolazioni musulmane. Quello della Rinascita è un fe-n o m e n o vasto e generalizzato, non estremista e marginale.

La Rinascita ha coinvolto i musulmani di tutti i paesi e quasi tutti gli aspetti sociali e politici di gran par te dei paesi musul-mani. «Gli indizi di un risveglio islamico nella vita di un indivi-duo», ha scritto J o h n L. Esposito,

sono numerosi: maggiore osservanza dei precetti religiosi (frequenta-zione delle moschee, preghiere, digiuno), il proliferare di programmi e pubblicazioni religiose, maggiore attenzione all'abbigliamento e ai valori islamici, reviviscenza del sufismo (misticismo). A questa rinasci-ta generale si è accompagnata una riaffermazione dell'islamismo nel-la vita pubblica, con un aumento del numero di governi, organizza-zioni, leggi, banche, servizi sociali e istituti pedagogici orientati in sen-so islamico. Governi e movimenti d'opposizione hanno entrambi co-minciato a guardare all'islamismo come a uno strumento per accre-scere la propria autorità ed acquisire consenso popolare. ... Buona parte dei sovrani e degli uomini di governo, compresi quelli di stati

18 Bandar bin Sultan, in «New York Times», 10 luglio 1994, p. 20.

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maggiormente laici come la Turchia e la Tunisia, resisi conto della po-tenziale forza propulsiva dell'islamismo hanno manifestato una mag-giore sensibilità verso le questioni riguardanti l'Islam.

Parimenti , per un altro eminen te studioso dell 'Islam, Ali E. Hillal Dessouki, il f e n o m e n o della Rinascita implica il tentativo di re in t rodur re il diritto islamico in sostituzione del diritto di s tampo occidentale; un maggior ricorso al linguaggio e al sim-bolismo religioso; l 'espansione dell ' istruzione islamica (che si manifesta nel moltiplicarsi delle scuole islamiche e nell'isla-mizzazione dei programmi di studio nelle scuole statali); u n a maggiore adesione ai precetti islamici di condot ta sociale (ad esempio l 'astinenza dall'alcol o l 'uso del velo per le donne ) ; una maggiore osservanza religiosa; il p redominio dei g ruppi islamici come forze di opposizione ai governi laici nelle società musulmane; e u n o sforzo sempre maggiore di sviluppare la so-lidarietà internazionale tra gli stati e le società islamiche.19 La revanche deDieu è un f e n o m e n o globale, ma Dio, o piuttosto Al-lah, ha consumato la propria vendetta f ino in fondo nell'uwi-mah, la comuni tà islamica.

Nelle sue manifestazioni politiche, la Rinascita islamica pre-senta dei tratti in comune con il marxismo: i suoi testi sacri, la sua visione della società perfet ta , la dedizione al cambiamento radicale, il rifiuto delle autorità costituite e dello stato naziona-le, e u n a disomogeneità dottr inaria che consente di accorpare tanto i riformisti moderat i quan to gli estremisti rivoluzionari. Ancor più calzante, tuttavia, è l 'analogia con la Riforma prote-stante. Ent rambe sono f enomen i di reazione alla stagnazione e alla cor ruz ione delle istituzioni esistenti; en t rambe invocano il r i torno a un 'espressione più pura e severa della religione; en-t rambe esaltano i valori del lavoro, del l 'ordine e della discipli-na; en t rambe guardano al dinamico ed emergente ceto medio; en t rambe, infine, sono movimenti complessi, costituiti da varie componen t i di cui due dominant i ( luteranesimo e calvinismo da un lato, fondamenta l i smo sciita e sunnita dall 'altro) e che

19 John L. Esposito, The Islamic Threal: Myth or Keality, New York, Oxford University Press, 1992, p. 12; Ali E. Hillal Dessouki, «The Islamic Resurgence», in Ali E. Hillal Dessouki (a cura di), Islamic Resurgence in the Arab World, New York, Praeger, 1982, pp. 9-13.

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presen tano finanche dei parallelismi tra Giovanni Calvino e l 'ayatollah Khomeini , che ten ta rono di imporre la loro disci-plina monastica alle rispettive società. Lo spirito di f o n d o tanto della Riforma quan to della Rinascita è u n a riforma globale. «La r i forma deve essere universale», dichiarò un pastore puri-tano, «... r i formare tutti i luoghi, tutti gli individui e le profes-sioni; r i formare i tribunali, i magistrati di grado inferiore. ... Riformare le università, r i formare le città, r i formare i paesi, r i formare le scuole inferiori , r i formare il g io rno di riposo, r i formare gli ordinament i , riformare il culto di Dio». Allo stes-so modo , Al-Turabi asserisce che «questo risveglio è onnicom-prensivo: non r iguarda soltanto la fede individuale, non è sol-tanto intellettuale e culturale, o soltanto politico. E tutte queste cose insieme: una ricostruzione generale, da cima a fondo , del-la società».2" Ignorare le conseguenze della Rinascita islamica sul quadro politico dell 'emisfero orientale di fine xx secolo si-gnifica ignorare l ' impatto avuto dalla Riforma protestante sulla politica europea del tardo xvi secolo.

La Rinascita si differenzia tuttavia dalla Riforma per un aspet-to fondamentale: l ' impatto di quest 'ultima fu limitato in larga parte al l 'Europa settentrionale, trovando ben poco spazio in Spagna, Italia, Europa orientale e nelle terre asburgiche in ge-nerale; la Rinascita, viceversa, ha toccato quasi tutte le società musulmane. A partire dagli anni Settanta simboli, credenze, co-stumi, istituzioni, strategie politiche e organizzazioni musulmane h a n n o ot tenuto un sostegno sempre crescente tra il miliardo di musulmani disseminati dal Marocco all 'Indonesia e dalla Nigeria al Kazakistan. L'islamizzazione si è di no rma manifestata innan-zitutto in campo culturale, per poi diffondersi nella sfera sociale e politica. Che l 'appoggiassero o meno, le élite intellettuali e po-litiche non h a n n o potuto né ignorarla né evitare di fare in un m o d o o nell 'altro i conti con essa. Le generalizzazioni sono sem-

20 Thomas Case, cit. in Michael Walzer, The Revolution of the Saints: A Study in the Origini of Radicai Politici, Cambridge, Harvard University Press, 1965, pp. 10-11; Hassan Al-Turabi, «The Islamic Awakening's Second Wave», in «New Perspectives Quarterly», n. 9 (Estate 1992), p. 52. II testo che più aiuta a comprendere il carattere, il fascino, i limiti e i) ruolo storico del fondamental ismo islamico di fine xx secolo è forse lo studio di Walzer sul puritanesimo calvinista inglese del xvn secolo.

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pre pericolose e spesso errate; una, tuttavia, appare p ienamente giustificata: ad eccezione dell 'Iran, nel 1995 tutù i paesi a popo-lazione prevalentemente islamica erano più islamici e islamisti dal pun to di vista culturale, sociale e politico di quanto lo fosse-ro stati quindici anni addietro.21

In gran par te di questi paesi, un e lemento basilare del pro-cesso di islamizzazione è stato lo sviluppo di organizzazioni so-ciali islamiche e la fagocitazione da par te di gruppi islamici del-le organizzazioni già esistenti. Gli islamisti h a n n o prestato par-ticolare at tenzione sia alla creazione di scuole islamiche che al-l 'espansione dell ' influenza islamica nelle scuole statali. In so-stanza, i g ruppi islamici h a n n o dato vita a u n a «società civile» islamica che ha affiancato, superato e spesso soppiantato per dimensioni e attività le spesso fragili istituzioni della società ci-vile laica. In Egitto, nei primi anni Novanta gli islamici avevano sviluppato un ' ampia rete di organizzazioni le quali, r iempien-do un vuoto lasciato dal governo, fornivano servizi medici, so-ciali, scolastici ed altri ancora ad un gran n u m e r o di persone povere. Dopo il t e r remoto che colpì il Cairo nel 1992, tali or-ganizzazioni «erano in strada nel giro di poche ore a distribui-re coperte e cibo, men t re l ' in tervento governativo segnò un for te ritardo». In Giordania, la «confraterni ta musulmana» ha scientemente perseguito una politica di sviluppo di u n a «infra-struttura [sociale e politica] di una repubblica islamica», e nei primi anni Novanta questo piccolo paese di quat t ro milioni di abitanti contava un grande ospedale, venti cliniche, quaranta scuole islamiche e centoventi centri di studio coranici. Poco più in là, a Gaza e nella West Bank, le organizzazioni islamiche h a n n o creato e avviato «sindacati studenteschi, organizzazioni

21 Donald K. Emerson, «Islam and Religion in Indonesia: Who's Coopting Whom?» (inedito, 1989), p. 16; Nasir Tamara, Indonesia in the Wake of Islam, 1965-1985, Kuala Luinpur: Institute of Strategie and International Studies Malaysia, 1986, p. 28; «Economist», n. 14 (Dicembre 1985), pp. 35-6; Henry Tanner, «Islam Challenges Secular Society», in «International Herald Tribune», 27 giugno 1987, pp. 7-8; Sabri Sayari, «Politicization of Islamic Re-traditionalism: Some Preliminary Notes», in Metin Heper e Raphael Israeli (a cura di), Islam and Politics in the Modem Middle East, London, Groom Helm, 1984, p. 125; «New York Times», 26 marzo 1989, p. 14; 2 marzo 1995, p. A8. Si vedano, ad esempio, le inchieste su questi paesi in «New York Times», 17 novembre 1985, p. 2E; 15 novembre 1987, p. 13; 6 marzo 1991, p. A l i ; 20 ottobre 1990, p. 4; 26 dicembre 1992, p. 1; 8 marzo 1994, p. A15, ed in «Economist», 15 giugno 1985, pp. 36-7 e 18 settembre 1992, pp. 23-5.

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giovanili e associazioni religiose, sociali e pedagogiche», ivi comprese scuole che vanno dagli asili n ido a un'università isla-mica, n o n c h é cliniche, orfanotrof i , ospizi e un ' ampia rete di avvocati ed arbitri islamici. Organizzazioni islamiche si sono diffuse in tutta l ' Indonesia negli anni Settanta e Ottanta. Nei primi anni Ottanta, la maggiore di queste, la Muhhammadijah, contava sei milioni di iscritti, costituiva u n o «stato sociale reli-gioso al l ' in terno dello stato laico» e forniva servizi «dalla culla alla bara» per l ' intero paese attraverso una fitta rete di scuole, cliniche, ospedali ed istituti di livello universitario. In queste come in altre società musulmane , le organizzazioni islamiche, in terdet te dall 'espletare attività politiche, forn iscono nondi-m e n o servizi sociali paragonabili a quelli delle macchine poli-tiche negli Stati Uniti dei primi del secolo.""

Le iniziative politiche della Rinascita hanno avuto minor rile-vanza rispetto a quelle sociali e culturali, ma restano tuttavia il fe-n o m e n o politico più importante delle società musulmane del-l 'ultimo quarto di secolo. Intensità e provenienza del sostegno politico di cui godono i movimenti islamisti variano da paese a paese. Esistono tuttavia delle tendenze generali. In linea di mas-sima, questi movimenti non trovano grande supporto tra le élite rurali, i contadini e gli anziani, e vengono alimentati in forte pre-valenza da coloro che sono al contempo artefici e f ru t to dei pro-cessi di modernizzazione. Si tratta di giovani moderni e social-mente mobili che appar tengono prevalentemente a tre gruppi.

Come sempre accade in tutti i movimenti rivoluzionari, il suo nucleo centrale è costituito da studenti e intellettuali. In gran parte dei paesi, la conquista del controllo di sindacati stu-denteschi ed organizzazioni simili da parte dei fondamental is t i ha segnato la prima fase nel processo di islamizzazione politica, con lo «sfondamento» islamico negli anni Settanta nelle uni-versità di Egitto, Pakistan e Afghanistan diffusosi poi in altri paesi musulmani . Il r ichiamo islamista è stato par t icolarmente

22 «New York Times», 4 ottobre 1993, p. A8; 29 novembre 1994, p. A4; 3 febbraio 1994, p. 1; 26 dicembre 1992, p. 5; Erika G. Alin, «Dynamics of the Palestinian Uprising: An Assessment of Causes, Character, and Consequences», in «Comparative Politics», n. 26 (Luglio 1994), p. 494; «New-York Times», 8 marzo 1994, p. A15; James Peacock, «The Impact of Islam», in «Wilson Quarterly», n. 5 (Primavera 1981), p. 142; Tamara, Indonesia in the W'ake of Islam, p. 22.

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forte tra gli s tudenti di istituti tecnici, delle facoltà di ingegne-ria e dei dipart imenti scientifici. Negli anni Novanta, in Arabia Saudita, Algeria e altri paesi «l ' indigenizzazione della seconda generazione» si è manifestata attraverso un costante a u m e n t o degli s tudenti universitari che studiavano nella propr ia lingua natia e che d u n q u e e rano maggiormente esposti alle influenze islamiche." Spesso gli islamisti h a n n o esercitato u n a for te at-trazione sulle donne : la Turchia ad esempio ha vissuto u n o scontro assai aspro tra la vecchia generazione di d o n n e laiche e quella delle loro figlie e nipoti, seguaci dei precetti islamici.21

Uno studio compiuto da dirigenti dei g ruppi islamici egiziani rilevava cinque caratteristiche di f o n d o comuni agli islamisti di altri paesi. Si trattava di giovani, prevalentemente tra i venti e i quarant ' anni . La proporz ione di s tudenti universitari o laurea-ti era dell '80 per cento. Oltre la metà proveniva da università esclusive o da settori tecnici specialistici par t icolarmente impe-gnativi quali medicina o ingegneria. Per oltre il 70 per cento provenivano dalla classe medio-bassa «di estrazione modesta, ma non povera» ed e rano la pr ima generazione, nel l 'ambito delle propr ie famiglie, in possesso di un ' is t ruzione superiore. Avevano trascorso l ' infanzia in cittadine o in aree rurali e si e rano quindi trasferiti in grandi città.2 '

Se studenti e intellettuali formavano i quadri di militanti e le t ruppe d'assalto dei movimenti islamici, la classe media u rbana costituiva il grosso dell 'esercito. Si tratta in parte di g ruppi del-la classe media «tradizionale»: bottegai, commercianti , piccoli imprenditori , bazaarì. Essi svolsero un ruolo fondamenta le nel-la Rivoluzione iraniana e h a n n o offer to un sostegno significati-

23 Olivier Roy, The Failure of Political Islam, London, Tauris, 1994, p. 49 sgg.; «New York Times», 19 gennaio 1992, p. E3; Washington Post», 21 novembre 1990, p. A l . Si veda Gilles Keppel, The Revenge of God: The Resurgence of Islam, Christianity, and Judaism in the Modern World, University Park, PA, Pennsylvania State University Press, 1994, p. 32; Farida Faouzia Charfi, «When Galileo Meets Allah», in «New Perspectives Quarterly», n. 11 (Primavera 1994), p. 30; Esposito, Islamic Threat, p. 10. 24 Mahnaz Ispahani, «Varieties of Muslim Experience», in «Wilson Quarterly», n. 13 (Autunno 1989), p. 72. 25 Saad Eddin Ibhrahim, «Appeal of Islamic Fundamentalism», (documento presentato alla Conferenza su «Islam e politica nel m o n d o musulmano contemporaneo», Harvard University, 15-16 ottobre 1985, pp. 9-10, e «Islamic Militancy as a Social Movement: The Case of Two Groups in Egypt», in Dessouki (a cura di), Islamic Resurgence, pp. 128-31.

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vo anche ai movimenti fondamentalist i in Algeria, Turchia e In-donesia. Per lo più, tuttavia, i fondamentalist i appar tenevano ai settori più «moderni» della classe media. Gli attivisti islamici «comprendono probabi lmente un n u m e r o sproposi tatamente alto dei più istruiti e brillanti giovani delle rispettive popola-zioni», compresi medici, avvocati, ingegneri , scienziati, inse-gnanti , funzionari pubblici.26

La terza componen te chiave del movimento islamista è co-stituita dai nuovi immigrati urbani . Per tutti gli anni Settanta e Ottanta, la popolazione u rbana del l ' intero m o n d o islamico è cresciuta a un ri tmo spettacolare. Ammassati in ghett i fatiscen-ti e spesso primitivi, gli immigrati urbani po t e rono usufrui re dei provvidenziali servizi sociali offerti dalle organizzazioni isla-miche. Inoltre, sostiene Ernest Gellner, l 'Islam offriva un '«ident i tà dignitosa» a quelle «nuove masse di diseredati». A Istanbul e Ankara, al Cairo e ad Asyut, ad Algeri e Fes e nella striscia di Gaza, i partiti islamici h a n n o potu to organizzarsi con successo appellandosi agli «oppressi e i diseredati». «Le masse dell 'Islam rivoluzionario», ha af fermato Oliver Roy, sono «un f ru t to della società m o d e r n a ... sono i nuovi immigrati urbani , i milioni di contadini che h a n n o triplicato la popolazione del-le grandi metropoli musulmane».2 '

A metà degli anni Novanta, governi esplicitamente islamici e rano al potere solo in Iran e in Sudan. Un piccolo n u m e r o di paesi musulmani , quali la Turchia e il Pakistan, aveva regimi con qualche pretesa di legittimità democratica. I governi dei circa quaranta altri paesi musulmani e rano prevalentemente non democratici: monarchie , sistemi monoparti t ici , regimi mi-litari, di t tature personali o u n a combinazione di tutti questi elementi , di solito fondat i su base familiare, tribale o di clan, e in alcuni casi fo r t emen te d ipenden t i dal sostegno straniero. Due regimi, in Marocco e Arabia Saudita, h a n n o tentato di ri-

26 «Washington Post», 26 ottobre 1980, p. 23; Peacock, «Impact of Islam», cit., p. 140; Ilkay Sunar e Binnaz Toprak, «Islam in Politics; The Case of Turkev», in «Government and Opposition», n. 18 (Autunno 1983), p. 436; Richard W. Bulliet, «The Israeli-PLO Accord: The Future of the Islamic Movement», in «Foreign Affairs», n. 72 (Novembre-Dicembre 1993), p. 42. 27 Ernest Gellner, «Up from Imperialism», in «New Republic», 22 maggio 1989, p. 35; John Murray Brown, «Tansu Ciller and the Question of Turkish Identity», in «World PolicyJournal», n. 11 (Autunno 1994), p. 58; Roy, Fatture of Politicai Islam, p. 53.

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chiamarsi a u n a qualche sorta di legittimità islamica. Per lo più, tuttavia, a questi governi mancava qualsiasi base per autogiusti-ficarsi in termini di valori islamici, democratici o nazionalisti. Erano, per usare l'espressione di Clement Henry Moore, «regi-mi bunker», repressivi, corrotti, del tutto indifferenti ai bisogni e alle aspirazioni della loro società. Regimi di questo tipo pos-sono sopravvivere per lunghi periodi di t empo e non sono ne-cessariamente condannati a cadere. Nel m o n d o mode rno , tut-tavia, le possibilità di un loro m u t a m e n t o o crollo sono molto alte. Di conseguenza si pone la questione: una volta crollati, che tipo di regime si affermerebbe? A metà degli anni Novanta, in quasi tutti questi paesi il regime che aveva maggiori proba-bilità di successo era un regime islamico.

Negli anni Settanta e Ottanta, un ' onda t a di democratizzazio-ne dilagò in tutto il mondo, travolgendo diverse decine di pae-si. Questa ondata ebbe un certo impatto sulle società musulma-ne, anche se limitato. Laddove i movimenti democratici guada-gna rono forza e giunsero al po tere in Europa meridionale , America latina, nella periferia est-asiatica e in Europa centrale, i movimenti islamici andarono parallelamente rafforzandosi nei paesi musulmani. L'islamismo fu il corrispettivo funzionale del-l 'opposizione democratica all 'autoritarismo nelle società cri-stiane, e fu in larga parte il prodot to di cause analoghe: mobilità sociale, inefficienza dei regimi autoritari con conseguente per-dita di legittimità, nonché un quadro internazionale in rapido mutamento , ivi incluso il r incaro del petrolio, che nel m o n d o musulmano incoraggiò tendenze islamiste più che democrati-che. Sacerdoti, ministri del culto e gruppi religiosi laici h a n n o svolto un importante ruolo di opposizione ai regimi autoritari nelle società cristiane. Un ruolo comparabile h a n n o avuto an-che ulema, islamisti e gruppi religiosi islamici nei paesi musul-mani. Se il Papa è stato un e lemento de terminante per la cadu-ta del regime comunista in Polonia, l'ayatollah lo è stato altret-tanto nel crollo del regime dello shah in Iran.

Negli anni Ottanta e Novanta i movimenti islamici h a n n o do-minato e, spesso, monopolizzato l 'opposizione ai governi nei paesi musulmani. La loro forza è in parte un riflesso della de-bolezza delle fonti di opposizione alternative. I movimenti co-munisti e di sinistra sono stati screditati e quindi seriamente compromessi dal crollo del l 'Unione Sovietica e del comunismo

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internazionale. Gruppi di opposizione liberali e democratici so-no sempre esistiti in gran parte delle società musulmane, sep-pur ridotti sovente ad un manipolo di intellettuali ed altri ele-menti con forti radici o legami con l 'Occidente. Tranne rare ec-cezioni, i democratici liberali non h a n n o saputo conquistare un solido sostegno popolare nelle società musulmane, e finanche il liberalismo islamico non è riuscito a met tere radici. «Sono sem-pre di più le società musulmane», osserva Fouad Ajami, «in cui parlare di liberalismo e di tradizione borghese nazionale signi-fica recitare il necrologio di uomini che raccolsero u n a sfida impossibile e fu rono sconfitti».™ La generale incapacità della democrazia liberale di attecchire nelle società musulmane, ma-nifestatasi alla fine del l 'Ottocento, appare una costante di tutto il secolo successivo. Tale incapacità trova a lmeno in parte spie-gazione nella natura inospitale della cultura e della società isla-mica per i principi liberalistici occidentali.

Il successo registrato dai movimenti islamisti nell 'assumere la guida dell 'opposizione e nel presentarsi come l 'unica alterna-tiva possibile ai regimi in carica è stato inoltre mol to agevolato dagli indirizzi politici perseguiti da quei regimi. Duran te la Guerra f redda , molti governi, compresi quelli di Algeria, Tur-chia, Giordania, Egitto e Israele, incoraggiarono e sostennero quei movimenti come forza di opposizione ai comunist i o a movimenti nazionalisti ostili. A lmeno fino alla guer ra del Golfo, Arabia Saudita e altri stati del Golfo h a n n o offer to ge-nerosi finanziamenti alla Confra tern i ta musulmana e ai g ruppi islamici di numerosi paesi. Il dominio delle forze d'opposizio-ne da par te dei gruppi islamici è stato altresì rafforzato dall 'o-pera di soppressione delle opposizioni laiche attuata dai gover-ni. La forza dei fondamentalist i variava genera lmente in misura inversamente proporzionale a quella dei partiti democratici o nazionalisti laici ed era minore in quei paesi, quali ad esempio il Marocco e la Turchia, che consentivano un certo grado di compet iz ione multipartitica.21 ' L 'opposizione laica, tuttavia, è

28 Fouad Ajami, «The Impossible Life of Muslim Liberalism», in «New Republic», 2 giugno 1986, p. 27. 29 Clement Henry Moore, «The Mediterranean Debt Crescent», inedito, p. 346; Mark N. Katz, «Emerging Patterns in the International Relations of Central Asia», in «Central Asia Monitor», n. 2, 1944, p. 27; Mehrdad Haghayeghi, «Islamic Revival in the Central Asian Republics», in «Central Asian Survey», 13 (n. 2, 1994), p. 255.

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più vulnerabile alla repressione di quan to lo sia l 'opposizione religiosa. Quest 'u l t ima p u ò infatti opera re a l l ' in terno e dietro le quinte di u n a fitta rete di moschee, organizzazioni assisten-ziali, fondazioni e altre istituzioni musu lmane che i governi n o n possono permet ters i di soppr imere . I democratici liberali non d ispongono di tale coper tura e possono d u n q u e essere più faci lmente controllati o eliminati dai rispettivi governi.

Nel tentativo di po r re un f r e n o al diffondersi di tendenze islamiste, i governi h a n n o ampliato l ' istruzione religiosa nelle scuole statali, che spesso h a n n o finito con l 'essere domina te da idee e insegnanti islamici, ed esteso il loro sostegno alla re-ligione e agli istituti educativi religiosi. Tali iniziative in par te testimoniavano la loro adesione all 'islamismo, e in par te con-sentivano, attraverso cospicui finanziamenti, di es tendere il controllo governativo sulle istituzioni e organizzazioni educati-ve islamiche. Esse, tuttavia, h a n n o anche finito con l 'educare grandi masse di s tudenti ai valori islamici, rendendol i più sen-sibili al r ichiamo islamista e l au reando giovani militanti che h a n n o poi cont inuato ad adoperarsi per la causa islamista.

La forza della Rinascita islamica e il r ichiamo esercitato dai movimenti islamisti ha indot to i governi a promuovere istitu-zioni e adot tare simboli e costumi t ipicamente islamici. Al li-vello più generale, ciò ha significato il r iconoscimento o la riaf-fermazione della na tura islamica del loro stato e della loro so-cietà. Negli anni Settanta e Ot tanta i leader politici si sono pre-cipitati a identificare se stessi e i rispettivi regimi con l'Islam. Re Hussein di Giordania, certo del fatto che i governi laici avesse-ro ben poco fu tu ro nel m o n d o arabo, ha parlato della necessità di creare u n a «democrazia islamica» e di un «Islam in via di modernizzazione». Re Hassan di Marocco ha sottolineato la propr ia discendenza dal Profeta e il suo ruo lo di «Comandante dell 'esercito di fedeli». Il sultano del Brunei, mai distintosi in precedenza per la propr ia fede islamica, è diventato «sempre più devoto» e ha defini to il p ropr io regime u n a «monarchia musulmana malese». In Tunisia, Ben Ali ha iniziato a invocare regolarmente Allah nei suoi discorsi e ad «avvolgersi nel man to dell'Islam» per tenere sotto controllo il crescente r ichiamo dei g rupp i islamici."' Agli inizi degli anni Novanta Suhar to ha

30 «New York Times», 10 aprile 1989, p. A3; 22 dicembre 1992, p. 5; «Economist», 10 ottobre 1992, p. 41.

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esplicitamente adottato u n a politica mirante a r endere il pro-prio paese «più musulmano». In Bangladesh, negli anni Set-tanta il principio del «secolarismo» è stato bandi to dalla costi-tuzione, e nei primi anni Novanta l ' identità laica e kemalista della Turchia ha iniziato, per la pr ima volta, a essere seriamen-te minacciata.11 A sottolineare la loro fede islamica, i leader di governo - Òzal, Suharto, Karimov - si sono precipitati alla loro hajh.

I governi dei paesi musulmani h a n n o anche iniziato a «isla-mizzare» l ' o rd inamento giuridico. In Indonesia i precetti e le consuetudini giuridiche islamiche sono stati incorporat i nel preesistente o rd inamento laico. D'altra parte, la Malaysia, che ha u n a nutr i ta comuni tà non musulmana, ha promosso lo svi-luppo di due distinti o rd inament i giuridici, u n o islamico e u n o laico.32 In Pakistan, durante il regime del generale Zia ul-Haq vi fu un pressante tentativo di islamizzare il diritto e l 'economia. Vennero introdotte punizioni islamiche, fu creato un sistema di corti fonda to sulla sharia, la legge coranica, e la stessa sharia è stata dichiarata legge suprema del paese.

Al pari di altre manifestazioni di revival religioso su scala glo-bale, la Rinascita islamica è a un t empo un prodot to della mo-dernizzazione e un tentativo di venire a patti con essa. Le cau-se di f ondo del suo manifestarsi sono quelle genera lmente re-sponsabili delle tendenze all ' indigenizzazione in atto nelle so-cietà n o n occidentali: urbanizzazione, mobilità sociale, più alti livelli di alfabetizzazione e istruzione, maggiore diffusione dei mezzi di comunicazione n o n c h é u n a più ampia interazione con la cultura occidentale e di altre società. Tali sviluppi inde-boliscono i tradizionali legami di villaggio e di clan e gene rano alienazione e crisi d ' identi tà . Simboli, credenze e valori islami-ci soddisfano tali bisogni psicologici, ment re le organizzazioni assistenziali islamiche r i spondono ai bisogni sociali, culturali

31 «Economist», 20 luglio 1991, p. 35; 21 dicembre 1991-3 gennaio 1992, p. 40; Mahfulzul Hoque Choudhury, «Nationalism, Religion and Politics in Bangladesh», in Rafiuddin Ahmed (a cura di), Bangladesh: Society, Religion and Politics, Chittagong, South Asia Studies Group, 1985, p. 68; «New York Times», 30 novembre 1994, p. A14; «Wall Street Journal», 1 marzo 1995, pp. 1, A6. 32 Donald L. Horowitz, «The Qur'an and the Common Law: Islamic Law Reform and the Theory of Legai Change», in «American Journal of Comparative Law», n. 42 (Primavera ed Estate 1994), p. 234 sgg.

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ed economici dei musulmani coinvolti nel processo di moder-nizzazione. I musulmani avvertono insomma il bisogno di tor-nare alle idee, ai costumi e alle istituzioni islamiche quale bus-sola e motore della modernizzazione."

La Rinascita islamica, è stato sostenuto, è stata anche «un prodot to del decl inante potere e prestigio del l 'Occidente. ... Via via che l 'Occidente perdeva il propr io ascendente univer-sale, i suoi ideali e le sue istituzioni h a n n o perso attrattiva». Più specificamente, la Rinascita è stata stimolata e al imentata dal boom petrolifero degli anni Settanta che ha e n o r m e m e n t e ac-cresciuto la ricchezza e il potere di molte nazioni musu lmane e ha consenti to loro di rovesciare il tradizionale rappor to di do-minio-asservimento con l 'Occidente. Come osservò a quell 'e-poca J o h n B. Kelly, «i sauditi t raggono indubbiamente un dop-pio motivo di soddisfazione nell ' infl iggere certe umiliazioni agli occidentali; esse infatti sono non solo una manifestazione di po tere e di ind ipendenza da parte dell 'Arabia Saudita, ma espr imono altresì, com'e ra loro intenzione, il disprezzo per il cristianesimo e la superiorità dell 'islamismo». Le azioni degli stati musulmani ricchi di petrolio, «se collocate nel loro giusto contesto storico, religioso, razziale e culturale, equivalgono né più né m e n o che a un audace tentativo di assoggettare l 'Occi-den te cristiano al versamento di un tributo al l 'Oriente musul-mano» ." I governi saudita, libanese e di altri paesi h a n n o usato il loro prezioso petrolio per stimolare e finanziare l'ascesa mu-sulmana. Il sopraggiunto benessere ha indot to nei musulmani un cambiamento da un sent imento di attrazione nei confront i della cultura occidentale a un p r o f o n d o coinvolgimento nella propr ia cultura nonché al desiderio di incrementare la presen-za e l ' importanza dell 'Islam nelle società non islamiche. Come in passato il benessere occidentale era stato considerato prova della superiorità della cultura occidentale, così la ricchezza ar-recata dal petrolio è stata vista come una prova della superio-rità dell 'Islam.

Se la g rande spinta generata dal r incaro del petrolio venne

33 Dessouki, Islamic lìesurgence, p. 23. 34 Daniel Pipes, In the Path of Cori: Islam and Politimi Power, New York, Basic Books, 1983, pp. 282-3, 290-92; John Barre« Kellv, Arabia, the Gulj and the West, New York, Basic Books, 1980, pp. 261,423, cit. in Pipes, Path ofGod, p. 291.

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ad affievolirsi negli anni Ottanta, lo sviluppo demograf ico ha cont inuato a fungere da incessante motore propulsivo. Se l'a-scesa est-asiatica è stata al imentata da spettacolari tassi di cre-scita economica, la Rinascita dell 'Islam è stata sostenuta da al-tret tanto spettacolari tassi di crescita demografica. L ' aumento di popolazione nei paesi islamici, in particolare nei Balcani, nel Nord Africa e in Asia centrale, è stato molto maggiore di quello registrato nei paesi confinant i e nel m o n d o in generale. Tra il 1965 e il 1990, la popolazione complessiva del pianeta è passata da 3,3 a 5,3 miliardi, e il tasso di crescita a n n u o è stato dell '1,85 per cento. Nelle società musulmane il tasso di crescita è stato quasi sempre di oltre il 2 per cento, e ha spesso supera-to il 2,5 e a volte anche il 3 per cento. Tra il 1965 e il 1990, ad esempio, la popolazione maghreb ina è cresciuta a un tasso an-n u o del 2,65 per cento, passando da 29,8 a 59 milioni, e gli al-gerini in particolare si sono moltiplicati secondo un tasso an-n u o del 3 per cento. In quegli stessi anni, il n u m e r o di egiziani è cresciuto del 2,3 per cento annuo , passando da 29,4 a 52,4 milioni. In Asia centrale, nel per iodo 1970-1993 la popolazione è aumenta ta del 2,9 per cento a l l 'anno in Tagikistan, del 2,6 per cento in Uzbekistan, del 2,5 per cento in Turkmenis tan, del l ' I ,9 per cento in Kirghizistan, ma solo dell '1,1 per cento in Kazakistan, la cui popolazione è quasi per metà russa. Pakistan e Bangladesh h a n n o avuto un tasso di crescita demograf ica di oltre il 2,5 per cento annuo, e l ' Indonesia di oltre il 2 per cen-to. Nel complesso, i musulmani costituivano grosso modo , co-me già detto, il 18 per cento della popolazione mondia le nel 1980; nel Duemila supere ranno probabi lmente il 20 per cento, e nel 2025 raggiungeranno il 30 per cento.1 '

I tassi di sviluppo demograf ico nel Maghreb e altrove h a n n o ormai raggiunto il picco massimo e s tanno iniziando a calare, ma la crescita in termini assoluti cont inuerà a essere molto so-stenuta e le sue conseguenze si f a ranno sentire per tutta la pri-ma metà del xxi secolo. Per gli anni a venire, la popolazione

35 United Nations Population Division, World Populalion Perspeclìves: The 1992 Rmnsion, New York, United Nations, 1993, tabella A l 8; World Bank, World Development Report 1995, New York, Oxford University Press, 1995, tabella 25; Jean Bourgeois-Pichat, «Le Nombre des Hommes: Etat et Prospective», in Albert Jacquard (a cura di), IJ?S Srientijiques Parlent, Paris, Hachette, 1987, pp. 154, 156.

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musulmana sarà costituita in s tragrande maggioranza da giova-ni, con un notevole balzo in avanti nel n u m e r o di adolescenti e di giovani sotto i t ren t ' anni (Figura 5.2). Inoltre, la popolazio-ne compresa in questa fascia di età sarà prevalentemente urba-na e avrà nella maggioranza dei casi come minimo un livello di istruzione secondaria. Questa combinazione di consistenza nu-merica e mobilità sociale compor ta tre significative conseguen-ze d ' o rd ine politico.

1) I giovani sono i protagonisti di f enomen i quali movimen-ti di protesta, instabilità, r i forme e rivoluzioni. L'esperienza di-mostra come l'esistenza di un ampio segmento di popolazione giovane abbia coinciso con il manifestarsi di tali f enomeni . «La Riforma protestante», è stato af fermato, «è un esempio di u n o dei più straordinari movimenti giovanili nella storia». Lo svi-luppo demografico, ha sostenuto in m o d o assai persuasivo Jack Goldstone, è stato un e lemento centrale delle due onda te rivo-luzionarie che h a n n o sconvolto l 'Eurasia a metà xvii e nel tardo XVIII secolo.* U n a notevole espansione della fascia giovanile nei paesi occidentali coincise con 1'«epoca della rivoluzione demo-cratica» negli ultimi decenni del XVIII secolo. Nel xix secolo, in-dustrializzazione ed emigrazione ridussero l ' impat to politico di tale f e n o m e n o sulle società europee . La percentuale di gio-vani to rnò tuttavia a crescere verso il 1920, f o r n e n d o adepti al movimento fascista e ad altri g ruppi estremisti / ' Q u a r a n t a n n i dopo, la generazione del «baby boom» nata dopo la Seconda guer ra mondia le conseguì un grande successo politico con le manifestazioni e le proteste degli anni Sessanta.

2) I giovani islamici si s tanno rivelando l'asse por tan te della Rinascita islamica. Allorché questa ebbe inizio negli anni Set-tanta e prese quindi a espandersi negli anni Ot tanta , la pro-porz ione di giovani (vale a dire quelli tra i quindici e i venti-quat t ro anni) nei maggiori paesi musulmani registrò u n a no-tevole espansione e superò il 20 per cento della popolazione totale. In molti paesi musulmani la percentuale di giovani rag-

36 Jack A. Goldstone, Revolution and Rebellion in theEarly Modem World, Berkeley, University of California Press, 1991, passim, in particolare le pp. 24-39. 37 Herbert Moeller, «Youth as a Force in the M o d e m World», in «Comparative Studies in Society and History», n. 10 (Aprile 1968), pp. 237-60; Lewis S. Feuer, «Generations and the Theory of Revoluton», in «Survey», n. 18 (Estate 1972), pp 161-88.

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• USA —ù— Paesi musulmani

— 0 — Europa ••••••••• Federazione russa

Fonte: United Nations, Population Division, Department for Econo-mie and Social Information and Policy Analysis, World Population Prospects, The 1994 Revision, New York, United Nations, 1995; United Nations, Population Division, Department for Economie and Social Information and Policy Analysis, Sex and Age Dìstribution of the World Population, The 1994 Revision, New York, United Nations, 1994.

giunse la p u n t a massima negli anni Settanta e Ot tanta , men t re in altri la toccherà all 'inizio del prossimo secolo (Tabella 5.1). In tutti questi paesi, le pun te massime reali o stimate superano come det to il 20 per cento, con l 'unica eccezione dell 'Arabia Saudita, per la quale la pun ta massima stimata per il p r imo de-cenn io del xxi secolo risulta di poco inferiore. Questi giovani f u n g o n o da serbatoio delle organizzazioni e dei movimenti po-litici islamisti. Non è forse pu ra coincidenza il fat to che la per-centuale di giovani rispetto al totale della popolazione irania-na abbia registrato un a u m e n t o spettacolare nel corso degli ann i Settanta, ragg iungendo il 20 per cento nella p r ima metà de l .decennio successivo, e che la rivoluzione i raniana sia scop-piata p ropr io nel 1979; o che la stessa percen tua le sia stata

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raggiunta in Algeria nei pr imi anni Novanta, p ropr io q u a n d o il Fis islamista ha conquistato u n g rande consenso popolare , che lo ha por ta to fino alla vittoria elettorale. L ' i nc remen to percen tua le dei giovani musulmani presenta tuttavia variazio-ni regionali po tenz ia lmente mol to impor tant i (Figura 5.3). Sebbene i dati disponibili vadano presi con cautela, le proie-zioni indicano che la percentua le di giovani bosniaci ed alba-nesi scenderà rap idamente a cavallo del secolo. L ' aumen to di giovani resterà invece mol to sostenuto negli stati del Golfo. Nel 1988, il pr incipe ereditario saudita Abdullah a f f e rmò che la minaccia più grave al p ropr io paese era costituita dall'asce-sa del fondamenta l i smo tra i giovani. ,a Secondo queste stime, questa minaccia con t inuerà a gravare per buona par te del xxi secolo.

Nei maggiori paesi arabi (Algeria, Egitto, Marocco, Siria, Tuni-sia), il numero di ventenni in cerca di lavoro crescerà all'incirca fi-no al 2010. Rispetto al 1990, i nuovi ingressi sul mercato del lavoro aumenteranno del 30 per cento in Tunisia, di circa il 50 per cento

Tabella 5.1 Punte massime della fascia di giovani nei paesi musulmani

1970-1980 1980-1990 1990-2000 2000-2010 2010-2020 Bosnia Siria Algeria Tagikistan Kirghizistan Bahrein Albania Iraq Turkmenistan Malaysia EAU Yemen Giordania Egitto Pakistan Iran Turchia Marocco Iran Siria Egitto Tunisia Bangladesh Arabia saudita Yemen Kazakistan Pakistan Indonesia Kuwait Giordania

Malaysia Sudan Iraq Kirghizistan Oman Tagikistan Libia Turkmenistan Afghanistan Azerbaigian

Decenni nei quali la fascia d'età compresa tra i 15 e i 24 anni ha toc-cato o toccherà la punta massima come percentuale della popolazio-ne totale (quasi sempre superiore al 20 per cento). In alcuni paesi ta-le punta massima viene toccata due volte. Fonte: Si veda la Figura 5.2

38 Peter W. Wilson e Douglas F. Graham, Saudi Arabia: The Coming Storm, Armonk, NY, M. E. Sharpe, 1994, pp. 28-9.

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Figura 5.3 Punte massime della fascia di giovani musulmani per regione

1965 1970 1980 1990 2000 2010

• Balcani —a— Paesi del Golfo

• Asia centrale ••••••••• Medio Oriente

• Africa Settentrionale

•Asia Meridionale

2020 2025

O—Sud Est Asiatico

Fonte: United Nations, Population Division, Department for Econo-mic and Social Information and Policy Analysis, World Population Prospects, The 1994 Revision, New York, United Nations, 1995; United Nations, Population Division, Department for Economic and Social Information and Policy Analysis, Sex and Age Distribution of the World Population, The 1994 Revision, New York, United Nations, 1994.

in Algeria, Egitto e Marocco e di oltre il 100 per cento in Siria. An-che la rapida espansione dell'alfabetizzazione nelle società arabe accentua il divario tra la giovane generazione di persone istruite e la generazione precedente prevalentemente analfabeta, determi-nando in tal modo una «spaccatura tra cultura e potere» che po-trebbe produrre «lacerazioni nei sistemi politici».™

3) Popolazioni più numerose r ichiedono maggiori risorse, cosicché le società densamente popolate o in rapido sviluppo demograf ico t endono a proiettarsi all 'esterno, a occupare ter-

39 Phi l ippe Fargues, «Demograph ic Explos ion or Social Upheaval», in Ghassen Salame (a cura di) , Democracy Without Democrats? The Renewal of Politics in the Muslim World. London , I. B. Tauris, 1994, pp. 158-62, 175-7.

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ri torio e a esercitare pressione su altri popol i demografica-mente m e n o dinamici. La crescita della popolazione islamica è d u n q u e u n ' i m p o r t a n t e causa di esasperazione dei conflitti emergent i lungo i confini del m o n d o islamico tra musulmani ed altre popolazioni. La pressione demografica unita alla sta-gnazione economica stimola l 'emigrazione musu lmana nelle società occidentali e non musu lmane in generale, de terminan-do un inaspr imento del p rob lema dell ' immigrazione. La con-trapposizione tra culture, u n a in rapida espansione demografi-ca e l 'altra in fase di stagnazione, induce all 'adozione di con-tromisure di carattere economico e / o politico nelle società di a m b e d u e i fronti . Negli anni Settanta, ad esempio, gli equilibri demografici nell 'ex Unione Sovietica h a n n o subito un drastico mutamento , con u n a crescita del 24 per cento dei musulmani rispetto al 6,5 per cento dei russi, il che ha suscitato grossi ti-mori tra i dirigenti comunisti dell'Asia centra le /"In ugual mo-do, l ' impetuosa crescita demograf ica degli albanesi n o n rassi-cura serbi, greci o italiani. Gli israeliani guardano con t imore all 'alto tasso di crescita dei palestinesi, men t re la Spagna, con un tasso di sviluppo demograf ico inferiore allo 0,2 per cento annuo , è minacciata dai vicini paesi maghrebini , che invece re-gistrano tassi di crescita di oltre dieci volte superiori e un Pnl p rò capite di circa un decimo rispetto a quello spagnolo.

Nuove sfide

Nessuna società p u ò sostenere all ' infinito una crescita eco-nomica a due cifre, e il boom economico asiatico è destinato a placarsi en t ro i primi anni del xxi secolo. A metà anni Settanta, il tasso di crescita economica giapponese ha subito u n a sostan-ziale r iduzione e da allora non si è più dimostrato sostanzial-men te superiore a quello degli Stati Uniti o dei paesi europei . U n o d o p o l 'altro, anche altri stati asiatici protagonisti del «mi-racolo economico» vedranno il p ropr io tasso di crescita ridursi e approssimarsi ai livelli «normali» delle economie mature . In ugual modo, nessuna reviviscenza religiosa o movimento cultu-

40 «Economisti», 29 agosto 1981, p. 40; Denis Dragounski, «Threshold of Violence», in «Freedom Review», n. 26 (Marzo-Aprile 1995), p. 11.

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rale dura all ' infinito, e pr ima o poi la Rinascita islamica si pla-cherà e svanirà nella storia. Ciò accadrà con maggiori probabi-lità allorché l ' impulso demografico che la sostiene si indebolirà nel secondo e terzo decenn io del prossimo secolo. A quel pun-to, le fila di militanti, guerriglieri ed emigranti si assottiglieran-no e l 'alto livello di conflittualità presente a l l ' in terno del mon-do islamico con altre popolazioni (si veda il capitolo 10) verrà probabi lmente a calare. I rappor t i tra Islam e Occidente non diverranno certo intimi, ma saranno m e n o conflittuali, e agli stati di guer ra strisciante (si veda il capitolo 9) suben t re ranno probabi lmente situazioni di guer ra f r edda o finanche di pace f redda .

Lo sviluppo economico in Asia p rodu r r à una serie di econo-mie più ricche e più complesse, con un alto livello di coinvol-g imento internazionale, una borghesia ricca e una classe me-dia benestante. E possibile che ciò porti a sviluppi politici in senso più pluralistico e forse anche più democrat ico, il che, tuttavia, non significa necessar iamente più filo-occidentale. L'accresciuto potere stimolerà viceversa negli asiatici un atteg-giamento sempre più spavaldo in campo internazionale, non-ché il tentativo di spostare gli indirizzi globali in u n a direzione m e n o congeniale all 'Occidente e di riforgiare le organizzazioni internazionali in m o d o da allontanarle dai modelli e dalle nor-me di s tampo occidentale. La Rinascita islamica, al pari di mo-vimenti simili quali ad esempio la Riforma protestante, pro-dur rà anche altre conseguenze. I musulmani svi lupperanno u n a più piena coscienza degli e lementi comuni tra loro e delle differenze con i non musulmani . La nuova generazione di lea-der che subentrerà al potere nei prossimi anni non sarà neces-sar iamente fondamental is ta , ma sarà cer tamente mol to più sensibile ai valori islamici rispetto a quanti li h a n n o preceduti . Il processo di indigenizzazione si rafforzerà. La Rinascita la-scerà in eredità una rete di organizzazioni sociali, culturali, eco-nomiche e politiche islamiste nazionali e transnazionali. Essa avrà inoltre dimostrato che «l'Islam è la soluzione» ai problemi di moralità, identità, o r i en tamento e fede, ma non a quelli del-l'ingiustizia sociale, della repressione politica, dell 'arretratezza economica e della debolezza militare. Questi fall imenti po-t ranno generare una p ro fonda delusione nei confront i dell'i-slamismo politico, una reazione contro di esso e u n a ricerca di

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soluzioni «alternative». È presumibile che possano emergere nuovi nazionalismi ancora più fo r t emen te antioccidentali , i quali po t rebbero addossare al l 'Occidente la responsabilità dei fall imenti dell 'Islam. Oppure , se Malaysia e Indonesia conti-n u e r a n n o a perseguire la strada del progresso economico, po-t rebbero offr ire un «modello islamico» di sviluppo alternativo a quello occidentale e asiatico

A ogni modo , per i prossimi decenni la crescita economica asiatica avrà effetti p ro fondamen te destabilizzanti sul l 'ordine internazionale oggi domina to dal l 'Occidente. In particolare, lo sviluppo della Cina, se cont inuerà , p rodur rà un massiccio spostamento negli equilibri di potere tra le civiltà. Inoltre, l 'In-dia po t rebbe avviare una fase di rapida espansione economica e rivelarsi u n a seria con tenden te della Cina per l 'acquisizione di inf luenza nel l ' a rena internazionale. Nel f ra t tempo, lo svi-luppo demograf ico musu lmano costituirà un fat tore destabiliz-zante sia per le società musulmane che per i paesi confinanti . Il gran n u m e r o di giovani dotati di istruzione secondaria conti-nuerà ad al imentare la Rinascita islamica e a fomenta re l'attivi-smo, il militarismo e l 'emigrazione musulmana. Nei prossimi decenni assisteremo perciò alla persistente ascesa del po tere e della cultura non occidentali e allo scontro dei popoli non oc-cidentali sia tra loro sia con l 'Occidente.

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Ili L'ORDINE EMERGENTE DELLA CIVILTÀ

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CAPITOLO SESTO La ridefinizione culturale dello scenario politico mondia le

Alla ricerca del gruppo: la politica dell'identità

Stimolato dal processo di modernizzazione, il quadro politico mondiale sta attraversando un processo di ridefinizione culturale. Popoli e paesi di uguale cultura tendono sempre più ad avvici-narsi, mentre popoli e paesi di diversa cultura tendono ad allon-tanarsi. Gli schieramenti nati dal credo ideologico e politico del-le due superpotenze stanno cedendo il passo a schieramenti de-terminati da concetti quali cultura e civiltà. Sempre più spesso i confini politici vengono ridisegnati in modo da ricalcare quelli culturali: etnici, religiosi e di civiltà. Le alleanze tra paesi cultu-ralmente affini stanno sostituendo i blocchi prodotti dalla Guerra fredda, e le linee di faglia tra civiltà stanno diventando i principa-li punti di conflitto dello scacchiere internazionale.

Durante la Guerra f redda un paese poteva dichiararsi non al-lineato, come accadde in molti casi, oppure , come fece qualcu-no, passare da una par te all 'altra della barricata. I leader di un paese potevano compiere tali scelte in base a considerazioni di sicurezza, a calcoli di equilibrio di potere o alle loro preferenze ideologiche. Nel nuovo mondo , invece, l ' e lemento principale che de te rmina associazioni e antagonismi tra gli stati è l ' iden-tità culturale. Se ai tempi della Guerra f r edda un paese poteva scegliere di non allinearsi, oggi non può non avere u n a propria identità. Alla domanda «Da che par te stai?», se ne è sostituita un 'al t ra , ben più fondamenta le : «Chi sei?». A questa d o m a n d a ogni stato è tenuto a r ispondere , e la risposta, esplicando la sua identi tà culturale, ne decide la collocazione sullo scacchiere politico mondiale de t e rminando amici e nemici.

Gli anni Novanta h a n n o visto esplodere una crisi d ' ident i tà su scala mondiale . Ovunque si guardi, la gente sembra chie-dersi, «Chi siamo?», «A cosa apparteniamo?» e «Chi sono gli al-

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tri?». Domande basilari non solo per i popoli che tentano di da-re vita a nuovi stati nazionali, come nel caso dell 'ex Jugoslavia, ma anche in un senso molto più generale. A metà degli anni Novanta, tra i paesi in cui la quest ione dell ' identità nazionale era at t ivamente dibattuta f iguravano: Algeria, Canada, Cina, Germania , Giappone, Gran Bretagna, India, Iran, Marocco, Messico, Russia, Siria, Stati Uniti, Sudafrica, Tunisia, Turchia e Ucraina. I problemi r iguardant i l ' identi tà sono c o m ' è ovvio par t ico larmente sentiti in paesi divisi dove vivono g rupp i con-sistenti di persone provenienti da civiltà diverse.

Posto dinanzi a u n a crisi d ' ident i tà , ciò che per un u o m o conta più di ogni altra è il sangue, la fede e la famiglia. Egli ten-de a far quadra to con quant i condividono con lui progenie , re-ligione, lingua, valori ed istituzioni, e ad allontanarsi da quant i ne differiscono. In Europa, al l 'epoca della Guerra f r edda pae-si come Austria, Finlandia e Svezia, di matrice culturale occi-dentale, dovettero separarsi dal l 'Occidente e proclamarsi neu-trali; oggi possono ricongiungersi al propr io ceppo culturale ne l l 'Unione europea. I paesi cattolici e protestanti dell 'ex Pat-to di Varsavia - Polonia, Ungher ia , Repubblica Ceca e Slovac-chia - s tanno preparandosi a un fu tu ro ingresso nel l 'Ue e nel-la Nato, seguiti dappresso dagli stati baltici. Le potenze euro-pee f a n n o chiaramente in tendere di non desiderare l ' ingresso ne l l 'Unione europea di u n o stato musulmano, la Turchia, e non appa iono per nulla content i di ritrovarsi un secondo stato musulmano, la Bosnia, nel cont inente europeo. A Nord, il crol-lo de l l 'Unione Sovietica stimola la rinascita di nuovi (e vecchi) modelli associativi tra le repubbl iche baltiche e tra queste, la Svezia e la Finlandia. Il p r imo ministro svedese non pe rde oc-casione di r icordare alla Russia che le repubbl iche baltiche fan-no par te dei «paesi limitrofi» della Svezia, la quale non potreb-be d u n q u e restare neutrale in caso di aggressione russa ai loro danni .

Riall ineamenù simili vanno compiendosi anche nei Balcani. All 'epoca della Guerra f redda, Grecia e Turchia facevano parte della Nato, Bulgaria e Romania del Patto di Varsavia, la Jugosla-via era non allineata e l 'Albania era un paese isolato, occasio-nalmente vicino alla Cina comunista. Oggi questo al l ineamento va cedendo il posto a schieramend di tipo nuovo, fondati sulla fede ortodossa e islamica. I leader dei paesi balcanici vorrebbe-

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ro formalizzare un'al leanza greco-serbo-bulgara di matrice or-todossa. Le «guerre nei Balcani«, ha sostenuto il p r imo ministro greco, «... h anno fatto rimbombare l 'eco degli antichi legami ortodossi ... Questo è un vincolo. Era come un letargo, ma con gli sviluppi verificatisi nei Balcani sta ora diventando u n a cosa concreta. In un m o n d o in costante trasformazione l ' uomo è al-la ricerca di identità e di sicurezze. E in cerca di radici e di ami-ci per proteggersi dall ' ignoto». Opinioni simili sono state espresse dal leader del principale partito d 'opposizione serbo: «La situazione creatasi in Europa sudorientale imporrà ben pre-sto la formazione di una nuova alleanza balcanica di paesi orto-dossi comprenden te Serbia, Bulgaria e Grecia, per opporsi al-l ' invadenza dell'Islam». A nord , Serbia e Romania, en t rambe ortodosse, col laborano stret tamente alla risoluzione dei loro problemi comuni nei confront i della cattolica Ungheria . Con la scomparsa della minaccia sovietica, l 'alleanza «innaturale» tra Grecia e Turchia perde significato alla luce dei sempre più aspri conflitti in atto tra i due paesi in relazione al Mar Egeo, a Cipro, ai reciproci equilibri militari, al loro ruolo nella Nato e nell 'U-nione europea e ai loro rapport i con gli Stati Uniti. La Turchia torna a rivendicare il propr io ruolo di protettrice dei musulma-ni balcanici e sostiene la Bosnia. Nella ex Jugoslavia, la Russia so-stiene la Serbia ortodossa, la Germania appoggia la Croazia cat-tolica, i paesi musulmani accorrono in aiuto del governo bo-sniaco, men t re i serbi combat tono contro croati, musulmani bosniaci e musulmani albanesi. Nel complesso, i Balcani sono stati ancora una volta «balcanizzati» lungo linee di demarcazio-ne religiose. «Stanno emergendo due poli ben distinti», ha os-servato Misha Glenny, «avvolti l ' uno nella tunica dell 'ortodossia orientale, l 'altro nel velo islamico», e c'è il pericolo che si scate-ni «una lotta sempre più intensa per la conquista di influenza tra l'asse Belgrado-Atene e l 'alleanza turco-albanese».1

Nell 'ex Unione Sovietica, intanto, le ortodosse Bielorussia, Moldavia e Ucraina gravitano nell 'orbita russa; a rmeni e azeri

1 Andreas Papandreou, «Europe Turns Left», in «New Perspectives Quar-terly», n. 11 (Inverno 1994), p. 53; Vuk Draskovic, cit. in Janice A. Broun, «Islam in the Balkans», in «Freedom Review», n. 22 (Novembre-Dicembre 1991), p. 31; F. Stephen Larrabee, «Instability and Change in the Balkans», in «Survival», n. 34 (Estate 1992), p. 43; Misha Glenny, «Heading Off War in the Southern Balkans», in «Foreign Affairs», n. 74 (Maggio-Giugno 1995), pp. 102-3.

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si combat tono a vicenda, men t re i rispettivi confratelli russi e turchi ten tano al con tempo di assisterli e di circoscrivere il con-flitto. L'esercito russo combat te contro i fondamental is t i mu-sulmani in Tagikistan e contro i nazionalisti musulmani in Ce-cenia. Le ex repubbl iche sovietiche musu lmane tentano di svi-luppare tra loro varie fo rme di associazione economica e poli-tica e di espandere i rispettivi legami con i paesi limitrofi mu-sulmani, men t re Turchia, Iran e Arabia Saudita p r o f o n d o n o grandi sforzi per instaurare rappor t i con questi nuovi stati. Nel subcont inente , India e Pakistan sono sempre ai ferri corti ri-guardo al Kashmir e ai rispettivi equilibri militari; gli scontri nel Kashmir vanno intensificandosi, men t re in India divampa-no nuovi conflitti tra fondamental is t i musulmani e indù.

In Asia orientale, patria di sei diverse civiltà, la corsa agli ar-mament i sta accelerando il passo e s tanno sorgendo nuove di-spute territoriali. Le tre «Cine minori» - Taiwan, H o n g Kong e Singapore - e le comuni tà cinesi residenti nel Sud-Est asiatico manifes tano nei confront i di Pechino un 'a t t enz ione sempre maggiore, nonché , coinvolgimento e subordinazione. Le due Coree avanzano a passi esitanti ma significativi verso la riunifi-cazione. In tutta l 'area del Sud-Est asiatico i rappor t i tra mu-sulmani da un lato e cinesi e cristiani dall 'altro si f anno sempre più tesi e a volte violenti.

In America latina, le associazioni economiche - Mercosur, Patto andino, Patto trilaterale (Messico, Colombia e Venezue-la) , Mercato c o m u n e cent roamer icano - assurgono a nuova vi-ta, con ciò con fe rmando quan to già icasticamente dimostrato dal l 'Unione europea e cioè che l ' integrazione economica pro-cede più spedi tamente se è fonda ta su u n a comunanza cultu-rale. Intanto Stati Uniti e Canada tentano di coinvolgere il Mes-sico nel Nafta (l'Area nordamer icana di libero scambio) me-diante un processo il cui successo di lungo per iodo d ipende in gran par te dalla capacità o m e n o del Messico di ridefinirsi da paese la t inoamericano a paese nordamer icano .

Con la fine del l 'ordine della Guer ra f redda , dunque , i paesi di tutto il m o n d o sviluppano nuovi antagonismi ed associazio-ni, o ne rinvigoriscono di vecchi. Tentano di costituirsi in grup-po e cercano di farlo con paesi di uguale cultura e civiltà. I lea-der di governo invocano e l 'opinione pubblica si identifica con comuni tà culturali «grandi» che t rascendono i confini nazio-

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nali: «Grande Serbia», «Grande Cina», «Grande Turchia», «Grande Ungheria», «Grande Croazia», «Grande Azerbaigian», «Grande Russia», «Grande Albania», «Grande Iran», «Grande Uzbekistan».

Simili schieramenti politici ed economici verranno sempre a coincidere con quelli legati alla cultura e alla civiltà di apparte-nenza? Natura lmente no. Considerazioni di equilibrio dei po-teri po r t e r anno a volte ad alleanze tra civiltà diverse, come av-venne q u a n d o Francesco i si alleò con gli o t tomani contro gli Asburgo. Inoltre, associazioni sorte in passato per servire i fini di de terminat i stati t ende ranno a perpetuarsi anche in fu turo , ma è tuttavia probabile che vengano a perdere di forza e signi-ficato e che debbano ristrutturarsi in m o d o da poter adeguata-men te o t temperare agli imperativi dettati dalla nuova epoca. Grecia e Turchia res teranno cer tamente membr i della Nato, ma è probabile che i loro rappor t i con gli altri membr i di que-sta organizzazione si a t t enueranno . Lo stesso po t rebbe accade-re all 'alleanza formale degli Stati Uniti con Giappone e Corea, a quella de facto con Israele e ai suoi legami con il Pakistan in materia di sicurezza. Le organizzazioni internazionali compo-ste da più civiltà, quali l'Asean,2 f a ranno probabi lmente sempre più fatica a mantenere la coesione interna. Paesi come India e Pakistan, all 'epoca della Guerra f r edda schierati sui due oppo-sti versanti, s tanno oggi r idef inendo i propr i interessi e cercano nuove associazioni che riflettano le realtà culturali del quadro politico internazionale. I paesi africani un tempo d ipendent i dal sostegno occidentale volto a contrastare l ' inf luenza sovieti-ca nel continente, guardano oggi sempre più al Sudafrica come paese leader.

Perché la comunanza culturale dovrebbe facilitare la coope-razione e la coesione tra i popoli, e le differenze culturali pro-muovere invece spaccature e conflitti?

1) Ogni essere u m a n o presenta molteplici identità, comple-mentar i o contrapposte: di consanguineità, di educazione, pro-fessionale, culturale, istituzionale, territoriale, ideologica, e al-tre ancora. Identi tà inerenti a u n a data d imensione possono scontrarsi con quelle inerent i ad u n a dimensione diversa. Un

2 Association of Southeast Asian Nations, Associazione delle Nazioni del Sud-Est asiatico [n.d.t.]

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esempio classico è quello degli operai tedeschi che nel 1914 dovettero scegliere tra il proletariato internazionale da un lato e il popolo e l ' impero tedesco dall 'altro. Nel m o n d o contem-poraneo , l ' identi tà culturale sta assumendo un ' impor tanza sempre maggiore rispetto alle altre fo rme di identità.

Nel l 'ambito di ogni singola dimensione, l ' identità assume la massima rilevanza al livello più immediato di contrapposizione. Non necessariamente, tuttavia, le identità più circoscritte con-trastano con quelle più ampie. Un ufficiale militare p u ò iden-tificarsi al livello istituzionale con la propr ia compagnia, reggi-mento , divisione ed esercito. Allo stesso modo, u n a persona p u ò identificarsi cul turalmente con il propr io clan, g r u p p o et-nico, nazionalità, religione e civiltà. Come ha suggerito Burke, «L'amore per il tutto non viene soffocato da questa parzialità subordinata. ... Essere affezionati alla sottoentità, amare il no-stro p lo toncino d ' appar tenenza a l l ' in terno della società, è il p r imo principio (po t remmo dire il germe) degli affetti uma-ni». In un m o n d o in cui ciò che conta è la cultura, i plotoni so-no le tribù e i g ruppi etnici, i reggimend sono le nazioni, e gli esercid sono le civiltà. La misura sempre maggiore con cui i po-poli di tutto il m o n d o si differenziano lungo linee di demarca-zione culturali significa che i conflitti tra gruppi culturali di-versi diventano sempre più importanti ; le civiltà rappresen tano le più vaste entità culturali, perciò i conflitti tra g ruppi appar-tenent i a civiltà diverse assumono rilevanza fondamenta le sullo scacchiere politico internazionale.

2) L'accresciuta importanza dell ' identi tà culturale, come vi-sto nei capitoli 3 e 4, è in larga par te il risultato, della moder-nizzazione socioeconomica verificatasi sia al livello individuale, dove alienazione e disor ientamento creano il bisogno di più strette identità, sia al livello sociale, dove l 'accresciuta forza e le maggiori potenzialità delle società non occidentali st imolano il risveglio delle identità e culture autoctone.

3) A qualsiasi livello - individuale, tribale, razziale, di civiltà -l ' identità è definibile esclusivamente in rappor to a un «altro», a una diversa persona, tribù, razza o civiltà. Storicamente, i rap-porti tra stati o altre entità appar tenent i alla medesima civiltà sono sempre stati diversi rispetto a quelli tra stati o entità di ci-viltà differenti . Codici diversi governano l 'a t teggiamento uma-no verso chi è «come noi» e verso i «barbari» diversi da noi. Le

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n o r m e che regolavano i rapport i tra nazioni cristiane differiva-no da quelle che cont rapponevano det te nazioni ai turchi e ad altri popoli «infedeli». I musulmani h a n n o agito in m o d o di-verso nei confront i degli esponent i del Dar ai-Islam, e di quelli del Dar al-harb. I cinesi t ra t tano gli stranieri di origine cinese in m o d o ben diverso da quelli di altra origine. La contrapposizio-ne tra «noi» membri della civiltà e gli «altri» barbari è u n a co-stante nella storia del genere umano . Tali differenze di com-por t amen to h a n n o le seguenti motivazioni:

a. Un sent imento di superiorità (ma a volte anche di inferio-rità) nei confront i di popoli ri tenuti comple tamente diversi.

b. La paura o la mancanza di fiducia nei confront i di questi popoli .

c. Le difficoltà di comunicazione con essi, dovuta alle diver-sità linguistica ma anche a u n a diversa interpretazione del con-cetto di compor t amen to civile.

d. La mancanza di familiarità con i valori, i rappor t i e le con-suetudini sociali di altri popoli.

Nel m o n d o d'oggi, i progressi conseguiti nel settore dei tra-sporti e delle comunicazioni h a n n o porta to a un grado di inte-razione tra i popoli di culture diverse molto più ampio, intenso e paritario, il che ha a sua volta stimolato u n a maggiore co-scienza della propria civiltà d 'appar tenenza . Francesi, tedeschi, belgi e olandesi vanno sempre più considerandosi cittadini eu-ropei. I musulmani medioriental i si identif icano e si schierano con i bosniaci e i ceceni. I cinesi di tutta l'Asia orientale identi-ficano i propr i interessi con quelli della Repubblica popolare. I russi si identificano e si schierano con i serbi e gli altri popoli ortodossi. Questi ampi livelli di identificazione della propr ia ci-viltà si t r aducono in una maggiore sensibilità alle differenze che contraddis t inguono u n a civiltà dall 'altra e nel bisogno di proteggere tutto quan to distingue «noi» da «loro».

4) Le cause di conflittualità tra stati e gruppi appar tenent i a civiltà diverse sono, in larga parte, le stesse di quelle che da sempre h a n n o genera to conflitti tra i popoli: controllo sulla popolazione, territorio, ricchezza, risorse e potere relativo, vale a dire la possibilità di impor re i nostri valori, istituzioni e cano-ni culturali a un altro g r u p p o e impedire che tale g r u p p o fac-

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eia lo stesso con noi. La conflittualità tra gruppi di diversa cul-tura, tuttavia, p u ò anche investire questioni di carattere, ap-punto , culturale. Le differenze ideologiche tra Marxismo-Leni-nismo e democrazia liberale possono quan to m e n o essere di-scusse, se non risolte. Le vertenze di carattere materiale posso-no essere negoziate e spesso risolte mediante un compromesso. Nessuna di tali soluzioni è invece possibile con i problemi di na tura culturale. E poco probabile che indù e musulmani pos-sano risolvere la disputa se ad Ayodhya debba essere costruito un tempio o u n a moschea cos t ruendo entrambi , o p p u r e né l ' u n o né l 'altra, oppu re e r igendo un edificio sincrético che funga al con tempo da tempio e da moschea. Né quella che po-trebbe sembrare una quest ione di carattere s t ret tamente terri-toriale tra musulmani albanesi e serbi ortodossi per il Kosovo, o tra ebrei e arabi su Gerusalemme, p u ò trovare facile soluzione, in quan to questi luoghi h a n n o pe r en t rambi i popol i u n p ro fondo significato storico, culturale ed emozionale. Allo stes-so modo , né le autorità francesi né i genitori musulmani sem-brano disposti ad accettare un compromesso che consenta alle studentesse musulmane di indossare il velo a scuola un g iorno sì e u n o no. Questioni culturali come questa implicano prese di posizione nette, o nero o bianco.

5) La conflittualità è universale. Odiare è umano. Per potersi definire e per trovare le oppor tune motivazioni, l 'uomo ha biso-gno di nemici: concorrenti in affari, avversari in qualsiasi tipo di competizione, rivali in politica. Egli diffida istintivamente e con-sidera un pericolo quanti sono diversi da lui e possono in qual-che modo danneggiarlo. La risoluzione di un conflitto e la scom-parsa di un nemico scatenano forze individuali, sociali e politi-che che por tano alla nascita di nuovi conflitti e nemici. «La ten-denza al "noi" contro "loro"», ha osservato Ali Mazrui, «in cam-po politico, è pressoché universale».1 Nel mondo contempora-neo, «loro» significa sempre più spesso popoli di diversa civiltà. La fine della Guerra f redda non ha posto fine alla conflittualità, ma ha piuttosto fatto emergere nuove identità radicate nella cul-tura e nuovi canoni di conflittualità tra gruppi di culture diverse e, a livello più generale, di civiltà diverse. Nel contempo, la co-

3 Ali Al-Amin Mazrui, Cultural Forres in World Politics, London, James Currey, 1990, p. 13.

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munanza culturale incoraggia la cooperazione tra stati e gruppi, come confermano i modelli emergend di associazione regionale tra paesi, part icolarmente in campo economico.

Cultura e cooperazione economica

Nei primi anni Novanta si è molto parlato di regionalismo e di regionalizzazione della politica mondiale . I conflitti regio-nali h a n n o sostituito il conflit to globale quale principale tema di dibattito internazionale in materia di sicurezza. Grandi po-tenze quali Russia, Cina e Stati Uniti, n o n c h é alcune potenze minori quali ad esempio Svezia e Turchia, h a n n o ridefìnito i propr i interessi in materia di sicurezza in termini esplicitamen-te regionali. Il commercio a l l ' in terno delle singole regioni si è espanso più rap idamente di quello interregionale, e molti han-no previsto la nascita di alcuni blocchi economici regionali: eu-ropeo, nordamer icano, est-asiatico e forse altri ancora.

Il t e rmine «regionalismo», tuttavia, non descrive in m o d o adeguato quanto sta accadendo. Le regioni sono endtà geogra-fiche, non politiche o culturali. Come è accaduto nei Balcani o in Medio Oriente, possono essere lacerate da conflitti interni a u n a data civiltà oppure tra due o più civiltà diverse. Le regioni costituiscono una base per la cooperazione tra stati solo nella misura in cui i confini geografici coincidono con quelli cultura-li. Se così non è, la contiguità fisica non promuove affatto la co-munanza e potrebbe viceversa p rodur re il risultato opposto. Le alleanze militari e le associazioni economiche r ichiedono la cooperazione tra i vari membr i che le compongono; la coope-razione si basa sulla fiducia, e la fiducia nasce pr incipalmente da cultura e valori comuni. Di conseguenza, benché tradizione e comunanza d'interessi svolgano un ruolo importante, la reale efficacia delle organizzazioni regionali varia di n o r m a in misura inversamente proporzionale al n u m e r o di civiltà che ne f anno parte. In linea generale, le organizzazioni costituite da un 'unica civiltà sono più attive e o t tengono maggiori risultati di quelle composte da più civiltà. Questo vale sia per le organizzazioni politiche e di sicurezza che per quelle economiche.

Il successo della Nato è dipeso in gran parte dal fatto di es-sere la principale strut tura di difesa di paesi occidentali acco-

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munat i dagli stessi valori e dalla medesima filosofia di vita. L'U-nione europea è il p rodot to di u n a c o m u n e cultura europea . L'Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce), viceversa, comprende paesi di a lmeno tre diverse ci-viltà e con valori ed interessi dissimili: ciò pone grossi ostacoli alla creazione di una significativa identità istituzionale e all'e-spletamento di molte important i attività. La Comuni tà caraibi-ca (Caricom), composta da tredici ex colonie br i tanniche di l ingua inglese e appar tenent i a un 'un ica civiltà, ha realizzato u n ' a m p i a gamma di accordi di cooperazione, con f o r m e di as-sociazione par t icolarmente intense tra alcuni sot togruppi. Vari tentativi di creare organizzazioni caraibiche allargate che in-globassero la linea di faglia anglo-ispanica sono, tuttavia, pun-tua lmente falliti. Allo stesso modo , l'Associazione dell'Asia me-ridionale per la cooperazione regionale, creata nel 1985 e com-p r e n d e n t e sette stati indù, musulmani e buddisti, si è rivelata un fal l imento pressoché totale, al pun to di non riuscire nean-che a organizzare i propr i incontri.4

Il r appor to tra cultura e regionalismo risalta con particolare evidenza nel campo del l ' integrazione economica. In ord ine crescente di integrazione, i quat t ro livelli di associazione eco-nomica tra stati c o m u n e m e n t e r iconosciud sono:

1. area di libero scambio; 2. un ione doganale; 3. mercato comune; 4. un ione economica.

L 'Unione europea è l 'organizzazione che più di altre ha im-boccato la strada dell ' integrazione, con la creazione di un mer-cato comune e di molti altri elementi propri di un ' un ione eco-nomica. Nel 1994, i paesi relativamente omogenei del Mercosur e del Patto andino avevano già avviato un processo di un ione do-ganale. In Asia, l'Asean, organismo multiculturale, ha iniziato a muoversi verso la creazione di un 'area di libero scambio soltanto nel 1992. Altre organizzazioni economiche comprendent i più ci-viltà e rano in fase ancor più arretrata. Nel 1995, con la parziale

4 Si veda, ad esempio, «Economist», 16 novembre 1991, p. 45; 6 maggio 1995, p. 36.

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eccezione del Nafta, nessuna organizzazione di questo tipo aveva dato vita a un 'area di libero scambio, per non parlare di fo rme più estese di integrazione economica.

In Europa occidentale e in America latina la c o m u n e civiltà stimola la cooperazione e l 'organizzazione su base regionale. Europei occidentali e lat inoamericani sanno di avere molto in comune. In Asia orientale convivono cinque civiltà (sei volendo includere la Russia). Questa regione è d u n q u e il banco di pro-va ideale per tentare di sviluppare organizzazioni important i non radicate in una c o m u n e civiltà. Ancora nei primi anni No-vanta non esisteva in Asia orientale alcuna organizzazione per la sicurezza o alleanza militare multilaterale paragonabile alla Nato. Nel 1967 venne creata un 'organizzazione regionale a più civiltà, l 'Asean, composta da due stati musulmani , u n o sinico, u n o buddista e u n o cristiano, tutti alle prese con reali pericoli di sommosse comuniste in te rne o con potenziali minacce di invasioni comuniste dal Vietnam del Nord e dalla Cina.

L'Asean viene spesso citata come esempio di efficace organiz-zazione multiculturale. In realtà, essa è un perfet to esempio dei limiti insiti in tale tipo di organizzazione. Non è un'alleanza mi-litare: se alcuni dei suoi membri a volte collaborano militarmen-te su base bilaterale, quel che è certo è che tutti aumentano il bi-lancio per la difesa e ampliano il proprio arsenale militare, in stridente contrasto con le riduzioni in atto in Europa occidenta-le e America latina in entrambi i settori. Sul versante economico, sin dalla nascita l'Asean era stata concepita per conseguire «la cooperazione, più che l ' integrazione economica», cosicché il re-gionalismo è andato sviluppandosi a un «ritmo modesto» e fi-nanche l 'attuazione di una semplice area di libero scambio non sarà realizzata prima del xxi secolo.' Nel 1978 l'Asean ha inau-gurato le cosiddette «Conferenze post-ministeriali», in cui i mi-nistri degli Esteri dei rispettivi paesi membri potevano incontra-re quelli dei propri «partner di dialogo»: Stati Uniti, Giappone, Canada, Australia, Nuova Zelanda, Corea del Sud e Comunità europea. Tale organismo, tuttavia, si è rivelato principalmente un fo rum per contatti bilaterali e non è stata in grado di affron-

5 Ronald B. Palmer e Thomas J. Reckford, Building ASEAM: 20 Years ofSoulh-east Asian Cooperation, New York, Praeger, 1987, p. 109; «Economist», 23 lu-glio 1994, pp. 31-2.

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tare «nessun tema importante in materia di sicurezza».b Nel 1993 l'Asean dette vita ad un ente ancora più ampio, il «Forum regio-nale dell'Asean», comprendente i propri membri ed i par tner di dialogo, più Russia, Cina, Vietnam, Laos e Papua Nuova Guinea. Come il nome stesso lascia intendere, tuttavia, questo organi-smo è un luogo di discussione anziché di azione collettiva. Nel corso della prima riunione, svoltasi nel luglio del 1994, gli stati membri si limitarono a «esprimere le rispettive opinioni sui temi inerenti alla sicurezza regionale», ma le questioni più controver-se fu rono accuratamente evitate in quanto, come osservò un funzionario, se fossero state sollevate «le parti interessate avreb-bero cominciato ad accusarsi a vicenda».' L'Asean e le organiz-zazioni da essa derivate incarnano insomma i limiti inerenti agli organismi regionali comprendent i civiltà diverse.

La creazione di organizzazioni regionali est-asiatiche signifi-cative sarà possibile solo q u a n d o in quel l 'area esisterà una co-munanza culturale capace di sostenerle. Le società est-asiati-che h a n n o sicuramente delle cose in comune che le differenzia dal l 'Occidente . Il p r imo ministro malaysiano, Mahathi r Mohammad, sostiene che tali valori comuni sono la base di una possibile associazione, p r o p o n e n d o in tal senso la creazione di u n o speciale organismo, il Comitato per l 'economia est-asiatica (East Asian Economie Caucus, Eaec), di cui dovrebbero far par-te i paesi dell 'Asean, la Birmania, Taiwan, H o n g Kong, la Corea del Sud e, soprattutto, Cina e Giappone. Mahatir sostiene che l 'Eaec a f fonda le radici in u n a cultura comune e che dovrebbe essere considerato «non un semplice r aggruppamen to geogra-fico, solo perché si trova in Asia orientale, ma anche un rag-g r u p p a m e n t o culturale. Sebbene gli est-asiatici possano essere giapponesi, o coreani o indocinesi, cul turalmente essi presen-tano delle similitudini. ... Gli europei si uniscono in g ruppo , gli americani si uniscono in g ruppo . Anche noi asiatici dovremmo unirci in gruppo». Scopo del l 'organismo, come ha a f fe rmato u n o dei suo collaboratori, è quello di promuovere «il commer-cio regionale tra i paesi asiatici uniti da valori comuni»."

6 Barry Buzan e Gerald Segai, «Rethinking East Asian Security», in «Survi-val », n. 36 (Estate 1994) , p. 16. 7 «Far Eastern Economie Review», 11 agosto 1994, p. 34. 8 Conversazione tra Datsuk Seri Mahatir bin Mohamad della Malaysia e Keni-chi Ohmae, pp. 3, 7; Rafidah Azia, «New York Times», 12 febbraio 1991, p. D6.

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Il presupposto di f o n d o dell 'Eaec è d u n q u e che l ' economia segue la cultura. Australia, Nuova Zelanda e Stati Uniti ne sono escluse perché cul turalmente n o n sono paesi asiatici. Il succes-so dell 'Eaec, tuttavia, d ipende fondamenta lmen te dalla parte-cipazione di Cina e Giappone. Mahathir ha supplicato il Giap-pone di parteciparvi. «Il Giappone è un paese asiatico. Il Giap-pone fa par te dell'Asia orientale», a f fe rmò dinanzi ad un pub-blico di giapponesi. «Questa è u n a realtà geopolitica che non potete ignorare. Voi fate par te dell'Asia».9 Il governo nipponi-co, tuttavia, si è mostrato riluttante ad entrare nell 'Eaec, in par-te per t imore di irritare gli Stati Uniti, in parte perché diviso sul l 'opportuni tà o m e n o di identificarsi con l'Asia. Se il Giap-p o n e entrasse a far parte dell 'Eaec, finirebbe col dominarla , il che creerebbe probabi lmente timori e incertezze tra gli altri partecipanti , nonché un for te antagonismo con la Cina. Per anni si è fat to un gran parlare della possibilità che il Giappone desse vita a un «blocco dello yen» asiatico come contral tare al-l 'Unione europea ed al Nafta. Il Giappone, tuttavia, è un paese isolato con ben pochi legami culturali con gli stati confinanti , cosicché a tutto il 1995 non si era ancora verificata alcuna ini-ziativa in tal senso.

Sebbene l'Asean proceda a fatica, il blocco dello yen sia ri-masto un sogno, il Giappone si mostri t i tubante e l 'Eaec non sia mai decollato, il livello di interscambio economico in Asia orientale è aumenta to e n o r m e m e n t e . Questa espansione af fonda le proprie radici nei legami culturali tra le comuni tà ci-nesi dell'Asia orientale; questi legami h a n n o dato vita a un in-cessante processo di «integrazione informale» di u n a rete eco-nomica internazionale, incentrata sulla Cina, paragonabile per molti aspetti alla Lega anseatica, e che «potrebbero forse con-du r r e alla creazione di un merca to c o m u n e cinese de facto»"' (si vedano le pp. 243-253). In Asia orientale, come altrove, la co-munanza culturale è stata il prerequisi to per u n a significativa integrazione economica.

La fine della Guerra f r edda ha stimolato l ' impegno a creare nuove organizzazioni economiche regionali o a r ipor tare in vi-

9 «Japan Times», 7 novembre 1994, p. 19; «Economist», 19 novembre 1994, p. 37. 10 Murray Weidenbaum, «Greater China: A New Economie Colossus?», in «Washington Quarterly», n. 16 (Autunno 1993), pp. 78-80.

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ta quelle preesistenti. Il successo di questi tentativi è dipeso so-pra t tu t to da l l 'omogenei tà culturale degli stati promotor i . Il proget to di un mercato c o m u n e medior ientale avanzato nel 1994 da Shimon Peres è probabi lmente destinato a r imanere ancora per qualche t empo un «miraggio nel deserto»: «Il mon-do arabo», ha commenta to un funzionar io arabo, «non ha al-cun bisogno di un' ist i tuzione o di una banca per lo sviluppo di cui faccia par te anche Israele»." L'Associazione degli stati ca-raibici, creata nel 1994 per collegare il Caricom ed Haiti e ai paesi di l ingua spagnola della regione, non sembra poter supe-rare le differenze culturali e linguistiche dei suoi membri , non-ché l ' impenetrabi l i tà delle ex colonie br i tanniche e la loro marcata propens ione filoamericana.12 Buoni progressi sembra-va invece stessero o t t enendo i tentativi di coinvolgere organiz-zazioni cul turalmente più omogenee . Sebbene divise in diffe-renti sottociviltà, nel 1985 Pakistan, Iran e Turchia r ipor ta rono in vita la mor ibonda Cooperazione regionale per lo sviluppo, creata nel 1977, r idenominandola «Organizzazione per la Coo-perazione Economica» (Oce). In seguito f u r o n o raggiunti ac-cordi in materia di riduzioni tariffarie e su altre questioni, e nel 1992 l 'Oce si allargò con l ' ingresso dell 'Afghanistan e delle sei ex repubbl iche sovietiche musulmane . Nel f ra t tempo, le cin-que ex repubbl iche sovietiche dell'Asia centrale raggiunsero nel 1991 un accordo di principio per la creazione di un merca-to comune , e nel 1994 i suoi due maggiori stati, Uzbekistan e Kazakistan, f i rmarono un accordo che prevedeva la «libera cir-colazione di beni, servizi e capitali» e il coord inamento delle ri-spettive politiche fiscali, monetar ie e tariffarie. Nel 1991, Brasi-le, Argentina, Uruguay e Paraguay det tero vita al Mercosur, or-ganizzazione nata con l 'obiettivo di saltare a piè pari le norma-li fasi di integrazione economica e che nel 1995 aveva già rea-lizzato una parziale un ione doganale. Nel 1990, il Mercato co-m u n e centroamericano, f ino ad allora stagnante, creò un ' a r ea di libero scambio, e nel 1994 l 'al tret tanto abulico Patto and ino diede vita a u n ' u n i o n e doganale. Nel 1992 i paesi del Visegrad

11 «Wall Street Journal.», 30 settembre 1994, p. A8; «New York Times», 17 febbraio 1995, p. A6. 12 «Economist», 8 ottobre 1994, p. 44; Andres Serbili, «Toward an Associa-tion of Caribbcan States: Raising Some Awkward Qucstions», in «Journal of Interamerican Studies», n. 36 (Inverno 1994), pp. 61-90.

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(Polonia, Ungheria , Repubblica Ceca e Slovacchia) raggiunse-ro un accordo per la creazione di un '«Area di libero scambio centroeuropea», e nel 1994 accelerarono i tempi della sua rea-lizzazione.11

L'espansione commerciale segue l ' integrazione economica, e tra gli anni Ot tanta e i primi anni Novanta il commerc io in-traregionale ha acquisito un ' impor tanza sempre maggiore ri-spetto a quello interregionale. Nel 1980 gli scambi commercia-li intracomunitar i ammontavano al 50,6 per cento del l ' in tero volume di scambi della Comuni tà europea; nel 1989 si era pas-sati al 58,9 per cento. Indirizzi simili a favore del commerc io su base regionale si sono verificati in Nord America e in Asia orientale. In America latina, la creazione del Mercosur e il ri-to rno in auge del Patto and ino ha stimolato nei primi anni No-vanta un 'eff lorescenza del l ' interscambio tra paesi latinoameri-cani che ha portato tra il 1990 e il 1993 a triplicare il volume degli scambi commerciali tra Brasile e Argentina e a quadru-plicare quello tra Colombia e Venezuela. Nel 1994 il Brasile ha soppiantato gli Stati Uniti quale principale pa r tner commer-ciale dell 'Argentina. Allo stesso modo, la creazione del Nafta è stata accompagnata da un significativo aumen to degli scambi commerciali tra Stati Uniti e Messico. Anche gli interscambi in-terni alla regione est-asiatica si sono espansi più rap idamente di quelli extraregionali, benché l 'espansione sia stata f renata dalle tendenze protezionistiche del Giappone. Gli scambi tra i paesi del l 'area culturale cinese (Asean, Taiwan, H o n g Kong, Corea del Sud e Cina), d 'a l t ro canto, sono passati da m e n o del 20 per cento del volume totale nel 1970 a quasi il 30 per cento nel 1992, ment re quelli con il Giappone sono passati dal 23 al 13 per cento. Nel 1992, il volume di esportazioni nei paesi del-la propr ia area culturale superava sia quello diretto negli Stati

13 «Far Eastern Economie Review», 5 luglio 1990, pp. 24-5, 5 settembre 1991, pp. 26-7; «New York Times», 16 febbraio 1992, p. 16; «Economist», 15 gen-naio 1994, p. 38; Robert D. Hormats, «Making Regionalism Safe», in «Foreign Affairs», n. 73 (Marzo-Aprile 1994), pp. 102-3; «Economist», 10 g iugno 1994, pp. 47-8; «Boston Globe», 5 febbraio 1994, p. 7; Sul Mercosur, si veda Luigi Manzetti, «The Politicai Economy of MERCOSUR», in «Journal of Interame-rican Studies», n. 35 (Inverno 1993-94), pp. 101-4, e Felix Pena, «New Ap-proaches to Economie Integration in the Southern Cone», in «Washington Quarterly», n. 18 (Estate 1995), pp. 113-22.

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Uniti che il totale combinato delle esportazioni in Giappone e nella Comuni tà europea.14

In quan to società e civiltà a se stante, il Giappone ha diffi-coltà a sviluppare legami economici con l'Asia orientale e a ge-stire le propr ie differenze economiche con l 'Europa e gli Stad Uniti. Per quan to intensi possano diventare scambi e invesd-m e n d tra Giappone e gli altri paesi est-asiatici, la sua diversità culturale rispetto a questi, e soprat tut to alle loro élite econo-miche prevalentemente cinesi, gli preclude la possibilità di dar vita a un r agg ruppamen to economico regionale a guida nip-ponica paragonabi le al Nafta o a l l 'Unione europea . Al con-tempo, la sua diversità culturale con l 'Occidente inasprisce in-comprensioni e antagonismi nei rappor t i economici con Euro-pa e Stad Uniti. Se d u n q u e è vero, come sembra, che l ' integra-zione economica d ipende dalla comunanza culturale, il Giap-pone, in quan to paese cul turalmente isolato, po t rebbe avere di-nanzi a sé un fu tu ro di isolamento economico.

In passato, gli or ientament i commerciali delle nazioni segui-vano e ricalcavano le alleanze politiche.1 ' Nel m o n d o che già ora sta emergendo , gli or ientament i commerciali sa ranno for-t emen te influenzati dagli schierament i culturali. Gli uomin i d 'affar i preferiscono stringere accordi con persone che posso-no c o m p r e n d e r e e di cui possono fidarsi; gli stati c edono la propr ia sovranità ad associazioni internazionali composte da paesi cul turalmente affini che essi c o m p r e n d o n o e di cui si fi-dano. Le radici della cooperazione economica a f fondano , in-somma, nel t e r reno delle affinità culturali.

La struttura delle civiltà

All 'epoca della Guerra f redda , le varie nazioni si qualificava-

14 «New York Times», 8 aprile 1994, p. A3, 13 giugno 1994, pp. D l , D5, 4 gennaio 1995, p. A8; Conversazione tra Mahatir e Ohmae, pp. 2, 5; «Asian Trade New Directions», in «AMEX Bank Review», n. 20 (22 marzo 1993), pp. 1-7. 15 Si veda Brian Pollins, «Does Trade Still Follow the Flag?», in «American Political Science Review», n. 83 (Giugno 1989), pp. 465-80; Joanne Gowa ed Edward D. Mansfield, «Power Politics and International Trade», in «Ameri-can Political Science Review», n. 87 (Giugno 1993), pp. 408-21; e David M. Rowe, «Trade and Security in International Relations», inedito, Ohio State University, settembre 1994, passim.

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no in r appor to alle due superpotenze come paesi alleati, satel-liti, clienti, neutrali , non allineati. Nel m o n d o post-Guerra f redda, esse si qualificano rispetto alle civiltà come stati mem-bri, stati guida, paesi isolati, paesi divisi, paesi in bilico. Al pari delle tribù e delle nazioni, le civiltà possiedono strut ture politi-che. U n o stato membro è un paese p ienamente identificato dal p u n t o di vista culturale con u n a civiltà, come p u ò esserlo ad esempio l 'Egitto con la civiltà araba islamica e l'Italia con quel-la europea occidentale. Una civiltà p u ò inoltre comprende re popoli che si identif icano con la sua cultura, ma che r is iedono in paesi dominat i da membr i di un 'a l t ra civiltà. Le civiltà han-no solitamente u n o o più luoghi considerati dai propr i membri come la fon te o le fonti principali di cultura di quella civiltà, e che sono spesso ubicate negli stati guida di quella civiltà, vale a dire negli stati più potent i e cul turalmente più influenti .

Il n u m e r o e il ruolo degli stati guida varia da civiltà a civiltà e p u ò muta re nel tempo. La civiltà giapponese si identifica prati-camente nel suo stato guida, che è anche l 'unico: il Giappone. Le civiltà sinica, ortodossa e indù presentano tutte u n o stato guida dominante , vari stati membr i e popoli appar tenent i alla loro civiltà ma residenti in stati dominat i da popoli di civiltà di-verse (i cinesi al di fuor i della Rpc, i russi residenti nelle re-pubbl iche dell 'ex impero sovietico, i tamil dello Sri Lanka). Nel corso della storia, l 'Occidente ha avuto svariati stati guida; a t tualmente ne ha due: gli Stati Uniti e un'asse franco-tedesca in Europa, con la Gran Bretagna nel ruo lo di centro di potere aggiunto. Islam, America latina e Africa non h a n n o stati guida. Ciò si spiega in parte con l ' imperialismo delle potenze occi-dentali, che provvidero a spartirsi l'Africa, il Medio Oriente e, nei secoli precedent i e in minor misura, l 'America latina.

L'assenza di u n o stato guida islamico pone notevoli proble-mi sia alle società musu lmane sia a quelle non musu lmane (di cui si discuterà nel capitolo 7). Rispetto all 'America latina, la Spagna sarebbe potuta presumibi lmente diventare lo stato gui-da di una civiltà ispanica o iberica, ma i suoi leader h a n n o de-l iberatamente scelto di f a rne u n o stato m e m b r o della civiltà europea, pu r m a n t e n e n d o al con tempo legami culturali con le propr ie ex colonie. Dimensioni, risorse, popolazione, capacità militari ed economiche f a n n o del Brasile un potenziale leader dell 'America latina, ed è presumibile che possa diventarlo. Il

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Brasile, tuttavia, sta all 'America latina come l 'Iran sta all'Islam. Seppur qualificate per assurgere al ruolo di stato guida, la pre-senza al loro in te rno di differenze culturali (religiose in Iran, linguistiche in Brasile) rende problematica l 'acquisizione di ta-le ruolo. L'America latina comprende d u n q u e diversi stati -Brasile, Messico, Venezuela e Argent ina - che cooperano tra di loro e compe tono per la conquista della leadership. La situa-zione ladnoamericana è u l ter iormente complicata dal tentativo del Messico di ridefinire la propr ia identità da stato latinoame-ricano a stato nordamer icano, con il Cile e altri paesi che po-t rebbero seguire il suo esempio. Nel lungo periodo, la civiltà la-t inoamericana pot rebbe confluire e diventare u n a sottovarian-te della civiltà occidentale con tre diverse ramificazioni.

Nell 'Africa sub-sahariana la possibilità per qualsiasi stato di conquistare la leadership è pregiudicata dalla divisione del con-tinente africano in paesi f rancofoni e paesi anglofoni. Per un certo periodo, la Costa d'Avorio ha avuto il ruolo di stato guida dell 'Africa f rancofona. A occupare lo stesso ruolo, tuttavia, ha provveduto in misura considerevole la stessa Francia, che an-che d o p o l ' indipendenza ha man tenu to strettissimi rappor t i economici, militari e politici con le proprie ex colonie. I due paesi africani meglio qualificati a diventare stati guida sono en-trambi anglofoni. Dimensioni, risorse e collocazione geografica f anno della Nigeria un potenziale stato guida, ma la sua diso-mogenei tà culturale, la corruzione dilagante, l'instabilità politi-ca, il carattere repressivo del suo governo e i problemi econo-mici che l 'affliggono ne hanno for temente ridotto la capacità di assolvere questo ruolo, sebbene occasionalmente lo abbia fatto. La fine negoziata e pacifica del l 'apartheid in Sud Africa, il suo forte potenziale industriale, l 'alto livello di sviluppo economico paragonato a quello di altri paesi africani, le capacità militari, le risorse naturali e la sua sofisticata élite politica bianca e nera, so-no tutti elementi che contribuiscono a fare di questo paese lo stato guida sicuramente dell'Africa meridionale, probabi lmente dell 'Africa anglofona e forse di tutta l'Africa sub-sahariana.

Un paese isolato è un paese privo di legami culturali con altre società.

L'Etiopia, ad esempio, con la sua lingua p redominan te (l'a-marico, che fa uso di caratteri etiopici), la sua tradizione impe-riale, la sua religione prevalente (l 'ortodossia copta) , è un pae-

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se cul turalmente isolato rispetto agli stati prevalentemente mu-sulmani che lo circondano.

Sebbene l'elite haitiana abbia tradizionalmente coltivato le-gami culturali con la Francia, la lingua creola, la religione voo-doo, la popolazione d 'origine costituita di ex schiavi insord e una storia costellata di violenze sono tutù elementi che contri-buiscono a fa rne un paese isolato. «Ogni nazione è di per sé unica», ha osservato Sidney Mintz, ma «Haiti appar t iene a una categoria a se stante». Di conseguenza, in occasione della crisi haitiana scoppiata del 1994, i paesi latinoamericani non consi-de ra rono Haiti un problema «loro» e si r if iutarono di accoglie-re i rifugiati haitiani come invece fecero con quelli cubani. «In America latina», ha af fermato il presidente eletto di Panama, «Haiti non è considerata un paese latinoamericano. GIL haitiani par lano u n a lingua diversa, h a n n o radici etniche diverse, u n a cultura diversa. Sono diversi in tutto». Altrettanto distante ap-pare Haiti dagli stati caraibici anglofoni di razza nera. «Agli oc-chi di un abitante di Grenada o della Giamaica», ha osservato un commentatore , gli haitiani «appaiono estranei quanto po-trebbe esserlo u n o dello Iowa o del Montana». Haiti, «il vicino che nessuno vuole», è davvero un paese completamente solo."'

Il più impor tante tra i paesi isolati è il Giappone, che è al c o n t e m p o lo stato guida, n o n c h é l 'unico stato, della civiltà giapponese. La sua peculiare cultura non è presente in nessun altro paese, e gli immigrati nipponici in altre nazioni o sono numer icamen te ininfluenti oppu re h a n n o assimilato la cultura dei paesi ospitanti (ad esempio i nippo-americani) . Questo iso-lamento è accentuato dal fat to che la sua cultura è fo r t emente particolaristica e non contempla alcuna religione (cristianesi-mo, islamismo eccetera.) o ideologia (liberalismo, comuni-smo) potenzialmente universale che possa essere esportata in altre società in m o d o da creare legami culturali con le popola-zioni autoctone.

Quasi tutti i paesi del m o n d o sono eterogenei , nel senso che c o m p r e n d o n o due o più g ruppi etnici, razziali e religiosi. Mol-ti paesi sono divisi in quan to le differenze e i conflitti tra tali

16 Sidney W. Mintz, «Can Haiti Change?», in «Foreign Affairs», n. 75 (Gen-naio-Febbraio 1995), p. 73; Ernersto Perez Bailaderas e joce lyn McCalla, cit. in «Haiti's Traditions of Isolation Makes U.S. Task Harder», in «Washington Post», 25 luglio 1995, p. A l .

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grupp i assumono un ruolo impor tan te negli or ientament i po-litici di questi paesi. Di solito la profondi tà di questa spaccatura varia nel tempo. Gravi divisioni in te rne possono p r o d u r r e alti tassi di violenza o minacciare l 'esistenza stessa di un paese. Quest 'u l t imo pericolo e la nascita di movimenti autonomisti o separatisti sono più probabili laddove alla separazione cultura-le si aggiunge quella geografica. Se confini culturali e confini geografici divergono, p u ò accadere che si decida di farli coin-cidere attraverso il genocidio o la migrazione forzata.

Paesi che presentano distinti r aggruppament i culturali ap-par tenen t i alla stessa civiltà possono fomenta re forti divisioni e alfine spaccarsi (Cecoslovacchia) o cor re rne il rischio (Cana-da) . Molto più probabile, tuttavia, è la nascita di p ro fonde spac-cature a l l ' in terno di un paese diviso, vale a dire un paese che presenta ampi raggruppament i sociali appar tenent i a civiltà di-verse. Simili divisioni, con le tensioni che ne scaturiscono, na-scono genera lmente q u a n d o un g r u p p o maggioritario tenta di utilizzare lo stato come propr io s t rumento politico e di identi-ficare la propr ia lingua, religione e simboli con quelli dell ' in-tera nazione, come indù, singalesi e musulmani h a n n o tentato di fare rispettivamente in India, Sri Lanka e Malaysia.

I paesi divisi che accorpano al loro interno le linee di faglia tra diverse civiltà incontrano particolari difficoltà a preservare la propria unità. Nel Sudan è in corso da decenni una guerra civi-le tra il nord musulmano e il sud prevalentemente cristiano. La stessa spaccatura tra civiltà ha tormentato la polidca nigeriana per lungo tempo, scatenando una vera e propria guerra di se-cessione oltre a un gran numero di insurrezioni, colpi di stato e altre esplosioni di violenza. In Tanzania, il continente animista cristiano e l'isola di Zanzibar, araba e musulmana, sono andate sempre più distanziandosi, diventando sotto molti aspetti due paesi distinti. Nel 1992 Zanzibar entrò segretamente a far parte dell 'Organizzazione della Conferenza Islamica, salvo poi uscir-ne, dietro pressione del governo tanzaniano, l 'anno successivo." La stessa divisione tra cristiani e musulmani ha generato tensio-ni e conflitti in Kenya. Nel Corno d'Africa, l'Etiopia a maggio-ranza cristiana e l'Eritrea prevalentemente musulmana si sepa-rarono nel 1993. L'Etiopia, tuttavia, continua a ospitare una con-

17 «Economist», 23 ottobre 1993, p. 53.

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sistente minoranza musulmana tra la popolazione oromo. Altri paesi in ternamente divisi tra più civiltà sono: India (musulmani e indù) , Sri Lanka (singalesi buddisti e tamil induisti), Malaysia e Singapore (musulmani cinesi e malaysiani), Cina (cinesi han, buddisti tibetani, musulmani turchi), Filippine (cristiani e mu-sulmani) e Indonesia (musulmani e cristiani di Timor) .

L 'effet to disgregante di queste linee di faglia tra civiltà di-verse è stato più evidente in quei paesi divisi che f u r o n o tenuti uniti du ran te la Guerra f r edda dagli autoritari regimi comuni-sti ispirati dall ' ideologia marx-leninista. Con il crollo del co-munismo la cultura si è sostituita all ' ideologia quale polo di at-trazione e repulsione; di conseguenza, Jugoslavia e Unione So-vietica si sono f rammenta te per poi dare successivamente vita a nuovi raggruppament i fondat i sulla comune civiltà di apparte-nenza: repubbl iche baltiche (protestanti e cattolici), ortodosse e mussulmane nel l 'ex Un ione Sovietica; Slovenia e Croazia (cattoliche), Bosnia-Erzegovina (parzialmente musu lmana) , Serbia-Montenegro e Macedonia (ortodosse) nella ex Jugosla-via. Laddove questi nuovi stati cont inuavano a c o m p r e n d e r e g ruppi di civiltà diverse, si sono create ulteriori ripartizioni. La guer ra ha suddiviso la Bosnia-Erzegovina in tre aree distinte: serba, musulmana e croata, men t re la Croazia è stata teatro di guer ra tra serbi e croati. Il tradizionale clima di pace che con-traddistingue il Kosovo - abitato da albanesi musulmani - al-l ' in te rno della Serbia slava e ortodossa appare oggi compro-messo, e la Macedonia è scossa da tensioni tra la minoranza al-banese musu lmana e la maggioranza slava ortodossa. Anche molte ex repubbl iche sovietiche c o m p r e n d o n o civiltà diverse, in par te perché le autorità sovietiche stabilirono i vari confini nell 'esplicito in tento di creare repubbl iche divise, assegnando la Crimea (russa) al l 'Ucraina e il Nagornyj-Karabach (arme-no) all 'Azerbaigian. La Russia ospita diverse e relativamente esigue minoranze musulmane , soprat tut to nel Caucaso setten-trionale e nella regione del Volga. Estonia, Lettonia e Kazaki-stan presentano sostanziose minoranze russe, anch'esse in gran par te f ru t to del calcolo politico delle autorità russe. L 'Ucraina è divisa tra un occidente uniate, nazionalista e di l ingua ucrai-na e un oriente ortodosso di lunga russa.

In un paese diviso, i principali g ruppi di due o più civiltà in sostanza a f fe rmano: «Siamo popol i diversi e abbiamo civiltà di-

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verse». La forza di repulsione tende a separarli ed essi gravita-no in to rno a civiltà di altri paesi. Un paese in bilico, invece, pos-siede una sola cultura dominan te e appar t iene a un 'un ica ci-viltà, ma i suoi leader politici lo collocano coattivamente all'in-terno di u n a civiltà diversa. In questi paesi si afferma: «Siamo un solo popolo e appar ten iamo a un 'un i ca civiltà, ma vogliamo cambiarla». A differenza di quan to avviene nei paesi divisi, i va-ri g ruppi dei paesi in bilico concordano circa la propr ia iden-tità ma non sulla civiltà di appar tenenza . Di norma, u n a parte significativa delle élite di potere aderisce alla posizione kemali-sta, e decide che la loro società dovrebbe rifiutare la propr ia cultura e le propr ie istituzioni, unirsi al l 'Occidente e imbocca-re en t rambe le strade, quella della modernizzazione e quella dell 'occidentalizzazione. La Russia è un paese in bilico sin dai tempi di Pietro il Grande, diviso tra chi lo vorrebbe par te inte-grante della civiltà occidentale e chi invece il fulcro di u n a pe-culiare civiltà ortodossa eurasiatica. Il paese di Mustafa Kemal è, ovviamente, il classico esempio di paese in bilico, impegnato sin dagli anni Venti a modernizzarsi , occidentalizzarsi e diven-tare par te del l 'Occidente. Dopo quasi due secoli duran te i qua-li il Messico si è autodefini to un paese la t inoamericano in op-posizione agli Stati Uniti, negli anni Ot tanta i suoi dirigenti ne h a n n o fatto un paese in bilico allorché h a n n o tentato di ridefi-nirlo come nordamer icano . Le autorità australiane, viceversa, h a n n o tentato negli anni Novanta di separare il p ropr io paese dal l 'Occidente e render lo par te integrante dell'Asia, c reando in tal m o d o un paese in bilico in senso inverso. I paesi in bilico presentano di n o r m a due e lemend caratterizzanti. I loro leader politici sono soliti definirli un «ponte» tra due culture, men t re gli osservatori esterni li descrivono come u n a sorta di Giano bi-f ronte . «La Russia guarda a Occidente e a Oriente»; «Turchia: Oriente , Occidente, cosa è meglio?»; «Nazionalismo australia-no: fedeltà divise»: sono definizioni tipiche che sottol ineano i problemi di identità di un paese in bilico.1"

18 «Boston Globe», 21 marzo 1993, pp. 1, 16, 17; «Economist», 19 novembre 1994, p. 23, 11 g iugno 1994, p. 90. La similitudine, sotto tale aspetto, tra Tur-chia e Messico è stata sottolineata da Barry Buzan, «New Patterns of Global Security in the Twenty-first Century», in «International Affairs», n. 67 (Luglio 1991), p. 449, e dajagdish Bhagwati, The World Trading System ai Rìsk, Prince-ton, Princeton University Press, 1991, p. 72.

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O-..

Paesi in bilico: il fallimento dei cambi di civiltà

Perché possa ridefinire con successo la propria civiltà di ap-par tenenza, un paese in bilico deve soddisfare a lmeno tre pre-requisiti. Primo, la sua élite politica ed economica deve soste-nere tale passaggio con g rande entusiasmo. Secondo, la sua opinione pubblica deve mostrarsi q u a n t o m e n o acquiescente. Terzo, gli elementi dominant i della civiltà di approdo, quasi sempre quella occidentale, devono essere disposti ad accettare il nuovo adepto. Il processo di ridefinizione della propr ia iden-tità sarà lungo, costellato di interruzioni e doloroso da un pun-to di vista politico, sociale, istituzionale e culturale. Per di più, fino a oggi è sempre fallito.

Russia. Il Messico è un paese in bilico da diversi anni . La Turchia lo è da diversi decenni . La Russia, invece, è un paese in bilico da diversi secoli, e a differenza del Messico o della Turchia repubbl icana essa è anche lo stato guida di u n a gran-de civiltà. Se anche la Turchia o il Messico riuscissero a ridefi-nirsi come membr i della civiltà occidentale, le conseguenze sulla civiltà islamica o su quella la t inoamericana sarebbero tra-scurabili o c o m u n q u e modeste . Viceversa, se la Russia diven-tasse un paese occidentale, la civiltà ortodossa cesserebbe di esistere. Il crollo de l l 'Unione Sovietica ha riacceso tra i russi il dibatti to sulla quest ione cruciale dei rapport i tra Russia e Oc-cidente.

L'evoluzione dei rappor t i tra Russia e civiltà occidentale è contraddist inta da quat t ro fasi. Nella prima, dura ta fino al re-g n o di Pietro il Grande (1689-1725), la Rus' di Kiev e la Mo-scovia condussero un 'es is tenza a u t o n o m a da l l 'Occidente ed ebbe ro con le società e u r o p e e occidentali sol tanto contat t i sporadici. La civiltà russa si sviluppò come emanaz ione di quella bizantina fino a quando , a metà del xm secolo, non fu asservita dai Mongoli, il cui domin io si protrasse per d u e seco-li. La Russia è stata d u n q u e poco o per nulla esposta ai feno-men i s toricamente caratterizzanti della civiltà occidentale: cat-tolicesimo romano , feudales imo, Rinascimento, Riforma, espansione e colonizzazione d 'o l t remare , I l luminismo e nasci-ta dello stato nazionale. Sette delle otto caratteristiche distin-tive della civiltà occidentale (religione, lingue, separazione tra

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stato e chiesa, stato di diritto, plural ismo sociale, corpi rappre-sentativi, individualismo) sono pressoché assenti dall 'espe-rienza russa. L 'unica possibile eccezione è costituita dalla tra-dizione classica, che c o m u n q u e si diffuse in Russia attraverso Bisanzio e fu quindi sostanzialmente diversa da quella appro-data in Occ iden te d i re t t amente da Roma. La civiltà russa è d u n q u e il f ru t to di u n o sviluppo au toc tono ed a f fonda le pro-prie radici nella Rus' di Kiev e nella Moscovia, ne l l ' impat to con Bisanzio e nella lunga dominaz ione mongola . Tali in-f luenze forg iarono u n a società e u n a cultura ben poco somi-glianti a quelle sviluppate da l l 'Europa occidentale sotto l'in-flusso di forze comple tamente diverse.

Alla f ine del xvn secolo, la Russia non era solo diversa dal-l 'Europa , ma anche ar re t ra ta r ispet to ad essa, come ebbe mo-do di constatare Pietro il G rande du ran t e il viaggio in Europa compiu to nel 1697-1698 e dal quale t o r n ò col f e r m o proposi-to di modern izzare e insieme occidentalizzare il p rop r io pae-se. Per far assomigliare il p ropr io popolo agli europei , a p p e n a to rna to a Mosca Pietro o rd inò ai nobili di tagliare la ba rba e vietò loro di indossare le lunghe tonache e i tipici copr icapo a f o r m a conica. Non abolì l 'a l fabeto cirillico, ma lo r i fo rmò e lo semplificò, i n t r o d u c e n d o a n c h e parole ed espressioni occi-dental i . La massima priori tà, tuttavia, a n d ò allo sviluppo e al-la modernizzaz ione de l l ' appara to militare: creazione di u n a mar ina militare, in t roduz ione della coscrizione, sviluppo del-le industr ie collegate alla difesa, istituzione di scuole tecni-che, invio di personale a s tudiare in Occidente e importazio-ne da l l 'Occ iden te delle più aggiorna te cognizioni scientifi-che in mater ia di a rmament i , ingegner ia navale, tecniche di navigazione, gestione amministrat iva e in altri campi essen-ziali per elevare l 'eff icienza de l l ' appara to militare. Per con-sentire simili innovazioni, egli r i f o rmò e ampliò drast icamen-te il sistema fiscale, p r o c e d e n d o altresì negli ultimi anni del suo r egno a u n a r iorganizzazione genera le della s t ru t tura go-vernativa. Deciso a fare della Russia n o n solo un paese euro-peo ma anche u n a potenza in Europa , lasciò Mosca, creò u n a nuova capitale a San P ie t roburgo e si lanciò nel la G r a n d e guer ra del Nord con t ro la Svezia con l ' in ten to di fare della Russia la potenza dominan t e sul Baltico e a f f e rmare così la p ropr ia presenza in Europa .

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Nel tentativo di fare della Russia un paese m o d e r n o e occi-dentale, Pietro consolidò anche i tratti p re t tamente asiatici del paese per fez ionando il p ropr io regime dispotico e s t roncando qualsiasi fonte potenziale di pluralismo politico o sociale. Ri-dusse u l te r iormente il già esiguo potere della nobiltà russa am-pl iando le file della nobiltà di servizio e in t roducendo u n a Ta-vola dei Ranghi basata sul meri to anziché sulla nascita o sulla condizione sociale. Ai nobili fu fatto obbligo di servire lo stato al pari dei contadini, c reando così quella «aristocrazia di servi-zio» che in seguito fece tanto infuriare Custine.1J L 'au tonomia dei servi della gleba fu u l te r iormente ridotta con l ' introduzio-ne di un sistema che finì col legarli in m o d o ancor più definiti-vo sia alla terra sia ai proprietar i terrieri. La Chiesa ortodossa, da sempre soggetta a un rigoroso controllo statale, fu riorga-nizzata e posta sotto l 'autori tà di un Sinodo i cui membr i e rano eletti d i re t tamente dallo zar. Questi acquisì anche la facoltà di nomina re il propr io successore senza doversi a t tenere alle tra-dizionali l inee di discendenza. In virtù di questi mutament i , Pietro avviò ed esemplificò in Russia la stretta connessione tra modernizzazione e occidentalizzazione da un lato e dispotismo dall 'altro. Sul model lo petr ino, sia Lenin che Stalin - nonché , pr ima ancora e in minor misura, Caterina li e Alessandro n -t en ta rono anch'essi in modi diversi di modernizzare e occi-dentalizzare la Russia raf forzando nel con tempo il potere au-tocratico. Almeno fino agli anni Ottanta, se i r i formator i de-mocratici russi f u r o n o solitamente occidentalisti, gli occidenta-listi non f u r o n o affatto dei r i formatori democratici. La lezione che la storia russa ci insegna è che la centralizzazione del pote-re è un prerequisi to essenziale della r i forma sociale ed econo-mica. Alla fine degli anni Ot tanta l ' entourage di Gorbacèv, nel lamentare gli ostacoli creati dalla glasnost'al processo di libera-lizzazione economica, ammise in pratica di non aver saputo ri-conoscere questa verità.

Pietro ebbe maggior successo nel r endere la Russia par te del l 'Europa che non nel r endere l 'Europa parte della Russia. A differenza del l ' Impero o t tomano, alla fine l ' Impero russo fu accolto come illustre e legittimo m e m b r o del sistema interna-

19 Si veda Marquis de Custine, Empire of the Czar: A Journey Through Eternai Russia, New York, Doubleday, 1989 (pubblicato per la prima volta a Parigi nel 1844), passim.

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zionale europeo. Sul p iano in terno, tuttavia, benché le r i forme avessero p rodot to qualche cambiamento , la società russa rima-se u n a sorta di ibrido: a eccezione di una sparuta élite, costumi, istituzioni e credenze asiatiche e bizantine con t inuarono a es-sere p redominant i e come tali vennero percepiti tanto dai rus-si quan to dagli europei . «Gratta la pelle di un russo», osservò de Maistre, «e uscirà sangue tataro». Pietro fece della Russia un paese in bilico, e nel xix secolo sia gli slavofdi che gli occiden-talisti se ne lamentarono, salvo poi litigare su come risolvere il problema: se po r t ando a te rmine il processo di europeizzazio-ne oppure b a n d e n d o qua lunque influenza europea per torna-re all 'autentica anima russa. Un occidentalista come Caadaev sostenne che «il sole è il sole del l 'Occidente» e che la Russia dovesse s f rut tarne la luce per i l luminare e mutare le propr ie istituzioni tradizionali. U n o slavofilo come Danilevskij denun-ciò, in termini che sarebbero poi riecheggati negli anni No-vanta, gli sforzi di europeizzazione come tentativi di «distorce-re la vita del popolo e di sostituire le propr ie usanze con costu-mi stranieri ad esso estranei», di «importare istituzioni stranie-re e trapiantarle in terra russa», e di «considerare i problemi e i rapport i sia interni che internazionali della vita russa da un pun to di vista esterno, europeo; di vederle, per così dire, attra-verso un vetro con un angolo di refrazione eurocentrico».2" Nel prosieguo della storia russa Pietro divenne l 'eroe degli occi-dentalisti e il satana dei loro oppositori, la cui frangia più estre-mista - gli eurasiatici degli anni Venti - definì Pietro u n tradi-tore e applaudì i bolscevichi per aver rifiutato l 'occidentalizza-zione, sfidato l 'Europa e r iportato la capitale a Mosca.

La Rivoluzione bolscevica inaugurò u n a terza fase nei rap-porti tra Russia e Occidente, molto diversa da quella ambiva-lente protrattasi per due secoli. Essa creò un sistema politco-economico in n o m e di un ' ideologia nata in Occidente. Slavofi-li e occidentalisti avevano discusso se la Russia potesse diffe-renziarsi dal l 'Occidente senza essere arretrata rispetto a esso. Il comunismo risolse br i l lantemente il quesito: la Russia era di-

20 P.Ja. Caadaev , Stat'i ì pisma ("Articoli e lettere"), Moskva, 1989, p. 178, e N. Ja. Danilevskij, Rossija i Europa ("Russia ed Europa"), Moskva, 1991, pp. 267-8, cit. in Sergei V. Chugrov, «Russia Between East and West», in Steve Hirsch (a cura di), MEMO 3: In Search of Answrrs in the Post-Soviet Era, Wa-shington, D.C., Bureau of National Affairs, 1992, p. 138.

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versa e in fondamenta le contrapposizione al l 'Occidente per-ché più avanzata rispetto a esso. Stava assumendo il comando della rivoluzione proletaria destinata a divampare in tutto il m o n d o . La Russia incarnava non un arretrato passato asiatico, ma un progressista fu turo sovietico. In pratica, la rivoluzione permise alla Russia di saltare a piè pari il modello occidentale e di differenziarsi da esso non perché «siamo diversi e non di-ven te remo come voi», come avevano sostenuto gli slavofili, ma perché «siamo diversi e pr ima o poi diventerete come noi», co-me recitava l ' inno del l ' Internazionale comunista.

Tuttavia, se da un lato il comunismo consentì ai leader so-vietici di distinguersi dal l 'Occidente, dall 'altro creò con esso stretti legami. Marx ed Engels e rano tedeschi; molti dei più eminent i sostenitori delle loro idee del tardo xix e p r imo xx se-colo e rano europei occidentali; nel 1910 molti sindacati e par-titi laburisti e socialdemocratici di società occidentali aderivano alla loro ideologia e andavano acquisendo sempre maggiore importanza sulla scena politica europea. Dopo la Rivoluzione bolscevica, i partiti di sinistra si divisero in comunisti e sociali-sti, e gli uni e gli altri diventarono spesso forze important i in molti paesi europei . In buona par te del l 'Occidente la visione marxista fini col prevalere: comunismo e socialismo f u r o n o considerati l ' onda del fu tu ro e ampiamente adottati sotto varie fo rme dalle élite politiche e intellettuali. Cosicché, il dibattito in Russia tra slavofdi e occidentalisti sul fu tu ro della Russia fu soppiantato dal dibattito in Europa tra destra e sinistra sul fu-turo del l 'Occidente e sul quesito se l 'Unione Sovietica incar-nasse o m e n o questo fu turo . Dopo la Seconda guer ra mondia-le, il potere del l 'Unione Sovietica rafforzò il fascino del comu-nismo sia in Occidente sia, cosa ancor più importante , in quel-le civiltà non occidentali che iniziavano a ribellarsi a esso. Al-l ' in terno di queste ultime, le élite maggiormente inclini a blan-dire l 'Occidente cominciarono a parlare di autodeterminazio-ne e democrazia; quelle più decise a contrapporvisi comincia-rono a parlare di rivoluzione e liberazione nazionale.

Adot tando un ' ideologia occidentale e quindi impiegandola per sfidare l 'Occidente, i russi finirono in un certo senso col le-garsi a quest 'ul t imo più s t ret tamente e in t imamente di quan to fosse mai avvenuto in precedenza. Sebbene l ' ideologia liberal-democratica e quella comunista fossero molto diverse, i rispet-

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tivi partiti parlavano in un certo senso la stessa lingua. Il crollo del comunismo e de l l 'Unione Sovietica ha posto fine a questa interazione politico-ideologica tra Russia e Occidente . Que-st 'ultimo sperava e credeva che il risultato finale sarebbe stato il t r ionfo della democrazia liberale in tutto l 'ex impero sovietico. Un tale epilogo, tuttavia, non era assolutamente scontato. A tutto il 1995 il fu tu ro della democrazia liberale in Russia e nel-le altre repubbl iche ortodosse appariva incerto. Inoltre, non appena i russi h a n n o smesso di comportarsi da marxisti e han-no iniziato a comportarsi da russi, il divario tra Russia e Occi-den te si è ampliato. Lo scontro tra democrazia liberale e Marxi-smo-Leninismo era un conflitto tra ideologie che, per quan to diverse tra loro, e rano en t r ambe m o d e r n e e laiche e si riface-vano ai medesimi valori: libertà, uguaglianza, benessere mate-riale. Un democrat ico occidentale po t rebbe t ranqui l lamente af f rontare un dibattito con un marxista sovietico, men t re gli riuscirebbe impossibile con un nazionalista ortodosso russo.

Durante gli anni del regime sovietico lo scontro tra slavofili e occidentalisti si in te r ruppe , soppiantato dalla comune opposi-zione sia dei vari Solzenicyn sia dei vari Sacharov all ' ideologia comunista. Con il crollo del comunismo, il dibattito sulla vera identi tà della Russia è r iemerso in tutto il suo vigore. La Russia dovrebbe fare propr i i valori, le istituzioni e i costumi occiden-tali e tentare di diventare par te integrante dell 'Occidente? Op-pure dovrebbe incarnare u n a distinta civiltà eurasiatica e orto-dossa diversa da quella occidentale e destinata a far da pon te tra Europa e Asia? In questo, le élite politiche e intellettuali e l 'opinione pubblica in generale si t rovarono p ro fondamen te divise. Da un lato, c ' e rano gli occidentalisti, «cosmopoliti», o «atlanticisti», dall 'altro i successori degli slavofili, var iamente etichettati come «nazionalisti», «eurasiatisti» o «derzavniki» (so-stenitori di u n o stato forte) ,21

Le principali differenze tra questi due gruppi r iguardavano la politica estera e, in misura minore , le r i forme economiche e la strut tura dello stato. Le opinioni e rano alquanto variegate. A un est remo c ' e rano gli artefici del «nuovo pensiero» propu-

'21 Si veda Leon Aron, «The Battle for the Soul of Russian Foreign Policy», in «The American Enterprise», n. 3 (Novembre-Dicembre 1992, p. 10 sgg.; Alexei G. Arbatov, «Russia's Foreign Policy Alternatives», in «International Studies», n. 18 (Autunno 1993), p. 5 sgg.

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gnato da Gorbacèv (compendia to nel suo obiettivo di creare una «casa comune europea») , n o n c h é da molti illustri consi-glieri di Eltsin (compendia to nell 'aspirazione di questi a fare della Russia «un paese normale» che venga accettato come ot-tavo m e m b r o del club del G-7 delle maggiori democrazie indu-strializzate). Nazionalisti più moderat i come Sergej Stankevic sostenevano che la Russia dovesse rifiutare il corso «atlantici-sta» e dare priorità alla protezione dei russi residenti in altri paesi, privilegiando i legami con le popolazioni musu lmane e di razza turca e p romuovendo «un p ro fondo r ior ien tamento delle nostre risorse, dei nostri indirizzi, dei nostri legami e dei nostri interessi a favore dell'Asia, o c o m u n q u e a est».221 fautori di questa linea accusavano Eltsin di aver subordinato gli inte-ressi della Russia a quelli del l 'Occidente, di aver indeboli to la potenza militare russa, di non aver saputo sostenere adeguata-men te amici tradizionali quali la Serbia e di p romuovere la r i forma economica e politica in modi che suonavano ingiurio-si per il popolo russo. Un s intomo di questa tendenza era il ri-to rno in auge delle idee Peter Savitskij, il quale negli anni Ven-ti sosteneva che la Russia costituisse una peculiare civiltà eura-siatica.

I nazionalisti più estremi si sono divisi in nazionalisti russi co-me Solzenicyn - i quali auspicavano una Russia che compren-desse tutti i russi più bielorussi e ucraini, anch'essi slavi orto-dossi fo r temente affini ai russi, ma nessun altro - e nazionalisti imperiali come Vladimir Zirinovskij - che volevano far rivivere l ' impero sovietico e ripristinare la potenza militare russa. I se-guaci di quest 'u l t imo g r u p p o h a n n o dato prova, talora, di anti-semitismo, oltreché di sentimenti antioccidentali. Il loro obiet-tivo era quello di r iorientare la politica estera russa verso est e sud o attraverso il domin io degli stati meridionali musulmani (come sostenuto da Zirinovskij), o attraverso la cooperazione con essi e con la Cina contro l 'Occidente. I nazionalisti chiede-vano anche un maggiore sostegno ai serbi nella loro guer ra contro i musulmani. Le differenze tra cosmopoliti e nazionali-sti h a n n o trovato un riflesso a livello istituzionale negli atteg-giamenti dell 'Esercito e del Ministero degli Esteri, n o n c h é nel-

22 Sergei Stankevich, «Russia in Search ofltself», in «National Interest», n. 28 (Estate 1992), pp. 48-9.

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l 'al talenante condot ta di Eltsin in materia di difesa e di politica estera.

L 'opinione pubblica russa non era m e n o divisa delle classi dirigenti. Un sondaggio condot to nel 1992 su un campione di 2069 russi europei indicava che il 40 per cento degli intervista-ti era «favorevole all 'Occidente», il 36 per cento «contrario al-l 'Occidente» e il 24 per cento «incerto». Alle elezioni parla-mentar i del d icembre 1993 i partiti riformisti o t t ennero il 34,2 per cento dei voti, i partiti nazionalisti e anti-riforma il 43,3 per cento e i partiti di centro il 13,7 per cen to ." Alle elezioni presi-denziali svoltesi nel g iugno del 1996 l 'elet torato russo si è nuo-vamente diviso, con circa il 43 per cento dei voti a favore del candidato sponsorizzato dal l 'Occidente, Eltsin, e di altri candi-dati riformisti, e il 52 per cento a favore dei candidati naziona-listi e comunisti . Sul p rob lema fondamenta le della propr ia identità, la Russia degli anni Novanta r imane palesemente un paese in bilico tra slavofilia e occidentalismo: «un tratto inalie-nabile del... carattere nazionale»."

Turchia. Con una serie at tentamente mirata di riforme messe in atto tra gli anni Venti e Trenta, Mustafa Kemal Ataturk tentò di sradicare il suo popolo dal proprio passato o t tomano e mu-sulmano. I principi di fondo, (le cosiddette «sei frecce») del ke-malismo sono: populismo, repubblicanesimo, nazionalismo, se-colarismo, statalismo e riformismo. Contrario all'idea di un im-pero multinazionale, Kemal tentò di dar vita ad u n o stato nazio-nale omogeneo, depor tando e t rucidando a questo scopo arme-ni e greci. Quindi depose il sultano e instaurò un sistema politi-co repubblicano di tipo occidentale. Abolì il califfato, pe rno del-l 'autorità religiosa, soppresse i tradizionali ministeri della reli-gione e dell'istruzione, abolì scuole e università religiose private, creò un sistema di pubblica istruzione unificato e laico e dissolse i tribunali religiosi che applicavano la legge islamica sostituen-

23 Albert Motivans, «"Openness to the West" in European Russia», in «RFE/RL Research Report», n. 1, 27 novembre 1992, pp. 60-2. Gli studiosi hanno calcolato la distribuzione dei voti in modi diversi, ot tenendo risultati pressoché simili. Per i dati citati mi sono basato sull'analisi di Sergei Churgov, «Politicai Tendencies in Russia's Regions: Evidence from the 1993 Parlia-mentary Elections», inedito, Harvard University, 1994. 24 Chugrov, «Russia Between East and West», p. 140.

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doli con un nuovo sistema giuridico basato sul codice civile sviz-zero. Sostituì inoltre il calendario tradizionale con quello grego-riano e decretò formalmente la fine dell'islamismo quale reli-gione di stato. Emulando Pietro il Grande, proibì l 'uso del fez in quanto simbolo di tradizionalismo religioso, incoraggiò l 'uso di cappelli di foggia occidentale e decretò la sostituzione nella lin-gua scritta dei caratteri arabi con quelli romani. Quest 'ult ima riforma ebbe un ' impor tanza fondamentale: «Essa rese pratica-mente impossibile per le nuove generazioni istruite con i carat-teri romani accostarsi alla gran parte della letteratura turca tra-dizionale, incoraggiò l ' apprendimento delle lingue europee éd agevolò for temente lo sviluppo dell'alfabetizzazione».' ' Una vol-ta ridefinita l 'identità nazionale, politica, religiosa e culturale del popolo turco, negli anni Trenta Kemal si dedicò anima e corpo a promuovere lo sviluppo economico del paese. L'Occidentalizza-zione andò di pari passo con la modernizzazione, di cui fu il principale strumento.

Durante la guer ra civile che tra il 1939 e il 1945 dilaniò l 'Oc-cidente, la Turchia rimase neutrale . Al termine del conflitto, tuttavia, to rnò presto a identificarsi ancor più s t ret tamente con l 'Occidente . Emulando esplicitamente i modelli occidentali, la Turchia passò da un sistema a parti to unico a u n o pluripartiti-co. Chiese e infine o t tenne, nel 1952, l 'ammissione alla Nato, in tal m o d o c o n f e r m a n d o il p ropr io status di m e m b r o del «Mondo libero». Ricevette dal l 'Occidente miliardi di dollari sotto fo rma di assistenza economica e militare; il suo esercito fu addestrato ed equipaggiato dal l 'Occidente e quindi integrato nella s trut tura di comando della Nato; ospitò basi militari ame-ricane. La Turchia finì con l 'essere considerata dal l 'Europa il p ropr io bastione di con ten imen to a est cont ro l 'espansione del l 'Unione Sovietica verso il Mediterraneo, il Medio Oriente e il Golfo Persico. Questa autoidentif icazione con l 'Occidente costò alla Turchia la messa all ' indice da parte dei paesi n o n oc-cidentali e non allineati alla Conferenza di Bandug del 1955 e l 'accusa di eresia da parte dei paesi islamici."1'

Al t e rmine della Guer ra f redda , la classe dir igente turca si è

25 Samuel P. Huntington, Politicai Order in Changing Societies, New Haven, Ya-le University Press, 1968, pp. 350-1. 26 Duygo Bazoglu Sezer, «Turkev's Grand Strategy Facing a Dilemma», in «International Spectator», n. 27 (Gennaio-Marzo 1992), p. 24.

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mostrata in g rande maggioranza favorevole al p rosegu imento della politica filoccidentale e fdoeuropea . L 'appar tenenza alla Nato è per essa indispensabile per lo strettissimo legame or-ganizzativo che of f re con l 'Occidente , e per controbi lanciare la Grecia. L 'adesione della Turchia al l 'Occidente , sancita dal-l ' appa r t enenza alla Nato, fu c o m u n q u e un p rodo t to della Guer ra f redda . La fine di ques t 'u l t ima fa cadere la pr incipale giustificazione di quell 'adesione, provocando l ' indebol imento di quel legame e la necessità di u n a sua r idefinizione. La Tur-chia non serve più a l l 'Occidente come bastione con t ro la mi-naccia da nord , ma piuttosto, com 'è accaduto nella gue r ra del Golfo, come possibile pa r tne r con t ro minacce di mino re en-tità provenient i da sud. In quella gue r r a la Turchia ha of fe r to u n cont r ibu to fondamen ta l e alla coalizione anti-Saddam Hus-sein, sia ch iudendo l 'o leodot to che attraversava il p ropr io pae-se e med ian te il quale il petrol io i rakeno raggiungeva il Medi-te r raneo , sia p e r m e t t e n d o agli aerei americani di decollare dalle sue basi per colpire l ' I raq. Queste iniziative del presi-den te Òzal h a n n o tuttavia suscitato fort i critiche in Turchia , fino a por ta re alle dimissioni del minis tro degli Esteri, della Difesa e del capo di Stato maggiore, n o n c h é a grandi manife-stazioni di piazza contro la politica di stretta cooperazione con gli Stati Uniti perseguita da Òzal. Successivamente, sia il pre-sidente Demirel sia il p r imo minis tro Ciller chiesero la fine immedia ta delle sanzioni economiche imposte dalle Nazioni Uni te all 'Iraq, e che costituivano un considerevole o n e r e eco-nomico anche per la Turch ia . " La disponibilità della Turchia a col laborare con l 'Occidente ne l l ' a f f ron ta re le minacce isla-miche provenient i da sud appare d u n q u e m e n o certa di quel-la dimostrata nel l 'oppors i alla minaccia sovietica. Duran te la crisi del Golfo, inoltre, il r if iuto della Germania , tradizionale alleata della Turchia , a equ ipa ra re un attacco missilistico i rakeno con t ro la Turchia a u n attacco cont ro la Nato ha di-mostra to come la Turchia possa contare ben poco sul soste-gno occidentale in caso di attacco da sud. Il c o n f r o n t o con l ' U n i o n e Sovietica d u r a n t e la G u e r r a f r e d d a n o n sollevò il

27 Clyde Haberman, «On Iraq's Other front», in «New York Times Magazi-ne», 18 novembre 1990, p. 42; Bruce R. Kuniholm, «Turkey and the West», in «Foreign Affairs», n. 70 (Primavera 1991), pp. 35-6.

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prob lema del l ' ident i tà della civiltà turca; nei rappor t i post-Guer ra f r e d d a con i paesi arabi, invece, questo p rob lema è fo r t emen te presente .

A part ire dagli anni Ottanta, un obiettivo fondamenta le , se n o n addiri t tura l 'obiettivo primario, della classe dir igente fi-loccidentale turca è stato quello di entrare a far par te dell 'U-n ione europea . La Turchia fece d o m a n d a formale di ammis-sione nell 'aprile del 1987. Nel d icembre del 1989 le fu risposto che la sua d o m a n d a non sarebbe stata presa in considerazione pr ima del 1993. Nel 1994 l 'Unione europea accettò le doman-de di ammissione di Austria, Finlandia, Svezia e Norvegia, e fu annunc ia to con largo anticipo che negli anni a venire sarebbe stato dato responso favorevole a quelle di Polonia, Ungher ia e Repubblica Ceca, e in seguito probabi lmente anche a quelle di Slovenia, Slovacchia e delle repubbl iche baltiche. I turchi furo-no molto contrariati dal fat to che ancora una volta la Germa-nia, il m e m b r o più inf luente della Comuni tà europea , non si fosse prodigato per far passare la loro candidatura e avesse in-vece promosso quella degli stati centroeuropei."" Su pressione statunitense, l 'Un ione eu ropea ha negoziato con la Turchia u n ' u n i o n e doganale, ma l 'ammissione a pieno titolo nella co-muni tà resta u n a possibilità dubbia e remota.

Perché la Turchia è stata scavalcata, e sembra essere sem-p re l 'ul t ima della fda? In pubbl ico, i funz ionar i eu rope i par-lavano del basso livello di sviluppo economico turco e del lo-ro r ispetto non p rop r io scandinavo pe r i diritti uman i . In pri-vato, tan to gli europe i quan to i turchi concordavano sul fat to che il vero motivo fosse costituito dalla for te opposiz ione gre-ca n o n c h é , cosa più impor tan te , dal fat to che la Turch ia è un paese musu lmano . I paesi eu rope i non volevano trovarsi di f r on t e all 'eventuali tà di dover apr i re i p ropr i conf ini all 'im-migrazione di un paese di sessanta milioni di musu lmani e con un altissimo tasso di disoccupazione. Ma, più ancora , ri-tenevano che i turchi n o n appar tenessero cu l tu ra lmente al-l 'Europa . La ques t ione dei diritti uman i come causa del man-cato ingresso della Turch ia ne l l 'Un ione eu ropea è, come af-f e r m ò il pres idente Òzal nel 1992, «una scusa... Il vero motivo

28 Ian Lesser, «Turkey and the West After the Gulf War», in «International Spectator», n. 27 (Gennaio-Marzo 1992), p. 33.

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è che noi s iamo musu lman i e lo ro cristiani». Solo che, ag-giunse, «non lo dicono». I funz ionar i europei , da par te loro, concordavano sul fat to che l 'Un ione eu ropea fosse u n «club di cristiani» e che «la Turchia è t roppo povera, t roppo popo-losa, t r oppo musulmana , t r oppo rigida, t roppo diversa cultu-ra lmente , t r oppo tutto». L '« incubo recondi to» degli europe i , ha c o m m e n t a t o un osservatore, è la memor ia storica dei «pre-dator i saraceni in Europa occidentale e dei turchi alle por te di Vienna». Tali a t teggiament i h a n n o a loro volta gene ra to «la sensazione assai diffusa tra i turchi» che «l 'Occidente ri-t iene che in Europa non ci sia posto per u n a Turchia musul-mana».29

Avendo voltato le spalle alla Mecca e vistasi respinta da Bruxelles, la Turchia colse l 'oppor tuni tà creata dalla dissolu-zione de l l 'Unione Sovietica per volgersi in direzione di Ta-skent. Il presidente Òzal e altri leader turchi cominciarono a vagheggiare la creazione di una comuni tà di popoli turchi e de-dicarono grandi forzi per sviluppare legami con i «turchi ester-ni» dell 'ex impero «dall'Adriatico ai confini con la Cina». Par-ticolare attenzione venne prestata all'Azerbaigian e alle quat t ro repubbl iche centroasiatiche di lingua turca: Uzbekistan, Turk-menistan, Kazakistan e Kirghizistan. Nel 1991 e 1992 la Turchia avviò un ' ampia gamma di iniziative volte a rinsaldare i legami e ad accrescere la propria influenza in queste nuove repubbli-che: prestiti a lungo termine e a interesse agevolato per un to-tale di 1,5 miliardi di dollari; 79 milioni di dollari in assistenza umanitaria; televisione via satellite (al posto del canale in lin-gua russa); reti telefoniche, servizi aerei, migliaia di borse di studio e corsi di formazione in Turchia per banchieri , impren-ditori, diplomatici e ufficiali militari centroasiatici e azeri. Fu-rono inviati insegnanti di lingua turca e sono nate circa duemi-la imprese miste. La comunanza culturale ha cer tamente aiuta-to i rapport i economici. «La cosa più impor tante per avere suc-cesso in Azerbaigian o in Turkmenistan», ha det to un u o m o d 'affar i turco, «è trovare il par tner giusto. Per i turchi, questo

29 «Financial Times», 9 mar/o 1992, p. 2; «New York Times», 5 aprile 1992, p. E3; Tansu Giller, «The Role oi Turkev in "the New World"», in «Strategie Re-view», n. 22 (Inverno 1994), p. 9; Haberman, «Iraq's Other Front», p. 44; John Murray Brown, «Tansu C'.iller and the Question of Turkisli Identity», in «World Politicai Journal», n. 11 (Autunno 1994), p. 58.

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n o n è diffìcile. Abbiamo la stessa cultura, più o m e n o la stessa lingua, e la stessa cucina»/"

Il nuovo or ien tamento turco in direzione del Caucaso e del-l'Asia centrale era al imentato non solo dal sogno di mettersi a capo di u n a comuni tà di nazioni turche, quan to anche dal de-siderio di impedire a Iran e Arabia Saudita di espandere la pro-pria inf luenza e d i f fondere il fondamenta l i smo islamico in quella regione. I turchi si consideravano i latori del «modello turco» o dell '«idea di Turchia», u n o stato musu lmano demo-cratico e laico con un ' economia di mercato. Inoltre, la Turchia sperava in tal m o d o di ostacolare il r i torno dell ' influenza russa. F o r n e n d o un'al ternat iva alla Russia e all'Islam, essa avrebbe così sostenuto le propr ie richieste di aiuto da par te della Co-muni tà europea fino a fa rne par te essa stessa.

L'iniziale dinamismo turco nei confront i delle repubbl iche di razza turca ha subito nel 1993 un ra l lentamento dovuto a svariati motivi: scarsità di risorse, la nomina a pres idente di Su-leyman Demirel in seguito alla mor te di Òzal, n o n c h é il riaf-fermarsi dell ' influenza della Russia in un ' a rea che essa consi-derava u n a sorta di p ropr io «vicinato». Q u a n d o le ex repubbli-che sovietiche di etnia turca acquisirono l ' indipendenza, i loro leader si precipi tarono ad Ankara per corteggiare la Turchia, salvo poi, in seguito alle pressioni e agli incentivi russi, fare di n o r m a marcia indiet ro e predicare la necessità di rappor t i «equilibrati» tra il loro cugino culturale e il loro ex dominato-re imperiale. I turchi, tuttavia, h a n n o cont inuato a tentare di sfruttare la comunanza culturale per espandere i propr i legami economici e politici r iuscendo - in quello che resta il loro suc-cesso economico più rilevante - a siglare un accordo tra i go-verni interessati e le compagnie petrolifere per la costruzione di un oleodot to che attraverso la Turchia faccia giungere il pe-trolio dell'Asia centrale e dell 'Azerbaigian f ino al Mediterra-neo.

Mentre la Turchia si adoperava a sviluppare i propr i legami

30 Sezer, «Tiukey's Grand Strategy», p. 27; «Washington Post», 22 marzo 1992; «New York Times», 19 giugno 1994, p. 4. 31 «New York Times», 4 agosto 1993, p. A3; 19 giugno 1994, p. 4; Philip Ro-bins, «Between Sentiment and Self-Interest: Turkey's Policy toward Azer-baijan and the Central Asian States», in «Middle EastJournal», n. 47 (Autun-no 1993), pp. 593-610; «Economist», n. 17 (Gennaio 1994), p. 94.

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con le ex repubbl iche sovietiche di razza turca, la propr ia iden-tità laica e kemalista veniva in t e rnamen te minacciata.

1) Per la Turchia - come per tanti altri paesi - la fine della Guerra f redda , unita alle difficoltà create dallo sviluppo sociale ed economico, sollevò grossi problemi di «idendtà nazionale e identificazione etnica»,32 e la religione era lì, p ron ta ad offr ire una risposta. L'eredità laica di Ataturk e della classe dir igente turca protrattasi per due terzi di secolo finì sempre più sotto ti-ro. L 'esperienza degli emigrati turchi all 'estero contr ibuì al diffondersi di sentimenti islamisti in patria. I turchi di r i torno dalla Germania occidentale «reagivano al clima di ostilità lì tro-vato t o r n a n d o a quan to era loro familiare, cioè l'Islam». Idee e modi di vita comuni acquisirono un carattere sempre più mar-ca tamente islamista. Nel 1993 un articolo riferiva che «in Tur-chia le barbe di foggia islamica e le d o n n e col velo sono proli-ferate, che le moschee at t irano masse di fedeli ancor più nu-merose e che alcune librerie si s tanno r iempiendo di libri e giornali, cassette, CD e videocassette che celebrano la storia, i precetti e lo stile di vita islamico ed esaltano il ruo lo svolto dal-l ' Impero o t tomano nella preservazione dei valori del profeta Maometto». Lo stesso articolo informava poi che «non m e n o di 290 case editrici e tipografie, 300 pubblicazioni tra cui quat t ro quotidiani, circa un centinaio di stazioni radiofoniche pirata e circa 30 canali televisivi anch'essi clandestini propagandavano tutti l ' ideologia islamica».11

Di f ron te alla marea montan te dell 'Islam, i governanti turchi h a n n o tentato di adottare costumi islamici e di guadagnarsi il sostegno dei fondamentalist i . Negli anni Ot tanta e Novanta, il sedicente laico governo turco manteneva un Ufficio affari reli-giosi con un budget superiore a quello di alcuni ministeri, ha finanziato la costruzione di moschee, imposto l ' istruzione reli-giosa in tutte le scuole pubbliche e sovvenzionato le scuole isla-miche, che negli anni Ot tanta sono quintuplicate di numero , con il 15 per cento degli s tudenti iscritti alle scuole superiori. In queste scuole si predicano dot t r ine islamiste e da esse sono usciti migliaia di laureati, molti dei quali sono poi entrati negli

32 Bahri Yilmaz, «Turkey's new Role in International Politics», in «Aussen-politik», n. 45 (Gennaio 1994), p. 94. 33 Eric Rouleau, «The Challenges to Turkey», in «Foreign Affairs», n. 72 (Novembre-Dicembre 1993), p. 119.

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uffici pubblici. In simbolica, ma significativa contrapposizione alla Francia, il governo ha in pratica concesso alle studentesse di indossare il tradizionale velo islamico, s e t t a n t a n n i d o p o che Ataturk vietò il fez.M Simili iniziative del governo, in gran par te motivate dal desiderio di far terra bruciata in torno ai fonda-mentalisti, d imostrano quan to fertile fosse quel t e r reno negli anni Ot tanta e primi anni Novanta.

2) La rinascita dell 'Islam ha muta to il carattere della politica turca. I leader politici, e Turgo Òzal in particolare, si identifi-carono sempre più esplicitamente con gli emblemi e gli orien-tamenti politici musulmani . In Turchia, come altrove, la demo-crazia ha rafforzato il processo di indigenizzazione e il r i torno alla religione. «Nella loro brama di accattivarsi i favori dell 'opi-n ione pubblica e di guadagnare voti, i politici - e f inanche i mi-litari, vero bastione e custode del secolarismo - h a n n o dovuto tener conto delle aspirazioni religiose della popolazione: non poche delle concessioni fatte odoravano di demagogia». I mo-vimenti popolari h a n n o assunto una for te caratterizzazione re-ligiosa. Sebbene le élite di potere e burocratiche, in particolare l 'esercito, fossero di tendenza laica, l 'islamismo ha iniziato a far breccia tra le forze armate, e nel 1987 diverse centinaia di ca-detti f u r o n o espulsi dalle accademie militari perché sospettati di nutr i re sentimenti islamisti. I maggiori partiti politici avver-tono sempre più la necessità di cercare sostegno elettorale tra le risuscitate tarika musulmane, o società selezionate, messe al bando da Ataturk. ' ' Alle elezioni locali del marzo 1994 il fon-damentalista Partito del Benessere, unico tra i principali cin-que partiti del paese, accrebbe il propr io consenso elettorale, o t t enendo circa il 19 per cento dei voti rispetto al 21 per cento del Partito della Retta Via del p r imo ministro Ciller e al 20 per cento del Partito della Madrepatra di Òzal. Il Partito del Be-nessere si assicurò il controllo delle due principali città del pae-se, Istanbul e Ankara, e risultò es t remamente forte nella par te sudorientale del paese. Alle elezioni del d icembre 1995, il Par-tito del Benessere conquistò più vod e più seggi in par lamento di qualsiasi altra formazione politica, e sei mesi d o p o andò al governo in coalizione con u n o dei partiti laici. Come in altri

34 Rouleau, «Challenges», pp. 120-1; «New York Times», 26 marzo 1989, p. 14. 35 Ibid.

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paesi, il sostegno ai fondamentalist i provenne dai giovani, dagli emigranti tornati in patria, dagli «oppressi e i diseredati» e dai «nuovi emigrati urbani , i "sanculotti" delle grandi città»."'

3) La rinascita dell ' islamismo ha influenzato la politica este-ra turca. Sotto la guida del presidente Òzal, la Turchia si era decisamente schierata a fianco del l 'Occidente nella guer ra del Golfo, nella speranza di accelerare così il p ropr io ingresso nel-la Comuni tà europea. Ciò, tuttavia, non è accaduto, e le esita-zioni della Nato su cosa avrebbe fat to in caso di un attacco i rakeno alla Turchia duran te la guer ra del Golfo non h a n n o per nulla rassicurato i turchi circa la posizione della Nato in ca-so di una minaccia non russa al propr io paese.1 ' Il governo di Ankara ha tentato di rafforzare i rapport i militari con Israele, il che ha provocato le vibrate proteste degli islamisti turchi. Cosa ancor più significativa, nel corso degli anni Ot tanta la Turchia ha intensificato i rapport i con i paesi arabi e con altri paesi mu-sulmani, e negli anni Novanta ha attivamente promosso gli in-teressi islamici o f f rendo un significativo sostegno ai musulmani bosniaci e all 'Azerbaigian. Sia nei Balcani sia in Asia centrale e in Medio Oriente , la politica estera turca è andata sempre più islamizzandosi.

Per molti anni la Turchia ha soddisfatto due dei tre requisiti minimi necessari perché un paese in bilico possa mutare la pro-pria civiltà di appar tenenza. Le élite turche h a n n o fo r temente sostenuto questo passaggio, e l 'opinione pubblica si è mostrata acquiescente. Tuttavia le élite della civiltà d 'approdo, cioè quel-la occidentale, non si sono mostrate ben disposte, e men t re la quest ione continuava a restare in sospeso, la ripresa dell'isla-mismo ha iniziato a indebolire sempre più l 'o r ien tamento lai-cista e filoccidentale delle classi dirigenti turche. Gli ostacoli al-la t rasformazione della Turchia in un paese p ienamente euro-peo, i limiti alla sua capacità di svolgere un ruolo dominan te in r appor to alle ex repubbl iche sovietiche di razza turca e la na-scita di t endenze islamiche che minano l 'eredità lasciata da Ataturk sono tutti fattori indicanti come la Turchia resterà un paese in bilico.

Riflet tendo tali opposte pulsioni, i leader turchi h a n n o pun-

36 Brown, «Question ofTurkish Identity», p. 58. 37 Se/.er, «Turkev's (.ranci Strategy», pp. 29-30.

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tualmente definito il propr io paese un «ponte» tra due culture. La Turchia, ha a f fe rmato il p r imo ministro Tansu Ciller nel 1993, è insieme una «democrazia occidentale» e «parte inte-grante del Medio Oriente», e «fa da ponte , fisicamente e filo-soficamente, tra due civiltà». Così nei suoi discorsi pubblici alla nazione la Ciller appariva sovente come una musulmana, men-tre q u a n d o si rivolgeva alla Nato sosteneva che «la realtà geo-grafica e politica dice che la Turchia è un paese europeo». An-che il presidente Suleyman Demirel ha definito la Turchia «un pon te molto impor tante in u n a regione che si es tende da ovest ad est, vale a dire dal l 'Europa alla Cina».1" Un ponte , tuttavia, è una creazione artificiale che unisce due entità fisiche, ma non è par te integrante di nessuna delle due. Q u a n d o i leader turchi definiscono il propr io paese un ponte , essi c o n f e r m a n o eufe-misticamente che la Turchia è un paese in bilico.

Messico. La Turchia è diventata un paese in bilico negli anni Venti, il Messico soltanto negli anni Ottanta. Tuttavia la storia dei rispettivi rapport i con l 'Occidente presenta alcune simili-tudini. Al pari della Turchia, il Messico aveva u n a cultura pre-c ipuamente non occidentale. Anche nel xx secolo, ha afferma-to Octavio Paz, «l 'anima del Messico è india. Non è europea».™ Al pari de l l ' Impero o t tomano , nel xix secolo il Messico fu smembrato per m a n o del l 'Occidente. Al pari della Turchia, ne-gli anni Venti e Trenta visse u n a rivoluzione che gettò nuove basi di identità nazionale e creò un nuovo sistema politico mo-nopart i t ico. In Turchia, tuttavia, la rivoluzione compor tò al con t empo il rifiuto della tradizionale cultura islamica e otto-mana e il tentativo di impor tare la cultura occidentale assimi-landosi al l 'Occidente. In Messico, come in Russia, la rivoluzio-ne implicò l ' importazione e l ' adat tamento di alcuni e lementi della cultura occidentale, che a sua volta produsse un nuovo

38 Ciller, «Turkey in the "New World"», p. 9; Brown, «Question ofTurkish Identity», p. 56; Tansu Ciller, «Turkey and NATO: Stability in the Vortex of Change», in «NATO Review», n. 42 (Aprile 1994), p. 6; Suleyman Demirel, BBC Svmmary of World Broadcast, 2 febbraio 1994. Per altri ricorsi alla me-tafora del ponte, si veda Bruce R. Kuniholm, «Turkey and the West», in «Fo-reign Affairs», n. 70 (Primavera 1991), p. 39; Lesser, «Turkev and the West», p. 33. 39 Octavio Paz, «The Border of Time», intervista a Nathan Gardels, in «New Perspectives Quarterly», n. 8 (Inverno 1991), p. 36.

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nazionalismo in opposizione al capitalismo e alla democrazia di s tampo occidentale. Così, per sessan tann i la Turchia ha tenta-to di definirsi u n paese europeo, men t re il Messico ha tentato di definirsi un paese antitetico agli Stati Uniti. Dagli anni Tren-ta agli anni Ot tanta i dirigenti messicani h a n n o perseguito u n a politica economica ed estera di contrapposizione agli interessi americani.

Negli anni Ottanta tutto questo è cambiato. Prima il presi-den te Miguel de la Madrid e poi il suo successore Carlos Sali-nas ope ra rono u n a ridefinizione globale degli obiettivi, dei co-stumi e dell ' identi tà messicana. Un tentativo di m u t a m e n t o co-sì radicale non si vedeva dai tempi della rivoluzione del 1910. Salinas divenne in sostanza il Mustafa Kemal del Messico. Ata-turk promosse il secolarismo e il nazionalismo, temi al l 'epoca dominant i in Occidente; Salinas promosse il liberalismo eco-nomico, u n o dei due temi dominant i nel l 'Occidente degli anni Ot tanta (l 'altro, la democrazia politica, venne invece scartato). Come accadde per Ataturk, queste opinioni e rano ampiamen-te condivise dalle élite economiche e politiche del paese: molti loro esponenti , come Salinas e de la Madrid, e rano stati educa-ti negli Stati Uniti. Salinas ridusse drast icamente l ' inflazione, privatizzò un gran n u m e r o di imprese pubbliche, promosse gli investimenti esteri, ridusse tariffe e sussidi, r is trut turò il debi to estero, sfidò il potere dei sindacati, aumen tò la produttività e guidò l ' ingresso del Messico nel Nafta, l 'Accordo sul l ibero scambio no rdamer i cano con Stati Uniti e Canada. Come le r i forme di Ataturk intesero t rasformare la Turchia da u n paese musu lmano mediorientale in un paese laico europeo, così le r i forme di Salinas pun ta rono a t rasformare il Messico da paese la t inoamericano a paese nordamer icano.

Non si trattò di u n a scelta obbligata. Le classi dirigenti mes-sicane avrebbero potu to presumibi lmente proseguire il corso ant iamericano, terzomondista, nazionalista e protezionista im-boccato dai loro predecessori per buona par te del secolo. In al-ternativa, come qualcuno sostenne, avrebbero potu to tentare di sviluppare con Spagna, Portogallo e i paesi sudamericani un'associazione di nazioni ispanofone.

Riuscirà il Messico ad acquisire un ' ident i tà nordamericana? La grandissima maggioranza delle élite politiche, economiche e intellettuali favorisce un tale corso. Inoltre, a differenza di

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quanto avviene per la Turchia, le élite della civiltà di app rodo h a n n o incoraggiato il r ial l ineamento culturale del Messico. Il motivo di questo diverso at teggiamento va ricercato nella que-stione cruciale dell ' immigrazione. Il t imore di u n a massiccia immigrazione turca ha dissuaso governi e opin ione pubblica europea dal far entrare la Turchia in Europa. Viceversa, la mas-siccia immigrazione messicana, legale e non , negli Stati Uniti è servita da puntel lo alla richiesta di Salinas di ent rare a far par-te del Nafta: «O accettate le nostre merci o accettate la nostra gente». Inoltre, la distanza culturale tra Messico e Stati Uniti è di gran lunga inferiore a quella che separa la Turchia dall 'Eu-ropa. Il Messico è in parte un paese occidentale: la sua religio-ne è il cattolicesimo; la sua lingua lo spagnolo, le sue classi di-rigenti h a n n o s tor icamente guarda to a l l 'Europa (nelle cui scuole mandavano i loro figli) e più di recente agli Stati Uniti (dove m a n d a n o oggi i figli). L 'ada t tamento tra il Nord Ameri-ca anglo-americano e il Messico indo-ispanico dovrebbe risul-tare molto più agevole di quello tra l 'Europa cristiana e la Tur-chia musulmana. Nonostante questi valori comuni , d o p o la ra-tifica del Nafta negli Stati Uniti è cresciuta l 'opposizione a stringere u l ter iormente i legami con il Messico, con richieste di restrizioni all ' immigrazione, proteste per il t rasfer imento delle industrie verso sud e dubbi sulla capacità del Messico di aderi-re ai precetti nordamericani di libertà e stato di diritto.4"

Il terzo prerequisito indispensabile perché un paese in bilico possa realizzare il passaggio d ' ident i tà è una generale acquie-scenza - ma non necessariamente l'attivo sostegno - dell 'opi-n ione pubblica. L ' importanza di questo fat tore d ipende in cer-ta misura dal peso che l 'opinione pubblica di un paese esercita sulle scelte di governo. Fino al 1995, il filoccidentalismo del Messico n o n era stato ancora sottoposto all 'esame della demo-cratizzazione. La «Rivolta di Capodanno» condot ta da qualche migliaio di guerriglieri del Chapas ben organizzati e finanziati dall 'estero non è stata, di per sé, indizio di u n a sostanziale op-posizione alla nordamericanizzazione. E tuttavia la generale simpatia con la quale essa è stata accolta tra intellettuali, gior-

40 Per un esempio relativo a quest'ultima preoccupazione, si veda Daniel Pa-trick Moynihan, «Free Trade with an Unfree Society: A Committment and its Consequences», in «National Interest», Estate 1995, pp. 28-33.

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nalisti e altri influenti opinionisti messicani sembrerebbe indi-care che la nordamericanizzazione in generale e il Nafta in par-ticolare pot rebbero incontrare una resistenza sempre maggiore sia da parte delle élite sia del l 'opinione pubblica messicana. Il presidente Salinas è stato molto at tento a privilegiare la rifor-ma economica e l 'occidentalizzazione rispetto alla r i forma po-litica e alla democratizzazione. Sia lo sviluppo economico sia il sempre maggiore avvicinamento agli Stati Uniti, tuttavia, con-sol ideranno inevitabilmente le forze che p ropugnano u n a rea-le democratizzazione del sistema politico messicano. La que-stione chiave per il fu tu ro del Messico è la seguente: in che mi-sura modernizzazione e democrat izzazione s t imoleranno la deoccidentalizzazione, rappresenta ta da un drastico ridimen-s ionamento del Nafta se non dalla fuoriuscita del Messico dallo stesso e da significative modif iche agli indirizzi politici imposti al Messico negli anni Ot tanta e Novanta dalla propr ia classe di-rigente? La nordamericanizzazione del Messico è compatibile con la sua democratizzazione?

Australia. A differenza di Russia, Turchia e Messico, l'Austra-lia è sempre stata, sin dalle sue origini, una società occidentale. Per tutto il xx secolo è stata in t imamente legata alla Gran Bre-tagna pr ima e agli Stati Uniti poi, e durante la Guerra f r edda ha fatto par te non solo del l 'Occidente ma anche della coalizio-ne spionistico-militare britannico-americana-canadese-austra-liana che del l 'Occidente era asse por tante . All'inizio degli anni Novanta, tuttavia, i leader politici australiani decisero, in buona sostanza, che l'Australia dovesse staccarsi dal l 'Occidente, ride-finire la propr ia identità come società asiatica e coltivare stretti legami con i propr i vicini territoriali. L'Australia, dichiarò il suo p r imo ministro Paul Keating, non doveva più essere u n a «filiale del l ' impero», ma diventare una repubblica e pun ta re a «confluire» nell'Asia. Questo era necessario per la sua identità di paese ind ipendente . «L'Australia non p u ò presentarsi agli occhi del m o n d o come una società multiculturale, stabilire un legame convincente con l'Asia e con temporaneamen te restare, a lmeno dal pun to di vista costituzionale, un paese marginale». L'Australia, dichiarò Keating, ha sofferto innumerevoli anni di «anglofilia e torpore» e pe rpe tuare l 'associazione con la Gran Bretagna avrebbe avuto un effet to «debilitante sulla nostra cul-

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tura nazionale, sul nostro fu tu ro economico e sul nostro desti-no in Asia e nel Pacifico». Simili sentimenti f u r o n o espressi an-che dal ministro degli Esteri Gareth Evans/1

La decisione di ridefinire l'Australia come un paese asiadco si fondava sul presupposto che il destino delle nazioni viene forgiato molto più dal l 'economia che dalla cultura. L'incentivo maggiore è venuto dal d inamico sviluppo delle economie est-asiatiche, che ha a sua volta stimolato una rapida crescita degli scambi commerciali tra Australia e Asia. Nel 1971 l'Asia orien-tale e sudorientale assorbiva il 39 per cento delle esportazioni australiane e rappresentava il 21 per cento del suo volume di importazioni . Nel 1994 queste cifre e rano passate rispettiva-men te al 62 e 41 per cento. Viceversa, nel 1991 solo l ' I 1,8 per cento delle esportazioni australiane andava alla Comuni tà eu-ropea e il 10,1 per cento negli Stati Uniti. Tale accresciuto le-game economico con l'Asia è stato altresì r inforzato dalla con-vinzione maturata dagli australiani che il m o n d o stesse proce-d e n d o verso la creazione di tre grandi blocchi economici e che il posto dell 'Australia fosse a l l ' in terno del blocco est-asiatico.

Nonostante questi legami economici, tuttavia, non sembra che il tentativo di asianizzazione dell'Australia presenti alcuno dei prerequisiti necessari perché un paese in bilico possa ope-rare con successo un passaggio di civiltà. Innanzitut to, ancora nel 1995 la classe politica australiana non appariva affatto com-pa t tamente entusiasta di tale corso, e i leader del Partito libe-rale si mostravano viceversa perplessi o contrari . Forti critiche venivano al governo laburista anche da un ampio n u m e r o di intellettuali e giornalisti. In breve, non esisteva un consenso generale tra le élite di potere australiane. In secondo luogo, l 'opinione pubblica ha mostrato un at teggiamento ambiguo. Dal 1987 al 1993, la percentuale di cittadini australiani favore-vole a po r re fine alla monarchia era passata dal 21 al 46 per cento. Poi, però, il sostegno in tal senso iniziò ad affievolirsi e a scemare. La percentuale di cittadini favorevole ad el iminare l '«UnionJack» dalla bandiera australiana scese dal 42 per cen-to del maggio 1992 al 35 per cento dell 'agosto 1993. Come dis-se un funzionar io australiano nel 1992, «per l 'opinione pubbli-

41 «Financial Times», 11-12 settembre 1993, p. 4; «New York Times», 16 ago-sto 1992, p. 3.

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ca è du ra da digerire. Ogni volta che dico che l'Australia do-vrebbe far par te dell'Asia, lei non ha idea di quante lettere di protesta ricevo»/2

Terzo e più importante punto: le élite dei paesi asiatici hanno esibito nei confronù delle proposte australiane una freddezza an-cora maggiore di quella palesata dalle élite europee nei confron-ti della Turchia. Hanno affermato esplicitamente che per far par-te dell'Asia l'Australia dovrebbe diventare una nazione genuina-mente asiatica, e r i tengono ciò improbabile se non impossibile. «Il successo dell 'integrazione australiana all'Asia», ha affermato un funzionario indonesiano, «dipende da un 'unica cosa: f ino a che punto gli stati asiatici guardano con favore al proposito au-straliano. L'accettazione dell'Australia da parte dell'Asia d ipende da quanto il governo e il popolo australiani riusciranno a com-prendere la cultura e le società asiatiche». Gli asiatici sottolinea-no una contraddizione tra la retorica filoasiatica degli australiani e il loro stile di vita perversamente occidentale. I thailandesi, se-condo un diplomatico australiano, reagiscono alle insistenze au-straliane sulla propria natura asiatica con «ilare condiscenden-za»." «Dal punto di vista culturale, l'Australia è ancora europea», ha dichiarato nell 'ottobre del 1994 il pr imo ministro malaysiano Mahathir, «... noi pensiamo che sia europea», e dunque l'Austra-lia non dovrebbe entrare a far parte dell'Eaec, il comitato per l'e-conomia dell'Asia meridionale. «[Noi asiatici] siamo m e n o incli-ni a criticare aspramente altri paesi o a esprimere giudizi su di lo-ro. L'Australia invece, essendo culturalmente europea, pensa di avere il diritto di dire agli altri cosa fare e cosa non fare, cosa è giusto e cosa è sbagliato. E questo, ovviamente, non è compatibi-le con il gruppo. Questa è la mia motivazione [per non accettare l'ingresso dell'Australia nell 'Eaec], Non è una questione di colo-re della pelle, ma di cultura»/4 Gli asiatici, in breve, sono ferma-

42 «Economist», 23 luglio 1994, p. 35; Irene Moss, membro della Commis-sione per i diritti umani (Australia), «New York Times», 16 agosto 1992, p. 3; «Economist», 23 luglio 1994, p. 35; «Boston Globe», 7 luglio 1993, p. 2; «Ca-ble News Network», News Report, 16 dicembre 1993; Richard Higgot, «Clo-sing a Branch Office of Empire: Australian Foreign Policy and the UK. at Century's End», in «International Affairs», n. 70 (Gennaio 1994), p. 58. 43 Jat Sujamiko, «The Australian», 5 maggio 1993, p. 18, cit. in Higgot, «Clo-sing a Branch», p. 62; Higgott, «Closing a Branch», p. 63; «Economist», 12 di-cembre 1993, p. 34. 44 Intervista a Keniche Ohmae, trascrizione, 24 ottobre 1994, pp. 5-6. Si veda anche «Japan Times», 7 novembre 1994, p. 19.

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mente intenzionati a escludere l'Australia dal loro club per lo stesso modvo che spinge gli europei a escludere la Turchia dal proprio: sono diversi. Al pr imo ministro Keadng piaceva dire che avrebbe trasformato l'Australia da un paese tagliato fuori dall'A-sia ad u n o «tagliato dentro» l'Asia. Il che è un controsenso: non si può essere «tagliati dentro».4 '

Come ha af fermato Mahathir, cultura e valori costituiscono i principali ostacoli all 'unificazione tra Australia e Asia. Periodi-ci scontri sorgono in meri to all 'adesione dell 'Australia alla de-mocrazia, alla difesa dei diritti umani , alla libertà di stampa, e alle loro proteste per le violazioni dei diritti perpet ra te di fatto dai governi di tutti gli stati limitrofi. «Il vero prob lema dell'Au-stralia nella regione», ha dichiarato un alto diplomatico austra-liano, «non sta nella nostra bandiera, ma nei nostri valori basi-lari. Credo che non esista un solo australiano disposto ad ab-bandona re u n o soltanto di quei valori pur di essere accettato nella regione».4" Non m e n o grandi sono le differenze di carat-tere, stile e compor tamento . Come sostiene Nahathir, nel per-seguire i loro obiettivi nei rappor t i con gli altri, gli asiatici adot-tano genera lmente un m o d o di fare sottile, indiretto, ambiguo, pragmatico, conciliante e non moralistico. Quello australiano, per contro, è il popolo più schietto, diretto, esplicito e - direb-be qua lcuno - insensibile di tutto il m o n d o anglofono. Un si-mile scontro di culture risalta in m o d o ancor più evidente negli at teggiamenti assunti dallo stesso Paul Keating con gli asiatici. Keadng incarna le caratteristiche nazionali australiane elevate al l 'ennesima potenza. È stato descritto come un «politico ruvi-do», dotato di u n o stile « innatamente provocatorio e pugna-ce». Egli stesso non ha esitato a etichettare i propr i oppositori politici come una «massa di rifiuti umani», «gigolò profumati» e «pazzi criminali dal cervello bacato»." Nel suo perorare l'a-sianizzazione dell 'Australia, Keating finiva immancabi lmente con l ' irritare, sbigottire e contrariare con la sua r u d e franchez-

45 In inglese il gioco di parole è tra «odd man out», indicante una persona isolata, che non lega con gli altri, e «odd man in» [n.d.t.]. 46 Ex ambasciatore Richard Woolcott (Australia), «New York Times», 16 ago-sto 1992, p. 3. 47 Paul Kelly, «Reinventing Australia», in «National Interest», n. 30 (Inverno 1992), p. 66; «Economist», 11 dicembre 1993, p. 34; Higgott, «Closing a Blanch», p. 58.

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za i leader politici asiatici. Il divario tra le due culture era così p r o f o n d o da impedire al sostenitore della loro convergenza di accorgersi di come il suo stesso compor t amen to fosse inviso ai suoi pretesi fratelli culturali.

La scelta di Keating ed Evans p u ò essere interpretata come la miope decisione di chi sopravvaluta i fattori economici e deci-de di ignorare, anziché r innovare la cultura del p ropr io paese, n o n c h é come una manovra tattica per distrarre l 'a t tenzione dai problemi economici del paese. In alternativa, po t rebbe es-sere considerata una lungimirante iniziativa volta ad aggregare e identificare l'Australia con i centri emergent i del potere eco-nomico, politico e in fu tu ro anche militare dell'Asia orientale. Sotto questo aspetto, l 'Australia po t rebbe essere il p r imo di (forse) molti paesi occidentali che tentano di disertare il cam-po occidentale e salire sul carro vincente delle emergent i ci-viltà non occidentali . All'inizio del XXII secolo gli storici po-t rebbero rivalutare la scelta Keating-Evans come u n a pietra mi-liare nel processo di declino del l 'Occidente. Se questa scelta verrà mai messa in atto, tuttavia, essa non eliminerà certo l'e-redità occidentale propr ia dell'Australia, e il «paese for tunato» sarà pe r sempre un paese in bilico, ossia da un lato la «succur-sale del l ' impero» deprecata da Paul Keating e dall 'al tro la «nuova feccia bianca dell'Asia» com'è stata sprezzantemente definita da Lee Kuan Yew.1"

Un simile epilogo non era e n o n è un destino ineluttabile per l'Australia. Pur accet tando il loro desiderio di r ompere i pont i con la Gran Bretagna, i leader australiani, anziché defi-nire il propr io paese come potenza asiatica po t rebbero definir-lo un paese del Pacifico, come tentò di fare il predecessore di Keating, Robert Hawke. Se l'Australia desidera diventare u n a repubblica ind ipenden te dalla corona britannica, po t rebbe al-linearsi con il pr imo paese al m o n d o ad averlo fatto, un paese che, al pari dell'Australia, è di origine britannica, è composto da immigrati, ha dimensioni continentali , parla inglese, è stata sua alleata in tre guer re e la cui popolazione è preminente-men te europea , anche se, al pari dell'Australia, con una sem-pre più forte componen te asiatica. Sul p iano culturale, i valori della Dichiarazione di Ind ipendenza del 4 luglio 1776 sono

48 Lee Kuan Yew, cit. in Higgott, «Closing a Brandi», p. 49.

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molto più simili ai valori australiani di quanto lo siano quelli di un qua lunque paese asiatico. Sul p iano economico, anziché tentare di farsi strada a fatica in un g ruppo di società alle quali è cul turalmente estranea e che per tale motivo li r if iutano, i leader australiani po t rebbero p ropor re di allargare il Nafta e t rasformarlo in un 'organizzazione tra Nord America e Pacifico mer id ionale c o m p r e n d e n t e Stati Uniti, Canada, Australia e Nuova Zelanda. Un r agg ruppamen to siffatto concil ierebbe in sé cultura ed economia e darebbe all'Australia u n a solida e du-ratura identità non basata su futili tentativi di asianizzazione.

Il virus occidentale e la schizofrenia culturale. Mentre i leader au-straliani partivano alla ricerca dell'Asia, quelli di altri paesi in bilico - Turchia, Messico, Russia - tentavano di inglobare l 'Oc-cidente nella propria società, e viceversa. L'esperienza, tuttavia, dimostra chiaramente la forza, la resistenza e la pervicacia del-le culture autoctone e la loro capacità di rinnovarsi e f renare , respingere e assorbire le importazioni occidentali. Se u n a chiu-sura totale al l 'Occidente è inattuabile, la soluzione kemalista si è dimostrata fallimentare. Se in t endono modernizzarsi, le so-cietà non occidentali devono farlo a m o d o loro, non alla ma-niera degli occidentali, e fondare , come ha fatto il Giappone, sulle propr ie tradizioni, valori e istituzioni.

I leader politici tanto tracotanti da pensare di poter stravol-gere e riforgiare da capo sin nelle fondamen ta la cultura della propr ia società sono destinati a fallire. Possono in t rodur re al-cuni ingredienti della cultura occidentale, ma non soppr imere o eliminare per sempre gli e lementi di f ondo della propr ia cul-tura autoctona. Viceversa, u n a volta inoculato in un 'a l t ra so-cietà, il virus occidentale è difficile da espungere. Non è letale ma p e r m a n e nel l 'organismo; il paziente sopravvive, ma non guarisce mai. I leader politici possono fare la storia, ma non possono sfuggirvi. P roducono paesi in bilico, non creano so-cietà occidentali. Infe t tano il propr io paese con u n a schizofre-nia culturale che finisce col diventarne l ' e lemento costante e caratterizzante.

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CAPITOLO SETTIMO Stati guida, cerchi concentrici e l 'ordine delle civiltà

Le civiltà e l'ordine internazionale

Nello scenario politico internazionale che va emergendo , le d u e superpo tenze del l ' epoca della Guer ra f r edda vengono sempre più soppiantate, nel loro ruo lo di polo di attrazione e repulsione, dagli stati guida delle maggiori civiltà del pianeta. Il processo è più evidente nelle civiltà occidentale, ortodossa e si-nica. Al loro in te rno s tanno e m e r g e n d o dei r aggruppament i per civiltà che coinvolgono stad guida, stati membri , minoran-ze di popolazioni cul turalmente affini residenti in stati limitro-fi nonché , secondo modali tà più controverse, popolazioni li-mi t rofe appar tenen t i ad altre culture. Al l ' in terno di quesd blocchi di civiltà, gli stati t e n d o n o spesso a distribuirsi secondo cerchi concentrici in torno allo stato o agli stad guida, in base al grado di idendficazione e di integrazione con essi. Mancando di u n o stato guida uff icialmente riconosciuto, il m o n d o islami-co sta acquisendo u n a maggiore coscienza comune , che però fino a oggi non è andata oltre u n a rud imenta le s t rut tura poli-dea unificata.

Gli stati t e n d o n o ad allinearsi a paesi di uguale cultura e a contrapporsi a quei paesi con cui, viceversa, non h a n n o alcun legame culturale. Questo succede soprattutto, ovviamente, nei confront i degli stati guida. Per motivi di sicurezza, gli stad gui-da possono tentare di inglobare o dominare popoli di altre ci-viltà, i quali, a loro volta, t en tano di resistere o di sottrarsi a ta-le controllo (Cina contro tibetani e uiguri; Russia contro tatari, ceceni e musulmani centroasiatici). Rapport i di antica tradi-zione e considerazioni di equilibrio dei poteri possono d 'a l t ro canto indur re alcuni paesi a opporsi all ' influenza dei propr i stati guida. Georgia e Russia sono ent rambi paesi ortodossi, ep-pure i georgiani si sono tradizionalmente opposu sia al domi-

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nio russo sia, successivamente, a una stretta associazione con Mosca. Vietnam e Cina sono ent rambi paesi confuciani , divisi anch'essi da un 'ana loga tradizione di ostilità. Col passare del tempo, tuttavia, la comunanza culturale e lo sviluppo di u n a maggiore coscienza della propr ia civiltà po t rebbero contribui-re ad avvicinare questi paesi, così com'è avvenuto per gli stati de l l 'Europa occidentale.

L 'ordine instaurato all 'epoca della Guerra f r edda fu il pro-dot to del dominio delle due superpotenze sui rispettivi blocchi e dell ' influenza da essi esercitata nel Terzo Mondo. Nel m o n d o emergente , il concetto di potenza globale è ormai obsoleto, il villaggio globale un sogno. Nessun paese, n e a n c h e gli Stati Uniti, vanta significativi interessi di sicurezza su scala globale. Gli elementi costitutivi del l 'ordine internazionale, in un mon-do più complesso ed e te rogeneo come quello odierno , vanno individuati a l l ' in terno delle singole civiltà e nelle interazioni tra esse. Il m o n d o sarà ordinato per civiltà, o non lo sarà affat-to. Al suo interno, gli stati guida delle diverse civiltà p r e n d o n o il posto delle superpotenze, si e rgono a tutori del l 'ordine al-l ' in terno delle rispettive civiltà nonché , mediante negoziati con altri stati guida, nei rappor t i tra esse.

Un m o n d o in cui gli stati guida svolgono un ruolo basilare o dominan te è, inoltre, un m o n d o diviso in sfere di influenza, ma anche un m o n d o in cui l ' influenza esercitata dallo stato guida è f rena ta e modera ta dalla comunanza culturale che lo lega agli stati membr i della propria civiltà. Tale comunanza legitti-ma la leadership e il ruolo di tutore del l 'ordine dello stato gui-da agli occhi sia degli stati membri , sia delle potenze e istitu-zioni esterne. Appaiono quindi del tutto inutili iniziative quali quella adottata nel 1994 dal segretario generale de l l 'Onu Bou-tros Boutros-Ghali, il quale p romulgò u n a n o r m a di «preven-zione delle sfere di influenza» in base alla quale n o n più di un terzo delle unità costituenti le forze di pace multinazionali del-le Nazioni Unite operant i in u n a determinata area dovessero provenire dalla potenza dominan te della regione. Questa im-posizione ignora il pu ro e semplice dato di fatto geopolitico che in qualsiasi regione nella quale vi sia u n o stato dominante , la pace p u ò essere raggiunta e mantenu ta solo attraverso la lea-dership di quello stato. Le Nazioni Unite non sono un 'a l terna-tiva al potere regionale, potere che diventa responsabile e le-

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gittimo solo q u a n d o viene esercitato dagli stati guida nei con-front i di altri membr i della propr ia civiltà.

U n o stato guida può svolgere la sua funzione di tutore del-l 'ordine perché gli stati membr i lo considerano cul turalmente affine. Una civiltà è come u n a grande famiglia, e al pari dei membr i più anziani di una famiglia gli stati guida garantiscono ord ine e disciplina. In assenza di un siffatto legame di parente-la, le possibilità per u n o stato più poten te di risolvere i conflit-ti e imporre l 'ordine nella propria regione sono molto limitate. Pakistan, Bangladesh e per f ino lo Sri Lanka non accet teranno mai l ' India come tutrice del l 'ordine in Asia meridionale, così come nessun altro stato est-asiatico potrà mai accettare che il Giappone svolga questo ruo lo in Asia orientale.

Q u a n d o u n a civiltà è priva di u n o stato guida, il p roblema di stabilire l 'ordine al propr io in te rno o di negoziarlo tra più ci-viltà si fa più arduo. L'assenza di u n o stato guida islamico che potesse legit t imamente e autorevolmente fungere da p u n t o di r i fer imento per i bosniaci, così come la Russia lo è stata per i serbi e la Germania per i croati, obbligò a questo ruolo gli Sta-ti Uniti. Ma il tentativo fallì per la mancanza di interessi strate-gici statunitensi nella de terminazione dei nuovi confini nell 'ex Jugoslavia, per l'assenza di un qualsiasi legame culturale tra Sta-ti Uniti e Bosnia, e per l 'opposizione europea alla creazione di u n o stato musu lmano in Europa. L'assenza di stati guida sia in Africa che nel m o n d o arabo ha eno rmemen te complicato i ten-tativi di risolvere la guer ra civile sudanese. Laddove invece so-no presenti , gli stati guida rappresen tano gli e lementi cardine del nuovo ordine internazionale fonda to sulle civiltà.

I nuovi confini dell'Occidente

Durante la Guerra f r edda gli Stati Uniti e rano al centro di un ampio e variegato g r u p p o di paesi accomunato dall 'obietti-vo di impedi re l 'ul teriore espansione de l l 'Unione Sovietica. Questo g ruppo , variamente denomina to «Mondo libero», «Oc-cidente» o «Alleati», comprendeva molte ma non tutte le so-cietà occidentali, Turchia, Grecia, Giappone, Corea, Filippine, Israele nonché , in fo rma più blanda, altri paesi quali ad esem-pio Taiwan, Thailandia e Pakistan. Sul versante opposto c 'era

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un g r u p p o di nazioni leggermente m e n o e te rogeneo che in-cludeva tutti i paesi ortodossi a eccezione della Grecia, alcuni paesi storicamente occidentali, il Vietnam, Cuba, in misura mi-nore l ' India e a volte u n o o più paesi africani. Con la fine della Guerra f redda, i g ruppi interculturali si sono disgregati. La dis-soluzione del sistema sovietico, e in particolare quella del Patto di Varsavia, è stata traumatica e repent ina . Più lentamente , ma su binari simili, 1'«Occidente» multiculturale della Guerra fred-da si sta r iconf igurando in un nuovo raggruppamen to più o m e n o coincidente con la civiltà occidentale. At tualmente è in corso un processo di delimitazione dei confini del l 'Occidente e di definizione dei criteri di appar tenenza alle organizzazioni internazionali occidentali.

Stre t tamente connesso agli stati guida de l l 'Unione europea , Francia e Germania , c 'è un g r u p p o più compat to fo rma to da Belgio, O landa e Lussemburgo, i quali h a n n o accettato di eli-minare ogni barr iera al movimento di beni e persone; seguo-no quindi altri stati membr i come Italia, Spagna, Portogallo, Danimarca, Inghil terra, I r landa e Grecia; quindi gli stati en-trati ne l l 'Unione nel 1995 (Austria, Finlandia, Svezia), e infine i paesi che nel 1995 e rano solo membr i associati (Polonia, Un-gheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Bulgaria e Romania) . Al-la luce di questo stato di cose, ne l l ' au tunno del 1994 il part i to di governo in Germania e i massimi esponent i di governo francesi avanzarono la proposta di creare u n ' U n i o n e differen-ziata. Il p iano tedesco proponeva che il «nocciolo duro» del-l 'Un ione fosse costituito dai membr i originari m e n o l'Italia e che «Germania e Francia costituissero il nocciolo del nocciolo duro». Questi paesi avrebbero rap idamente tentato di realiz-zare u n ' u n i o n e monetar ia e di integrare le rispettive polit iche estere e di difesa. Quasi s imul taneamente , il p r imo ministro f rancese Edouard Balladur propose di dar vita a u n ' U n i o n e a tre velocità, con i c inque stati filointegrazionisti in testa, gli al-tri stati membr i a seguire e i nuovi stati associati in coda. Suc-cessivamente, il ministro degli Esteri f rancese Alain J u p p é ela-borò u l te r iormente il concet to p r o p o n e n d o un «anello ester-n o di stati "par tner" c o m p r e n d e n t e l 'Europa centrale e orien-tale; un anello in te rmedio di stati membr i cui sarebbe toccato accet tare discipline comun i in certi campi (merca to unico, un ione doganale eccetera) , e diversi anelli interni di "coope-

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razione rafforzata" comprenden t i quant i fossero disposti e in grado di p rocedere più spedi tamente di altri in settori quali ad esempio la difesa, l ' integrazione monetar ia , la politica estera e così via».' Altri leader politici p ropose ro tipi diversi di orga-nizzazione; tutti, però , prevedevano un g ruppe t to di stati più s t re t tamente associati, e diversi g rupp i di stati via via sempre m e n o integrati con lo stato guida, fino a raggiungere il confi-ne perifer ico che separa gli stati m e m b r i dagli altri.

La creazione di un conf ine e u r o p e o è stata una delle princi-pali sfide che l 'Occidente ha dovuto af f rontare nel m o n d o po-st-Guerra f redda . Durante la Guer ra f redda, l 'Europa come en-tità a se stante non esisteva. Con il crollo del comunismo, tutta-via, divenne giocoforza porsi e dare risposta al quesito: Che co-s'è l 'Europa? I confini settentrionale, occidentale e meridiona-le de l l 'Europa sono delimitati dal mare, e a sud coincidono ol-t re tu t to con net te d i f ferenze culturali. Ma qual è il conf ine orientale del l 'Europa? Chi dev'essere considerato eu ropeo e quindi potenziale m e m b r o de l l 'Unione Europea, della Nato e di organizzazioni analoghe?

Il con f ine p iù na tura le e g e n e r a l m e n t e r iconosciu to è il g r ande spar t iacque storico, che esiste da secoli e divide i po-poli de l l 'occ idente cristiano da quelli musu lmani e ortodossi . Questa l inea risale alla divisione de l l ' Impero r o m a n o nel iv secolo e alla creazione del Sacro R o m a n o Impero nel x seco-lo, ed è r imasta grosso m o d o immuta ta per a lmeno cinque-cen to anni . P a r t e n d o da nord , co r re lungo quel lo che oggi è il con f ine tra Finlandia e Russia e tra stati baltici (Estonia, Let tonia , Lituania) e Russia, attraversa la Bielorussia occiden-tale e quindi l 'Ucra ina s epa rando l 'occidente unia te dall 'o-r i en te or todosso, divide la Romania tra la Transilvania un-gherese cattolica e il resto del paese, e pe rcor re l 'ex Jugosla-via lungo il conf ine che separa Slovenia e Croazia dalle altre repubbl iche . Nei Balcani, na tu ra lmente , la linea coincide con la divisione storica tra gli imper i austro-ungarico e o t tomano . È ques to il conf ine culturale del l 'Europa, nonché , nel m o n d o post-Guerra f redda , quel lo polit ico ed economico del l 'Euro-pa e de l l 'Occidente .

1 «Economist», 14 gennaio 1995, p. 45; 26 novembre 1994, p. 56, che com-pendia l'articolo di Juppé su «Le Monde», 18 novembre 1994; «New York Ti-mes», 4 settembre 1994, p. 11.

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Cartina 7.11 confini orientali della civiltà occidentale

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Il mode l lo delle civiltà fornisce d u n q u e u n a risposta chiara e precisa alla d o m a n d a che gli eu rope i occidental i si pongo-no spesso: dove finisce l 'Europa? L 'Europa finisce là dove fi-nisce il cristianesimo occidentale e iniziano l ' islamismo e l'or-todossia. Questa è la risposta che gli europe i occidental i vo-gl iono sentire , che nella s t r ag rande maggioranza dei casi d a n n o «sotto voce» e che vari intellettuali e leader politici h a n n o espl ic i tamente adot ta to . E necessario, come sos tenne Michael Howard, r iconoscere la dist inzione, messa in o m b r a d u r a n t e gli ann i sovietici, tra Europa centra le o Mitteleuropa, ed E u r o p a or ienta le vera e p ropr ia . L 'Europa centra le com-p r e n d e «quelle ter re un t e m p o appa r t enen t i al crist ianesimo occidenta le ; i vecchi ter r i tor i d e l l ' I m p e r o asburgico, l 'Au-stria, l 'Ungher ia , la Repubbl ica Ceca e la Slovacchia, insieme alla Polonia e ai conf ini or iental i della Germania . Il t e rmine "Europa or ien ta le" a n d r e b b e riservato a quelle regioni svi-luppates i sotto l 'egida della Chiesa ortodossa: le c o m u n i t à del Mar Nero di Bulgaria e Romania affrancatesi dal domin io o t t o m a n o sol tanto nel xix secolo, e le part i "europee" dell 'U-n ione Sovietica». Pr imo compi to de l l 'Europa occidentale , so-st iene Howard, è «riassorbire i popol i de l l 'Europa centra le nella nost ra comuni tà cul tura le ed economica , alla quale essi a p p a r t e n g o n o : ricucire i r appor t i tra Londra , Parigi, Roma, Monaco e Lipsia, Varsavia, Praga e Budapest». Sta na scendo u n a «nuova linea di demarcazione», c o m m e n t ò Pier re Behar d u e anni dopo , «uno spar t iacque p r e t t amen te cul turale tra u n ' E u r o p a caratterizzata dal crist ianesimo occidenta le (cat-tolico r o m a n o o protes tante) da un lato ed u n ' E u r o p a con-trassegnata dal crist ianesimo or ienta le e dalle tradizioni isla-miche dall 'a l t ro». Secondo un e m i n e n t e s tudioso f inn ico ques ta divisione de l l 'Europa , che è anda ta a sostituire la cor-tina di fe r ro , è «l 'antica l inea di demarcaz ione cul turale tra Or i en te e Occidente» e p o n e «le ter re del l 'ex I m p e r o austro-ungar ico , n o n c h é la Polonia e gli stati baltici», en t ro i confini de l l 'Europa occidentale , e gli altri paesi balcanici ed est-eu-ropei al di fuor i di essa. Era questo, ha c o n f e r m a t o un emi-n e n t e studioso inglese, «il g r ande spar t iacque religioso ... tra Chiesa or ienta le e Chiesa occidenta le : in t e rmin i general i , tra quei popol i che r icevettero la f ede cristiana d i r e t t amen te da Roma o attraverso in te rmedia r i celtici o tedeschi, e quelli

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dell 'Est e del Sud-Est ai quali giunse attraverso Costant inopo-li (Bisanzio)».2

Tale spartiacque è riconosciuto anche dai popoli dell 'Euro-pa centrale. I paesi che h a n n o registrato significativi progressi ne l l 'opera di dismissione del l 'eredi tà comunista e di passaggio alla democrazia politica e a l l 'economia di mercato e q u a n d in-vece non lo h a n n o fatto sono separati dalla «linea che divide cattolicesimo e protestantesimo da un lato e ortodossia dall'al-tro». Secoli fa, ha confe rmato il presidente della Lituania, i li-tuani dovettero scegliere tra «due civiltà» e «optarono per il m o n d o latino, si convert i rono al cattolicesimo romano e scel-sero un tipo di organizzazione statale fonda to sul diritto». In termini simili, i polacchi a f f e rmano di far parte del l 'Occidente sin dai tempi in cui scelsero, nel x secolo, di schierarsi a fianco del cristianesimo latino e cont ro Bisanzio.1 I popoli dei paesi est-europei ortodossi, per contro, most rano u n a certa ambi-guità rispetto a questa linea di demarcazione culturale. Bulgari e r u m e n i da un lato vedono bene i grandi vantaggi che com-por ta far par te del l 'Occidente e delle sue istituzioni, ma dal-l 'altro si identif icano con la propr ia tradizione ortodossa non-ché, per quan to r iguarda i bulgari, con il legame tradizional-men te int imo che li unisce alla Russia e a Bisanzio.

L'identificazione del l 'Europa con il cristianesimo occidenta-le off re un chiaro criterio per l 'ammissione o m e n o dei nuovi membr i nelle organizzazioni occidentali. L 'Unione europea è la principale endtà occidentale in Europa e il suo ampl iamento è ripreso nel 1994 con l ' ingresso di Austria, Finlandia e Svezia, paesi di cultura occidentale. Nella primavera del 1994 l 'Unione decise di escludere per il m o m e n t o dalla propr ia organizzazio-ne tutte le ex repubbl iche sovietiche a eccezione degli stati bal-tici. Ha inoltre firmato «accordi di associazione» con i quat t ro

2 Michael Howard, «Lessons of the Cold War», in «Survival», n. 36 (Inverno 1994), pp. 102-3; Pierre Behar, «Central Europe: The New Lines of Fractu-re», in «Geopolitique», n. 39 (ed. ingl. Agosto 1992), p. 42; Max Jakobson, «Collective Security in Europe Today», in «Washington Quarterly», n. 18 (Primavera 1995), p. 69; Max Beloff, «Fault Lines and Steeples: The Divided Loyalties of Europe», in «National Interest», n. 23 (Primavera 1991), p. 78. 3 Andreas Oplatka, «Vienna and the Mirror of History», in «Geopolitique», n. 35 (trad. ingl., Autunno 1991), p. 25; Vytautas Landsbergis, «The Choice», in «Geopolitique», n. 35 (ed. ingl., Autunno 1991), p 3; «New York Times», 23 aprile 1995, p. 5E.

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stati cent roeuropei (Polonia, Ungheria , Repubblica Ceca e Slo-vacchia) e con due paesi orientali (Romania e Bulgaria). Nes-suno di tali stati, tuttavia, diventerà probabi lmente m e m b r o ef-fettivo del l 'Ue pr ima del xxi secolo, e gli stati cent roeuropei ac-quis iranno sicuramente tale status pr ima di Romania e Bulga-ria, ove mai questi ultimi dovessero un g iorno riuscirci. Nel f ra t t empo le possibilità di accoglimento per i paesi baltici e la Slovenia appa iono promet tent i , men t re le d o m a n d e di ammis-sione di Turchia (musulmana) , Malta ( t roppo piccola) e Cipro (ortodossa) e rano ancora in sospeso nel 1995. Nel dec idere l 'ammissione all 'Ue, la preferenza va ovviamente agli stati che f a n n o cul turalmente parte del l 'Occidente e che t e n d o n o inol-tre a essere economicamente più sviluppati. Se tale criterio ve-nisse applicato, gli stati del Visegrad (Polonia, Repubblica Ce-ca, Slovacchia, Ungher ia ) , le repubbl iche baltiche, Slovenia, Croazia e Malta diventerebbero pr ima o poi membr i del l 'Ue e in tal m o d o i confini de l l 'Unione verrebbero a coincidere con quelli della civiltà occidentale così come si è s toricamente svi-luppata in Europa.

La logica delle civiltà de t t e rebbe un 'ugua le evoluzione in mer i to al l 'a l largamento della Nato. La Guerra f r e d d a iniziò con l 'espansione del controllo politico e militare sovietico sul-l 'Europa centrale. Gli Stati Uniti e i paesi del l 'Europa occiden-tale c rearono la Nato per scoraggiare ed eventualmente sven-tare ulteriori aggressioni sovietiche. Nel m o n d o post-Guerra f redda , la Nato è l 'organismo di difesa della civiltà occidentale e il suo unico scopo è evitare il r i torno alle condizioni del pas-sato, i m p e d e n d o che la Russia riacquisti il controllo politico e militare sul l 'Europa centrale. In quan to organismo preposto alla sicurezza del l 'Occidente, la Nato è aperta a tutti i paesi oc-cidentali che desiderino f a rne par te e che soddisfino i dovuti requisiti in termini di competenza militare, democrazia politica e controllo civile delle forze armate .

La politica americana nei confront i degli accordi post-Guer-ra f r edda sulla sicurezza eu ropea ha adottato in un p r imo mo-m e n t o un approccio più universalistico incarnato nel pro-g ramma «Partner for Peace» e gener icamente aper to ai paesi europei ed anche eurasiatici. Questo tipo di approccio conferi-sce u n a certa importanza al ruo lo dell 'Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) , e trova u n a pre-

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cisa espressione nelle dichiarazioni rilasciate dal pres idente amer icano Clinton du ran te il suo tour e u r o p e o del genna io 1994: «Oggi i confini della libertà devono essere definiti da un nuovo m o d o d'agire, non da u n a storia ormai superata. A tutd quanti vogliono tracciare u n a nuova linea di demarcazione in Europa.. . io dico: non precludiamoci la possibilità di costruire il miglior fu tu ro possibile per l 'Europa: democrazia ovunque, economia di mercato ovunque, paesi che col laborano alla sicu-rezza reciproca ovunque. Dobbiamo rifiutare qua lunque obiet-tivo inferiore a questo». Un anno dopo, tuttavia, l 'amministra-zione americana dovette r iconoscere l ' importanza dei confini stabilid dalla «storia ormai superata» ed accettare un «obiettivo inferiore» che riflettesse le realtà delle diverse civiltà. Il gover-no americano si è att ivamente adopera to a elaborare tempi e modi di un ampl iamento della Nato con l ' ingresso nelle sue fi-le dappr ima di Polonia, Ungher ia , Repubblica Ceca e Slovac-chia, quindi della Slovenia, e infine, probabi lmente , delle re-pubbl iche baldche.

La Russia si è opposta f e r m a m e n t e a qualsiasi ampl iamento della Nato, sostenendo per bocca dei suoi esponent i di orien-tamento più liberale e filoccidentale che ciò avrebbe sensibil-men te rafforzato le formazioni politiche nazionaliste e antioc-cidentali del propr io paese. Un 'espans ione della Nato limitata ai paesi storicamente par te del cristianesimo occidentale, tutta-via, garant i rebbe alla Russia l 'esclusione di Serbia, Bulgaria, Romania, Moldova, Bielorussia e Ucraina (fino a q u a n d o l'U-craina resta unita) , e accentuerebbe inoltre il ruo lo della Rus-sia quale stato guida di u n a distinta civiltà ortodossa, tutore del-l 'ordine lungo i confini dell 'ortodossia e al loro in terno.

L'utilità di suddividere i paesi per civiltà risalta in m o d o par-ticolare nel caso delle repubbl iche baldche. Queste sono le so-le ex repubbl iche sovietiche palesemente occidentali per sto-ria, cultura e religione, e il loro dest ino è sempre stato motivo di p r o f o n d o interesse per l 'Occidente . Gli Stati Unid n o n han-n o mai riconosciuto il loro accorpamento al l 'Unione Sovietica, ne h a n n o incoraggiato i moti di ind ipendenza al l 'epoca del-l ' imminente crollo del l ' impero sovietico, e h a n n o insistito per-ché i russi rispettassero i tempi concordati per l 'evacuazione delle propr ie t ruppe dal loro territorio. Il messaggio ai russi era chiaro: quale che fosse l ' influenza che intendeva instaurare

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nei confront i delle altre ex repubbl iche sovietiche, Mosca po-teva scordarsi di coinvolgervi gli stati baldci. Questo successo di Clinton rappresentò, secondo le parole del pr imo ministro sve-dese, «uno dei più impor tand contributi alla sicurezza e alla stabilità del l 'Europa», a iu tando altresì i democratici russi in quan to metteva in chiaro che qualsiasi mira revanchista dei na-zionalisti russi sarebbe andata a infrangersi cont ro l 'esplicito impegno occidentale a favore delle repubbliche. '

Pur avendo prestato molta attenzione all 'espansione dell'U-nione europea e della Nato, la riconfigurazione culturale di que-ste organizzazioni solleva anche la questione di una loro possibi-le contrazione. Un paese non occidentale, la Grecia, fa parte di entrambi gli organismi; un altro, la Turchia, è membro della Na-to e ha fatto domanda di ammissione all 'Unione europea. Que-sti rapport i sono un prodotto diretto della Guerra fredda. C'è ancora posto per essi nel m o n d o post-Guerra fredda?

L'ingresso della Turchia ne l l 'Unione europea appare pro-blematico e improbabile, men t re la sua adesione alla Nato è stata contestata dal Partito del Benessere. E tuttavia probabile che la Turchia cont inuerà a far par te della Nato, a m e n o che il Partito del Benessere non conquisti u n a schiacciante vittoria elettorale o il paese non rifiuti spon taneamen te l 'eredi tà di Ataturk e si ridefinisca come paese leader del m o n d o islamico. Questa soluzione è possibile e finanche desiderabile per la Tur-chia, ma anche non m e n o improbabile per l ' immediato fu turo . A prescindere dal propr io ruo lo al l ' in terno della Nato, è pro-babile che la Turchia persegua sempre più in tensamente i pro-pri interessi particolari nei Balcani, nel m o n d o arabo e in Asia centrale.

La Grecia non appar t iene alla civiltà occidentale, ma è stata la patria della civiltà classica, che dell 'occidentale è stata un ' im-por tan te antenata . Nella loro storica opposizione ai turchi, i greci si sono sempre considerati gli alfieri del cristianesimo. Di-versamente da serbi, r umen i o bulgari, la loro storia è stata in-t imamente legata a quella del l 'Occidente . Al t empo stesso, tut-tavia, la Grecia rappresenta un 'anomal ia , l 'outsider ortodosso delle organizzazioni occidentali. La sua partecipazione all 'Ue e

4 Cari Bildt, «The Baltic Litmus Test», in «Foreign Affairs», n. 73 (Settembre-Ottobre 1994), p. 84.

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alla Nato è sempre stata caratterizzata da una certa difficoltà ad adattarsi ai principi e ai criteri operativi di en t rambi gli organi-smi. Da metà anni Sessanta a metà anni Settanta la Grecia fu governata da una giunta militare e non potè ent rare a far par-te della Comuni tà eu ropea fino a q u a n d o non passò alla de-mocrazia. I suoi leader d a n n o spesso l ' impressione di metter-cela tutta per distaccarsi dalle n o r m e di condot ta occidentali e contrappors i ai governi del l 'Occidente . Il più povero tra i membr i del l 'Ue e della Nato ha spesso perseguito politiche economiche che sembravano voler irr idere le direttive di Bruxelles. Il compor tamen to tenuto durante il p ropr io tu rno di presidenza del Consiglio europeo nel 1994 por tò gli altri sta-ti membr i all 'esasperazione, e in privato certi funzionari euro-pei occidentali definiscono esplicitamente un er rore la sua am-missione all 'organizzazione.

Nell 'epoca post-Guerra f redda, gli or ientament i politici del-la Grecia sono andati sempre più differenziandosi da quelli del-l 'Occidente . L 'embargo da essa attuato ai danni della Macedo-nia fu f e rmamen te condanna to dai governi occidentali e sfociò in una richiesta di ingiunzione ai suoi danni presso la Corte di Giustizia europea da par te della Commissione europea . Ri-guardo ai conflitti esplosi nell 'ex Jugoslavia, la Grecia prese le distanze dalle scelte politiche delle principali potenze occiden-tali e sostenne attivamente i serbi in flagrante violazione delle sanzioni adottate da l l 'Onu contro questi ultimi. Con il crollo de l l 'Unione Sovietica e la fine della minaccia comunista , la Grecia ha sviluppato una comunanza di interessi con la Russia contro il nemico comune , la Turchia. Ha permesso u n a nutri ta presenza di russi nella Cipro di par te greca, e in virtù della «lo-ro comune religione ortodossa orientale» i ciprioti greci h a n n o accolto a braccia aperte sull'isola sia i russi sia i serbi. ' Nel 1995, a Cipro operavano circa duemila imprese russe e venivano stampati giornali russi e serbo-croati, ment re il governo greco-cipriota acquistava dai russi grandi quantitativi di armi. La Gre-cia ha anche studiato insieme alla Russia la possibilità di far giungere il petrolio dal Caucaso e dall'Asia centrale fino al Me-di te r raneo attraverso un oleodot to bulgaro-greco che aggiri la Turchia e altri paesi musulmani . Nel complesso, gli indirizzi di

5 «New York Times», 15 giugno 1995, p. AIO.

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politica estera di Atene h a n n o assunto un or ien tamento mar-ca tamente ortodosso. Forma lmen te la Grecia resterà senza dubbio un m e m b r o della Nato e de l l 'Unione europea. Via via che il processo di reidentificazione culturale acquisirà forza, tuttavia, la sua partecipazione a tali organismi diverrà sicura-men te più inconsistente e marginale, n o n c h é sempre più pro-blematica per le parti interessate. Il rivale dell 'Urss negli anni della Guer ra f r edda va trasformandosi , nel l 'epoca post-Guerra f redda , in un alleato della Russia.

La Russia e i paesi dell'ex impero

Il sistema succeduto agli imperi zarista prima e comunista poi è un blocco culturale paragonabile per molti aspetti a quello del l 'Occidente in Europa. Al suo centro la Russia, l 'equivalente di Francia e Germania, è in t imamente legata a un g r u p p o di paesi composto dalle due repubbl iche a prevalenza slavo-orto-dossa della Bielorussia e della Moldova, dal Kazakistan, la cui popolazione è costituita per il 40 per cento da russi, e dall'Ar-menia, da sempre stretta alleata della Russia. A metà degli anni Novanta, tutti questi paesi e rano guidati da governi filorussi giunti al potere generalmente attraverso elezioni. Rapporti buo-ni ma più tenui legano la Russia a Georgia e Ucraina, paesi a grandissima (Georgia) o grande (Ucraina) maggioranza orto-dossa, ma con un senso molto spiccato della propria identità na-zionale e passata indipendenza. Nei Balcani di fede ortodossa la Russia coltiva stretti rapport i con Bulgaria, Grecia, Serbia e Ci-pro, più tenui invece con la Romania. Le repubbliche musul-mane dell 'ex Unione Sovietica restano for temente d ipendent i dalla Russia sia in campo economico sia in quello della difesa. Le repubbl iche baltiche, viceversa, attratte nell 'orbita europea, si sono definitivamente staccate dalla sfera di influenza russa.

Nel complesso, la Russia sta c reando un blocco costituito da un nucleo centrale ortodosso sotto la propr ia leadership e da un circostante cuscinetto di stati islamici relativamente deboli che essa controllerà in varia misura e che tenterà di isolare dal-l ' influenza di altre potenze. Mosca si aspetta inoltre che il mon-do riconosca e accetti questo sistema. I governi stranieri e le or-ganizzazioni internazionali , ha a f fe rmato Eltsin nel febbraio

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del 1993, devono «assicurare alla Russia poteri speciali in quan-to garante della pace e della stabilità nelle ex regioni del-l'Urss». Se l 'Unione Sovietica era una superpotenza con inte-ressi globali, la Russia è una g rande potenza con interessi re-gionali inerenti alla propr ia civiltà di appar tenenza .

Le repubbl iche ortodosse dell 'ex Unione Sovietica sono di impor tanza fondamenta le per lo sviluppo di un blocco russo coeso nel l 'arena eurasiatica e mondiale . Durante il crollo del-l'Urss, tutti e c inque questi paesi imboccarono inizialmente un corso di s tampo fo r temente nazionalista, a sottolineare la ritro-vata ind ipendenza e la presa di distanza da Mosca. Successiva-men te il du ro conf ron to con la realtà economica, geopolitica e culturale indusse gli elettori di quat t ro paesi su cinque a sce-gliere governi e indirizzi politici fdorussi e a cercare il sostegno e la protezione di Mosca. Nel quinto, la Georgia, un analogo m u t a m e n t o d'indirizzo politico fu imposto al governo locale tramite l ' intervento militare russo.

L'Armenia ha tradizionalmente identificato i propr i interessi con la Russia, la quale si è erta a sua protettrice contro i paesi musulmani limitrofi. Il loro rapporto si è ancor più rafforzato ne-gli anni post-sovietici. L'Armenia è economicamente e militar-mente d ipendente dal sostegno russo e ha appoggiato i russi in tutte le questioni relative ai rapporti tra le ex repubbliche sovie-tiche. I due paesi hanno interessi strategici convergenti.

A differenza del l 'Armenia, la Bielorussia non ha un for te senso di identità nazionale. Inoltre d ipende ancor più dell'Ar-menia dal sostegno russo. Molti dei suoi abitanti si identif icano tanto con la Russia quan to con il propr io paese. Nel gennaio del 1994 l 'assemblea legislativa sostituì l ' esponente nazionalista e di centro che era capo dello stato con un conservatore e filo-russo. Nel luglio del 1994, l '80 per cento degli elettori scelse come pres idente u n estremista filorusso alleato di Vladimir Zirinovskij. La Bielorussia è stata tra i primi f irmatari della co-st i tuenda Comuni tà di Stati Indipendent i , è stata un 'ar tef ice de l l 'un ione economica costituita nel 1993 con Russia e Ucrai-na, ha accettato l 'un ione monetar ia con la Russia, ha conse-gnato alla Russia il propr io arsenale militare e ha accettato lo s tazionamento di t ruppe russe sul propr io territorio f ino alla fi-ne di questo secolo. In pratica, la Bielorussia è par te integran-te della Russia in tutto e per tutto, a eccezione del nome.

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Quando , in seguito alla dissoluzione dell'Urss, la Moldova acquisì l ' indipendenza, molti auspicarono un suo ricongiungi-m e n t o con la Romania. La paura di un tale epilogo generò a sua volta nel l 'or iente russificato un movimento secessionista sostenuto tacitamente da Mosca e attivamente dalla 14- Armata russa, che po r tò alla creazione della Repubblica del Trans-Dniestr. In seguito, l 'entusiasmo dei moldavi all ' idea dell 'unifi-cazione con la Romania si affievolì a causa dei problemi eco-nomici che affliggevano ent rambi i paesi e della pressione eco-nomica esercitata dei russi. La Moldova ent rò a far par te della Csi e gli scambi commerciali con la Russia aumenta rono . Alle elezioni par lamentar i del febbraio 1994 i partiti filorussi otten-ne ro u n a schiacciante vittoria.

In questi tre stati, l 'opinione pubblica, r i spondendo a varie combinazioni di interessi strategici ed economici, ha p rodot to governi favorevoli ad un rigido al l ineamento con la Russia. Un corso alquanto simile ha seguito l 'Ucraina. Diversa, invece, è stata la strada imboccata dalla Georgia, un paese ind ipenden te fino al 1801, q u a n d o il suo sovrano, re Giorgio xin, chiese pro-tezione ai russi contro i turchi. Per i tre anni successivi alla Ri-voluzione russa, dal 1918 al 1921, la Georgia tornò a essere un paese ind ipenden te , finché i bolscevichi non l ' accorparono coat tamente ne l l 'Unione Sovietica. Con la fine del l ' impero so-vietico, la Georgia tornò a dichiararsi indipendente . Le elezio-ni f u r o n o vinte da una coalizione nazionalista, il cui leader im-boccò tuttavia un 'autodis t rut t iva politica di repressione che por tò al rovesciamento violento del suo governo. Eduard A. Sevarnadze, già ex ministro degli Esteri de l l 'Unione Sovietica, t o rnò alla guida del paese e fu poi confermato al potere in se-guito alle elezioni presidenziali del 1992 e del 1995. Egli tutta-via dovette far f ronte a un movimento separatista in Abkazia, fo r t emente sostenuto dai russi, n o n c h é a un tentativo insurre-zionale guidato dall 'ex presidente rovesciato, Gamsachurdia. Emulando re Giorgio, Sevarnadze giunse alla conclusione che «non [c 'era] molto da scegliere» e chiese aiuto a Mosca. In cambio del l ' in tervento delle t r uppe russe in suo favore, la Georgia dovette aderire alla Csi. Nel 1994 i georgiani accetta-rono la presenza sul propr io terri torio per un tempo indefini to di tre basi militari russe. L ' intervento militare russo, volto dap-pr ima a indebolire il governo georgiano e poi a sostenerlo, ha così por ta to la filo-indipendentista Georgia nel campo russo.

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Russia a parte, la più g rande e impor tante ex repubblica so-vietica è l 'Ucraina. Più volte nel corso della sua storia l 'Ucraina è stata un paese ind ipendente . Per buona par te del l 'era mo-derna , tuttavia, è stata par te di una entità politica governata da Mosca. L'evento decisivo occorse nel 1654 allorché Bogdan Ch-melnickij, leader cosacco di un ' insur rez ione contro il domin io polacco, giurò fedeltà allo zar in cambio del suo aiuto contro i polacchi. Da allora e fino al 1991, eccezion fatta per un breve intervallo tra il 1917 e il 1920 in cui fu una repubblica indi-penden te , l 'od ierna l 'Ucraina è stata controllata poli t icamente da Mosca. L'Ucraina, tuttavia, è un paese diviso, patria di due distinte culture. La linea di faglia tra civiltà occidentale e civiltà ortodossa attraversa infatti il cuore del paese, e così è stato per secoli. In passato, l 'Ucraina ha fatto parte ora della Polonia, ora della Lituania, ora de l l ' Impero austro-ungarico. Un ' ampia par te della sua popolazione aderisce alla Chiesa uniate, che se-gue il rito ortodosso ma riconosce l 'autorità del Papa. Storica-mente , gli ucraini occidentali h a n n o sempre parlato ucraino e h a n n o sempre esibito un at teggiamento fo r temente nazionali-sta. La popolazione del l 'Ucraina orientale, viceversa, è sempre stata in forte prevalenza di religione ortodossa e parla russo. Al-l'inizio degli anni Novanta, i russi ammontavano al 22 per cen-to e i madrel ingua russi al 31 per cento dell ' intera popolazio-ne. Nella maggioranza delle scuole primarie e secondarie le le-zioni e rano tenute in russo/ ' La Crimea è popolata in maggio-ranza da russi e ha fatto par te della Federazione russa fino al 1954, q u a n d o Chruscèv la consegnò al l 'Ucraina apparente-men te quale atto di r iconoscimento per la decisione presa da Chmelnickij oltre t recento anni prima.

Le differenze tra Ucraina orientale e occidentale si manife-stano negli atteggiamenti delle rispettive popolazioni. Alla fine del 1992, per esempio, un terzo dei russi residenti in Ucraina occidentale, rispetto a solo il 10 per cento di quelli abitanti a Kiev, manifes tarono sentimenti antirussi.' La spaccatura tra est e ovest apparve evidente in tutta la sua drammatici tà in occa-sione delle elezioni par lamentar i del luglio 1994. Il presidente

6 «RFL/RL Research Bulletin», n. 10 (16 marzo 1993), pp. 1 ,6 . 7 William D. Jackson, «Imperiai Temptations: Ethnics Abroad», in «Orbis», n. 38 (Inverno 1994), p. 5.

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in carica, Leonid Kravciuk, che pur avendo lavorato in stretta collaborazione con i leader russi si definiva un nazionalista, stravinse nelle tredici province del l 'Ucraina occidentale con maggioranze anche superiori al 90 percento. Il suo rivale, Leo-nid Kucma, che nel corso della campagna elettorale aveva pre-so lezioni di ucraino, t r ionfò nelle tredici province orientali con maggioranze analoghe. Kucma vinse le elezioni con il 52 per cento dei voti. In tal modo, per un 'es igua maggioranza la popolazione ucraina confe rmò nel 1994 la scelta fatta da Ch-melnickij nel 1654. Le elezioni, disse un osservatore america-no, «hanno rispecchiato e ancor più cristallizzato la spaccatura esistente tra gli slavi europeizzati del l 'Ucraina occidentale e la visione slavo-russa dello stato ucraino. Non si tratta tanto di po-larizzazione etnica, quanto piuttosto di culture diverse»."

In conseguenza di tale divisione, i rappor t i tra Russia e Ucraina po t rebbero svilupparsi in tre direzioni. Nei primi anni Novanta tra i due paesi esistevano important i contenziosi rela-

Chernihiv 72 ,3(25 ,1 )

Zbytomir «1,6 (55.6)

iegione di Kh 38,4 (58.3) Poltava

59,2 (37.4) Kharkiv

71,0 (26,0) Luhansk 88,0(10.1). Temopil [39,3 (5; ! .8 (94.8*

Vinnytsia 42 ,3 (54,3) Dnipropetrovsk

67,8 (29,7) Kirovohrad 49,7 (45,7) Donetsk

79 ,0(18 .5 )

Zaporizhzhia 70,7 (26,8)

Mar d'Azov

Crimea 69,7 (8,8)

Mar Nero Sebastopoli

91,9 (6,5)<

« s i - s ; 25,2 (70,5) 35,4101.0; v , Mykolaiv

D O M A M I . ^ ¿ U ^ ' l R O M A N I A «66 ,8(29 ,31) V - v V e -

J L - J K Kherson / 64,6 (32,0)

R e g i o n i c h e

h a n n o vo ta to pe r :

I I L e o n i d K u à m a

I 1 L e o n i d K r a v c i u k

Le c i f re i n d i c a n o la % de i vot i * pe r K u é m a e (K ravc iuk ) * Il t o t a l e i n c l u d e i vot i nul l i .

Gallina 7.2 Ucraina: un paese diviso

8 lati Brzezinski, «New York Times», 13 luglio 1994, p. A8.

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tivi agli a rmament i nucleari, alla Crimea, ai diritti dei russi re-sidenti in Ucraina, alla flotta del Mar Nero e ai reciproci rap-porti economici. Erano in molti a pensare che la probabili tà di un conflitto a rmato fossero alte, e questo indusse alcuni anali-sti americani a sostenere che l 'Occidente avrebbe dovuto chie-dere all 'Ucraina di man tene re un propr io arsenale nucleare in grado di scoraggiare eventuali mire aggressive dei russi.9 Se, tuttavia, l ' e lemento cardine del m o n d o odierno sono le civiltà, allora la possibilità di u n o scontro violento tra russi e ucraini appare remota. Si tratta infatti di due popoli slavi, prevalente-men te ortodossi che per secoli h a n n o man tenu to stretti rap-porti e tra i quali i matr imoni misti sono oltre m o d o frequent i . Nonostante la presenza di questioni molto spinose e le pressio-ni degli estremisti nazionalisti delle due parti, i leader di en-trambi i paesi h a n n o lavorato, in gran parte con successo, al fi-ne di contenere queste dispute. La vittoria alle elezioni ucraine di metà 1994 di un presidente aper tamente filorusso ha ulte-r io rmente ridotto le probabilità di conflitti esasperati tra i due paesi. Se seri scontri si sono verificati tra musulmani e cristiani in altre regioni dell 'ex Unione Sovietica e tra cristiani occiden-tali e cristiani ortodossi negli stati baltici, fino al 1995 non si era verificato pra t icamente nessuno scontro violento tra russi e ucraini.

Una seconda, più realistica possibilità è che l 'Ucraina si spac-chi in due distinte entità e che la parte orientale del paese ven-ga annessa alla Russia. Il p rob lema della secessione è venuto al-la luce per la pr ima volta in relazione alla Crimea. In un refe-r e n d u m svoltosi nel d icembre del 1991, la popolazione della Crimea, composta per il 70 per cento da russi, votò massiccia-men te a favore del l ' indipendenza ucraina dall'Urss. Nel mag-gio del 1992, il par lamento della Crimea votò a sua volta a fa-vore de l l ' ind ipendenza dal l 'Ucraina, ma poi, d ie t ro debi ta pressione ucraina, annul lò il voto. Il par lamento russo, da par-te sua, provvide a revocare l 'atto di cessione della Crimea al-l 'Ucraina del 1954. Nel genna io del 1994 gli abitanti della Cri-mea elessero un presidente la cui campagna elettorale si basava sullo slogan dell '«unità con la Russia». Ciò indusse qua lcuno a

9 John F. Mearsheimer, «The Case of a Ukrainian Nuclear Deterrenti Deba-te», in «Foreign Affairs», n. 72 (Estate 1993), pp. 50-66.

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porsi il quesito: «La Crimea sarà forse il prossimo Nagornyj-Ka-rabach o la prossima Abkazia?».1" La risposta, un risoluto, «no», si ebbe q u a n d o il pres idente della Crimea venne m e n o alla promessa di istituire un r e f e r endum sul l ' indipendenza e avviò invece dei negoziati con il governo di Kiev. Nel maggio del 1994 la situazione tornò a surriscaldarsi allorché il pa r lamento della Crimea votò il ripristino della costituzione del 1992 che rendeva il paese vir tualmente ind ipendente dall 'Ucraina. An-cora una volta, tuttavia, l ' in tervento dei leader russo e ucra ino impedì che la crisi degenerasse in scoppi di violenza. L'elezio-ne, due mesi dopo, del filorusso Kucma alla presidenza dell 'U-craina indebolì la spinta secessionista della Crimea.

La vittoria di Kucma, accrebbe le possibilità di secessione della par te occidentale di un paese che andava sempre più av-vicinandosi alla Russia. Un'eventual i tà , questa, che qualche russo sembrava gradire. Secondo un generale russo, «tra cin-que, dieci o quindici anni l 'Ucraina, o meglio l 'Ucraina orien-tale, tornerà . L'Ucraina occidentale p u ò andare all ' inferno!»." La creazione di un 'Ucra ina uniate orientata a occidente sareb-be tuttavia possibile solo grazie a un forte ed efficace sostegno occidentale, che a sua volta po t rebbe giungere solo qualora i rapport i tra Russia e Occidente si deteriorassero come ai tempi della Guer ra fredda.

Il terzo e più probabile scenario è che l 'Ucraina resti unita, resti un paese diviso, resti ind ipenden te e sviluppi, in linea ge-nerale, stretti legami di cooperazione con la Russia. Una volta risolte le dispute relative alle armi nucleari e alle forze militari, le questioni di lungo per iodo più serie saranno di carattere economico, e la loro risoluzione sarà facilitata da u n a cultura in par te c o m u n e e da stretti legami personali. Il r appor to rus-so-ucraino, ha sostenuto J o h n Morrison, sta a l l 'Europa orien-tale come il rappor to franco-tedesco sta al l 'Europa occidenta-le.1" Così come il secondo costituisce il ne rbo de l l 'Unione eu-

10 «New York Times», 31 gennaio 1994, p. A8. 11 Cit. in Ola Tunander, «New European Dividing Lines?», in Valter Angeli (a cura di), Norway Facing a Changing Europe: Perspectives and Options, Oslo, Norwegian Foreign Policv Studies, n. 79, Fridtj of Nansen Institute et al, 1992, p. 55. 12 John Morrison, «Pereyaslav and After: The Russian-Ukrainian Relation-ship», in «International Affairs », n. 69 (Ottobre 1993), p. 677.

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ropea, il p r imo è il ne rbo indispensabile per l 'unità del m o n d o ortodosso.

La Grande Cina e la sua «sfera di coprosperìtà»

Storicamente la Cina ha sempre pensato di inglobare in sé un '«area sinica» comprenden t e la Corea, il Vietnam, le isole Rynkyn e talora anche il Giappone; una «zona asiatica interna» comprenden te le popolazioni non cinesi (manciù, mongoli , ui-guri, turchi e tibetani), che andava controllata per motivi di si-curezza; e infine una «zona esterna» di popoli barbari che co-m u n q u e «dovevano sottomettersi e riconoscere la superiorità della Cina»." La civiltà sinica con temporanea va strut turandosi in maniera simile: il nucleo centrale della Cina han, le provin-ce perifer iche che f anno par te della Cina ma godono di una considerevole au tonomia , le province che f a n n o legalmente par te della Cina ma sono abitate prevalentemente da popola-zioni non cinesi appar tenent i ad altre civiltà (Tibet, Xinxiang), società cinesi che d iventeranno o è probabile che diventino par te della Rpc a de te rmina te condizioni (Hong Kong, Taiwan), u n o stato di razza prevalentemente cinese sempre più or ienta to verso Pechino (Singapore), comuni tà cinesi molto influenti in Thailandia, Vietnam, Malaysia, Indonesia e Filippi-ne, e società di razza non cinese (Corea del Nord e del Sud, Vietnam) che tuttavia condividono buona parte della cultura confuciana prevalente in Cina.

Negli anni Cinquanta la Cina si dichiarò alleata de l l 'Unione Sovietica. In seguito, d o p o la spaccatura sino-sovietica, si consi-derò il paese leader del Terzo Mondo contrapposto a en t rambe le superpotenze. Questa politica risultò molto costosa e poco vantaggiosa, e in seguito al m u t a m e n t o di rotta della politica americana avviato da Nixon, la Cina cercò di diventare la terza forza nel gioco degli equilibri di potere tra le due superpoten-ze, all ineandosi negli anni Settanta con l 'America, allorché questa sembrava debole , per poi passare a u n a posizione di maggior equidistanza negli anni Ottanta, paral lelamente alla

13John King Fairbank (a cura di), The Chinese World Order: Traditional China's Foreign Relations, Cambridge, Harvard Universty Press, 1968, pp. 2-3.

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crescita della potenza militare americana e al declino econo-mico e alla crisi militare in Afghanistan del l 'Unione Sovietica. Con la f ine della competizione tra superpotenze, tuttavia, la «carta cinese» perse ogni valore e la Cina fu nuovamente co-stretta a ridefinire il propr io ruolo in campo internazionale. Due i suoi obiettivi: diventare il fulcro della cultura cinese, sta-to guida e polo d 'at trazione di u n a civiltà verso la quale si sa-rebbero orientate tutte le comuni tà cinesi, e riconquistare il p ropr io tradizionale ruolo, pe rdu to nel xix secolo, di potenza egemone dell'Asia orientale.

Questo ruo lo emergente della Cina come stato guida e polo d 'at trazione della civiltà sinica si rileva da vari elementi: pr imo, il m o d o in cui la Cina definisce la propr ia posizione in campo internazionale; secondo, il grado di coinvolgimento economi-co delle comuni tà cinesi d 'o l t remare in Cina; terzo, i crescenti rappor t i economici, politici e diplomatici tra la Cina e le altre principali entità cinesi: H o n g Kong, Taiwan e Singapore, cui va aggiunto il più marcato or ien tamento filocinese dei paesi del Sud-Est asiatico, su cui i cinesi esercitano notevole inf luenza (Thailandia, Malaysia).

Il governo cinese considera la Cina lo stato guida di u n a ci-viltà sinica alla quale tutte le altre comuni tà cinesi dovrebbero guardare . Avendo ormai da t empo abbandona to qualsiasi ten-tativo di promozione dei propr i interessi all 'estero attraverso i partiti comunisti locali, il governo ha cercato di «proporsi qua-le rappresentante mondiale dello spirito cinese».14 Per il gover-no di Pechino, tutti i popoli di discendenza cinese, anche se cit-tadini di un altro paese, sono membr i della comuni tà cinese e quindi in qualche misura soggetti alla sua autorità. L' identi tà cinese viene ad essere definita in termini di razza. Cinesi sono tutti quelli di uguale «razza, sangue e cultura», come ha affer-mato u n o studioso della Repubblica popolare: un concet to, questo, r ipetuto sempre più spesso, alla metà degli anni No-vanta, da fonti cinesi sia ufficiali che private. Per i cinesi e per tutti coloro di discendenza cinese ma residenti in società n o n cinesi, dunque , la «prova dello specchio» assurge a esame della loro identità: «Guardati allo specchio» è il moni to rivolto dai ci-

14 Perry Link, «The Old Man's New China», in «New York Review of Books», 9 g iugno 1994, p. 32.

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nesi orbitanti in torno a Pechino a tutti i cinesi che ten tano di assimilarsi alle società straniere. I cinesi della diaspora - vale a dire gli huaren, o popoli di origine cinese, distind dagli zhong-guoren, che sono la popolazione dello stato cinese - h a n n o fat-to propr io il concetto di «Cina culturale» come manifestazione della loro gonshi, o coscienza comune . L' identi tà cinese, sog-getta nel xx secolo a tanti assald da parte del l 'Occidente, viene oggi r i formulata sulla base degli e lementi di cont inui tà della cultura cinese.1 '

Storicamente, questo senso di identità culturale si è rivelato anche compatibile con i mutevoli rapport i intercorsi con le au-torità centrali dello stato cinese. Esso facilita ed è al con tempo rafforzato dall 'espansione dei rapport i economici tra le varie Cine, i quali costituiscono il principale e lemento propulsivo per la rapida crescita economica della Cina nel condnen t e e al-trove. Questa crescita, a sua volta, è servita da impor tan te sti-molo materiale e psicologico al consol idamento dell ' identi tà culturale cinese.

Quello di «Grande Cina» non è d u n q u e semplicemente un concet to astratto, ma al contrar io u n a realtà economica e cul-turale in rapida espansione, e che ha cominciato a diventare anche u n a realtà politica. I cinesi sono stati i protagonisti dello straordinario sviluppo economico degli anni Ot tanta e Novan-ta: nella Cina continentale, nelle «tigri» (di cui tre su quat t ro sono cinesi) e nei paesi del Sud-Est asiatico, le cui economie so-no domina te dai cinesi. L 'economia est-asiatica è sempre più incentrata sulla Cina e dominata dai cinesi. I cinesi di H o n g Kong, Taiwan e Singapore h a n n o forni to buona par te del capi-tale che ha reso possibile lo sviluppo della Rpc negli anni No-vanta. I cinesi residenti negli altri paesi est-asiatici dominavano l ' economia locale. Nei primi anni Novanta i cinesi costituivano l ' I per cento della popolazione delle Filippine ma assorbivano il 35 per cento delle vendite delle industrie locali. In Indonesia, a metà anni Ot tanta i cinesi e rano il 2-3 per cento della popo-lazione, ma possedevano all ' incirca il 70 per cento del capitale domest ico privato. Diciassette delle pr ime venticinque aziende

15 Perry Link, «China's "Core" Problem», in «Daedalus», n. 122 (Primavera 1993), p. 205; Weiming Tu, «Cultural China: The Periphery as the Center», in «Daedalus», n. 120 (Primavera 1991), p. 22; «Economist», 8 luglio 1995, pp. 31-2.

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erano controllate da cinesi, ed è stato a f fermato che u n a sola conglomerata cinese rappresentava il 5 per cento del Pnl indo-nesiano. Nei primi anni Novanta i cinesi ammontavano al 10 per cento della popolazione della Thailandia, ma possedevano nove dei dieci maggiori gruppi aziendali e rappresentavano il 50 per cento del Pnl thailandese. Sono inoltre circa un terzo della popolazione della Malaysia, ma de t engono il domin io pressoché assoluto dell 'economia." ' Con l 'eccezione di Giap-pone e Corea, l ' economia est-asiatica è f o n d a m e n t a l m e n t e un ' economia cinese.

La nascita nella Grande Cina di una simile sfera per così di-re di coprosperi tà è stata molto agevolata da una fitta «rete di bambù» fatta di rapport i familiari e personali, n o n c h é dalla co-munanza culturale. I cinesi d 'o l t remare possono fare affari in Cina molto più facilmente dei giapponesi o degli occidentali. In Cina fiducia e lealtà scaturiscono dai rapporti personali, non da contratti , leggi o altri document i legali. Gli imprendi tor i oc-cidentali trovano più semplice fare affari in India che non in Cina, dove la santità di un accordo poggia sui rapport i perso-nali tra le parti. La Cina, disse (con invidia) nel 1993 un giap-ponese, beneficiava di una «sconfinata rete di mercanti cinesi a H o n g Kong, Taiwan e nel Sud-Est asiatico».1' I cinesi d 'oltre-mare, aggiunge un u o m o d 'affar i americano, «hanno le capa-cità imprenditorial i , h a n n o la lingua, e h a n n o u n a rete di bambù che unisce i rapport i parental i e quelli di lavoro. Que-sto è un e n o r m e vantaggio rispetto a chi deve riferire tutto a un consiglio direttivo con sede ad Akron o a Filadelfia». I vantaggi di cui godono le comuni tà cinesi nei loro rapport i con la ma-drepatr ia sono stati esemplificati in m o d o altrettanto chiaro da Lee Kuan Yew: «Noi siamo di razza cinese. Condividiamo certe caratteristiche in virtù della c o m u n e discendenza e cultura ... Gli uomini avvertono una naturale empat ia per quanti condivi-d o n o i loro stessi attributi fisici. Tale senso di intimità è ancor più rafforzato allorché condividono anche una base linguistica e culturale. Ciò agevola i rappor t i e rinsalda la fiducia, che è al-

16 «Economist», 27 novembre 1993, p. 33; 17 luglio 1993, p. 61. 17 «Economist», 27 novembre 1993, p. 33; Yoichi Funabashi, «The Asianiza-tion of Asia», in «Foreign Affairs», il. 72 (Novembre-Dicembre 1993), p. 80. Si veda, in generale, Murrav Weidenbaum e Samuel Hughes, The Bamboo Network. New York, Free Press, 1996.

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la base di tutti i rapport i d'affari»."1 Alla fine degli anni Ot tanta e negli anni Novanta, i cinesi d 'o l t remare seppero «dimostrare a un m o n d o scettico che i legami quanxi basati sulla comunio-ne di lingua e cultura possono ovviare all'assenza dello stato di diritto e di trasparenza nelle regole e norme». Le radici dello sviluppo economico in una cul tura c o m u n e vennero sottoli-neate in occasione della Seconda conferenza mondiale degli imprendi tor i cinesi, svoltasi a H o n g Kong nel novembre del 1993 e descritta come «una manifestazione di trionfalismo ci-nese cui par tec iparono uomini d 'affar i di etnia cinese prove-nienti da ogni par te del mondo».1 9 Nel m o n d o sinico, come dapper tu t to , la comunanza culturale promuove i legami eco-nomici.

La contrazione della presenza economica occidentale in Ci-na d o p o Piazza T ienanmen , che seguì un decennio di intensa crescita economica cinese, ha offer to ai cinesi d 'o l t remare l 'op-por tuni tà e gli incentivi per sfrut tare la comunanza culturale e i contatti personali e operare grossi investimenti nella Rpc. Il ri-sultato è stato una spettacolare espansione dei legami econo-mici tra le comuni tà cinesi. Nel 1992, l '80 per cento degli inve-stimenti stranieri diretti nella Rpc (11,3 miliardi di dollari) pro-veniva dalle altre società cinesi, pr incipalmente da H o n g Kong (68,3 per cento) , ma anche da Taiwan (9,3 per cento) , Singa-pore, Macao e altri luoghi. Per contro, il Giappone rappresen-tava il 6,6 per cento e gli Stati Uniti il 4,6 per cento del totale. Dei 50 miliardi di dollari di investimenti esteri accumulati, il 67 per cento proveniva da fonti cinesi. Altrettanto impressionante è stato lo sviluppo commerciale. Le esportazioni di Taiwan in Cina come percentuale del volume totale del l 'export taiwanese sono passate da pressoché zero nel 1986 all '8 per cento nel 1992, a n n o in cui l ' i nc remento è stato del 35 per cento. La quota di esportazioni di Singapore in Cina è aumenta ta nel 1992 del 22 per cento a f ron te di un incremento complessivo

18 Christpher Gray, cit. in «Washington Post», 1 dicembre 1992, p. A30; Lee Kuan Yew, cit. in Maggie Farley, «The Bamboo Network», in «Boston Globe Magazine», 17 aprile 1994, p. 38; «International Herald Tribune», 23 no-vembre 1993. 19 «International Herald Tribune», 23 novembre 1993; George Hicks e j . A. C. Mackie, «A Question of Identity: Despite Media Hype, They Are Firmly Setded in Southeast Asia», in «Far East Economie Review», 14 luglio 1994, p. 47.

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inferiore al 2 per cento. Come disse Murray Weidenbaum nel 1993, «nonostante l 'attuale p redomin io giapponese nella re-gione, l ' economia cinese si sta rap idamente p r o p o n e n d o come nuovo epicentro industriale, commerciale e finanziario dell'a-rea asiatica. Quest 'area strategica cont iene grandi capacità tec-nologiche e manifa t tur iere (Taiwan), straordinari talenti nel campo del l ' imprenditoria , del market ing e dei servizi (Hong Kong), un 'o t t ima rete di comunicazioni (Singapore), ingend capitali finanziari (tutte e tre), ed enormi disponibilità di terra, risorse e manodope ra (Rpc)».2" Inoltre, ovviamente, la Repub-blica popolare cinese era potenzialmente il più grande di tutù i mercati in espansione, e a metà degli anni Novanta gli investi-ment i in Cina e rano orientati n o n m e n o alle vendite sul mer-cato in te rno che alle esportazioni.

I cinesi residenti nei paesi del Sud-Est asiatico si assimilano in vario grado alle popolazioni locali, le quali coltivano spesso sentimenti anticinesi che, di tanto in tanto, come ad esempio nel l ' insurrezione di Medan in Indonesia nell 'aprile del 1944, e r o m p o n o in manifestazioni violente. Alcuni malaysiani e in-donesiani h a n n o denuncia to come «fuga di capitali» il flusso di investimenti cinesi nella Repubblica popolare , e i leader politi-ci, guidati dal presidente Suharto, h a n n o dovuto rassicurare l 'op in ione pubblica che ciò n o n avrebbe danneggiato la loro posizione economica. I cinesi del Sud-Est asiatico, dal canto lo-ro, h a n n o spesso r ipetuto che la loro professione di lealtà an-dava al propr io paese di nascita, n o n a quello dei loro antenati . All'inizio degli anni Novanta, al deflusso di capitali cinesi dal Sud-Est asiatico in direzione della Cina ha fatto da contral tare il consistente flusso di investimenti taiwanesi nelle Filippine, in Malaysia e in Vietnam.

La combinazione di un crescente potere economico e della comune cultura cinese ha indot to H o n g Kong, Taiwan e Singa-pore ad allacciare rapport i sempre più stretti con la madrepa-

20 «Economist», 16 aprile 1994, p. 71; Nicholas D. Kristof, «The Rise of Chi-na», in «Foreign Affairs», n. 72 (Novembre-Dicembre 1993), p. 48; Gerrit W. Gong, «China's Fourth Revolution», in «Washington Quarterly», n. 17 (In-verno 1994), p. 37; «Wall Street Journal», 17 maggio l993 , p. A7A; Murray L. Weidenbaum, Greater China: The Next Economie Superpowefi, St. Louis, Wa-shington University Center for the Study of American Business, Contempo-rary Issues Series 57, febbraio 1993, pp. 2-3.

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tria cinese. Consapevoli de l l ' imminente passaggio di sovranità, i cinesi di H o n g Kong h a n n o iniziato ad adattarsi alle regole di Pechino anziché a quelle di Londra . Imprendi tor i e altri espo-nent i di p r imo piano di H o n g Kong h a n n o iniziato a mostrare una certa riluttanza a criticare la Cina o a fare qua lunque cosa potesse offenderla . E d 'al tra parte, ogni volta che essi h a n n o ef-fett ivamente offeso la Cina, il governo di Pechino n o n ha esita-to a r i spondere immedia tamente per le rime. Nel 1994 centi-naia di uomini d 'affar i cooperavano con Pechino in qualità di «consiglieri di H o n g Kong» in quello che era a tutti gli effetti un governo ombra. Nei primi anni Novanta, la stessa influenza economica cinese a H o n g Kong è aumenta ta in misura spetta-colare, e nel 1993 gli investimenti provenienti dalla madrepa-tria superavano quelli di Giappone e Stati Uniti messi insie-me.21 In to rno al 1995, l ' integrazione economica tra H o n g Kong e Rpc era vir tualmente completa, due anni pr ima dell ' integra-zione politica.

L 'espansione dei legami di Taiwan con Pechino è stata più lenta di quella di H o n g Kong. Anche qui, tuttavia, negli anni Ot tan ta ci f u r o n o i pr imi impor tant i cambiament i . Per t rent 'anni , d o p o il 1949, i d u e stati si e rano rifiutati di ricono-scere la reciproca esistenza o legittimità, non avevano avuto al-cuno scambio di comunicazioni e si e rano trovati in u n virtua-le stato di guerra, che si traduceva di tanto in tanto in qualche scambio di cannonate sulle isole esterne. Tuttavia, d o p o che Deng Xiaoping ebbe consolidato il propr io potere e dato il via al processo di r i forma economica, il governo di Pechino iniziò u n a serie di mosse concilianti nei confront i di Taiwan. Nel 1981 il governo di Taipei prese a r ispondere di conseguenza, iniziando a discostarsi dalla propr ia politica dei «tre no»: no ai contatti , no ai negoziati, n o al compromesso con Pechino. Nel maggio del 1986 vi f u r o n o i pr imi negoziati tra i rappresentan-ti delle due parti in meri to alla restituzione di un aereo taiwa-nese dirottato sul cont inente , e l ' anno seguente Taiwan abrogò il divieto di recarsi nella Repubblica popolare.22

21 Steven Mufson, «Washington Post», 14 agosto 1994, p. A30; «Newsweek», 19 luglio 1993, p. 24; «Economist», 7 maggio 1993, p. 35. 22 Si veda Walter C. Clemens, Jr. e Jun Zhan, «Chiang Ching-Kuo's Role in the ROC-PRC Reconciliation», in «America Asian Review», n. 12 (Primavera 1994), pp. 151-4.

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La conseguente rapida espansione dei rapport i economici tra Rpc e Taiwan fu fo r temente aiutata dalla loro c o m u n e «ci-nesità» e dalla reciproca fiducia che ne scaturiva. I popoli di Ci-na e Taiwan, come disse il capo negoziatore di Taiwan, n u t r o n o «un sent imento del tipo "il sangue è più denso dell 'acqua"», ed e rano orgogliosi dei reciproci risultati raggiunti. Alla fine del 1993 si e rano contati oltre 4,2 milioni di visitatori taiwanesi in Cina e 40.000 turisti cinesi a Taiwan; ogni g iorno venivano scambiate 40.000 lettere e 13.000 telefonate. Nel 1993 lo scam-bio commerciale tra i due stati raggiunse i 14,4 miliardi di dol-lari, e 20.000 aziende taiwanesi avevano investito nel cont inen-te u n a somma compresa tra i quindici e i t renta miliardi di dol-lari. L 'at tenzione di Taiwan è venuta sempre più a incentrarsi sulla Cina, e il suo successo a d ipendere da essa. «Prima del 1980, il mercato più impor tante per Taiwan era l 'America», dis-se u n funzionar io taiwanese nel 1993, «ma quan to agli anni Novanta sappiamo bene che il principale fat tore per il successo del l ' economia taiwanese è rappresenta to dal continente». La manodope ra a basso costo della Rpc è stata l ' incentivo princi-pale per gli investitori taiwanesi afflitti da scarsità di forza lavo-ro locale. Nel 1994 è iniziato tra le due Cine un processo inver-so di riequilibrio del r appor to capitale-lavoro, con le compa-gnie di pesca taiwanesi che h a n n o assunto diecimila lavoratori della Cina popolare da imbarcare sulle propr ie navi.23

Lo sviluppo dei rapport i economici ha por ta to all'avvio di negoziati tra i due governi. Nel 1991 Taiwan ha dato vita alla Fondazione per gli scambi sullo Stretto e la Rpc all'Associazio-ne per i rappor t i sullo Stretto di Formosa al fine di migliorare le reciproche comunicazioni. La loro pr ima r iunione si svolse a Singapore nell 'aprile del 1993, seguita da ulteriori incontri sia a Taiwan che sul cont inente . Nell 'agosto del 1994 fu raggiunto un accordo definito «di rottura» comprenden te un certo nu-

23 Koo Chen Foo, cit. in «Economist», 1 maggio 1993, p. 31; Link, «Old Man's New China», p. 32. Si veda «Cross-Strait Relations: Historical Lessons», in «Free China Review», n. 44 (Ottobre 1994), pp. 42-52. Gong, «China's Fourth Revolution», p. 39; «Economist», 2 luglio 1994, p. 18; Gerald Segal, «China's Changing Shape: The Muddle Kingdom?», in «Foreign Affairs», n. 73 (Maggio-Giugno 1994), p. 49; Ross H. Munro, «Giving Taipei a Place at the Table», in «Foreign Affairs», n. 73 (Novembre-Dicembre 1994), p. 115; «Wall Street Journal», 17 maggio 1993, p. A7a; «Free China Journal», 29 lu-glio 1994, p. 1.

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mero di quesdoni chiave, e iniziarono a circolare voci su un possibile summit tra i capi di governo dei due paesi.

In to rno al 1995 i contenziosi tra Taipei e Pechino e rano an-cora molti: tra essi la quest ione stessa della sovranità, la parte-cipazione di Taiwan alle organizzazioni internazionali e l'even-tualità che Taiwan potesse proclamarsi stato ind ipenden te . Quest 'u l t ima possibilità, tuttavia, è diventata sempre più remo-ta allorché il principale sostenitore del l ' indipendenza, il Parti-to Progressista Democratico (Ppd), scoprì che gli elettori taiwa-nesi non desideravano rompere le relazioni con il cont inente e che insistere su questo p u n t o sarebbe stato con t roproducen te da un pun to di vista elettorale. Ciò indusse i leader del Ppd a sottolineare come, in caso di vittoria elettorale, quello dell ' in-d ipendenza non sarebbe c o m u n q u e stato un p u n t o prioritario del loro programma. I due governi avevano anche un interesse c o m u n e a reclamare la sovranità cinese sull'isola Spratly e altre isole del Mar Cinese Meridionale e a far sì che la Rpc ottenesse dall 'America lo status di nazione più favorita in campo com-merciale. Alla metà degli anni Novanta, in m o d o lento ma per-cepibile e ineluttabile, le due Cine andavano d u n q u e avvici-nandosi l 'una all 'altra e sviluppando interessi comuni , conse-guenza dei loro più intensi rapport i commerciali e della comu-ne identità culturale.

Questo graduale processo di avvicinamento s ' i n t e r ruppe bruscamente nel 1995 allorché il governo di Taipei reclamò il r iconoscimento diplomatico e l 'ammissione del propr io paese alle maggiori organizzazioni internazionali. Il presidente Lee Teng-hui si recò in visita «privata» negli Stati Uniti e Taiwan in-disse nel d icembre del 1995 le elezioni legislative, seguite nel marzo del 1996 da quelle presidenziali. Per tutta risposta, il go-verno cinese condusse esperimenti missilistici nelle acque adia-centi ai maggiori porti taiwanesi ed effet tuò esercitazioni mili-tari in prossimità di alcune isole sotto controllo taiwanese. Que-sti sviluppi hanno sollevato due quesiti: 1) Per il presente, è possibile che Taiwan resti democrat ica senza acquisire un ' indi-pendenza formale? 2) Per il futuro, è possibile che Taiwan resti democrat ica pur p e r d e n d o la sua indipendenza di fatto?

I rappor t i di Taiwan con la Rpc h a n n o insomma attraversa-to due fasi, e ora po t rebbero en t rare in una terza. Per decenni il governo nazionalista ha sostenuto di essere il governo di tut-

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ta la Cina; ciò implicava, ovviamente, lo scontro con u n gover-no che di fat to era il governo di tutta la Cina ad eccezione di Taiwan. Negli anni Ot tan ta il governo di Taipei a b b a n d o n ò questa pretesa e si autodefinì governo di Taiwan: il p u n t o di partenza per un possibile compromesso secondo il principio di «un paese, d u e sistemi», prevalente nella Rpc. Persone e grup-pi taiwanesi, tuttavia, cominciarono a insistere sulla peculiare identità culturale di Taiwan, il per iodo relativamente breve di dominio cinese, e la sua lingua locale incomprensibile a quan-ti parlavano cinese mandar ino . In pratica, ten tarono di defini-re la società taiwanese come n o n cinese e, quindi , legittima-men te ind ipendente dalla Cina. Inoltre, via via che diventava sempre più attivo a livello internazionale, lo stesso governo di Taipei sembrò orientato a considerare Taiwan un paese a se stante, non facente parte della Cina. In breve, l 'autodefinizione del governo taiwanese sembrò essersi evoluta da governo di tut-ta la Cina a governo di parte della Cina a governo di nessuna Cina. Quest 'u l t ima posizione, che in pratica formalizza l'indi-pendenza de facto di Taiwan, è del tutto inaccettabile per il go-verno di Pechino, il quale ha re i tera tamente dichiarato di esse-re p ron to a r icorrere alla forza pur di impedire che ciò accada. I leader di Pechino h a n n o altresì a f fermato che dopo l 'accor-p a m e n t o nella Repubblica popolare di H o n g Kong nel 1997 e di Macao nel 1999, p rocede ranno a r iprendersi anche Taiwan. Come ciò potrà accadere d ipende, presumibilmente, dal grado di sostegno che il proget to di ind ipendenza formale di Taiwan ot terrà nel paese, dall 'esito della lotta di successione a Pechino che induce i leader politici e militari a far sfoggio di nazionali-smo, e da u n o sviluppo delle capacità militari cinesi tale da ren-dere possibile un blocco o un ' invasione di Taiwan. Per i primi anni del prossimo secolo, tuttavia, appare probabile che, attra-verso la coercizione, il compromesso o più probabi lmente u n a combinazione di questi due e lemend , Taiwan verrà a integrar-si più s t ret tamente con la Cina continentale.

Fino alla f ine degli anni Settanta, i rapport i tra Singapore, paese fe rocemente anticomunista, e Repubblica popolare ci-nese sono stati gelidi, con Lee Kuan Yew e altri leader di Singa-pore sempre pronti a esibire il loro disprezzo per l 'arretratezza cinese. Q u a n d o tuttavia negli anni Ot tanta l ' economia cinese decollò, Singapore iniziò oppor tunis t icamente a or ientare i

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propri interessi in direzione della Rpc. Nel 1992 Singapore ave-va investito 1,9 miliardi di dollari in Cina, e l ' anno seguente fu annuncia to il proget to di costruire u n a città industriale, «Sin-gapore II», alla periferia di Shanghai , con miliardi di dollari di investimenti. Lee divenne u n fervente sostenitore delle pro-spettive economiche della Cina e un ammira tore del suo pote-re. «La Cina», a f fe rmò nel 1993 «è lì dove ferve l'iniziativa»."4

Gli investimenti all 'estero di Singapore, f ino ad allora forte-men te incentrati su Malaysia e Indonesia, presero la via della Cina. Metà dei progetti esteri sovvenzionati dal governo di Sin-gapore nel 1933 erano dislocati in Cina. Nel corso della sua pri-ma visita a Pechino, negli anni Settanta, Lee Kuan Yew volle parlare con i dirigenti cinesi in inglese anziché in mandar ino . E ben poco probabile che, vent 'anni dopo, abbia man tenu to lo stesso at teggiamento.

L'Islam: coscienza senza coesione

Il model lo di fedeltà politica prevalente tra gli arabi e i mu-sulmani è stato genera lmente l 'opposto di quello prevalente nel l 'Occidente mode rno . Per quest 'ul t imo, lo stato nazionale ha rappresenta to la massima espressione di fedeltà politica. Fe-deltà più circoscritte sono subordinate ed inglobate in essa. I g ruppi che t rascendono i confini degli stati nazionali - civiltà, comuni tà linguistiche o religiose - suscitano un livello di im-pegno e fedeltà m e n o intenso. In tal modo, nel l 'ambi to di un ideale con t inuum di entità, dalle più circoscritte alle più am-pie, le fedeltà occidentali toccano l 'apice dell ' intensità al cen-tro, d isegnando una sorta di U rovesciata. Nel m o n d o islamico la gerarchia delle fedeltà è stata strut turata in m o d o pressoché esat tamente opposto, con il centro corr i spondente al p u n t o di minor intensità. Le «due s t rut ture basilari, originarie e costan-ti», ha osservato Ira Lapidus, sono state da un lato la famiglia, il clan e la tribù, e dall 'altro quella costituita dalle «unità della cultura, della religione e de l l ' impero su scala sempre più va-

24 «Economist», 10 luglio 1993, pp. 28-9; 2 aprile 1994, pp. 34-5; «Interna-tional Herald Tribune», 23 novembre 1993; «Wall Street Journal», 17 maggio 1993, p. A7A.

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sta».2' «Tribalismo e religione (l'Islam)», ha sostenuto u n o stu-dioso libanese, «hanno svolto e svolgono tutt 'oggi un ruo lo si-gnificativo e de te rminan te negli sviluppi sociali, economici , culturali e politici delle società e dei sistemi politici arabi. Anzi, essi sono così in t imamente intrecciati da essere considerati i fattori e le variabili più important i nel processo di determina-zione della cultura politica e del pensiero politico arabi». Le tribù sono state un e lemento centrale della vita politica degli stati arabi, molti dei quali, come ha af fermato Tahsin Bashir, sono semplicemente «tribù con la bandiera». Il fonda tore del-l 'Arabia Saudita ebbe successo soprat tut to grazie alla propr ia capacità di creare un sistema di coalizione tribale fonda to sul matr imonio e su altre istituzioni, e la politica saudita ha conti-nuato a essere fondamenta lmen te una politica tribale che ha contrapposto i sudairi agli shammar e ad altre tribù. Almeno diciotto grandi tribù h a n n o avuto un ruolo significativo nello sviluppo della Libia, e sembra che in Sudan vivano circa cin-quecento tribù, la maggiore delle quali comprende il 12 per cento della popolazione del paese.2"

In Asia centrale non sono mai esistite precise identità nazio-nali. «La fedeltà andava alla tribù, al clan, e alla famiglia allar-gata, non allo Stato». All 'estremo opposto, i popoli avevano «lingua, religione, cultura e stili di vita» in comune , e «l'islami-smo era la maggiore forza di aggregazione tra i popoli, molto più forte del potere dell 'emiro». Tra i ceceni e le popolazioni affini del Caucaso settentrionale esistevano circa cento clan «di montagna» e settanta clan «di pianura», e il controllo politico

25 Ira M. Lapidus, History of Islamic Societies, Cambridge, UK, Cambridge Uni-versity Press, 1988, p. 3 (trad. it. Storia delle società islamiche, Torino, Einaudi, 3 voli., 1993-94-95). 26 Mohamed Zahi Mogherbi, «Tribalism, Religión and the Challenge of Po-liticai Participation: The Case of Lybia», documento presentato alla confe-renza su «Sfide democratiche nel m o n d o arabo», Center for Politicai and In-ternational Development Studies, Cairo, 22-27 settembre 1992, pp. 1, 9; «Eco-nomist» (inchiesta sull'Oriente arabo), 6 febbraio 1988, p. 7; Adlan A. El-Hardallo, «Sufism and Tribalism: The Case of Sudan» (documento presenta-to alla conferenza su «Sfide democratiche nel m o n d o arabo», Center for Po-liticai and International Development Studies, Cairo, 22-27 settembre 1992, p. 2; «Economist», 30 ottobre 1987, p. 45; John Duke Anthony, «Sancii Ara-bia: From Tribal Societv to Nation-State», in Ragaei El Mellakh e Dorothea H. El Mellakh (a cura di), Saudi Arabia, Energy, Developmental Planning, and Industralization, Lexington, MA, Lexington, 1982, pp. 93-4.

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ed economico da essi esercitato era tale che, in opposizione al-l ' economia pianificata sovietica, si diceva che i ceceni avessero un ' economia «clanificata»."'

In tutto il m o n d o islamico, il piccolo g ruppo e la g rande fe-de, la tribù e Yummah, sono state i principali depositari di fe-deltà e devozione, men t re lo stato nazionale ha avuto un ruolo m e n o significativo. Nel m o n d o arabo, gli stati esistenti h a n n o problemi di legittimità in quan to sono per la maggior par te dei casi il p rodot to arbitrario, q u a n d o non eccentrico, dell ' im-perialismo europeo , e i loro confini spesso non coincidono neanche con quelli di g ruppi etnici quali ad esempio berberi e curdi. Questi stati dividono la nazione araba, ma d 'a l t ro canto u n o stato pan-arabo non ha mai trovato espressione concreta. Inoltre, l ' idea stessa di stato nazionale sovrano è incompatibile con la fede nella sovranità di Allah e nel pr imato dell'ummah. In quan to movimento rivoluzionario, il fondamenta l i smo isla-mico rifiuta l ' idea di stato nazionale a favore del l 'uni tà dell'I-slam, propr io come il Marxismo la rifiutava a favore del prole-tariato internazionale. La debolezza del concctto di stato na-zionale nel m o n d o islamico è altresì riflessa nel fatto che lad-dove duran te gli anni della Seconda guer ra mondiale i conflit-ti tra gruppi musulmani f u r o n o assai numerosi , tra stali musul-mani sono scoppiate solo due grandi guerre , en t rambe le qua-li h a n n o visto l 'invasione da par te dell ' Iraq di stati limitrofi.

Negli anni Settanta e Ottanta, gli stessi fattori che h a n n o da-to vita alla Rinascita islamica nei singoli paesi h a n n o anche rafforzato l ' identificazione con ì'ummah, la civiltà islamica, nel suo complesso. Così ha scritto u n o studioso alla metà degli an-ni Ottanta:

Il profondo interesse per l'identità e l'unità musulmana è stato ulte-riormente stimolato dalla decolonizzazione, lo sviluppo demografico, l'industrializzazione, l'urbanizzazione e i mutamenti nell'ordine eco-nomico internazionale associati, tra l'altro, alla ricchezza arrecata agli stati musulmani dal petrolio presente nel loro sottosuolo ... I mezzi di comunicazione moderni hanno rafforzato e ampliato i legami tra i po-

27 Yalman Onaran, «Economics and Nationalism: The Case of Muslim Cen-tral Asia», in «Central Asian Survey», 13, (n. 4, 1994), p. 493; Denis Dra-gounski, «Threshold of Violence», in «Freedom Review», il. 26 (Marzo-Apri-ìe 1995), p. 12.

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poli musulmani. C'è stato un aumento esorbitante del numero di per-sone che si recano in pellegrinaggio alla Mecca, e questo ha rafforza-to il senso d'identità comune tra musulmani di paesi distanti quali la Cina e il Senegal, lo Yemen e il Bangladesh. Un numero sempre cre-scente di studenti provenienti dall'Indonesia, dalla Malaysia, dal sud delle Filippine e dall'Africa vanno a studiare nelle università medio-rientali, diffondendo idee e stringendo contatti personali a livello in-ternazionale. A Teheran, La Mecca e Kuala Lumpur si tengono rego-lari e sempre più frequenti conferenze e scambi d'opinioni tra intel-lettuali musulmani e ulama (studiosi religiosi). ... Cassette (audio e ora anche video) diffondono, attraversando i confini internazionali, sermoni islamici, permettendo ad influenti predicatori di raggiungere un pubblico che va ben oltre le proprie comunità locali.2"

Il senso di uni tà musulmana, inoltre si è riflesso e ha trovato nuovo al imento nelle iniziative adottate dagli stati e dalle orga-nizzazioni internazionali . Nel 1969 i leader dell 'Arabia Saudita organizzarono, in collaborazione con quelli di Pakistan, Ma-rocco, Iran, Tunisia e Turchia, il p r imo summit islamico a Ra-bat, da cui prese vita l 'Organizzazione della Conferenza Islami-ca (Oci), costituitasi fo rma lmen te con un propr io quart ier ge-nerale a j i d d a h nel 1972. Prat icamente tutti gli stati con un ' am-pia popolazione musulmana appa r t engono oggi a questo orga-nismo, che è l 'unica organizzazione interstatale di tal genere . I governi cristiani, ortodossi, buddisti o induisti non h a n n o or-ganizzazioni internazionali il cui criterio di ammissione è la re-ligione. Inoltre, i governi di Arabia Saudita, Pakistan, Iran e Li-bia h a n n o appoggiato e sponsorizzato organizzazioni non go-vernative quali il Congresso mondia le musu lmano (una crea-zione pakistana) e la Lega mondiale dei musulmani (creazione saudita), n o n c h é «numerosi e spesso assi diversi regimi, partiti, movimenti e cause che si ri t iene condividano il loro orienta-men to ideologico» e che s tanno «arr icchendo il flusso di infor-mazioni e di risorse tra musulmani».29

Il passaggio da u n a coscienza islamica ad u n a coesione isla-mica, tuttavia, compor ta due paradossi.

1) Il m o n d o islamico è diviso tra diversi centri di potere in competizione tra loro, ciascuno dei quali tenta di sfruttare l'i-

28 Barbara Daly Metcalf, «The Comparative Study of Muslim Societies», in «Items», n. 40 (Marzo 1986), p. 3. 29 Metcalf, «Muslim Societies», p. 3.

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dentificazione musulmana con Yummah al fine di promuovere la coesione islamica sotto la propria leadership. La competizio-ne vede schierati i regimi tradizionali e le loro organizzazioni da un lato e i regimi islamici con relative organizzazioni dall 'altro. L'Arabia Saudita diede vita all 'Oci anche per avere un contral-tare alla Lega araba, all 'epoca dominata da Nasser. Nel 1991, dopo la guerra del Golfo, il leader sudanese Hassan al-Turabi creò la Conferenza popolare araba e islamica (Paic) come con-traltare all'Oci, dominata dall 'Arabia Saudita. Alla terza riunio-ne della Paic, svoltasi a Khartoum all'inizio del '95, presero par-te diverse centinaia di delegati appar tenent i a organizzazioni e movimenti islamici di ottanta paesi.'" Oltre a queste organizza-zioni generali, la guerra afghana ha dato vita a una vasta rete di gruppi informali e clandestini di veterani pronti a combattere per la causa musulmana o islamica in Algeria, Cecenia, Egitto, Tunisia, Bosnia, Palestina, nelle Filippine e altrove. Al termine della guerra, le loro file sono state r impinguate da guerriglieri addestrati all'Università di Dawaj ihad , alle porte di Peshawar, e in campi paramilitari in Afghanistan finanziati da molte fazioni e dai relativi par tner stranieri. Gli interessi comuni di regimi e movimenti radicali hanno talvolta superato antagonismi più tra-dizionali, e grazie al suppor to iraniano sono stati creati dei con-tatti tra gruppi fondamentalist i sunniti e sciiti. Tra Sudan e Iran esiste una stretta cooperazione militare; l 'aeronautica e la mari-na iraniana h a n n o utilizzato basi sudanesi, e i due governi han-no sostenuto congiuntamente gruppi fondamentalist i in Alge-ria e altrove. Risulta che nel 1994 Hassan al-Turabi e Saddam Hussein intrattenessero legami molto stretti, ment re Iran e Iraq stavano p rocedendo verso una riconciliazione."

2) Il concetto di ummah p re suppone l'illegittimità dello stato nazionale, e tuttavia Yummah stessa può essere unificata solo median te le iniziative di u n o o più stati guida forti che al mo-m e n t o non esistono. Il concet to di Islam in quan to comuni tà

30 «Boston Globe», 2 aprile 1995, p. 2; Stilla Paic in generale, si veda «The Popular Arab and Islamic Oonference (Paic): A New Islamist International?», in «TransState Islam», n. 1 (Primavera 1995), pp. 12-6. 31 Bernard Schechterman e Bradford R. McGuinn, «Linkages Between Sun-ni and Shi'i Radicai Fundainentalist Organizations: A New Variable in Midd-le Eastern Politics?», in «The Politicai Chronicle», n. 1 (Febbraio 1989), pp. 22-34; «New York Times», 6 dicembre 1994, p. 5.

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politico-religiosa coesa ha significato che in passato gli stati gui-da si sono genera lmente materializzati solo q u a n d o autorità re-ligiosa e autorità politica - califfato e sultanato - si sono fuse in un 'un ica istituzione di governo. La repent ina conquista araba nel vii secolo del Nord Africa e del Medio Oriente culminò nel califfato degli Omayyadi con capitale a Damasco. A ciò seguì nell'vin secolo il califfato degli Abbassidi, con capitale a Bag-dad, caratterizzato da u n a for te influenza persiana, e quindi califfati secondari al Cairo e a Cordoba nel x secolo. Quattro-cento anni dopo, i turchi o t tomani di lagarono in Medio Orien-te, conquis tando Costantinopoli nel 1453 e ist i tuendo nel 1517 un nuovo califfato. All'incirca nello stesso periodo, altri popoli di razza turca invasero l ' India e f o n d a r o n o l ' Impero moghul . La ripresa del l 'Occidente indebolì sia l ' Impero o t tomano che quello moghul , e la fine del p r imo lasciò l'Islam privo di u n o stato guida. I suoi territori vennero in gran parte spartiti tra le potenze occidentali, che al m o m e n t o di ritirarsi si lasciarono al-le spalle stati fragili, fondat i su un model lo occidentale estra-neo alle tradizioni islamiche. E questo è il motivo per cui per b u o n a par te del xx secolo nessun paese musu lmano ha avuto sufficiente potere e sufficiente legittimità culturale e religiosa per assumere quel ruolo ed essere accettato come leader del m o n d o islamico da altri stati islamici e non islamici.

L'assenza di u n o stato guida islamico è u n o dei principali fattori che spiegano i costanti conflitti interni ed esterni che ca-ratterizzano l'Islam. La coscienza senza coesione è un elemen-to di debolezza per l 'Islam e di minaccia per le altre civiltà. Una simile condizione è destinata a perpetuarsi?

Per poter assumere la leadership politica e religiosa dell 'um-mah, u n o stato guida islamico deve possedere risorse economi-che, forza militare, capacità organizzadve nonché un ' ident i tà e un or ien tamento islamici. Sei stati vengono di tanto in tanto in-dicati come possibili leader dell 'Islam; a t tualmente , tuttavia, nessuno di essi presenta tutti i requisiti necessari per poter as-solvere il compito. L 'Indonesia è il più grande paese musulma-no e la sua economia sta crescendo rapidamente . Dal p u n t o di vista geografico, tuttavia, essa è dislocata alla periferia dell'I-slam, distante dal suo epicentro arabo; inoltre, il suo è un isla-mismo modera to , caratteristico del Sud-Est asiatico; infine, il suo popolo e la sua cultura sono un coacervo di influenze au-

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toctone, musulmane, indù, cinesi e crisdane. L'Egitto è un pae-se arabo, densamente popolato, situato nel cuore del Medio Or ien te in u n a posizione strategicamente molto impor tan te e sede del più impor tante istituto di cultura islamica, l 'Università di Al-Azhar. E però anche un paese povero, economicamente d ipenden te dagli Stati Uniti, da organizzazioni internazionali controllate dal l 'Occidente e dagli stati arabi ricchi di petrolio.

Iran, Pakistan e Arabia Saudita sono tutti d ichiara tamente stati islamici e h a n n o e tentato di impor re la propr ia influenza suM'ummah assumendone la leadership. H a n n o fatto perciò a gara nello sponsorizzare organizzazioni, finanziare g ruppi isla-mici, offr i re suppor to ai guerriglieri afghani e corteggiare le popolazioni musulmane dell'Asia centrale. L'Iran possiede le dimensioni , la posizione geografica, la popolazione, le tradi-zioni storiche, le risorse petrolifere e un livello medio di svi-luppo economico atto a qualificarlo come u n o stato guida isla-mico. Il 90 per cento dei musulmani , tuttavia, è costituito da sunniti, men t re gli iraniani sono sciiti; il persiano sta di gran lunga dietro all 'arabo come lingua dell 'Islam, e i rappor t i tra persiani e arabi sono stati t radizionalmente antagonistici.

Il Pakistan ha le dimensioni, la popolazione e le capacità mi-litari, e i suoi dirigenti h a n n o costantemente cercato di riven-dicare a sé il ruolo di promotor i della cooperazione tra gli stati islamici e di portavoce dell 'Islam nei confront i del resto del mondo . Tuttavia è un paese relativamente povero e lacerato da p ro fonde divisioni in te rne e tniche e religiose, ha u n a lunga tradizione di instabilità politica ed è ossessionato dal p rob lema della propria sicurezza nei confront i dell ' India, il che spiega in buona par te il suo interesse a sviluppare stretti rappor t i tanto con gli altri paesi islamici quan to con potenze non musu lmane quali Cina e Stati Uniti.

L'Arabia Saudita era la casa originaria dell 'Islam; i sacri tem-pli dell ' islamismo sono lì; la sua lingua è la lingua dell 'Islam; possiede le maggiori riserve petrolifere del m o n d o e la conse-guente influenza finanziaria in campo internazionale; il suo go-verno ha forgiato la società saudita su canoni severamente isla-mici. Negli anni Settanta e Ot tanta l 'Arabia Saudita è stato il paese più inf luente nel m o n d o musulmano. Ha speso miliardi di dollari a sostegno della causa musulmana nel m o n d o (dalla costruzione di moschee, alla pubblicazione di libri, al

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finanziamento di partiti politici, organizzazioni islamiche e movimenti terroristi), e lo ha fat to in m o d o a lquanto indiscri-minato. D'altro canto, la popolazione relativamente esigua e la vulnerabilità geografica f a n n o sì che la sua sicurezza d ipenda dal l 'Occidente .

Infine, la Turchia possiede la storia, la popolazione, il livello medio di sviluppo economico, la coesione nazionale, la tradi-zione e la competenza militare necessari a fungere da stato gui-da dell 'Islam. Nel definire esplicitamente la Turchia una so-cietà laica, tuttavia, Ataturk ha precluso alla Repubblica Turca la possibilità di succedere a l l ' Impero o t tomano nell 'espleta-men to di questo ruolo. L ' impegno al laicismo iscritto nella sua costituzione impedisce alla Turchia finanche di essere ammes-sa all 'Oci. Fino a q u a n d o la Turchia cont inuerà a proclamarsi u n o stato laico, la leadership dell 'Islam le sarà preclusa.

Cosa accadrebbe, tuttavia, se la Turchia mutasse la propr ia identità? Prima o poi, po t rebbe decidersi ad abbandonare il propr io f rust rante e umiliante ruo lo di mendicante che implo-ra di essere ammesso in Occidente e riappropriarsi del ben più prestigioso ruolo storico di principale inter locutore islamico e antagonista del l 'Occidente . Il fondamenta l i smo è in rapida ascesa; sotto Òzal la Turchia ha tentato in m o d o pressante di identificarsi con il m o n d o arabo; ha sfruttato i propri legami et-nici e linguistici per svolgere un ruolo, sia pur modesto, in Asia centrale; ha offer to incoraggiamento e sostegno ai musulmani bosniaci. Tra i paesi musulmani , la Turchia è l 'unica che possa vantare profondi legami storici con i musulmani dei Balcani, del Medio Oriente , del Nord Africa e dell'Asia centrale. Presu-mibi lmente la Turchia po t rebbe «fare come il Sud Africa»: ab-bandona re il propr io secolarismo in quanto estraneo alla pro-pria natura , così come il Sud Africa ha abbandona to l'a-par theid , t rasformandosi così da stato paria a stato guida della propria civiltà. Avendo provato il meglio e il peggio dell 'Occi-dente con il cristianesimo e l 'apartheid, il Sud Africa è partico-larmente qualificato ad assumere il ruolo di stato leader del-l'Africa. Avendo sper imentato il meglio e il peggio dell 'Occi-dente in materia di secolarismo e democrazia, la Turchia po-trebbe essere al tret tanto qualificata al ruolo di leader dell'I-slam. Perché ciò possa accadere, tuttavia, la Turchia dovrebbe r ipudiare l 'eredi tà di Ataturk in m o d o ancor più deciso di

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quan to la Russia abbia r ipudiato quella di Lenin. Avrebbe al-tresì bisogno di un leader del calibro di Ataturk, un u o m o in grado di conquistare la legittimità religiosa e politica necessaria per t rasformare la Turchia da un paese in bilico in u n o stato guida.

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SCONTRI DI CIVILTÀ

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CAPITOLO OTTAVO L'Occidente e gli altri: rapport i tra le civiltà

L'Universalismo occidentale

Nel m o n d o che sta nascendo, i rapport i tra stati e g ruppi ap-par tenent i a civiltà diverse n o n saranno stretti e avranno spesso carattere antagonista. Alcuni di essi tuttavia appa iono poten-zialmente più conflittuali di altri. A livello regionale, o microli-vello, la linea di faglia più pericolosa sembra quella che separa il m o n d o islamico dagli stati adiacenti ortodossi, indù, africani e cristiano-occidentali. Al livello generale , o macrolivello, la f rat tura principale è tra «l 'Occidente e gli altri», con i conflitti più intensi destinati a scoppiare tra le società musu lmane e asiatiche da un lato e quella Occidente dall 'altro. Gli scontri più pericolosi del fu tu ro nasceranno probabi lmente dall ' inte-razione tra l 'ar roganza occidentale, l ' intolleranza islamica e l ' in t raprendenza sinica.

La civiltà occidentale è l 'unica ad aver esercitato u n a profon-da e a volte devastante influenza su tutte le altre civiltà. Di con-seguenza, il rappor to tra potere e cultura occidentali e potere e cultura delle altre civiltà è l ' e lemento che maggiormente ca-ratterizza il «mondo delle civiltà». Via via che il potere relativo delle altre civiltà viene ad aumentare , il fascino della cultura oc-cidentale si appanna , e i popoli non occidentali sviluppano un sent imento sempre più for te di fiducia e at taccamento alle pro-prie culture autoctone. Dunque , il problema fondamenta le nei rapport i tra l 'Occidente e le altre civiltà si p u ò riassumere nel-la discrepanza esistente tra i tentativi del l 'Occidente, e dell'A-merica in particolare, di p romuovere u n a cultura occidentale universale e la sua sempre minore capacità di realizzare questo obiettivo.

Il crollo del comunismo ha accresciuto u l ter iormente questa discrepanza, r insaldando nel l 'Occidente la convinzione che la

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propr ia ideologia del liberismo democradco avesse tr ionfato a livello globale e fosse quindi universalmente valida. L'Occiden-te - e in particolare l 'America, che è sempre stata u n a nazione missionaria - ritiene che i popoli non occidentali debbano con-vertirsi ai valori occidentali della democrazia, del libero merca-to, del governo costituzionale, dei diritti umani , dell ' individua-lismo, dello stato di diritto, e inglobare tali valori nelle propr ie istituzioni. Tuttavia, pu r esistendo nelle altre civiltà minoranze che abbracciano e p romuovono tali valori, l 'a t teggiamento do-minante nei loro riguardi tra le culture non occidentali varia da un diffuso scetticismo a una for te opposizione. Quello che per l 'Occidente è universalismo, per gli altri è imperialismo.

L 'Occidente tenta e cont inuerà a tentare di preservare la propr ia posizione di p reminenza e d i fendere i propr i interessi identif icandoli con quelli della «comunità internazionale». Questa espressione è diventata l ' eufemismo d 'uso c o m u n e (in sostituzione di «Mondo libero») impiegato per conferire legit-timità globale ad azioni che r if let tono gli interessi degli Stati Uniti e delle altre potenze occidentali. L 'Occidente, ad esem-pio, sta t en tando di integrare le economie non occidentali in un sistema economico universale sotto il suo controllo. Attra-verso il Fondo monetar io internazionale e altri organismi in-ternazionali, l 'Occidente promuove i propr i interessi economi-ci e impone ad altre nazioni le politiche economiche che ritie-ne più appropriate . Se si indicesse un r e fe rendum in u n a qual-siasi società non occidentale, tuttavia, il Fmi e gli altri organi-smi economici internazionali o t t e r rebbero cer tamente l'avallo dei ministri finanziari e di pochi altri, ma sarebbero al tret tanto cer tamente osteggiati dalla s tragrande maggioranza della po-polazione, che concorderebbe certo con la descrizione dei fun-zionari del Fmi fatta da Georgij Arbatov: «neo-bolscevichi che amano appropriarsi del dena ro altrui, impor re n o r m e di con-dotta politica ed economica estranee e non democra t iche e soffocare la libertà economica».1

I non occidentali, inoltre, n o n esitano a pun ta re l ' indice sul divario esistente tra i principi p ropugna t i dal l 'Occidente e i suoi compor tament i pratici. Ipocrisia, politica dei «due pesi e

1 Georgi Arbatov, «Neo-Bolsheviks of the I.M.F.», in «New York Times», 7 maggio 1992, p. A27.

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d u e misure» e dei «distinguo» sono il prezzo da pagare alle pretese universalistiche. Viene predicata la democrazia, ma non se questa manda poi al potere i fondamentalist i islamici; la n o n proliferazione delle armi per Iran e Iraq, ma non per Israele; il libero commercio è l'elisir dello sviluppo economico, ma non nel settore agricolo; le violazioni dei diritti umani sono motivo di scontro con la Cina, ma non con l 'Arabia Saudita; l 'aggressione contro i kuwaitiani, possessori di petrolio, viene stigmatizzata con veemenza, ma non quella contro i bosniaci, che di petrolio non ne hanno . La politica dei due pesi e due misure è d u n q u e il prezzo inevitabile da pagare al principio dei valori universali

Dopo aver conquistato l ' ind ipendenza politica, le società non occidentali des iderano affrancarsi da quello che conside-rano il dominio economico, militare e culturale del l 'Occiden-te. Le società est-asiatiche sono già in procinto di uguagliare l 'Occidente dal pun to di vista economico. I paesi asiatici e isla-mici sono alla ricerca di scorciatoie che pe rme t t ano loro di uguagliarlo sul piano militare. Le aspirazioni universali della ci-viltà occidentale, il decl inante potere relativo del l 'Occidente e la sempre maggiore in t raprendenza culturale delle altre civiltà creano in linea generale rappor t i difficili tra l 'Occidente e gli altri. La na tura di tali rapport i e il grado di contrapposizione variano tuttavia considerevolmente e possono essere suddivisi in tre categorie. Con le civiltà antagoniste, Islam e Cina, l 'Oc-cidente avrà probabi lmente rapport i costantemente tesi e spes-so for temente conflittuali. I rapport i con America ladna e Afri-ca, civiltà più deboli e più di re t tamente influenzate dall 'Occi-dente, registreranno un livello di conflittualità di gran lunga in-feriore, soprattutto nel caso dell 'America latina. I rapport i tra Occidente e Russia, Giappone e India occuperanno probabil-men te u n a posizione in termedia rispetto ai primi due gruppi , e p resen te ranno di volta in volta elementi di cooperazione o di conflittualità a seconda che questi tre stati guida dec idano di schierarsi con le civiltà antagoniste o con l 'Occidente. Defini-r e m o tali civiltà «oscillanti» tra l 'Occidente da un lato e le ci-viltà islamica e sinica dall 'altro.

Islam e Cina incarnano grandi tradizioni culturali molto di-verse - e ai loro occhi infini tamente superiori - rispetto a quel-le dell 'Occidente. Il potere e l ' in t raprendenza di en t rambe in

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rappor to all 'Occidente s tanno aumentando , così come vanno moltiplicandosi e crescendo d' intensità i conflitti tra i loro valo-ri ed interessi da un lato e quelli occidentali dall 'altro. Mancan-do il m o n d o islamico di u n o stato guida, i suoi rapport i con l 'Occidente variano da paese a paese. A partire dagli anni Set-tanta si è andata tuttavia manifestando una costante tendenza antioccidentale caratterizzata dall 'avvento del fondamental i -smo, dal passaggio di potere nei paesi musulmani da governi fi-loccidentali a governi antioccidentali, dall'instaurarsi di u n o sta-to di guerra strisciante tra alcuni gruppi islamici e l 'Occidente e dal l ' indebolimento dei legami, fondati sulla sicurezza comune , esistenti all 'epoca della Guerra f redda tra alcuni stati musulma-ni e gli Stati Uniti. Al di là delle differenze su specifiche que-stioni r imane tuttavia il problema di f ondo circa il ruolo di que-ste civiltà in rappor to all 'Occidente nella fu tura organizzazione del pianeta. Le istituzioni internazionali, la distribuzione del po-tere, i sistemi politici ed economici delle nazioni alla metà del xxi secolo rifletteranno pr incipalmente i valori e gli interessi del l 'Occidente, oppure quelli dell 'Islam e della Cina?

La teoria «realista» delle relazioni internazionali sostiene che gli stati guida delle civiltà non occidentali dovrebbero allearsi per controbilanciare il potere dominante dell 'Occidente. In al-cune regioni, ciò è già accaduto. Quella di una grande coalizio-ne antioccidentale, tuttavia, appare per l ' immediato fu tu ro una possibilità alquanto remota. La civiltà islamica e quella sinica sono molto diverse tra loro per religione, cultura, assetto socia-le, tradizioni, struttura politica e valori di fondo. H a n n o proba-bi lmente m e n o cose in comune tra loro di quante ne abbia cia-scuna di esse con l 'Occidente. Tuttavia in politica un nemico co-m u n e crea interessi comuni. Le società islamiche e siniche ve-dono nel l 'Occidente il propr io rivale e h a n n o d u n q u e fondati motivi per allearsi contro di esso, così come accadde con le po-tenze alleate e Stalin contro Hitler. Tale cooperazione trova espressione concreta su molti punti : diritti umani , politica eco-nomica e soprattutto il tentativo - universalmente perseguito -di sviluppare il proprio potenziale militare, in particolare le ar-mi di distruzione di massa e i missili per farle giungere a desti-nazione, in m o d o da controbilanciare la superiorità militare convenzionale del l 'Occidente. Nei primi anni Novanta aveva preso vita un asse «islamico-confuciano» con Cina e Corea del

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Nord da un lato e - con diverso grado d'intensità - Pakistan, Iran, Iraq, Siria, Libia e Algeria dall 'altro, per far f ronte all'Oc-cidente su quesd problemi.

I problemi che vanno oggi assumendo sempre maggior rile-vanza internazionale sono propr io quelli che dividono l'Occi-dente da queste altre società. Tre di essi conce rnono i tentativi dell 'Occidente: 1 ) di preservare la propria superiorità militare mediante strategie di non proliferazione e di contro-prolifera-zione delle armi nucleari, biologiche e chimiche e dei mezzi per render le operative; 2) di promuovere i valori e le istituzioni politiche occidentali sollecitando altre società al rispetto dei di-ritti umani così come sono concepiti in Occidente e all'adozio-ne del modello democrat ico di stampo occidentale; e 3) di pro-teggere l 'integrità culturale, sociale e razziale delle società occi-dentali l imitando il diritto d'asilo agli immigrati e ai rifugiati non occidentali. In tutti e tre questi settori, l 'Occidente ha avu-to e cont inuerà probabi lmente ad avere difficoltà a d i fendere i propri interessi contro quelli delle società non occidentali.

La proliferazione degli armamenti

La diffusione del potere militare è la conseguenza diretta dello sviluppo economico e sociale su scala mondiale . Via via che diventano economicamente più ricchi, Giappone, Cina e altri paesi asiatici diventano anche più forti mil i tarmente. Lo stesso discorso vale per le società islamiche, n o n c h é per la Rus-sia, se riuscirà a r i formare la propria economia. In questi ultimi decenni del xx secolo, molte nazioni non occidentali h a n n o ac-quisito armi sofisticate dai paesi occidentali, dalla Russia, da Israele, dalla Cina, e h a n n o inoltre costruito impianti propr i per la produzione di armi al tamente sofisticate. Questo proces-so si pro t rar rà e probabi lmente si intensificherà nel corso dei primi anni del xxi secolo. Ciò nonostante, per buona par te del prossimo secolo l 'Occidente - con ciò i n t endendo principal-men te gli Stati Uniti, coadiuvati in qualche misura da Francia e Gran Bretagna - resterà l 'unica civiltà in grado di intervenire mil i tarmente in ogni par te del mondo . E solo gli Stati Uniti avranno il potenziale aeronaut ico in grado di bombarda re pressoché ogni angolo del pianeta. Sono questi gli e lement i

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che caratterizzano gli Stati Uniti in quan to potenza militare su scala globale e del l 'Occidente in quanto civiltà dominan te del pianeta. Nel l ' immediato fu turo , gli equilibri delle forze milita-ri convenzionali tra l 'Occidente e le altre civiltà res te ranno d u n q u e fo r temente a favore del pr imo.

Il tempo, lo sforzo e il dena ro necessari per sviluppare un potenziale militare convenzionale di p r im 'ord ine sono tutti fat-tori che spingono decisamente gli stati non occidentali a cer-care altre vie che possano controbilanciare le forze convenzio-nali del l 'Occidente . La scorciatoia consiste nell 'acquisizione di armi nucleari, biologiche e chimiche e dei relativi supporti . Gli stati guida delle civiltà e i paesi che sono o aspirano a diventare potenze regionali dominant i sono par t icolarmente motivati al-l 'acquisizione di armi di distruzione di massa. Esse, infatti, in-nanzi tut to consentono a quei paesi di stabilire il propr io domi-nio su altri stati della stessa civiltà o regione e, in secondo luo-go, scoraggiano eventuali interventi nella propria regione o ci-viltà da par te degli Stati Uniti o di altre potenze straniere. Se Saddam Hussein avesse rinviato l 'invasione del Kuwait di due o tre anni , f ino a q u a n d o cioè l 'Iraq non avesse posseduto armi nucleari , oggi i giacimenti petroliferi kuwaitiani e probabil-men te anche quelli sauditi sarebbero suoi. Gli stati non occi-dentali h a n n o tratto le dovute lezioni dalla guerra del Golfo. Per i militari nordcoreani queste lezioni fu rono : «Non permet-tere che gli americani accrescano la loro forza; non consentire loro di installare basi aeree; n o n consentire loro di p r e n d e r e l'iniziadva; impedire agli Usa di condur re una guer ra con po-che perdite». Per un alto ufficiale militare indiano le lezioni fu-rono ancor più esplicite: «Non far guer ra agli Stati Uniti a me-no di n o n avere armi nucleari».2 Una lezione, questa, imparata a memor ia dai leader politici di tutto il m o n d o non occidenta-le e dalla quale i vertici militari h a n n o tratto un plausibile co-rollario: «Se possiedi armi nucleari, gli Stati Uniti non ti attac-cheranno».

«Anziché rinsaldare la politica del pugno di fe r ro secondo i canoni consueti», ha osservato Lawrence Freedman, «le armi

2 Opinioni nordcoreane sintetizzate da un eminente analista americano, in «Washington Post», 12 giugno 1994, p. CI; il generale indiano è citato in Les Aspin, «From Deterrence to Denuking: Dealing witli Proliferation in the 1990's», Memorandum, 18 febbraio 1992, p. 6.

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nucleari con fe rmano di fatto una tendenza alla f rammentazio-ne del sistema internazionale, in cui le grandi potenze tradi-zionali svolgono un ruolo minore rispetto al passato». Per l 'Oc-cidente, dunque , il ruolo delle armi nucleari nel l 'epoca post-Guerra f r edda è esat tamente l 'opposto di quello che ebbero in quel per iodo. Allora, come ha sostenuto il segretario della Di-fesa americano Les Aspin, le armi nucleari compensavano l'in-feriorità in campo convenzionale del l 'Occidente rispetto all'U-n ione Sovietica, f u n g e n d o da e lemento «equilibratore». Nel m o n d o post-Guerra f redda, viceversa, gli Stati Uniti dispongo-no di un «potenziale militare convenzionale senza uguali, men-tre i nostri potenziali rivali po t rebbero dotarsi di armi nucleari. Siamo noi che po t r emmo ritrovarci vittime del l ' e lemento equi-libratore». '

N o n sorprende , d u n q u e , che la Russia abbia sot tol ineato con forza l ' impor tanza delle armi nucleari nel p ropr io p iano di difesa e che nel 1995 abbia concorda to l 'acquisto di altri missili e bombard ie r i in tercont inenta l i dal l 'Ucraina. «Oggi sent iamo rivolgere al nostro indirizzo le stesse cose che erava-m o soliti dire noi dei russi negli anni Cinquanta», ha com-men ta to un esperto di questioni militari americano. «Adesso sono i russi che dicono: "abbiamo bisogno di armi nucleari per compensare la loro superiori tà convenzionale"». Allo stes-so modo , al l 'epoca della Guer ra f r edda gli Stati Uniti si rifiu-tarono, a scopo di deterrenza, di r inunciare al diri t to di ricor-rere per primi alle armi nucleari . Come risultato della nuova funz ione di de ter renza svolta dalle armi nucleari nel m o n d o post-Guerra f redda , nel 1993 la Russia ha in pratica r innegato l ' impegno preso in passato a non usare per pr ima armi nu-cleari. C o n t e m p o r a n e a m e n t e anche la Cina, nello sviluppare la p ropr ia strategia nucleare post-Guerra f r edda di de ter renza limitata, ha iniziato a met te re in discussione il p ropr io impe-gno in tal senso proclamato nel 1964/ Via via che d i spor ranno di armi nucleari e altri mezzi di distruzione di massa, è proba-

3 Lawrence Freedman, «Great Powers, Vital Interests and Nuclear Weapons», in «Survival», n. 36 (Inverno 1994), p. 37; Les Aspin, Remarks, National Aca-demy of Sciences, Committee on International Security and Arms Control, 7 dicembre 1993, p. 3. 4 Stanley Norris, cit. in «Boston Globe», 25 novembre 1995, pp. 1, 7; Alastair Iain Johnston, «China's New "Old Thinking": The Concept of Limited De-terrence», in «International Security», n. 20 (Inverno 1995-96), pp. 21-3.

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bile che simili esempi ver ranno seguiti da altri stati guida e po-tenze regionali al fine di sfrut tare al massimo l 'effet to deter-rente delle propr ie armi contro eventuali attacchi convenzio-nali del l 'Occidente.

Le armi nucleari possono minacciare l 'Occidente in manie-ra anche più diretta. Cina e Russia possiedono missili balistici a testata nucleare in grado di raggiungere l 'Europa e il Nord America. Corea del Nord, Pakistan e India s tanno e spandendo il loro arsenale missilistico ed è probabile che pr ima o poi an-ch'essi svi lupperanno la capacità di colpire l 'Occidente . Inol-tre le armi nucleari possono essere utilizzate anche in altro modo . Gli analisti militari h a n n o elaborato u n a sorta di scala di valori della violenza, che pa r t endo da un livello di conflit-tualità assai basso (quale ad esempio gli atti terroristici o spo-radiche manifestazioni di guerriglia) , passa alle guer re di ca-rat tere limitato, f ino ad arrivare alle guer re di d imensioni più generali con massiccio impiego di a rmament i convenzionali e nucleari . Stor icamente il ter ror ismo è l ' a rma dei deboli , vale a dire di quant i non possiedono capacità militari di tipo con-venzionale. A part ire dalla Seconda guer ra mondiale , le armi nucleari sono anche quelle con la quale i deboli compensano la propr ia inferiorità convenzionale. In passato, i terroristi po-tevano esercitare soltanto un livello limitato di violenza: ucci-dere ogni tanto qua lcuno o far saltare in aria qualche edificio. Per applicare una violenza massiccia c 'e ra bisogno di impo-nent i forze militari. Prima o poi, tuttavia, basterà un p u g n o di terroristi per esercitare un alto g rado di violenza e provocare distruzioni di massa. Singolarmente presi, ter ror ismo e ordi-gni nucleari sono le armi dei deboli non occidentali . Se u n g iorno queste armi ve r ranno utilizzate cong iun tamente , i de-boli del m o n d o non occidentale d iventeranno forti.

Nel m o n d o post-Guerra f redda , i maggiori sforzi di sviluppa-re armi di distruzione di massa e i mezzi per usarle si sono avu-ti negli stati islamici e confuciani . Il Pakistan e probabi lmente la Corea del Nord già possiedono un piccolo arsenale di testa-te nucleari o q u a n t o m e n o la capacità di realizzarlo in tempi brevi, e intanto s tanno cos t ruendo o acquistando missili balisti-ci a lungo raggio. L'Iraq possiede un notevole arsenale di armi chimiche e si sta dando da fare per procurarsi armi biologiche

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e nucleari. L'Iran ha avviato un vasto p rogramma di sviluppo di armi nucleari e sta ampl iando il potenziale balistico. Nel 1988 il presidente Rafsanjani dichiarò che gli iraniani «devono svi-luppare un arsenale completo di armi chimiche, batteriologi-che e nucleari a scopo difensivo e offensivo». Tre anni dopo, nel corso di una conferenza islamica, il vice presidente irania-no affermò: «poiché Israele cont inua a possedere armi nuclea-ri, noi musulmani dobb iamo cooperare alla produzione di una bomba atomica, malgrado i tentativi de l l 'Onu di imped i rne la proliferazione». Nel 1992 e 1993, alti funzionari dei servizi se-greti americani sostennero che l ' I ran stava cercando di acqui-stare armi nucleari, e nel 1995 il segretario di Stato americano Warren Chris topher a f f e rmò esplicitamente che «oggi l ' Iran è impegnato in un intenso sforzo di costruzione di armi nuclea-ri». Altri stati che si sa essere interessati al possesso di armi nu-cleari sono la Libia, l 'Algeria e l 'Arabia Saudita. «La mezzalu-na», secondo la colorita espressione di Ali Mazrui, «troneggia sul f u n g o atomico», e oltre al l 'Occidente po t rebbe minacciare anche altre società. L'Islam pot rebbe finire «col giocare alla roulette russa nucleare con due altre civiltà: l ' induismo in Asia meridionale e il sionismo e l 'ebraismo politicizzato in Medio Oriente». '

La proliferazione degli a rmament i è il settore nel quale l'as-se islamico-confuciana ha prodot to i risultati più concreti , con la Cina protagonista per quan to riguarda il t rasfer imento di ar-mi, convenzionali e non , a molti stati musulmani. Per ci tarne qualcuno: la costruzione, segreta e protettissima, di un reattore nucleare nel deserto algerino, ufficialmente a scopi di ricerca, ma che gli esperti occidentali r i tengono in grado di p rodu r r e plutonio; la vendita alla Libia di component i per armi chimi-che; la forn i tura di missili a medio raggio CSS-2 all 'Arabia Sau-dita; la forni tura di tecnologia o materiale nucleare a Iraq, Li-bia, Siria e Corea del Nord. Oltre al contr ibuto cinese, nei pri-

5 Philip L. Ritcheson, «Iranian Military Resurgence: Scope, Motivations, and Implications for Regional Security», in «Armed Forces and Society», n. 21 (Estate 1995), pp. 575-6. Discorso di Warren Christopher, Kennedy School of Government, 20 gennaio 1995; «Time», 16 dicembre 1991, p. 47; Ali Al-Amin Mazrui, Cultural Forces in World Fohtics, London, J. Currev, 1990, pp. 220, 224.

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mi anni Novanta la Corea del Nord ha forni to alla Siria, via Iran, missili Scud-C, n o n c h é il telaio mobile da cui lanciarli/ '

Pe rno centrale, tuttavia, dello scambio di armi lungo l'asse islamico-confuciana sono stati i rapport i tra Cina e, in misura minore , Corea del Nord da un lato, e Pakistan e Iran dall 'altro. Tra il 1980 e il 1991 i due principali acquirenti di armi cinesi sono stati Iran e Pakistan, seguiti dall 'Iraq. A partire dagli anni Settanta, Cina e Pakistan h a n n o stabilito u n o stretto rappor to di collaborazione militare, seguito nel 1989 da un protocollo d ' intesa decennale di «cooperazione [militare] in materia di acquisti, ricerca e sviluppo congiunti , produzione congiunta, trasferimento di tecnologia, nonché di esportazione a paesi ter-zi previo reciproco accordo». Nel 1993 fu siglato un accordo supplementare che assicurava crediti cinesi al Pakistan per l'ac-quisto di armi. La Cina è diventata perciò «il maggiore e più af-fidabile forni tore di componentis t ica militare del Pakistan, al quale esporta attrezzature militari di ogni sorta, destinate a tut-ti i settori delle forze armate pakistane». La Cina ha anche aiu-tato il Pakistan a creare s trut ture per la produzione di aerei su-personici, carri armati, pezzi di artiglieria e missili. Ancora più impor tante è stato l 'aiuto che il Pakistan ha ricevuto dalla Cina per la costruzione delle propr ie armi nucleari: forn i tura di ura-nio da arricchire, assistenza in fase di progettazione della bom-ba e forse anche l'utilizzo di u n a base cinese per un test atomi-co. La Cina ha inoltre forni to al Pakistan missili balistici M - l l , con gittata di 300 km, caricabili con testate nucleari, violando con ciò un impegno preso nei confront i degli Stati Uniti. In cambio, la Cina ha ricevuto dal Pakistan tecnologia per il rifor-n imen to di aerei in volo e missili Stinger.'

6 «New York Times», 15 novembre 1991, p. Al ; «New York Times», 21 feb-braio 1992, p. A9; 12 dicembre 1993, p. 1; Jane Teufel Dreyer, «U.S. /China Military Relations: Sanclions or Rapprochment?», in «In Depth», n. 1 (Pri-mavera 1991), pp. 17-8; «Time», 16 dicembre 1991, p. 48; «Boston Globe», 5 febbraio 1994, p. 2; Monte R. Bullard, «U.S.-China Relations: The Strategie Calculus», in «Parameters», n. 23 (Estate 1993), p. 88. 7 Cit. in Karl W. Eikenberry, Explaining and Influencing Chinese Arms Transfers, Washington, D.C., National Defense University, Institute for National Strate-gie Studies, McNair Paper No. 36, febbraio 1995, p. 37; dichiarazione del go-verno pakistano, in «Boston Globe», 5 dicembre 1993, p. 19; R. Bates Gill, «Curbing Beijing's Arms Sales», in «Orbis», n. 36 (Estate 1992), p. 386; Chong-pin Lin, «Red Army», in «New Republic», 20 novembre 1995, p. 28; «New York Times», 9 maggio 1992, p. 31.

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Tabella 8.I Trasferimenti di armi cinesi, 1980-1991

Carri armati pesanti Mezzi blindati di trasporto truppe Missili guidati anticarro Pezzi d'artiglieria/lanciarazzi Aerei caccia Missili antinave Missili terra-aria

Iran 540 300

7500* 1200

140 332 788*

Pakistan Iraq 1100 1300

650 100 50 720

212 32

222*

* Consegne non tutte confermate. Fonte: Karl W. Eikenberry, Explaining and Influencing Chínese Arms Transfers, Washington, National Defense University, Institute for Na-tional Strategie Studies, McNair Paper n. 36, Febbraio 1995, p. 12.

All'inizio degli anni Novanta intensi rapport i di collabora-zione in campo militare e r ano in atto anche tra Cina e Iran. Duran te la guer ra tra Iran e Iraq, la Cina fornì all ' Iran il 22 per cento del totale delle importazioni i raniane di armi, e nel 1989 divenne il suo maggiore forni tore di armi. Inoltre la Cina ha att ivamente par tecipato agli sforzi iraniani, esplici tamente dichiarati , di acquisire armi nucleari . Dopo un p r imo «accor-do iniziale di cooperaz ione sino-iraniano», nel genna io del 1990 i due paesi raggiunsero un ' in tesa decenna le in mater ia di cooperazione scientifica e t rasfer imento di tecnologia mili-tare. Nel se t tembre del 1992 il presidente Rafsanjani, accom-pagnato da esperti nucleari iraniani, si recò in Pakistan e quin-di in Cina, dove firmò un altro accordo di cooperaz ione nu-cleare. Nel febbraio del 1993 la Cina acconsentì a costruire in Iran due reattori nucleari 300-MW. In ossequio a tali accordi, la Cina ha trasferito informazioni e tecnologia nucleare all'I-ran, ha addestrato scienziati e ingegneri iraniani e ha forni to all 'Iran un calutrone. Nel 1995, dietro for te pressione ameri-cana, la Cina accettò di «cancellare», secondo la versione ame-ricana, «sospendere» secondo quella cinese, la vendita dei due reattori 300-MW. La Cina è anche stata una g rande fornitr ice di missili e tecnologia missilistica all ' Iran, tra cui i missili Silkworm - via Corea del Nord - alla fine degli anni Ot tanta , e «decine, forse centinaia di sistemi di guida missilistici e mac-chinari computerizzati» nel 1994-1995. La Cina ha inoltre av-viato in Iran la p roduz ione su licenza di missili terra-terra. An-

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che la Corea del Nord si è uni ta a questa fo rma di assistenza, f o r n e n d o all'Iran missili Scud, a iu tandolo a sviluppare propr i stabilimenti produttivi e quindi acconsen tendo nel 1993 a r ifornire l 'Iran di missili N o d o n g 1 con gittata di 900 km. Pas-sando infine al terzo lato del tr iangolo, anche Iran e Pakistan h a n n o avviato un ' in tensa cooperaz ione in campo nucleare , con l 'addestramento di scienziati iraniani da parte del Paki-stan e l 'accordo, siglato nel novembre del 1992 da Pakistan, Iran e Cina per una collaborazione congiunta su progett i nu-cleari." Il sostanzioso aiuto of fe r to dalla Cina a Pakistan e Iran per lo sviluppo di armi di dis truzione di massa sottolinea lo straordinario livello di i m p e g n o e cooperaz ione tra questi paesi.

La conseguenza di questi sviluppi e delle potenziali minac-ce che pongono agli interessi occidental i è che la ques t ione della proliferazione delle armi di dis truzione di massa è pas-sata al primo posto ne l l ' agenda dei lavori de l l 'Occ iden te in materia di sicurezza. Nel 1990, ad esempio, il 59 per cento del l 'opinione pubblica amer icana pensava che imped i re la diffusione di armi nuclear i fosse u n impor tan te obiettivo di politica estera. Nel 1994 tale convinzione era condivisa dall '82 per cento de l l ' op in ione pubbl ica e dal 90 pe r cento dei responsabili della politica estera. Nel set tembre del 1993 il presidente Clinton sottol ineò la priori tà della non prolifera-zione, e ne l l ' au tunno del 1994 def inì «emergenza nazionale» la necessità di af f rontare «l'inusitata e gravissima minaccia po-sta alla sicurezza nazionale, alla politica estera e a l l ' economia degli Stati Uniti» dalla «proliferazione di armi nucleari , bio-logiche e chimiche e dei relativi mezzi di supporto». Nel 1991 la Cia creò un «Centro di non-proliferazione» cón u n o staff di cento persone, e nel d icembre del 1993 il segretario della Di-fesa americano Aspin a n n u n c i ò il varo di u n a «iniziativa di contro-proliferazione difensiva» e la creazione di u n a nuova

8 Richard A. Bitzinger, «Arms to Go: Chinese Arms Sales to the Third World», in «International Security», n. 17 (Autunno 1992), p. 87; Philip Rit-cheson, «Iranian Military Resurgence», pp. 576, 578; «Washington Post», 31 ottobre 1991, pp. Al , A24; «Time», 16 dicembre 1991, p. 47; «New York Ti-mes», 18 aprile 1995, p. A8; 28 settembre 1995, p. 1; 30 settembre 1995, p. 4; Monte Bullard, «U.S.-China Relations», p. 88; «New York Times», 22 g iugno 1995 p. 1; Gill, «Curbing Beijing's Arms», cit., p. 388; «New York Times», 8 aprile 1993, p. A9; 20 giugno 1993, p. 6.

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carica di vice segretario pe r la sicurezza e la contro-prolifera-zione nucleare.9

Durante la Guerra f redda , Stati Uniti e Unione Sovietica in-gaggiarono una classica corsa al r iarmo, sviluppando armi nu-cleari sempre più sofisticate e i mezzi per impiegarle. Si trattò di u n a duplice escalation contrapposta. Nel m o n d o post-Guer-ra f r edda la vera competizione nel campo degli a rmament i è di tipo diverso: gli antagonisti del l 'Occidente ten tano di procu-rarsi armi di distruzione di massa e l 'Occidente tenta di impe-dirlo. Non è un processo di duplice escalation, ma di escalation da un lato e conten imento dall 'altro. Dimensioni e potenzialità del l 'arsenale nucleare occidentale non r ient rano, retorica a parte, nella competizione. Il risultato di un processo di duplice escalation d ipende dalle risorse, da l l ' impegno profuso e dalla competenza tecnologica delle due parti, e non è prevedibile. Il risultato di un processo di contrapposizione tra escalation da un lato e con ten imento dall 'altro è invece più prevedibile. Gli sforzi profusi dal l 'Occidente possono rallentare la crescita del-l 'arsenale militare di un paese, ma non fermarla. Lo sviluppo economico e sociale delle società non occidentali, gli incentivi economici per tutte le società, occidentali e non, derivanti dal-la vendita di armi, tecnologia e know-how, gli incentivi politici degli stati guida e delle potenze regionali a d i fendere le pro-prie egemonie locali: tutto contribuisce a vanificare il tentativo di con ten imen to da par te occidentale.

Nel p ropagandare la n o n proliferazione delle armi come qualcosa di vantaggioso per tutte le nazioni, l 'Occidente fa di-pende re da essa l 'ordine e la stabilità internazionale. Altre na-zioni, tuttavia, r i tengono che essa serva esclusivamente gli inte-ressi egemonici occidentali. Ciò si spiega con il diverso angolo visuale con cui questo tema viene visto dal l 'Occidente - e in particolare dagli Stati Uniti - da un lato, e dalle potenze regio-nali - la cui sicurezza risulterebbe accresciuta dalla prolifera-zione - dall 'altro. Un esempio lampante al r iguardo è quello

9 John E. Reilly, «The Public Mood at Mid-Decade», in «Foreign Policy», n. 98 (Primavera 1995), p. 83; Executive Order 12930, 29 settembre 1994; Executi-ve Order 12938, 14 novembre 1994. Questi ultimi furono poi ampliati e fatti confluire nell 'Executive Order 12735, 16 novembre 1990, emanato dal presi-dente Bush e che proclamava lo stato di emergenza nazionale in materia di armi chimiche e biologiche.

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della Corea. Nel 1993 e 1994 gli Stati Uniti f u r o n o colti da un attacco di schizofrenia all ' idea che la Corea del Nord potesse disporre di armi nucleari. Nel novembre del 1993 il presidente Clinton a f fe rmò esplicitamente: «Non si p u ò permet te re che la Corea del Nord sviluppi una bomba atomica. Su questo p u n t o dobbiamo essere categorici». Senatori, deputat i ed ex funzio-nari del l 'amministrazione Bush discussero l 'eventualità di un attacco preventivo contro gli impianti nucleari nordcoreani . I timori statunitensi in meri to al p rogramma di r ia rmo nordco-reano derivavano in gran par te dalla paura di u n a possibile proliferazione su scala mondiale . Una simile eventualità limite-rebbe e compl icherebbe le possibilità di intervento amer icano in Asia orientale; oltretutto, se la Corea del Nord decidesse di vendere la propria tecnologia e / o le propr ie armi nucleari, lo stesso prob lema si po r rebbe per gli Stati Uniti anche in Asia meridionale e in Medio Oriente .

La Corea del Sud, dal canto suo, interpretava una simile even-tualità nell 'ottica dei propri interessi regionali. Molti sudcorea-ni consideravano una bomba nordcoreana semplicemente una bomba coreana, u n ' a r m a cioè che non sarebbe mai stata usata contro i sudcoreani, ma alla quale si sarebbe invece potuto ri-correre per difendere l ' indipendenza e gli interessi coreani con-tro il Giappone e altre potenziali minacce. I funzionari civili e gli ufficiali militari sudcoreani guardavano con esplicito favore all 'idea di una Corea unificata e dotata di tali capacità, scenario che avrebbe ot t imamente servito gli interessi del loro paese: la Corea del Nord avrebbe sostenuto i costi e la riprovazione della comunità internazionale per aver realizzato la bomba, la Corea del Sud avrebbe finito con l'impossessarsene. La combinazione di armi nucleari del Nord e potenziale industriale del Sud avrebbe consentito a una Corea unificata di assumere il ruolo di protagonista sulla scena est-asiatica. Ecco perché nel 1994 cir-colava a Washington la sensazione di una grave crisi in atto nel-la penisola coreana, ment re a Seul non si avvertiva nulla del ge-nere; questa differenza di vedute finì col creare una sorta di «gap di panico» tra le due capitali. Uno degli «aspetti curiosi dell 'azione di riequilibrio nucleare nordcoreano», osservò un giornalista nel giugno del 1994, al culmine, cioè, della «crisi», «è che la sensazione di crisi aumenta quanto più ci si allontana dalla Corea». Un simile divario tra gli interessi americani e quel-

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li delle potenze regionali in materia di sicurezza si è verificato anche in Asia meridionale, con gli Stati Unid più preoccupati per la proliferazione nucleare in corso in quella regione di quanto lo fossero gli abitanti stessi di quella regione. India e Pakistan trovavano più facile da accettare la reciproca minaccia militare che le proposte americane di limitare, r idurre o elimi-nare en t rambe le minacce.1"

I tentativi degli Stati Uniti e di altri paesi occidentali di im-pedire la proliferazione delle armi di distruzione di massa «equilibratrici» h a n n o avuto, e probabi lmente con t inue ranno ad avere, scarso successo. Un mese dopo aver dichiarato che non si poteva permet te re ai nordcorean i di possedere un ordi-gno nucleare, il presidente Clinton fu informato dai servizi se-greti che probabi lmente già ne avevano u n o o due ." Ciò in-dusse ovviamente gli americani a mutare la propr ia politica e a offr ire ai nordcoreani degli incentivi per indurli a non espan-dere il loro arsenale nucleare. Gli Stati Uniti non sono stati in grado neanche di impedire o arrestare lo sviluppo di armi nu-cleari da par te di India e Pakistan, né di ostacolare i progressi dell ' Iran in questo tal senso.

Alla conferenza sul Trattato di non proliferazione nucleare svoltasi nell 'aprile del 1995, il principale tema di discussione è stato se il trattato dovesse essere r innovato per un per iodo illi-mitato oppure per venticinque anni. Gli Stati Uniti guidavano il g r u p p o di coloro che propugnavano un p ro lungamento illi-mitato. Molti altri paesi, tuttavia, si dissero contrari a m e n o che l 'estensione non fosse accompagnata da una drastica r iduzione dell 'arsenale nucleare delle c inque potenze nucleari ufficial-men te riconosciute. Inoltre l 'Egitto si oppose al r innovo del trattato a m e n o che non lo avesse firmato anche Israele, accet-tando l'invio di ispezioni di controllo. Alla fine gli Stati Uniti r iuscirono a coagulare un vasto consenso in torno alla propr ia proposta di r innovo a t empo indefini to grazie a u n a ben assor-tita combinazione di pressioni, corruzione e minacce. Né l'E-gitto, né il Messico, ad esempio, che si e rano pronuncia t i en-trambi cont ro il r innovo a t empo inde termina to , p o t e r o n o

10 James Fallows, «The Panie Gap: Reactions to North Korea's Bomb», in «National Interest», n. 38 (Inverno 1994), pp. 40-5; David Sanger, «New York Times», 12 giugno 1994, p. 1, 16. 11 «New York Times», 26 dicembre 1993, p. 1.

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mantene re la propr ia posizione vista la loro forte d ipendenza economica dagli Stad Unid. Alla fine, il trattato fu approvato al-l 'unanimità, ma i rappresentanti di sette stad musulmani (Siria, Giordania, Iran, Iraq, Libia, Egitto e Malaysia) ed u n o di un paese afr icano (Nigeria) espressero in sede di dibattito conclu-sivo il propr io dissenso.12

Nel 1993 la strategia del l 'Occidente , espressa nella linea po-litica americana, è passata dalla non-proliferazione alla contro-proliferazione. Il m u t a m e n t o riflette un realistico riconosci-men to dell'inevitabilità di un certo livello di proliferazione nu-cleare. A t empo debito, l 'America passerà da u n a politica di contro-proliferazione a una di accettazione della proliferazione e infine, se il governo riuscirà a liberarsi della propria menta-lità «da Guerra fredda», a u n a politica che studi l 'utilità di u n a promozione della proliferazione per gli interessi americani e occidentali. Nel 1995, tuttavia, Stati Uniti e Occidente e rano ancora legati a una polidca di con ten imen to destinata a fallire. La proliferazione delle armi nucleari e di altri mezzi di distru-zione di massa è un e lemento centrale della lenta ma inevitabi-le diffusione del potere in un m o n d o suddiviso in più civiltà.

Diritti umani e democrazia

Negli anni Settanta e Ot tanta oltre t renta paesi passarono da un sistema politico autori tario a u n o democrat ico. Questo cospicuo f e n o m e n o ha diverse cause. Il motore principale di si-mili mutament i politici è stato indubbiamente lo sviluppo eco-nomico. Oltre a questo, tuttavia, le pol idche e le iniziadve degli Stati Unid e delle maggiori potenze e istituzioni eu ropee occi-dentali h a n n o contribuito a instaurare la democrazia in Spagna e in Portogallo, in mold paesi latinoamericani, nelle Filippine, in Corea del Sud e in Europa orientale. Il processo di demo-cratizzazione ha avuto maggior successo nei paesi in cui più for te era l ' influenza cristiana e occidentale. La stabilizzazione dei nuovi regimi democratici appariva più probabile nei paesi del l 'Europa centrale e meridionale prevalentemente cattolici o protestanti nonché , in misura minore , in quelli latinoamerica-

12 «Washington Post», 12 maggio 1995, p. 1.

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ni. In Asia orientale le Filippine, paese con forte influenza cat-tolica e americana, sono tornate alla democrazia negli anni Ot-tanta; anche il passaggio alla democrazia in Corea del Sud e a Taiwan fu promosso da leader cristiani. Come è già stato osser-vato, nell 'ex Unione Sovietica le repubbl iche baltiche sembra-no poter stabilizzare con successo i rispettivi regimi democrati-ci; nelle repubbl iche ortodosse, tenore e grado di stabilità del-la democrazia variano considerevolmente e sembrano ancora incerti; fosche invece appa iono le prospettive di sviluppo de-mocratico nei paesi musulmani . Negli anni Novanta, a eccezio-ne di Cuba, la transizione alla democrazia era avvenuta in qua-si tutti i paesi, Africa esclusa, le cui popolazioni avevano ab-bracciato il cristianesimo o dove l ' influenza cristiana era co-m u n q u e molto forte.

Tutte queste transizioni, unite al crollo del l 'Unione Sovietica, h a n n o diffuso in Occidente, e part icolarmente negli Stati Uniti, la convinzione che fosse in atto una rivoluzione democrat ica universale e che in breve tempo la visione occidentale del con-cetto di diritti umani e le fo rme occidentali di democrazia poli-tica avrebbero prevalso in tutto il mondo . Promuovere la diffu-sione della democrazia divenne quindi un obiettivo primario per gli occidentali, fatto propr io dall 'amministrazione Bush al-lorché nell 'aprile del 1990 il segretario di Stato James Baker, di-chiarò che «Al di là del conten imento c 'è la democrazia», e che per il m o n d o post-Guerra f r edda «il presidente Bush ha indica-to quale nostra nuova missione la promozione e il consolida-men to della democrazia». Durante la campagna elettorale del 1992 Bill Clinton af fermò r ipetutamente che la promozione del-la democrazia sarebbe stata un obiettivo prioritario della sua amministrazione, tanto che la democratizzazione fu l 'unico te-ma di politica estera al quale dedicò un intero discorso eletto-rale. Una volta eletto, Clinton propose di aumentare di due ter-zi gli stanziamenti per il Fondo nazionale per la democrazia; il suo assistente alla sicurezza nazionale indicò come pun to quali-ficante della politica estera del presidente 1'«ampliamento della democrazia»; e il suo segretario alla Difesa indicò nella promo-zione della democrazia u n o dei quat tro obiettivi prioritari del governo, cercando anche di istituire nel proprio d ipar t imento un alto ufficio specificamente preposto alla promozione di tale obiettivo. In misura minore e in modi m e n o evidenti, la promo-

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zione dei diritd umani e della democrazia ha assunto un ruolo impor tante anche nella politica estera degli stad europei e nei criteri di attribuzione di prestiti e sovvenzioni ai paesi in via di sviluppo da par te delle istituzioni economiche internazionali controllate dall 'Occidente.

A tutto il 1995, gli sforzi americani ed europei di raggiunge-re questi traguardi avevano registrato un successo solo parziale. Quasi tutte le civiltà non occidentali si sono dimostrate reti-centi alle pressioni occidentali, ivi inclusi i paesi induisti, orto-dossi, africani e in certa misura persino quelli lat inoamericani. La resistenza più tenace ai tentativi di democratizzazione occi-dentali è giunta tuttavia dal m o n d o islamico e dall'Asia: una re-sistenza le cui radici vanno ricercate nei più generali movi-ment i di au topromozione culturale incarnati nella Rinascita islamica e nel l 'a f fermazione asiatica.

I fallimenti della politica americana in Asia derivano princi-pa lmente dalla crescente prosperi tà economica e sicurezza di sé esibite dai governi asiatici. I pubblicisti asiatici h a n n o più volte r icordato al l 'Occidente che l 'epoca della d ipendenza e della subordinazione era ormai finita: l 'Occidente che negli anni Quaran ta rappresentava la metà della produzione mon-diale, l 'Occidente domina to re delle Nazioni Uni te e autore della «Dichiarazione universale sui diritti umani» faceva ormai parte della storia. «Gli sforzi di promozione dei diritti umani in Asia», ha sostenuto un funzionar io di Singapore, «devono te-ne r con to anche della diversa distribuzione del po tere nel m o n d o post-Guerra f r edda ... L ' influenza occidentale sull'Asia orientale e sudorientale si è fo r t emente ridotta»."

Proprio così. Se l 'accordo in materia di nucleare stipulato tra Stati Uniti e Corea del Nord po t rebbe essere defini to u n a «re-sa negoziata», la capitolazione americana in materia di diritti umani nei confront i della Cina e di altre potenze asiatiche è stata u n a vera e propria resa incondizionata. Dopo aver minac-ciato la Cina di negarle lo status di nazione favorita se non si fosse mostrata più conciliante in materia di diritti umani , l 'am-ministrazione Clinton pr ima subì l 'umiliazione inflitta a Pechi-no al propr io segretario di Stato, d o p o di che r inunciò alla pro-pria linea politica, separando la quest ione dello status di nazio-

13 Bilahari Kausikan, «Asia's Different Standard», in «Foreign Policy», n. 92 (Autunno 1993), pp. 28-9.

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ne favorita da quella dei diritti umani . Dinanzi a questa mani-festazione di debolezza, la Cina ovviamente perseverò nell'at-teggiamento di ostilità stigmatizzato dall 'amministrazione Clin-ton, che in seguito ha subito un altro scacco a Singapore, ri-guardo alla fustigazione di un cittadino americano, e in Indo-nesia, r iguardo alla violenta repressione messa in atto dal go-verno locale a Timor orientale.

Diversi fattori h a n n o contr ibui to a rafforzare la capacità dei regimi asiatici di resistere alle pressioni occidentali in materia di diritti umani . Gli imprendi tor i europei e americani e rano bramosi di espandere i loro commerci e i loro investimenti in questi paesi in rapido sviluppo e h a n n o fo r temente p r emu to sui propr i governi aff inché i rappor t i economici con quei pae-si non si guastassero. Va anche det to che i paesi asiatici h a n n o in terpreta to le pressioni occidentali come una violazione della propr ia sovranità, accor rendo in reciproco aiuto ogni qual vol-ta se ne presentava la necessità. Gli imprendi tor i giapponesi, di Taiwan e di H o n g Kong che avevano investito in Cina avevano g rande interesse a che questa preservasse il propr io status di nazione favorita rispetto agli Stati Uniti. Di n o r m a il governo n ipponico ha preso le distanze dalla politica americana in ma-teria di diritti umani: «Non permet te remo», a f fe rmò il p r imo ministro Kiichi Miyazawa non molto t empo dopo i fatti di Piaz-za T ienanmen , che «astratte nozioni sui diritti umani influen-zino i nostri rapport i con la Cina». I paesi dell 'Asean si mostra-rono refrattari a esercitare pressioni sulla Birmania, e accolsero anzi con calore nel 1994 la partecipazione della giunta militare b i rmana al loro convegno, men t re l 'Unione europea, coni 'eb-be a dire il suo portavoce, dovette riconoscere che la propria li-nea politica «non aveva avuto molto successo» e che nei con-front i della Birmania si sarebbe dovuta adeguare all'atteggia-m e n t o dell 'Asean. Inoltre il crescente potere economico ha permesso a stati quali Malaysia e Indonesia di applicare «con-dizionamenti negativi» nei confront i di paesi e aziende critici nei loro confront i o rei di aver assunto altri tipi di atteggia-men to ritenuti deplorevoli.14

14 «Economist», 30 luglio 1994, p. 31; 5 marzo 1994, p. 35; 27 agosto 1994, p. 51; Yash Ghai, «Human Rights and Governance: The Asian Debate» (Asian Foundation Center for Asian Pacific Affairs, Occasionai Paper No. 4, Novem-bre 1994), p. 14.

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Nel complesso, la crescente forza economica r ende i paesi asiatici sempre più immuni alle pressioni occidentali in materia di diritti umani e di democrazia. «L'odierno potere economico della Cina», osservò Richard Nixon nel 1994, «rende a lquanto incaute le conferenze americane sul tema dei diritti umani . Tra dieci anni le r enderà irrilevanti. Tra venti, ridicole».1 ' In quel-l 'epoca, tuttavia, lo sviluppo economico cinese po t rebbe aver reso inutili quelle conferenze. La crescita economica sta raffor-zando i governi asiatici in r appor to a quelli occidentali. Nel lungo periodo, essa rafforzerà anche le società asiatiche in rap-por to ai governi asiatici. Se la democrazia prevarrà in altri pae-si asiatici, sarà perché così h a n n o deciso le classi medie e bor-ghesi asiatiche, la cui forza è in costante ascesa.

A differenza del l 'accordo sul p ro lungamento a t empo inde-terminato del trattato sulla non proliferazione degli a rmamen-ti, gli sforzi occidentali di p romozione della democrazia e della difesa dei diritti umani nel l 'ambito delle Nazioni Unite sono sfociati in un nulla di fatto. T ranne poche eccezioni, come la condanna dell 'Iraq, le risoluzioni in materia di diritti umani so-no state quasi sempre sconfìtte nelle votazioni alle Nazioni Uni-te. A eccezione di alcuni paesi latinoamericani, gli altri governi si sono mostrati riluttanti ad appoggiare quella che molti han-no defini to u n a fo rma di «imperialismo dei diritti umani». Nel 1990, ad esempio, la Svezia sottopose a n o m e di venti nazioni occidentali u n a mozione di condanna del regime militare bir-mano, ma l 'opposizione dei paesi asiatici e di altre regioni la affossò. Anche le risoluzioni di condanna per gli abusi cont ro i diritd umani perpetrat i dall ' Iran sono state respinte, e a part ire dal 1990 la Cina è riuscita per c inque anni di fila a mobilitare il sostegno asiatico a propr io favore, men t re le risoluzioni avan-zate dal l 'Occidente, che esprimevano preoccupazione per le violazioni dei diritti umani in Cina, non passarono. Nel 1994 il Pakistan presentò alla Commissione delle Nazioni Unite per i diritti umani una risoluzione di condanna per gli abusi perpe-trati dal l ' India nel Kashmir. I paesi alleati del l ' India votarono contro, ma lo stesso fecero due dei paesi più vicini al Pakistan, Cina e Iran, anch'essi già bersaglio di mozioni simili, i quali persuasero il Pakistan a ritirare la proposta. Non essendo riu-

15 Richard M. Nixon, Beyond Peace, New York, Randoni House, 1994, pp. 127-8.

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scita a condanna re la brutali tà indiana nel Kashmir, osservò l '«Economist», la Commissione delle Nazioni Unite per i dirit-ti umani l'aveva «di fatto sanzionata. Vi sono anche altri paesi resisi colpevoli di omicidio e che restano impuniti: Turchia, In-donesia, Colombia e Algeria n o n h a n n o subito critiche di nes-sun tipo. In questo modo , la commissione aiuta di fatto i go-verni che prat icano la tor tura e l 'omicidio di massa, il che è l'e-satto contrar io di quan to si e rano proposti i suoi promotori».1"

La disparità di vedute tra l 'Occidente e le altre civiltà sul te-ma dei diritti umani e la r idotta capacità del pr imo di perse-guire i propr i obiettivi sono apparse in tutta la loro evidenza in occasione della Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sui diritti umani svoltasi a Vienna nel 1993. Da un lato c ' e rano i paesi europei e nordamericani ; dall 'altro, un blocco di circa c inquanta stati non occidentali i cui quindici membr i più attivi comprendevano i governi di un paese la t inoamericano (Cu-ba), u n o buddista (Birmania) , quat t ro paesi confuciani con ideologie politiche, sistemi economici e livelli di sviluppo mol-to diversi tra loro (Singapore, Vietnam, Corea del Nord e Cina) e nove paesi musulmani (Malaysia, Indonesia, Pakistan, Iran, Iraq, Siria, Yemen, Sudan e Libia). A capo di questo blocco asiatico-islamico c ' e rano Cina, Siria e Iran. A metà strada tra questi due raggruppament i c ' e rano i paesi la t inoamericani ( t ranne Cuba) , spesso schierati a fianco dell 'Occidente, e i pae-si africani e ortodossi, talora favorevoli ma più spesso in con-trasto con le posizioni occidentali.

I principali temi su cui le nazioni vennero a schierarsi in base al criterio della civiltà di appar tenenza furono: universalismo contro relativismo culturale in materia di diritti umani; priorità relativa dei diritti economici e sociali, compreso il diritto allo sviluppo, sui diritti politici e civili; rappor to tra assistenza eco-nomica e condizionamento politico; creazione di una Commis-sione delle Nazioni Unite per i diritti umani; limiti d ' in tervento delle organizzazioni non governative per la difesa dei diritti umani - anch'esse riunite a Vienna in quello stesso per iodo - al-la conferenza governativa; diritti particolari che la conferenza avrebbe dovuto promuovere. Vi f u r o n o anche alcuni temi più specifici come ad esempio se consentire al Dalai Lama di pren-

16 «Economist», 4 febbraio 1995, p. 30.

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dere la parola alla conferenza e se condannare esplicitamente gli abusi dei diritti umani perpetrat i in Bosnia.

Su tutti questi temi emersero grandi differenze tra i paesi occidentali e il blocco asiatico-islamico. Due mesi pr ima della conferenza di Vienna, i paesi asiatici si e rano riuniti a Bangkok e avevano redat to una dichiarazione nella quale si sottolineava come la quest ione dei diritti umani dovesse essere considerata «nel contesto ... delle peculiarità regionali e nazionali e dei va-ri re t roterra storici, religiosi e culturali», che il controllo sul ri-spetto dei diritti umani violava la sovranità degli stati e che il condizionare l'assistenza economica al p ieno rispetto dei dirit-ti umani violasse il diritto allo sviluppo. Le differenze su questa come su altre questioni e rano così marcate che quasi ogni riga del documen to prodot to nella r iunione di preparazione alla conferenza di Vienna, svoltasi a Ginevra ai primi di marzo, fu messo tra parentesi, a indicare il dissenso di u n o o più paesi.

Le nazioni occidentali erano andate a Vienna impreparate, al-la conferenza fu rono numericamente surclassate e nel corso dei lavori fecero diverse concessioni dei loro antagonisti. Così, a par-te un forte richiamo alla difesa dei diritti delle donne, la dichia-razione approvata dalla conferenza conteneva obiettivi minimi. Si trattò, come disse un sostenitore dei diritti umani, di un docu-mento «fiacco e contraddittorio», una vittoria per la coalizione asiatico-islamica e una sconfitta per l 'Occidente.1 ' La dichiarazio-ne di Vienna non conteneva alcun richiamo specifico ai diritti concernenti la libertà di parola, di stampa, di riunione e di reli-gione, ed era dunque sotto molti aspetti più debole della «Di-chiarazione universale dei diritti umani» adottata dalle Nazioni Unite nel 1948. Un siffatto epilogo era il chiaro riflesso del dimi-nuito potere dell 'Occidente. «Il regime internazionale dei diritti umani del 1945 non esiste più. L'egemonia americana si è inde-bolita. L'Europa, anche dopo gli avvenimenti del 1992, è poco più di una penisola. Il m o n d o è oggi arabo, asiatico e africano nella stessa misura in cui è occidentale. Oggi la Dichiarazione universale dei diritti umani e i trattati internazionali sono m e n o rilevanti per gran parte del pianeta di quanto lo fossero nell'im-mediato secondo dopoguerra». Opinioni simili fu rono espresse

17 Charles J. Brown, «In the Trenches: The Battle Over Rights», in «Freedom Review», n. 24 (Settembre-Ottobre 1993), p. 9; Douglas W. Payne, «Show-down in Vienna», ibid., pp. 6-7.

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anche da un critico asiatico dell 'Occidente: «Per la prima volta dai tempi della Dichiarazione universale del 1948 i paesi che non si fondano sulla tradizione ebraico-cristiana e sul giusnaturalismo assurgono a un ruolo di pr imo piano. E una realtà senza prece-denti che determinerà una nuova politica internazionale dei di-ritti umani. E moltiplicherà le occasioni di conflittualità».'"

«La grande vincitrice» a Vienna, osservò un altro commen-tatore, «è stata chiaramente la Cina, quan to m e n o se il succes-so si misura in base alla capacità met tere in ombra gli altri. Du-rante l ' intera conferenza Pechino ha vinto grazie al peso della propr ia semplice presenza».19 Surclassato a Vienna, l 'Occidente riuscì n o n d i m e n o a o t tenere pochi mesi dopo una non insi-gnificante rivincita nei confront i della Cina. Ot tenere l'asse-gnazione delle Olimpiadi estive del 2000 a Pechino era un obiettivo importantissimo per il governo cinese, che aveva in-vestito a questo scopo ingenti risorse. In Cina la pubblicità sul-la scommessa delle Olimpiadi era stata immensa e le aspettati-ve del l 'opinione pubblica molto alte; Pechino aveva chiesto ad altri governi di fare pressione sui rispettivi comitati olimpici. Taiwan e H o n g Kong par tec iparono attivamente a questa cam-pagna di sensibilizzazione. Sul versante opposto, il Congresso americano, il Par lamento eu ropeo e le organizzazioni per la difesa dei diritti umani e rano tutti tenacemente schierati con-tro Pechino. Sebbene le votazioni nel Comitato olimpico inter-nazionale siano segrete, il loro andamen to fu un palese riflesso delle scelte dei rispettivi schieramenti culturali. Al p r imo bal-lottaggio Pechino, forte del l 'ampio sostegno dei paesi africani, risultò pr ima e Sydney seconda. Al successivo ballottaggio, do-po l 'el iminazione di Istanbul, l'asse islamico-confuciana riversò massicciamente i propr i voti su Pechino; q u a n d o Berlino e Manchester f u r o n o eliminate, i voti a loro favore andarono pre-valentemente a Sydney, che in tal m o d o poté r iportare nel cor-so della quar ta votazione una sonante vittoria e infliggere alla Cina un 'umi l ian te sconfitta, di cui il governo cinese addossò esplicitamente la responsabilità agli Stati Uniti (vedi Tabella 8.2 a p. 288). «America e Gran Bretagna», c o m m e n t ò Lee

18 Charles Norclii, «The Ayatollah and the Author: Rethinking Human Ri-ghts», in «Yale Journal of World Affairs», n. 1 (Estate 1989), p. 16; Kausikan, «Asia's Different Standard», p. 32. 19 Richard Cohen, «The Earth Times», 2 agosto 1993, p. 14.

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Kuan Yew, «sono riuscite a r idimensionare la Cina ... Il modvo ufficiale era la questione dei "diritti umani". La vera ragione era tuttavia politica: d imostrare l 'autori tà politica dell 'Occi-dente».20 Senza dubbio nel m o n d o ci sono molte più persone interessate allo sport che non alla questione dei diritti umani , ma alla luce delle sconfitte subite dal l 'Occidente a Vienna e al-trove in materia di diritti umani , questa isolata dimostrazione di «autorità» occidentale è valsa a r icordare u n a volta di più la debolezza del l 'Occidente.

Non solo l 'autorità dell 'Occidente è diminuita, ma il parados-so della democrazia indebolisce altresì la sua volontà di pro-muovere lo sviluppo democratico nel m o n d o post-Guerra fred-da. Durante la Guerra f redda l 'Occidente e l 'America in parti-colare ebbero il problema del «tiranno amico», la necessità cioè di collaborare con giunte militari e dittatori anticomunisti, utili in quanto tali. Questa collaborazione produceva disagio e a volte imbarazzo allorché questi regimi commettevano flagranti viola-zioni dei diritti umani, ma poteva comunque essere giustificata come il male minore: erano generalmente meno repressivi dei regimi comunisti e considerati m e n o durevoli e comunque più sensibili all 'influenza americana e di altri paesi. Perché dunque non collaborare con un tiranno amico e m e n o brutale, se l'al-ternativa è un tiranno nemico e più brutale? Nel m o n d o post-Guerra f redda la scelta, ben più difficile, potrebbe essere quella tra un tiranno amico e una democrazia ostile. Il superficiale pre-supposto occidentale secondo cui i governi democrat icamente

Tabella 8.2 Olimpiadi del 2000. Esito delle votazioni dei quattro ballottaggi

Prima Seconda Terza Quarta Pechino 32 37 40 43 Sydney 30 30 37 45 Manchester 11 13 11 -

Berlino 9 9 - -

Istanbul 7 - - -

Astenuti - - 1 1 Totale 89 89 89 89

20 «New York Times», 19 settembre 1993, p. 4E; 24 settembre 1993, pp. 1, B9, B16; 9 settembre 1994, p. A26; «Economist», 21 settembre 1993, p. 75; 18 set-tembre 1993, pp. 37-8; «Financial Times», 25-26 settembre 1993, p. 11; «Straits Times», 14 ottobre 1993, p. 1.

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eletti saranno sempre cooperativi e fìloccidentali non si dimostra necessariamente vero per le società non occidentali, dove la compedzione elettorale può portare al potere forze nazionaliste e fondamentaliste antioccidentali. L'Occidente tirò un sospiro di sollievo allorché nel 1992 l'esercito algerino intervenne per an-nullare le elezioni che il Fis fondamentalista aveva chiaramente vinto, e altrettanto fece allorché il fondamentalista Partito del Benessere in Turchia e i nazionalisti del Bjp in India f u r o n o esclusi dal potere pur avendo ot tenuto delle sonanti vittorie elet-torali nel 1995 e 1996. D'altro canto, nell 'ambito della propria ri-voluzione l 'Iran vanta per certi aspetti u n o dei regimi più demo-cratici del mondo islamico. In molti paesi arabi, ivi compresi Ara-bia Saudita ed Egitto, libere elezioni p rodur rebbero quasi certa-mente dei governi molto m e n o rispondenti agli interessi occi-dentali rispetto ai loro predecessori non democratici. Un gover-no popolarmente eletto in Cina avrebbe un forte stampo nazio-nalista. Via via che i leader occidentali si r endono conto che i processi democratici nelle società non occidentali p roducono spesso governi ostili all 'Occidente, tentano di influenzare tali elezioni e al contempo pe rdono ogni entusiasmo per la promo-zione della democrazia in quelle società.

Immigrazione

Se la demograf ia è il dest ino del mondo , i movimenti demo-grafici sono il motore della storia. Nei secoli passati, tassi di crescita, condizioni economiche e scelte polit iche diseguali h a n n o prodot to massicci flussi migratori di greci, ebrei, tribù germaniche , normanni , turchi, russi, cinesi ed altri popoli . In alcuni casi, questi movimenti sono stati relativamente pacifici, in altri molto più violenti. Nel l 'Ot tocento, tuttavia, gli europei sono stati la razza dominan te in materia di invasione demogra-fica. Tra il 1821 e il 1924, circa 55 milioni di europei emigraro-no ol treoceano, di cui 34 milioni negli Stati Uniti. Gli occiden-tali h a n n o conquistato e a volte spazzato via altri popoli, h a n n o esplorato e colonizzato terre m e n o densamente abitate. L'e-sportazione di uomini e d o n n e è stato forse l 'aspetto più im-por tan te dell 'ascesa del l 'Occidente tra il xvi e il xx secolo.

L'ultima parte del nostro secolo ha assistito a un'esplosione di-

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versa e ancor più forte del f e n o m e n o della migrazione. Nel 1990, gli emigrati ufficiali nel m o n d o erano circa 100 milioni, i rifugiati circa 19 milioni e gli emigrati clandestini probabilmen-te non meno di 10 milioni. Questa nuova ondata migratoria fu in parte il prodot to della decolonizzazione, della creazione di nuo-vi stati e di politiche di governo che stimolavano od obbligavano la popolazione a partire. Tuttavia fu anche il f rut to della moder-nizzazione e dello sviluppo tecnologico. Il migl ioramento dei mezzi di trasporto rese la migrazione più agevole, rapida ed eco-nomica. Nuovi mezzi di comunicazione accrebbero gli incentivi a perseguire nuove oppor tuni tà economiche e favorirono il manten imento dei rapporti tra gli emigrati e le proprie famiglie di origine. Inoltre, così come nel xix secolo la crescita economi-ca dell 'Occidente aveva stimolato l 'emigrazione, lo sviluppo del-le società non occidentali l 'ha stimolata nel xx. Quello dell'emi-grazione è d u n q u e un processo a catena. «Se c'è una "legge" in materia di migrazioni», sostiene Myron Weiner, «è che un flusso migratorio, una volta iniziato, si autoalimenta. Gli emigrati con-sentono ad amici e parenti del paese di origine di emigrare a lo-ro volta, o f f rendo loro informazioni, risorse per agevolare il tra-sferimento ed assistenza nella ricerca di una casa e di un lavoro». Il risultato? «Una crisi migratoria globale».21

Gli occidentali si sono sempre pressoché unan imemente op-posti alla proliferazione nucleare, e hanno sempre perorato la democrazia e la difesa dei diritti umani. Le loro opinioni in tema di migrazione, viceversa, si sono rivelate variabili, con un marca-to mutamento di indirizzo nell 'ult imo ventennio. Fino agli anni Settanta, i paesi europei si sono mostrati generalmente ben di-sposti nei confronti dell ' immigrazione, in alcuni casi - princi-palmente in Germania e Svizzera - f inanche incoraggiandola per ovviare alla carenza di manodopera locale. Nel 1965 gli Stati Uniti abolirono le quote-limite di immigrati europei introdotte negli anni Venti e modificarono drasticamente le proprie leggi; questo portò, negli anni Settanta e Ottanta, a un 'espansione de-gli immigrati sia come numero sia come paesi di origine. Alla fi-ne degli anni Ottanta, tuttavia, gli alti tassi di disoccupazione, il flusso sempre crescente di immigrati e la loro provenienza pre-valentemente «non europea» h a n n o prodot to un p ro fondo mu-

21 Le cifre e le citazioni sono tratte da Mvron Weiner, Global Migralìov C.risis, New York, Harper Collins, 1995, pp. 21-28.

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tamento negli atteggiamenti e nelle politiche immigratorie degli europei. Alcuni anni dopo, preoccupazioni dello stesso tenore hanno indotto cambiamend analoghi anche negli Stati Uniti.

La maggior parte degli emigranti e rifugiati di questi decenni si è spostata da una società non occidentale a un'al tra. Il flusso immigratorio nelle società occidentali, tuttavia, ha quasi rag-giunto in termini numerici l 'emigrazione occidentale del seco-lo scorso. E stato calcolato che nel 1990 c 'e rano 20 milioni di immigrati negli Stati Uniti, 15,5 milioni in Europa e 8 milioni in Australia e Canada. La percentuale di immigrati rispetto alla popolazione totale ha raggiunto nei maggiori paesi europei il 7-8 per cento. Negli Stati Uniti, nel 1994 gli immigrati costituiva-no l'8,7 per cento della popolazione complessiva, il doppio ri-spetto a quella del 1970, ma ben il 25 per cento di quella ca-liforniana e il 16 per cento di quella newyorkese. Circa 8,3 mi-lioni di persone sono entrate negli Stati Uniti negli anni Ottan-ta e 4,5 milioni nei primi quat t ro anni del decennio successivo.

I nuovi immigrati provenivano prevalentemente da società non occidentali. In Germania , nel 1990 i residenti stranieri tur-chi erano 1.675.000, seguiti da jugoslavi, italiani e greci. In Italia le principali fonti di immigrazione sono Marocco, Stati Uniti (presumibilmente in gran par te italo-americani rientrati in pa-tria) , Tunisia e Filippine. A metà degli anni Novanta, circa 4 mi-lioni di musulmani vivevano in Francia e ben 13 milioni in tutta l 'Europa occidentale. Negli anni Cinquanta, i due terzi degli immigrati negli Stati Uniti provenivano dal l 'Europa e dal Cana-da; negli anni Ottanta, circa il 35 per cento della ben più cospi-cua comunità di immigrati proveniva dall'Asia, il 45 per cento dall 'America latina e m e n o del 15 per cento dal l 'Europa e dal Canada. La crescita demograf ica naturale è bassa negli Stati Uniti e prat icamente nulla in Europa. Le comunità di immigra-ti presentano invece alti tassi di fertilità e rappresentano dun-que il grosso della fu tura crescita demografica delle società oc-cidentali. Perciò, gli occidentali h a n n o sempre più paura di «es-sere invasi non da eserciti e carri armati ma da orde di immi-grati che parlano un 'a l t ra lingua, p regano un altro Dio, appar-tengono a un'al tra cultura e che, temono, r u b e r a n n o i loro po-sti di lavoro, occuperanno la loro terra, dis t ruggeranno lo stato sociale e minacceranno il loro stile di vita».22 Queste fobie, che

22 /bui., p. 2.

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af fondano le radici nel processo di reladvo declino demografico in atto, dice Stanley H o f f m a n n , «sono fondate su reali scontri culturali e umori sul destino della propria identità nazionale».21

Nei primi anni Novanta, i due terzi degli immigrati europei e rano musulmani , e i t imori degli europei in materia di immi-grazione r iguardano soprat tut to l ' immigrazione musulmana . La sfida è al con tempo demograf ica - i figli di immigrati costi-tuiscono il 10 per cento delle nascite in Europa occidentale, a Bruxelles il 50 per cento dei nuovi nati sono figli di immigrati arabi - e culturale. Le comuni tà musulmane, si tratti di quelle turche in Germania o quelle algerine in Francia, non si sono integrate nelle culture dei paesi ospitanti, né mostrano segnali in tal senso, e questo suscita forti timori tra gli europei . «C'è una crescente paura in tutta Europa», a f fe rmò nel 1991 Jean Marie Domenach , «di una comuni tà musulmana che tagli tra-sversalmente i confini europei , una sorta di tredicesima nazio-ne della Comuni tà europea». Nei riguardi degli immigrati, ha commenta to un giornalista americano,

l'ostilità europea ha un carattere curiosamente selettivo. Pochi in Francia temono un'invasione dall'Est: in fin dei conti i polacchi sono europei e cattolici. E in linea di massima, gli immigrati africani non arabi non sono né temuti né disprezzati. L'ostilità è diretta principalmente contro i mu-sulmani. Il termine «immigré» è praticamente sinonimo di Islam, oggi la seconda maggiore religione in Francia, e riflette un razzismo etnico e culturale che ha radici assai profonde nella storia francese.'4

Più che razzisti in senso stretto, tuttavia, i francesi sono estre-mamente gelosi della propria cultura. H a n n o accettato nel loro paese i neri africani che par lano per fe t tamente francese, ma non accettano le ragazze musulmane che vanno a scuola con il velo islamico. Nel 1990, il 76 per cento del l 'opinione pubblica francese pensava che in Francia ci fossero troppi arabi, il 46 per

23 Stanley Hoffmann, «The Case for Leadeship», in «Foreign Policv», n. 81 (Inverno 1990-91), p. 30. 24 Si veda B. A. Roberson, «Islam and Europe: An Enigma or a Myth?», in «Middle East Journal», n. 48 (Primavera 1994), p. 302; «New York Times», 5 dicembre 1993, p. 1; 5 maggio 1995; p. l ;Joel Klotkin e Andries van Agt, «Be-douins: Tribes That Have Made it», in «New Perspectives Quarterly», n. 8 (Autunno 1991), p. 51; Judith Miller, «Strangers at the Gate», in «New York Times Magazine», 15 settembre 1991, p. 49.

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cento che ci fossero troppi neri, il 40 per cento troppi asiatici e il 24 per cento troppi ebrei. Nel 1994, 47 tedeschi su cento affer-marono che avrebbero preferi to non avere arabi residend nel propr io quartiere, 39 su cento che non volevano polacchi, 36 su cento non volevano turchi e 22 su cento non volevano ebrei.2. In Europa occidentale, l 'antisemitismo verso gli ebrei è stato in lar-ga parte soppiantato dall 'antisemitismo verso gli arabi.

L'opposizione all ' immigrazione e l'ostilità nei confront i de-gli immigrati da parte del l 'opinione pubblica si è manifestata anche con atti di violenza contro individui o comuni tà di im-migrati, un f e n o m e n o che nei primi anni Novanta divenne in Germania un vero e propr io caso nazionale. Ancor più sinto-matica è stata la crescita elettorale dei partiti di destra, nazio-nalisti e anti-immigrazione. Crescita che, tuttavia, è stata ben di rado rilevante. In Germania , il Partito repubbl icano o t t enne oltre il 7 per cento dei voti alle elezioni europee del 1989, ma solo il 2,1 per cento alle elezioni nazionali del 1990. In Francia i consensi al Fronte Nazionale, pressoché trascurabili nel 1981, passarono al 9,6 nel 1988 per stabilizzarsi poi tra il 12 e il 15 per cento alle elezioni regionali, par lamentar i e presidenziali. Nel 1995 i due candidati nazionalisti alla presidenza o t t ennero il 19,9 per cento dei voti e il Fronte nazionale riuscì a far elegge-re propr i uomini alla carica di sindaco in diverse città, tra cui Tolone e Nizza. In Italia, i voti andati al Msi/Destra nazionale sono passati da circa il 5 per cento negli anni Ot tanta al 10-15 per cento nei primi anni Novanta. In Belgio, il Blocco fiam-m i n g o / F r o n t e nazionale raggiunse al 9 per cento nelle elezio-ni locali del 1994 (ma ad Anversa il Blocco o t t enne il 28 per cento dei voti). In Austria i voti ot tenuti dal Partito della Li-ber tà alle elezioni generali sono passati da m e n o del 10 per cento nel 1986 a oltre il 15 per cento nel 1990 f ino a quasi il 23 per cento nel 1994."°

Questi partiti europei che si opponevano all ' immigrazione musu lmana e rano in larga par te l ' immagine speculare dei par-

25 «International Herald Tribune», 29 maggio 1990, p. 5; «New York Times», 15 settembre 1994, p. A21. L'elezione francese fu sponsorizzata dal governo francese; quella tedesca dal Comitato ebraico-americano. 26 Si veda Hans-George Betz, «The New Politics of Resentment: Radicai Ri-ght-Wing Populist Parties in Western Europe», in «Comparative Politics», n. 25 (Luglio 1993), pp. 413-27.

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ti ti islamisti nei paesi musulmani . In ent rambi i casi si trattava di outsider che denunciavano un sistema corrot to e i p a r d d che ne facevano parte, f acendo leva sulle difficoltà economi-che, e soprat tut to sulla disoccupazione, lanciando appelli di s tampo etnico-religioso e scagliandosi cont ro gli influssi stra-niere sulla società. In ent rambi i casi, u n a frangia estremista compiva atti terroristici e violenti. Nella maggior par te dei casi, i partiti nazionalisti sia islamici sia europei tendevano a ottene-re risultati migliori nelle elezioni locali che in quelle nazionali. Analoga, poi, è stata anche la risposta degli establishment poli-dei sia in Europa sia nel m o n d o musulmano. In tutti i paesi mu-sulmani, come abbiamo visto, i governi h a n n o assunto orienta-menti , simboli, connotat i e indirizzi politici più marca tamente islamici. In Europa, i partiti tradizionali h a n n o adot ta to il lin-guaggio e promosso le misure p ropugna te dai partiti anti-im-migrazione di destra. Laddove il model lo democrat ico era effi-cace ed esistevano due o più partiti alternativi al part i to nazio-nalista islamico, il voto di questi ultimi ha registrato u n a pun ta massima del 20 per cento. I partiti della protesta sono riusciti a s fondare questo tetto solo laddove n o n esisteva alcuna alterna-tiva reale al part i to o alla coalizione di partiti al potere, com'è accaduto in Algeria, in Austria e, in misura significativa, anche in Italia.

All'inizio degli anni Novanta, i leader politici europei h a n n o fat to a gara nel cavalcare i sent iment i anti-immigrazione. In Francia, Jacques Chirac dichiarò nel 1990 che «l ' immigrazione dev'essere comple tamente fermata»; nel 1993 il ministro degli In terni Charles Pasqua sostenne u n a politica di «immigrazione zero». Anche François Mit terand, Edith Cresson, Valéry Gi-scard d'Estaing e altri polidei di pr imo piano assunsero tutd po-sizioni anti-immigratorie. L' immigrazione fu u n o dei temi chia-ve delle elezioni par lamentar i del 1993 e contribuì palesemen-te alla vittoria dei partiti conservatori. In quegli anni il governo francese mutò politica, r e n d e n d o più difficile per i figli di stra-nieri acquisire la cittadinanza, per le famiglie di stranieri im-migrare, per gli stranieri chiedere il diritto di asilo, e per gli al-gerini o t tenere il visto di ingresso in Francia. Gli immigrati clandestini vennero espulsi, e i poter i della polizia e di altre au-torità di governo incaricate di occuparsi del tema dell ' immi-grazione f u r o n o rafforzati.

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In Germania , il cancelliere He lmut Kohl e altri leader politi-ci h a n n o espresso anch'essi le loro preoccupazioni sul proble-ma dell ' immigrazione, e in quella che è stata la sua più impor-tante iniziativa polidca il governo ha emenda to l 'Articolo xvi della costituzione tedesca che garantiva asilo a ch iunque fosse «perseguitato per motivi politici», r iducendo altresì i benefici per quant i chiedevano asilo. Nel 1992 vi f u r o n o 438.000 rifu-giati in Germania . Nel 1994 solo 127.000. Nel 1980, la Gran Bretagna ridusse drast icamente la quota annuale di immigrati por tandola a circa 50.000. In seguito il p roblema dell ' immigra-zione suscitò emozioni m e n o intense e un 'opposiz ione m e n o massiccia rispetto al altre nazioni, anche se tra il 1992 e il 1994 la Gran Bretagna ha drast icamente r idotto il n u m e r o di per-messi di soggiorno ai rifugiati da oltre 20.000 a m e n o di 10.000. Man m a n o che crollavano le barr iere alla libera circolazione in Europa i timori britannici si sono focalizzati pr incipalmente sui pericoli dell ' immigrazione n o n europea proveniente dal conti-nente . Nel complesso, alla metà degli anni Novanta i paesi eu-ropei occidentali stavano inesorabilmente avviandosi verso una drastica riduzione, se non all 'eliminazione totale dell ' immigra-zione dai paesi non europei .

La questione dell ' immigrazione è giunta alla ribalta con un certo ri tardo negli Stati Uniti rispetto all 'Europa, e non ha pro-vocato la stessa intensità emotiva. L'America è sempre stata un paese di immigrati, è nata come tale, e per l'assimilazione dei nuovi venuti ha adottato modelli che nel t empo si sono dimo-strati di grande successo. Inoltre, negli anni Ottanta e Novanta il livello di disoccupazione negli Stati Uniti era considerevol-men te più basso di quello europeo, cosicché la paura di finire travolti da u n o specifico g r u p p o di elementi stranieri, seppur for temente avvertita in particolari aree, non aveva acquisito una dimensione nazionale. Anche il divario culturale che separa i due maggiori gruppi di immigrati dalla cultura ospitante era minore rispetto alla situazione europea: i messicani sono catto-lici e di lingua spagnola; i filippini cattolici e di l ingua inglese.

Nonostante questi fattori, nei venticinque anni successivi al-la promulgazione della legge del 1965 che favoriva la possibilità di immigrazione dall'Asia e dall 'America latina, i sent imenti de l l 'op in ione pubblica amer icana al r iguardo sono notevol-men te cambiati. Nel 1965 solo il 33 per cento degli americani

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desiderava u n livello di immigrazione più basso; nel 1977 la percentuale era giunta al 42 per cento, nel 1986 al 49 per cen-to e nel 1990 e 1993 al 61 per cento. Numerosi sondaggi con-dotti negli anni Novanta indicavano che oltre il 60 per cento de l l 'op in ione pubblica amer icana desiderava u n a r iduzione del flusso immigratorio.2 ' Se da un lato le condizioni e le preoc-cupazioni economiche inf luenzano l 'a t teggiamento verso l'im-migrazione, il crescente rifiuto degli immigrati manifestato sia in tempi di benessere che in tempi di difficoltà sta a indicare come un simile mu tamen to di op in ione è det tato da fattori più impor tand: cultura, criminalità, stile di vita. «Molti americani, forse la maggioranza di essi», c o m m e n t ò un osservatore nel 1994, «cont inuano a considerare la propr ia nazione come un paese eu ropeo colonizzato, le cui leggi sono un 'e red i tà dell 'In-ghil terra, la cui lingua è (e dovrebbe restare) l 'inglese, le cui istituzioni ed edifici pubblici si ispirano alle f o r m e classiche del l 'Occidente , la cui religione ha radici ebraico-cristiane, e la cui grandezza nasce pr incipalmente dall 'etica del lavoro prote-stante». Riflet tendo tali preoccupazioni , il 55 per cento di un campione di cittadini intervistato al r iguardo ha af fermato di r i tenere che l ' immigrazione fosse u n a minaccia per la cultura americana. Se per gli europei la minaccia dell ' immigrazione ha u n a matrice musulmana o araba, per gli americani essa è di origine lat inoamericana e asiatica, ma soprattutto messicana. Nel 1990 fu chiesto ad un campione di americani quali fossero i paesi da cui arrivavano troppi immigrati. Più della metà ri-spose Messico. Altre risposte nel l 'ordine: Cuba, Or ien te (senza specificare), Sud America e America latina (senza specificare), Giappone, Vietnam, Cina e Corea.28

La crescente opposizione del l 'opinione pubblica al l 'ondata immigratoria dei primi anni Novanta ha innescato una reazione politica paragonabile a quella verificatasi in Europa. Data la na-tura del sistema politico americano, non si è verificata alcuna

27 «International Herald Tribune», 28 giugno 1993, p. 3; «Wall Street Jour-nal», 23 maggio 1994, p. Bl ; Lawrence H. Fuchs, «The Immigralion Debate: Little Room for Big Reforms», in «American Experiment», n. 2 (Inverno 1994), p. 6. 28 James C. Ciad, «Slowing the Wave», in «Foreign Policy», n. 95 (Estate 1994), p. 143; RitaJ. Simon e Susan H. Alexander, The Ambivalenl Welcome: Print Media, Public Opinion and Immigralion, Westport, CT, Praeger, 1993, p. 46.

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crescita elettorale da par te di partid di destra e anti-immigra-zione, ma gli analisti e i g ruppi di interesse and-immigrazione sono diventad più numerosi , più atdvi e più rumorosi . Il loro ri-sent imento riguarda prevalentemente i 3,5-4 milioni di immi-grati illegali, e i politici hanno risposto di conseguenza. Come in Europa, anche qui la reazione più forte si è avuta al livello stata-le e locale, vale a dire da parte di quanti sopportavano la quota maggiore dei costi dell ' immigrazione. Nel 1994 la Florida, poi seguita da sei altri stati degli Usa, denunc iò il governo federale ch iedendo 884 milioni di dollari l ' anno, necessari per coprire le spese di istruzione, assistenza sociale e man ten imen to del-l 'ordine pubblico correlate alla presenza degli immigrati clan-destini. In California, lo stato che presenta il maggior n u m e r o di immigrati in termini sia assoluti sia relativi, q u a n d o il gover-natore Pete Wilson chiese di negare l 'ammissione alle scuole pubbl iche ai figli degli immigrati clandestini, di rifiutare la cit-tadinanza statunitense ai figli di immigrati clandestini nati ne-gli Stati Uniti e di abolire le sovvenzioni statali per le cure me-diche di emergenza agli immigrati clandestini, o t t enne il p ieno appoggio del l 'opinione pubblica. Nel novembre del 1994 i ca-liforniani approvarono a g rande maggioranza la «Proposidon 187», un r e f e r endum in base al quale si negava qua lunque for-ma di assistenza sociale, sanitaria e pedagogica agli immigrati illegali e ai loro figli.

Sempre nel 1994 l 'amministrazione Clinton, inver tendo la rotta p receden temente imboccata, ha cominciato a inasprire i controlli sull ' immigrazione, a limitare il diritto d'asilo politico, a espandere l 'Ufficio immigrazione e naturalizzazione, a raffor-zare gli organici della polizia doganale e a issare barr iere fisi-che lungo il conf ine con il Messico. Nel 1995 la Commissione per la r i forma sull ' immigrazione, istituita dal Congresso nel 1990, ha raccomandato di r idurre il livello a n n u o di immigra-zione legale da oltre 800.000 a 550.000 unità, privilegiando mo-gli e figli piccoli, ma non altri parent i di stranieri residenti o che avevano acquisito la cit tadinanza americana: u n a decisione che «fece esplodere la rabbia delle famiglie asiatico-americane e ispaniche».29 Nel 1995-96 era in esame presso il Congresso u n a nuova legge comprenden t e molte delle raccomandazioni

29 «New York Times», 11 giugno 1995, p. E14.

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avanzate dalla commissione n o n c h é altre misure volte a limita-re il n u m e r o di immigrati. Alla metà degli anni Novanta, il te-ma del l ' immigrazione era d u n q u e diventato una quest ione po-litica di g rande rilevanza negli Stati Uniti, tanto che nel 1996 Patrick Buchanan ha fatto del l 'opposizione al l ' immigrazione un p u n t o chiave della propr ia campagna presidenziale. Gli Sta-ti Uniti s tanno seguendo l 'esempio eu ropeo e provvedono a ri-du r re sostanzialmente l ' ingresso di non occidentali.

E possibile per l 'Europa e gli Stati Uniti arrestare l 'ondata immigratoria? La Francia è stata attraversata da u n a p ro fonda vena di pessimismo demograf ico che va da u n o scottante ro-manzo di J ean Raspail negli anni Settanta alla dotta analisi di Jean-Claude Chesnais negli anni Novanta e che nel 1991 Pierre Lel louche ha così commenta to : «Storia, vicinanza e povertà f a n n o sì che la Francia e l 'Europa siano destinate ad essere so-praffat te dalle popolazioni delle fatiscenti società del Sud. In passato l 'Europa è stata bianca ed ebraico-cristiana. In fu tu ro non lo sarà più».3" Il fu turo , tuttavia, non viene stabilito in mo-do irrevocabile, né il f u tu ro di ciascuno di noi è qualcosa di de-finitivo. Il p rob lema n o n è capire se l 'Europa verrà islamizzata o gli Stati Uniti ispanizzati, ma piuttosto se Europa e Stati Uni-ti finiranno col diventare delle società divise, ciascuna costitui-ta da due comuni tà distinte e separate provenienti da due di-verse civiltà; e ciò d ipende a sua volta dal n u m e r o di immigrati presenti e dalla misura in cui essi ver ranno assimilati alle cultu-re occidentali prevalenti in Europa e in America.

In linea generale le società europee o non i n t endono assi-milare gli immigrati , o incon t rano grandi difficoltà a farlo, men t re non è chiaro fino a che pun to gli immigrati musulmani e i loro figli desiderino essere assimilati. E d u n q u e probabile

30 Jean Raspail, The Camp of the Sainls, New York, Scribner, 1975, e Jean-Claude Chesnais, Ai Crepuscule de l'Occident: Demographie et Politique, Paris, Robert Laffont, 1995; P iene Lellouche, cit. in Miller, «Strangers at the Gate», p. 80. I^e camp des Saints di Raspail fu pubblicato per la prima volta nel 1973 (Paris, Editions Robert Laffont), e quindi riedito nel 1985 allorché i timori circa l'immigrazione cominciarono a intensificarsi in Francia. Nel 1994, allorché tali timori presero a diffondersi anche negli Stati Uniti, il romanzo fu porta-to all'attenzione del pubblico americano da Matthew Connelly e Paul Ken-nedy, «Must It Be the Rest Against the West?», in «Atlantic Monthly», voi. 274 (Die. 1994), p. 61 sgg, mentre la prefazione di Raspail all'edizione francese del 1985 è stata pubblicata in inglese in «The Social Contract», voi. 4 (Inver-no 1993-94), pp. 115-17.

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che u n a cont inua e sostenuta immigrazione musu lmana finirà col p rodu r r e dei paesi divisi in due comunità , u n a cristiana e l 'altra musulmana. Un simile epilogo può essere evitato nella misura in cui i governi e i popoli occidentali sono disposti a sopportare i costi di una politica di limitazione di tale flusso mi-gratorio. Ciò comprende i costi finanziari per l 'adozione di mi-sure anti-immigrazione, i costi sociali causati dal crescente iso-lamento delle comuni tà di immigrati già esistenti, e i potenzia-li costi economici di lungo per iodo dovuti alla scarsità di ma-nodope ra e alla r iduzione dei tassi di crescita.

E tuttavia probabile che il problema dell'invasione musulma-na venga a ridursi via via che i tassi di crescita demografica delle società nordafr icane e mediorientali raggiungeranno la punta massima, come hanno già cominciato a fare, per poi iniziare a scendere.31 Se l ' immigrazione è stimolata dalla pressione demo-grafica, entro il 2025 quella islamica potrebbe subire una note-vole riduzione. Non altrettanto si può dire dell'Africa sub-saha-riana. Se vi sarà sviluppo economico e questo stimolerà la mobi-lità sociale, in Africa centrale e occidentale gli incentivi e le pos-sibilità di emigrare aumenteranno, e alla minaccia di «islamizza-zione» dell 'Europa subentrerà quella di una sua «africanizzazio-ne». L'avverarsi di questa minaccia d ipenderà anche dall'inci-denza dell'Aids e di altre malattie sulle popolazioni africane, nonché dalla forza di attrazione che la Repubblica Sudafricana saprà esercitare sugli immigrati da altre parti dell'Africa.

Se per l 'Europa il problema immediato sono i musulmani, per gli Stati Uniti sono i messicani. Se le tendenze e le strategie poli-tiche attualmente in corso continueranno, entro la prima metà del xxi secolo la popolazione americana subirà una modifica so-stanziale (Tabella 8.2), e sarà composta per quasi il 50 per cento da bianchi e per il 25 per cento da ispanici. Così come avviene og-gi in Europa, l ' introduzione di modifiche alla linea politica at-tualmente perseguita e una efficace attuazione delle misure anti-immigrazione adottate potrebbero modificare queste stime. An-che in tal caso, tuttavia, resterà la questione principale: fino a che punto, cioè, gli ispanici cont inueranno ad essere assimilati alla so-cietà americana come è avvenuto in passato. Pressioni e incentivi

31 Philippe Fargues, «Demographic Explosion or Social Upheaval?», in Ghas-san Salame (a cura di), Democracy Without Democrats? The Renewal of Polilics in the Muslim World, London, I.B. Taurus, 1994, p 157 sgg.

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perché anche gli ispanici della seconda e terza generazione se-guano questo modello sono molto foru. D'altro canto, l'immi-grazione messicana presenta caratteristiche del tutto peculiari e potenzialmente molto rilevanti. In pr imo luogo, gli immigrati provenienti dall 'Europa o dall'Asia attraversano un oceano, men-tre i messicani devono oltrepassare semplicemente un confine o guadare un fiume. Ciò, insieme ai continui progressi conseguiti nel campo dei trasporti e delle comunicazioni, consente loro di mantenere stretti contatti con le comunità d'origine. In secondo luogo, gli immigrati messicani sono ammassati nella parte sudoc-cidentale degli Stati Uniti e fanno parte di un 'unica società mes-sicana che si estende dallo Yucatan al Colorado (Cartina 8.1). Inoltre, dati recenti sembrano indicare come la resistenza all'assi-milazione sia più forte tra gli immigrati messicani di quanto lo sia stata tra altri gruppi di immigrati, e che i messicani tendono a preservare la propria identità, come è apparso evidente in occa-sione degli scontri scoppiati in California nel 1994 in merito alla Proposition 187. Infine, l 'area colonizzata dagli immigrati messi-cani venne annessa dagli Stati Uniti dopo la sconfitta inferta ai messicani a metà del xix secolo. Appare dunque molto probabile che lo sviluppo economico del Messico genererà nei messicani sentimenti revanchisti. Nel lungo periodo, i risultati dell 'espan-sione militare americana del secolo scorso potrebbero essere mi-nacciati dall 'espansione demografica messicana del secolo che sta per iniziare.

Tabella 8.3 Popolazione degli Slati Uniti per razza ed etnia (in percentuale)

1993 2020 2050 (stima) (stima)

Bianchi non ispanici 74 64 53 Ispanici 10 16 25 Neri 12 13 14 Asiatici e originari delle isole del Pacifico 3 6 8 Indiani americani e originari dell'Alaska <1 <1 1

Totale (in milioni) 263 323 394

Fonte: U.S. Bureau of the Census, Population Projections of the United States by Age, Sex, Race, and Hispanic Origin: 1995 to 2025, Washington, U.S. Government Printing Office, 1996, pp. 12-13.

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Cartina 8.1 Stati Uniti: un paese diviso? St ime percentua l i di neri , asiatici, ind iani amer ican i o ispanici nel 2020 , suddivisi per c o n t e a

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Il m u t a m e n t o in corso degli equilibri di potere r ende sem-pre più a rduo per l 'Occidente il raggiungimento dei propr i obiettivi in materia di proliferazione delle armi, diritti umani , immigrazione e altro. Quindi , per poter r idurre al min imo i danni è necessario che l 'Occidente:

• utilizzi con sagacia e abilità l ' a rma delle propr ie risorse economiche nei rapport i con le altre società;

• rafforzi la propr ia unità e coordini le propr ie linee di indi-rizzo politico in m o d o da sconfiggere il tentativo delle altre so-cietà di met tere i paesi occidentali gli uni cont ro gli altri;

• foment i e sfrutti a propr io vantaggio le differenze tra le na-zioni non occidentali.

La capacità del l 'Occidente di perseguire queste strategie di-pende rà da un lato dalla na tura e dall ' intensità dei suoi con-flitti con le civiltà antagoniste, e dall 'altro dalla sua capacità di identificare e sviluppare interessi comuni con le civiltà oscil-lanti.

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CAPITOLO NONO Lo scenario politico del m o n d o delle civiltà

Conflitti tra stati guida e conflitti di faglia

Nel mondo che si sta delineando, stati e gruppi appartenenti a due diverse civiltà potrebbero dar vita a blocchi e coalizioni tatti-che ad hoc, di carattere limitato, volte sia a promuovere i rispetti-vi interessi contro paesi appartenenti ad una terza civiltà, sia ad altri fini comuni. Ciò nonostante, i rapporti tra gruppi di civiltà diverse saranno solo raramente cordiali, generalmente freddi e spesso ostili. E probabile che i legami ereditati dal passato tra sta-ti di diverse civiltà, ad esempio le alleanze militari scaturite dalla Guerra fredda, verranno ad attenuarsi o a scomparire. Le spe-ranze di dar vita a strette «associazioni» tra civiltà diverse, quale ad esempio quella un tempo auspicata dai leader di Russia e America, non sono destinate a realizzarsi. I futuri rapporti tra le diverse civiltà oscilleranno di norma tra freddezza e violenza, per rientrare quasi sempre in qualche punto intermedio della scala. In molti casi è probabile che si avvicineranno a quella condizio-ne di «pace fredda» pronosticata da Boris Eltsin in merito ai fu-turi rapporti tra Russia e Occidente. In altri casi, po t ranno inve-ce avvicinarsi ad una condizione di «guerra fredda». Il termine guerra fria fu coniato nel xm secolo dagli spagnoli per descrivere la «difficile coesistenza» con i musulmani nel Mediterraneo, e in questi ultimi dieci anni molti analisti hanno notato il r i torno ad una condizione di «guerra f redda tra civiltà» tra Islam e Occi-dente.1 Ora, in un mondo di civiltà, quello tra Islam e Occidente non sarà certo l 'unico rapporto definibile in questo modo. Pace fredda, guerra fredda, guerra commerciale, guerra strisciante,

1 Adda B. Bozcman, Strategie Intelligence and Statecraft: Selected lissay.s, Wa-shington, Brasscy's (US), 1992, p. 50; Barry Buzan, «New Patterns of Global Securitv in the Twenty-fìrst Centurv», in «International Affaire», n. 67 (Luglio 1991), pp. 448-9.

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pace instabile, rapporti tesi, intensa rivalità, coesistenza competi-tiva, corsa agli armamenti : sono probabilmente questi i termini che meglio caratterizzeranno i rapporti tra entità appartenenti a civiltà diverse. Fiducia e amicizia saranno, insomma, merce rara.

La conflittualità tra civiltà diverse assume due fo rme distinte. A livello locale, o microlivello, si verificano i cosiddetti conflitti di faglia {fault line conflicts) tra stati limitrofi appar tenent i a ci-viltà diverse, tra gruppi di civiltà diverse che vivono al l ' in terno di u n a stessa nazione, e tra g ruppi che, come nel caso dell 'ex Un ione Sovietica e Jugoslavia, t en tano di costruire nuovi stati dalle macerie di quelli vecchi. I conflitti di faglia sono preva-lenti soprat tut to tra musulmani e non musulmani . I motivi, la na tura e la dinamica di tali conflitti ve r ranno illustrati nei ca-pitoli 10 e 11. Al livello globale, o macrolivello, i conflitti tra sta-ti guida coinvolgono gli stati principali delle diverse civiltà. I motivi che s tanno alla base di questi conflitti sono quelli classi-ci della politica internazionale:

1. grado di inf luenza relativa nella de terminazione degli svi-luppi planetari e delle iniziative delle organizzazioni inter-nazionali di livello mondiale quali Nazioni Unite, Fondo mo-netar io internazionale e Banca mondiale;

2. potere militare, che si manifesta nelle controversie sulla non proliferazione ed il controllo degli armamenti e nella corsa al riarmo;

3. potere e benessere economici, che si manifestano in dispute di carattere commerciale, f inanziario e di altro tipo;

4. il fat tore umano , che compor ta i tentativi di u n o stato ap-pa r t enen te ad u n a de te rmina ta civiltà di proteggere popoli ad esso affini residenti in paesi di diversa civiltà, di discrimi-nare i popoli di diversa civiltà o di espellere dal p ropr io ter-ritorio popoli di altre civiltà;

5. valori e cultura, che diventano causa di conflitti q u a n d o u n o stato tenta di promuovere o impor re i propr i valori a popoli di un 'a l t ra civiltà;

6. occasionalmente, questioni territoriali, in cui gli stati guida vengono coinvolti d i re t tamente nei conflitti di faglia.

Ovviamente, nel corso della storia questi problemi sono sem-pre stati fonte di conflittualità tra gli uomini. Tuttavia, quando

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vengono coinvolti stati di civiltà diverse, le differenze culturali acuiscono tale conflittualità. Nella loro reciproca competizione, gli stati guida tentano di chiamare a raccolta tutti i membri del-la propria civiltà, di ot tenere l 'appoggio di stati di una terza ci-viltà, di sobillare divisioni e defezioni all ' interno delle civiltà ri-vali e di coniugare nel modo più appropriato iniziative diploma-tiche, politiche, economiche e spionistiche, azioni propagandi-stiche e misure coercitive al fine di conseguire i propri obiettivi. Difficilmente, tuttavia, gli stati guida r icorrono allo scontro mili-tare diretto, se non in situazioni quali quelle verificatesi in Me-dio Oriente e in India, in cui si schierano aper tamente a fianco delle rispettive civiltà. In caso contrario, solo altre due circostan-ze possono provocare una guerra tra due stati guida.

1) Essa pot rebbe scaturire dalla graduale escalation di un conflit to di faglia tra gruppi locali, via via che i rispettivi grup-pi affini, compresi appun to gli stati guida, accorrono in aiuto delle parti belligeranti. Tale rischio, tuttavia, offre agli stati gui-da delle civiltà rivali un forte incentivo a contenere o risolvere il conflit to di faglia.

2) Una guer ra tra stati guida pot rebbe scaturire da un muta-m e n t o degli equilibri di potere a livello globale tra le diverse ci-viltà. All ' interno della civiltà greca, il crescente potere di Atene, come sostiene Tucidide, por tò alla Guerra del Peloponneso; la storia della civiltà occidentale è piena di «guerre egemoniche» tra potenze in ascesa e potenze in declino. Che fattori simili in-coraggino la conflittualità tra stati guida in ascesa e in declino di civiltà diverse d ipende in par te dal m o d o in cui gli stati di quelle civiltà reagiscono all'ascesa di una nuova potenza, vale a dire se dec idono di schierarsi a fianco della potenza in ascesa oppure di contrastarne il potere. Se la prima soluzione è più ti-pica delle civiltà asiatiche, l'ascesa della potenza cinese potreb-be indur re stati di altre civiltà, ad esempio Stati Uniti, Russia e India, ad adottare una politica di contrapposizione. La guer ra egemonica assente nella storia occidentale è quella tra Stati Uniti e Gran Bretagna, e presumibi lmente la transizione paci-fica dalla Pax Britannica alla Pax Americana fu in gran par te dovuta agli stretti legami culturali che uniscono queste due so-cietà. L'assenza di tali legami nel l 'ambito dei mutevoli equilibri di potere tra l 'Occidente e la Cina r ende lo scontro a rmato non inevitabile, ma cer tamente più probabile. Se il d inamismo

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dell 'Islam è d u n q u e il rei terato e lemento scatenante di molte guer re di faglia relativamente circoscritte, l'ascesa della Cina costituisce la potenziale miccia di un grande conflitto tra stati guida di civiltà diverse.

L'Islam e l'Occidente

Alcuni occidentali, tra cui il presidente americano Bill Clin-ton, h a n n o sostenuto che l 'Occidente non ha alcun prob lema con l'Islam, ma solo con gli estremisti islamici violenti. Mille-quat t rocento anni di storia d imostrano tuttavia il contrario. I rappor t i tra Islam e cristianesimo, sia ortodosso che occidenta-le, sono stati spesso burrascosi. Per entrambi , la par te opposta ha sempre rappresenta to «l'altro». Il conflitto sorto nel xx se-colo tra democrazia liberale e Marxismo-Leninismo non è che un f e n o m e n o storico fugace e superficiale rispetto all 'antico e fo r t emente conflittuale r appor to tra Islam e cristianesimo. A volte ha prevalso la coesistenza pacifica; più spesso il rappor to è stato di intensa rivalità e di guer ra calda a diversi livelli. La loro «dinamica storica», osserva J o h n Esposito, «... ha spesso visto le due comuni tà competere e a volte anche scontrarsi violente-men te per la conquista di potere , di terra, di anime». ' Nel cor-so dei secoli le fo r tune delle due religioni si sono al ternate in una sequela di ondate possenti, con attimi di pausa e periodi di riflusso.

L'iniziale espansione arabo-islamica protrattasi dall ' inizio del vii alla metà vili secolo impose il dominio musu lmano in Nord Africa, nella penisola iberica, in Medio Oriente, in Persia e nel l ' India set tentr ionale. Per circa due secoli i confini tra Islam e cristianesimo vennero quindi a stabilizzarsi fino a che, alla f ine dell'xi secolo, i cristiani non r ipresero il controllo del Medi ter raneo occidentale, conquis tarono la Sicilia e occuparo-no Toledo. Nel 1095 il m o n d o cristiano lanciò le Crociate e per un secolo e mezzo i potentat i cristiani tentarono, con sem-pre minore successo, di stabilire il domin io cristiano in Terra Santa e nelle adiacenti aree mediorientali , finché non persero

2 John L. Esposito, The Islamic Threat: Myth or Realily, New York, Oxford Uni-versity Press, 1992, p. 46.

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Acri, loro ult imo bastione in quella zona, nel 1291. Nel frat-t empo e rano apparsi sulla scena i turchi ot tomani, i quali dap-pr ima indebol i rono Bisanzio e quindi conquis tarono gran par-te dei Balcani e il Nord Africa, presero Costantinopoli nel 1453 e cinsero d'assedio Vienna nel 1529. «Per quasi mille anni», os-serva Bernard Lewis, «dal p r imo sbarco moresco in Spagna al secondo assedio turco di Vienna, l 'Europa è stata sotto la co-stante minaccia dell 'Islam».' L'Islam è l 'unica civiltà ad aver messo in serio pericolo, e per ben due volte, la sopravvivenza del l 'Occidente.

Nel xv secolo, tuttavia, il vento aveva ormai cominciato a gi-rare. I cristiani r iconquistarono gradualmente la penisola ibe-rica, comple tando l ' impresa nel 1492 a Granada. Nel frat tem-po, le innovazioni europee nel campo della navigazione ocea-nica consent i rono dappr ima ai por toghesi e quindi ad altri paesi di aggirare il cuore dell 'area musulmana e pene t ra re nel-l 'Oceano Indiano e oltre. Intanto, i russi mettevano fine a due secoli di dominio tataro. Successivamente, gli o t tomani compi-rono un ult imo tentativo di espansione c ingendo nuovamente d'assedio Vienna nel 1683. Il loro fall imento segnò l'inizio di u n a lunga ritirata, che compor tò la lotta di liberazione da par-te delle popolazioni ortodosse dei Balcani, l 'espansione del-l ' Impero asburgico e la spettacolare avanzata russa sul Mar Ne-ro e nel Caucaso. Nel corso di circa un secolo, il «flagello del Cristianesimo» era diventato il «malato d 'Europa».1 Al te rmine della Prima guerra mondiale , Gran Bretagna, Francia e Italia infersero il colpo di grazia stabilendo il propr io controllo di-ret to o indiret to su tutte le restanti terre o t tomane a eccezione del terri torio della Repubblica Turca. Nel 1920 solo quat t ro paesi musulmani - Turchia, Arabia Saudita, Iran e Afghanistan - mantenevano la propr ia ind ipendenza da qualsivoglia fo rma di domin io non musulmano.

La ritirata del colonialismo occidentale iniziò a sua volta ne-gli anni Venti e Trenta, per poi accelerare bruscamente dopo la Seconda guer ra mondiale . Anche il crollo de l l 'Unione Sovieti-ca diede l ' indipendenza ad altre società musulmane. Una fon-

3 Bernard Lewis, Islam and the West, New York, Oxford University Press, 1993, p. 13 (trad. it. L'Europa e l'Islam, Bari, Laterza, 1995). 4 Esposito, Islamic Threat, p. 44.

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te riferisce che tra il 1757 e il 1919 si ebbero novantadue ac-quisizioni di territorio musu lmano da parte di governi non mu-sulmani. Nel 1995, sessantanove di questi territori e rano torna-d sotto il controllo musulmano, e circa quarantacinque stad in-d ipendent i avevano una popolazione in grandissima maggio-ranza musulmana. Si è trattato di mutament i violenti: basti pen-sare che il 50 per cento delle guer re che h a n n o coinvolto due stati di religione diversa tra il 1820 e il 1929 ha avuto come pro-tagonisti musulmani e cristiani. '

Le cause di questa costante conflittualità non vanno ricerca-te in f enomen i transitori quali il fervore cristiano del xn secolo o il fondamenta l i smo musu lmano del xx, bensì nella na tura stessa di queste due religioni e delle civiltà su di esse fondate , nelle loro differenze e nelle loro similitudini. Valga, per le dif-ferenze, il precet to musu lmano dell 'Islam inteso come stile di vita che trascende unendo le politica e religione in contrappo-sizione al precet to cristiano occidentale della separazione del regno di Dio da quello di Cesare. Ma ci sono anche le similitu-dini. En t rambe sono religioni monoteiste; a differenza di quel-le politeiste, non possono assimilare altre entità divine; la loro visione del m o n d o è fo r t emente caratterizzata da una contrap-posizione dualistica. Ent rambe sono religioni universalisdche, asseriscono di essere l 'unica vera fede alla quale l ' intera uma-nità dovrebbe aderire. Entrambe, infine, sono religioni a for te vocazione missionaria, convinte che i propr i adepti abbiano l 'obbligo di convertire i non c redend all 'unica vera fede. Sin dalle sue origini l'Islam è stato diffuso attraverso la conquista, e lo stesso è accaduto con il crisdanesimo ogni qual volta se ne sia presentata l 'oppor tuni tà . I concetti di «jihad» e di «crocia-ta» non solo si assomigliano, ma dist inguono queste due fedi dalle altre grandi religioni mondiali . Islam e cristianesimo, in-sieme all 'ebraismo, h a n n o una concezione teleologica della storia, a differenza di quella statica o ciclica prevalente in altre civiltà.

Il livello di conflittualità violenta tra Islam e cristianesimo è variato nel tempo, influenzato dai tassi di crescita e declino de-mografico, dagli sviluppi economici, dal progresso tecnologico

5 Daniel Pipes, In the Path of God: Islam and Politicai Power, New York, Basic Books, 1983, pp. 102-3, 169-73; Lewis F. Richardson, Slatistics o/Deadly Quar-reh, Pittsburgh, Boxwood Press, 1960, pp. 235-7.

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e dal livello di ardore religioso. La diffusione dell 'Islam nel vii secolo fu accompagnata da massicce migrazioni di popoli arabi - di portata e intensità senza p recedend - nei territori degli im-peri bizantino e sassanide. Alcuni secoli dopo le Crociate furo-no in larga parte un p rodot to della crescita economica, dell 'e-spansione demografica e della «rinascita cluniacense» nell 'Eu-ropa del xi secolo, che consent i rono la mobilitazione in massa di cavalieri e contadini alla conquista della Terra Santa. Allor-ché la pr ima Crociata raggiunse Costantinopoli, scrisse un au-tore bizantino, sembrò come se «l ' intero Occidente, comprese tutte le tribù di barbari che vivevano al di là delle Colonne d 'Ercole del Mar Adriatico, avesse avviato una migrazione di massa e si fosse messo in marcia armi e bagagli, i n o n d a n d o l'A-sia di u n a massa solida».6 Nel xix secolo u n a spettacolare cre-scita demografica produsse u n a nuova eruzione europea , il più impetuoso flusso migrator io della storia, che invase le terre musu lmane e non .

• U n a simile combinazione di fattori ha accresciuto la conflit-tualità tra Islam e Occidente alla fine di questo secolo. 1) La crescita della popolazione musu lmana ha p rodot to un altissi-mo n u m e r o di giovani disoccupati ed esasperati che abbraccia-no la causa islamista, p r e m o n o sulle società confinant i ed emi-grano in Occidente. 2) La Rinascita islamica ha dato ai musul-mani nuova fiducia nella superiorità della propria civiltà e dei propr i valori rispetto a quelli del l 'Occidente. 3) I paralleli ten-tativi del l 'Occidente di universalizzare i propr i valori e le pro-prie istituzioni, di man tene re la propr ia superiorità militare ed economica e di intervenire nei conflitti del m o n d o musulmano provocano nei musulmani un forte r isentimento. 4) Il crollo del comunismo ha eliminato un nemico comune dell 'Islam e del l 'Occidente, r e n d e n d o più acuta in en t rambi la percezione della reciproca minaccia. 5) I sempre maggiori contatti e rap-port i tra musulmani e occidentali stimolano in ciascuna delle due parti un senso tutto nuovo della propria identità e delle

6 Ira M. Lapidus, A History of Islamic Societies, Cambridge, Cambridge Univer-sity Press, 1988, pp. 41-2 (trad. it. Storia delle società islamiche, Torino, Einaudi, 3 voli., 1993, 1994, 1995); Principessa Anna Comnena, cit. in Karen Arm-strong, Holy War: The Crusades and Their Impact on Today 's World, New York, Doubleday-Anchor, 1991, pp. 3-4 e in ArnoldJ. Toynbee, Study of History, Lon-don, Oxford University Press, 1954, voi. Vil i , p. 390.

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differenze che le separano. Interazione e commist ione metto-no altresì in evidenza le disparità circa i diritti di coloro che vi-vono in un paese che appar t iene alla civiltà avversa. Tanto nel-le società musu lmane quan to in quelle cristiane, negli anni Ot-tanta e Novanta la tolleranza ha registrato un net to declino.

Le cause della rinnovata conflittualità tra Islam e Occidente si r iassumono d u n q u e nelle due questioni fondamental i : pote-re e cultura. Kto? Kogo? Chi comanda chi? Questo fondamenta-le quesito politico posto a suo t empo da Lenin è alla base della contesa tra Islam e Occidente. In questo caso, tuttavia, si ag-giunge poi l 'ul ter iore e l emento di conflittualità, che Lenin avrebbe considerato insignificante, tra due diverse concezioni del bene e del male nonché , di conseguenza, della ragione e del torto. Fino a q u a n d o l'Islam resterà l'Islam (e tale resterà) e l 'Occidente resterà l 'Occidente (cosa m e n o sicura) il conflit-to di f o n d o tra due grandi civiltà e stili di vita cont inuerà a ca-ratterizzare in fu tu ro i reciproci rapport i , come ha fat to per quattordici secoli.

Ad accrescere la tensione nei rapport i si aggiungono poi al-cune questioni sostanziali sul quale le rispettive posizioni di-vergono, o sono in conflitto. In passato, u n a di queste fu il con-trollo del territorio, una quest ione che oggi appare relativa-mente trascurabile. Dei ventotto conflitti di faglia scoppiati nel-la pr ima metà degli anni Novanta tra musulmani e n o n musul-mani, diciannove h a n n o visto contrappost i musulmani e cri-stiani, di cui undici con cristiani ortodossi e sette con cristiani occidentali in Africa e in Asia sudorientale. Solo u n o di questi conflitti violenti (o potenzialmente tali), vale a dire quello tra croati e bosniaci, è esploso lungo la linea di faglia che separa l 'Islam dal l 'Occidente . La fine del l ' imperial ismo territoriale occidentale e l'assenza a tutt 'oggi di una ripresa dell 'espansio-ne territoriale musulmana h a n n o prodot to una sorta di sepa-razione geografica in virtù della quale solo in alcuni punt i dei Balcani la comuni tà cristiana e quella musulmana conf inano dire t tamente . I conflitti tra Occidente e Islam, dunque , non toccano tanto i problemi territoriali, quan to più ampi temi di conf ron to tra civiltà come ad esempio la proliferazione delle armi, i diritti umani , democrazia, migrazione, terrorismo isla-mista e interventismo occidentale.

Sulla scia della Guerra f redda, questo antagonismo storico

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ha preso nuova vita, e l ' intensità crescente dello scontro è stata esplici tamente riconosciuta da en t r ambe le comuni tà . Nel 1991, ad esempio, l ' eminente studioso inglese Barry Buzan ve-deva molti motivi per l ' emergere di u n a guer ra f r e d d a «tra l 'Occidente e l'Islam, in cui l 'Europa si sarebbe trovata in pri-ma linea».

Questo sviluppo ha a che fare in parte con lo scontro tra valori laici e valori religiosi, in parte con la storica rivalità tra cristianesimo e Islam, in parte con la gelosia della potenza occidentale, in parte con il risentimento suscitato dal dominio esercitato dall'Occidente sulla strutturazione politica post-coloniale del Medio Oriente, e in parte con gli asti e le umiliazioni dovuti all'invidioso confronto tra i risul-tati ottenuti dalla civiltà islamica e da quella occidentale negli ultimi due secoli.

Inoltre, osservava Buzan, «una Guerra f redda cont ro l'Islam aiuterebbe a rafforzare e n o r m e m e n t e l ' identi tà eu ropea in un ' epoca cruciale del processo di costruzione de l l 'Unione eu-ropea». Per cui «potrebbe benissimo esistere in Occidente una vasta comuni tà disposta non solo a promuovere u n a Guer ra f r edda con l'Islam, ma ad adot tare strategie politiche volte ad incoraggiarla». Nel 1990 Bernard Lewis, un illustre studioso dell 'Islam, ha analizzato «le radici del fu rore musulmano», concludendo:

Dovrebbe a questo punto esser chiaro che ci troviamo dinanzi a un clima generale e ad un movimento che trascende di gran lunga il li-vello di questa o quella questione o strategia politica e dei governi che la perseguono. Siamo dinanzi a un vero e proprio scontro di ci-viltà: la reazione, forse irrazionale ma certamente dotata di profonde radici storiche, di un andco rivale contro la nostra tradizione ebraico-cristiana, il nostro presente laico e l'espansione a livello mondiale di entrambi. E di fondamentale importanza che da parte nostra noi non veniamo trascinati in una storica, sì, ma anche irrazionale reazione contro il nostro rivale.7

7 Barry Buzan, «New Patters», pp. 448-9; Bernard Lewis, «The Roots of Mu-slim Rage: Why So Many Muslims Deeply Resent the West and Why Their Bit-terness Will Not Be Easily Mollified», in «Atlantic Monthly», n. 266 (Settem-bre 1990), p. 60.

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Osservazioni dello stesso tenore sono giunte anche dalla co-munità islamica. «Ci sono segnali inconfondibili», sostenne nel 1994 un impor tante giornalista egiziano, Mohammed Sid-Ah-med, «di un crescente scontro di civiltà tra l 'edca occidentale ebraico-crisdana e il movimento di Rinascita islamica, che va og-gi estendendosi dall 'Adanuco a ovest fino alla Cina a est». Un eminente musulmano indiano predisse nel 1992 che «la prossi-ma sfida [all 'Occidente] proverrà senza alcun dubbio dal mon-do musulmano. E dai successi delle nazioni islamiche dal Magh-reb al Pakistan che avrà inizio la lotta per un nuovo ordine mon-diale». Secondo un avvocato tunisino, la lotta era già in atto: «Il colonialismo ha tentato di deformare tutte le tradizioni cultura-li dell'Islam. Io non sono un islamista. Non credo esista un con-flitto tra religioni. Esiste invece un conflitto tra civiltà»."

Negli ultimi vent 'anni la tendenza generale prevalente nel m o n d o islamico è andata in direzione antioccidentale. In par-te, ciò è la naturale conseguenza della Rinascita islamica e del-la reazione a quella che viene percepi ta come una «gharbzade-gi», o «intossicazione da Occidente» delle società musulmane. La «riaffermazione dell 'Islam, qua lunque specifica fo rma di settarismo assuma, sot t intende il r ipudio del l ' inf luenza euro-pea e americana sulla società, la politica e la morale».9 In pas-sato, i leader musulmani e rano soliti r ipetere alla loro gente: «Dobbiamo occidentalizzarci». Ora, se mai esiste un leader mu-sulmano che abbia pronuncia to u n a frase simile in questo ulti-mo quar to di secolo, si tratta cer tamente di un caso isolato. E infatti cosa assai rara imbattersi in dichiarazioni di elogio dei valori e delle istituzioni occidentali da parte di esponent i mu-sulmani di qualsiasi settore, siano essi politici, funzionar i stata-li, accademici, uomini d 'affar i o giornalisti, i quali t e n d o n o vi-ceversa a r imarcare incessantemente le differenze tra la pro-pria civiltà e quella occidentale, la superiorità della propr ia cul-tura e la necessità di d i f ende rne l ' integrità dagli attacchi occi-dentali. I musulmani t emono e odiano il potere del l 'Occidente

8 Mohamed Sid-Ahmed, «Cybernetic Colonialism and the Moral Search», in «New Perspectives Quarterly», n. 11 (Primavera 1994), p. 19; M. H. Akbar, cit. in «Time», 15 giugno 1992, p. 24; Abdelwahab Belwahl, cit. in ibid., p. 26. 9 William H. McNeill, «Epilogue: Fundamentalism and the World of the 1990's», in Martin E. Marty e R. Scott Appleby (a cura di), Fundamentalisms and Society: Reclaiming the Sciences, the Family, and Education, Chicago, Univer-sity of Chicago Press, p. 569.

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e la minaccia che esso rappresenta per la loro società e la loro fede. Giudicano la cultura occidentale materialistica, corrotta, decadente , immorale. In più, la considerano seducente, e que-sto accresce l 'urgenza di opporsi al suo influsso. Sempre più spesso i musulmani accusano l 'Occidente non perché aderisce a u n a religione imperfet ta e fallace, che n o n d i m e n o resta p u r sempre u n a «religione biblica», ma perché non aderisce a nes-suna religione. Agli occhi dei musulmani il secolarismo, l 'irre-ligiosità e quindi l ' immorali tà degli occidentali sono nemici peggiori del cristianesimo occidentale che li ha prodott i . All'e-poca della Guerra f redda, l 'Occidente definì il c ampo rivale «comunismo ateo»; nel conflitto di civiltà dell 'epoca post-Guer-ra f redda , i musulmani definiscono il propr io campo rivale co-me «l 'Occidente ateo».

Questa immagine di un Occidente arrogante , materialista, repressivo, brutale e decadente non è propr ia solo degli imam fondamentalist i , ma anche di coloro che molti occidentali con-s idererebbero loro alleati e sostenitori naturali . Pochi libri di autori musulmani pubblicati negli anni Novanta, ad esempio, sono stati elogiati quan to Islam and Democracy di Fatima Mer-nissi, genera lmente accolto in Occidente come l 'audace testi-monianza di una d o n n a musu lmana liberale e moderna. ' " E tuttavia il m o d o in cui l 'autrice descrive l 'Occidente n o n po-trebbe essere m e n o compiacente . L 'Occidente è «militarista» e «imperialista» e ha «traumatizzato» altre nazioni r i cor rendo al «terrore coloniale» (pp. 3, 9). L'individualismo, tratto distinti-vo della cultura occidentale, è «l 'origine di tutti i mali» (p. 8). Il potere occidentale incute terrore . L 'Occidente «decide da solo se i satelliti ve r ranno impiegati per istruire gli arabi o per bombardar l i . ... Umilia le nostre capacità e invade le nostre vi-te con le sue merci. I suoi p rogrammi televisivi ci i n o n d a n o l'e-tere ... E un potere che ci schiaccia, assedia i nostri mercati e controlla tutte le nostre risorse, iniziative e potenzialità. Questo era il m o d o in cui percepivamo la nostra condizione, e la guer-ra del Golfo ha trasformato quelle sensazioni in certezze» (pp. 146-7). L 'Occidente «fonda il propr io potere sulla ricerca in campo militare» e poi vende i prodot t i di quella ricerca ai pae-si sottosviluppati che sono i suoi «consumatori passivi». Per af-

10 Fatima Mernissi, Islam and Democracy: Fear of the Modem World, Reading, MA, Addison Wesley, 1992.

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francarsi da questo asservimento, l'Islam deve p r o d u r r e inge-gneri e scienziati propri , costruirsi le propr ie armi (non speci-fica se nucleari o convenzionali) e «liberarsi dalla d ipendenza militare dall 'Occidente» (pp. 43-4). E queste non sono, ripe-tiamo, le opinioni di un ayatollah con barba e turbante .

«La verità di fondo», ha osservato lo sceicco Ghanoushi , «è che le nostre società sono basate su valori diversi da quelli del-l 'Occidente». Gli americani «vengono qui», ha a f fe rmato un funzionar io governativo egiziano, «e p r e t endono che diventia-mo uguali a loro». Le pubblicazioni musulmane, sia popolari sia impegnate , par lano cos tantemente di presunti complott i e disegni occidentali miranti ad assoggettare, umiliare e disgre-gare le istituzioni e la cultura islamiche."

La reazione contro l 'Occidente non si manifesta solo nel g rande f e n o m e n o intellettuale della Rinascita islamica, ma an-che nei mutati at teggiamenti dei governi di paesi musulmani nei confront i del l 'Occidente. I primi governi postcoloniali era-no di n o r m a occidentali per ideologia e strategie politiche ed economiche , e filoccidentali in materia di politica estera, con parziali eccezioni come l'Algeria e l ' Indonesia, dove l ' indipen-denza è stata f ru t to di una rivoluzione nazionalista. U n o d o p o l 'altro, tuttavia, i governi filoccidentali h a n n o ceduto il passo a governi m e n o stret tamente identificati con l 'Occidente o espli-ci tamente antioccidentali in Iraq, Libia, Yemen, Siria, Iran, Su-dan, Libano e Afghanistan. Mutament i nella stessa direzione, anche se m e n o pronunciat i , sono avvenuti ne l l 'o r ien tamento e al l ineamento di altri stati tra cui Tunisia, Indonesia e Malaysia. I due maggiori alleati militari musulmani degli Stati Uniti all'e-poca della Guerra f redda, Turchia e Pakistan, sono oggetto di forti pressioni in te rne di segno islamista, e i loro legami con l 'Occidente soggetti a tensioni sempre maggiori.

Nel 1995, l 'unico stato musu lmano palesemente più filocci-dentale di quan to lo fosse stato dieci anni pr ima era il Kuwait. Gli amici fidati del l 'Occidente nel m o n d o arabo d i p e n d o n o dal l 'Occidente o mil i tarmente (come il Kuwait, l 'Arabia Saudi-ta e gli sceiccati del Golfo), o p p u r e economicamente (come l 'Egitto e l 'Algeria). Alla fine degli anni Ot tanta i regimi co-munisti del l 'Europa orientale crol larono q u a n d o fu chiaro che

II Per lina raccolta di tali rapporti, si veda «Economist», 1 agosto 1992, pp. 34-5.

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l 'Unione Sovietica non avrebbe più potuto o voluto sostenerli economicamen te e mi l i tarmente . Se diventasse chiaro che l 'Occidente ha intenzione di smettere di assistere i propr i regi-mi satelliti musulmani , è molto probabile che questi andrebbe-ro incontro al medesimo destino.

Al crescente antioccidentalismo musulmano ha fat to riscon-tro da par te occidentale il crescente t imore della «minaccia islamica», e in particolare dell 'estremismo musulmano. Il mon-do islamico è considerato u n a fonte di proliferazione nucleare, di terrorismo, n o n c h é - in Europa - di immigrazione indeside-rata. Questi timori sono condivisi sia dalle classi dirigenti che dal l 'opinione pubblica in generale. Nel 1994, ad esempio, alla d o m a n d a se la «Rinascita islamica» costituisse u n a minaccia per gli interessi statunitensi in Medio Oriente , il 61 per cento di un campione di 35.000 americani interessati alla politica estera rispose sì e solo il 28 per cento no. Un anno prima, alla d o m a n d a quale paese rappresentasse il pericolo maggiore per gli Stati Uniti, un campione casuale di cittadini aveva indicato ai primi tre posti Iran, Cina e Iraq. Ancora, alla richiesta di in-dicare quali fossero le «maggiori minacce» per gli Stati Uniti, il 72 per cento dei cittadini e il 61 per cento dei responsabili del-la politica estera americana risposero la proliferazione nuclea-re, men t re il 69 per cento dei primi e il 33 per cento dei secon-di il terrorismo internazionale, due questioni s t ret tamente as-sociate all'Islam. Inoltre, il 33 per cento dei cittadini e il 39 per cento dei responsabili della politica estera consideravano una minaccia la possibile espansione del fondamenta l i smo islami-co. Un atteggiamento simile prevale anche in Europa. In un ' in-chiesta condot ta nella primavera del 1991, ad esempio, il 51 per cento dei cittadini francesi a f fe rmò che la minaccia mag-giore per la Francia proveniva dal sud, ment re solo l '8 per cen-to indicò l'est. I quat t ro paesi che l 'opinione pubblica francese temeva maggiormente sono tutti musulmani: Iraq 52 per cen-to; Iran 35 per cento; Libia 26 per cento; Algeria 22 per cento.12

I leader politici occidentali, compreso il cancelliere tedesco e il

12 John E. Reillv (a cura di), American Public Opinion and U. S. Foreign Policy 1995, Chicago. Chicago Council on Folcigli Relations, 1995, p. 21; «Le Mon-de», 20 settembre 1991, p. 12, cit. in Margaret Blunden, «Insecurity on Euro-pe's Southern Flank», in «Siiraval», il. 36 (Estate 1994). p. 138; Richard Morin, «Washington Post» (settimanale nazionale), 8-14 novembre 1993, p. 37; Folci-gli Policv Associatioii, National Opinion Ballot Report, November 1994, p. 5.

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pr imo ministro francese, espressero timori non dissimili, e il se-gretario generale della Nato dichiarò nel 1995 che per l'Occi-den te il fondamenta l i smo islamico era «pericoloso a lmeno quan to [lo era stato] il comunismo», ment re un «importantis-simo esponente» dell 'amministrazione Clinton ha indicato nel-l'Islam il rivale su scala globale de l l 'Occidente ."

Con la virtuale scomparsa della minaccia militare da est, l'at-tenzione della Nato è venuta sempre più incentrandosi su po-tenziali minacce da sud. «Il Fronte meridionale», osservò nel 1992 un analista militare statunitense, stava sosti tuendo quello centrale per diventare «rapidamente la nuova pr ima linea del-la Nato». Per far f ron te alle nuove minacce da sud i membr i meridionali della Nato - Italia, Francia, Spagna e Portogallo -h a n n o avviato programmi e operazioni militari congiunte coin-volgendo al t empo stesso i governi maghrebini in consultazioni su come far f ron te agli estremisti islamici. Queste presunte mi-nacce sono servite inoltre da giustificazione per m a n t e n e r e una sostanziosa presenza militare americana in Europa. «Seb-bene le forze americane in Europa non siano la panacea per i problemi creati dall ' islamismo fondamentalista», ha osservato un ex alto ufficiale statunitense, «esse esercitano s icuramente una notevole inf luenza sulla pianificazione militare di tutta quell 'area. Ricordate il successo o t tenu to dallo spiegamento di forze americane, francesi e bri tanniche con base in Europa nel-la guer ra del Golfo del 1990-91? Gli abitanti di quella regione lo r icordano di sicuro».14 E lo r icordano, avrebbe potu to ag-giungere, con paura, r isent imento e odio.

Alla luce delle opinioni prevalenti tra musulmani e occiden-tali sulla parte opposta, n o n c h é dell 'avvento dell 'estremismo islamico, non sorprende che a seguito della Rivoluzione irania-na del 1979 si sia venuta a creare tra civiltà islamica e civiltà oc-

13 «Boston Globe», 3 giugno 1994, p. 18; John L. Esposito, «Symposium: Re-surgent Islam in the Middle East», in «Middle East Policy», 3 (n. 2, 1994), p. 9; «International Herald Tribune», 10 maggio 1994, pp. 1, 4; «Christian Science Monitor», 24 febbraio 1995, p. 1. 14 Robert Ellsberg, «Wall Street Journal», 1 marzo 1995, p. 15; William T.

Johnsen, NATO's New Front Line: The Growing Import ance of the Southern Tier, Carlisle Barracks, PA, Strategie Studies Institute, U.S. Army War College, 1992, p. vii; Robbin Laird, French Security Policy in Transition: Dynamics of Con-tinuity and Change, Washington, D.C., institute for National Styrategic Stu-dies, McNair paper 38, Marzo 1995, pp. 50-2.

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cidentale u n a situazione di guer ra strisciante. Strisciante per tre * motivi. 1) Non si tratta di u n o scontro tra tutto l'Islam e tutto l 'Occidente. Due stati fondamentalist i (Iran e Sudan) , tre stati non fondamentalist i (Iraq, Siria e Libia), più un ' ampia gamma di organizzazioni islamiste, col sostegno finanziario di altri pae-si musulmani quali l 'Arabia Saudita, combat tono contro gli Sta-ti Uniti e, di tanto in tanto, contro Francia, Gran Bretagna e al-tri stati e gruppi occidentali, nonché contro Israele e gli ebrei in generale. 2) E una guerra strisciante perché, a eccezione della guer ra del Golfo del 1990-91, è sempre stata combat tuta con mezzi limitati: terrorismo da u n a parte e raid aerei, operazioni segrete e sanzioni economiche dall'altra. 3) E una guerra stri-sciante perché gli atti di violenza, pur ripetuti, non sono conti-nui. Si è trattato di azioni intermittenti di una parte che provo-cano reazioni della par te opposta. Tuttavia, u n a guer ra stri-sciante è pur sempre una guerra. Anche escludendo le decine di migliaia di militari e civili irakeni uccisi dai bombardament i occidentali del gennaio-febbraio 1991, il numero dei mort i e delle vittime in generale è nel l 'ordine delle migliaia, e ce ne so-n o state prat icamente ogni a n n o a partire dal 1979. In questa guer ra strisciante sono stati uccisi molti più occidentali di quan-ti ne siano deceduti nella «vera» guerra del Golfo.

Inoltre, en t rambe le parti h a n n o riconosciuto che questo conflit to è u n a guerra . In passato Khomeini dichiarò, senza mezzi termini, che «l'Iran è di fatto in guerra con l'America»,1 ' e Gheddaf i proclama costantemente la guer ra santa contro l 'Occidente. Leader musulmani di altri stati e gruppi estremisti si sono espressi in termini analoghi. Da parte occidentale, gli Stati Uniti hanno classificato come «stati terroristi» sette paesi, di cui cinque musulmani (Iran, Iraq, Siria, Libia, Sudan; gli altri due sono Cuba e Corea del Nord) . Ciò li identifica in pratica co-me nemici a tutti gli effetti, in quanto attaccano gli Stati Uniti e i loro alleati con tutte le armi a disposizione: esiste dunque , ben riconosciuto, u n o stato di guerra tra le due parti. I funzionari americani chiamano questi stati «fuorilegge», «violenti» e «ban-diti», estromettendoli in tal m o d o dalla comunità civile inter-nazionale e rendendol i oggetti di legittime contromisure multi-

15 Ayatollah Ruhollah Khomeini, Islam and Revolution, Berkeley, CIA, Mizan Press, 1981, p. 305.

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laterali o unilaterali. Il governo degli Stati Uniti accusò i re-sponsabili dell 'at tentato dinamitardo al World Trade Center di voler «scatenare una guerra di terrorismo urbano contro gli Sta-ti Uniti» e sostenne che i cospiratori accusati di t ramare ulterio-ri attentati a Manhat tan erano «soldati» dediti a «scatenare una guerra» contro gli Stati Uniti. Se i musulmani sostengono che l 'Occidente fa la guerra all'Islam e gli occidentali che i g ruppi islamici f anno la guerra all 'Occidente, appare sensato dedur re che qualcosa del genere sia effettivamente in atto.

In questa guer ra strisciante, ciascuna par te ha tratto vantag-gio dalla propria forza e dall 'altrui debolezza. Dal p u n t o di vi-sta militare, si è trattato prevalentemente di u n o scontro tra azioni terroristiche da un lato e raid aerei dall 'altro. I militanti islamici s f ru t tano le società aper te del l 'Occidente e piazzano auto-bomba su obiettivi selezionati. I militari occidentali sfrut-tano i cieli aperti dell 'Islam e lanciano bombe intelligenti su bersagli mirati. I guerriglieri islamici proget tano l'assassinio di eminent i personali tà occidentali; gli Stati Uniti complo t tano per rovesciare i regimi islamici estremisti. Il Dipar t imento del-la Difesa statunitense riferisce che nel quindicennio 1980-1995 gli Stati Uniti sono stati impegnat i in diciassette operazioni mi-litari in Medio Oriente , tutte dirette contro stati musulmani . Non esiste un ruol ino lon tanamente paragonabile di operazio-ni militari statunitensi cont ro la popolazione di qua lunque al-tra civiltà.

A tutt 'oggi, ciascuna delle parti belligeranti ha mantenu to , eccezion fatta per la guer ra del Golfo, un profilo ragionevol-men te basso astenendosi dal dichiarare gli atti di violenza subi-ti come atti di guer ra ai quali r ispondere in m o d o globale. «Se la Libia ordinasse a u n o dei suoi sottomarini di a f fondare u n a nave di linea americana», osservava l '«Economist», «gli Stati Uniti n o n si l imiterebbero a chiedere l 'estradizione del co-mandan te del sottomarino, ma lo considererebbero un atto di guer ra da par te di un governo. In linea di principio, il bom-ba rdamen to di un aereo di linea da par te dei servizi segreti li-bici è la stessa cosa»."5 Tuttavia, i protagonisti di questa guer ra adot tano ent rambi tattiche molto più violente di quelle impie-gate da Stati Uniti e Unione Sovietica ai tempi della Guer ra

16 «Econoinisl», 23 novembre 1991, p. 15.

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f redda. Tranne rare eccezioni, nessuna delle due superpotenze ha ucciso premedi ta tamente uni tà civili e f inanche militari del-la par te opposta, cosa che invece si verifica r ipe tu tamente nel-la situazione di guer ra strisciante in corso.

I leader americani sostengono che i musulmani impegnau in questa guer ra strisciante sono u n a sparuta minoranza il cui ri-corso alla violenza viene stigmatizzato dalla g rande maggioran-za dei musulmani moderat i . Forse è vero, ma mancano riscon-tri in tal senso. In tutti i paesi musulmani non si è avuto il ben-ché min imo cenno di protesta contro gli atd di violenza an-tioccidentale. I governi musulmani , anche quei pochi amici del l 'Occidente o d ipendent i da esso, si sono mostrati assai reti-centi q u a n d o si è trattato di condanna re atd terrorisdci cont ro l 'Occidente. Sul versante opposto, l 'opinione pubblica e i go-verni europei h a n n o ampiamente avallato e ra ramente critica-to le iniziative americane contro i rivali musulmani , a differen-za della s t renua opposizione più volte manifestata al l 'epoca della Guer ra f r edda nei confront i delle iniziative amer icane contro l 'Unione Sovietica e il comunismo. Nei conflitti tra ci-viltà, a differenza di quan to avviene con quelli ideologici, si sta sempre dalla parte della propr ia razza.

II vero problema per l 'Occidente non è il fondamenta l i smo islamico, ma l'Islam in quan to tale, u n a civiltà diversa le cui po-polazioni sono convinte della superiori tà della propr ia cultura e ossessionate dallo scarso potere di cui dispongono. Il proble-ma dell 'Islam non è la Cia o il Dipar t imento della Difesa degli Stati Uniti, ma l 'Occidente, u n a civiltà diversa le cui popolazio-ni sono convinte del carattere universale della propr ia cultura e c redono che il maggiore - seppur decrescente - potere dete-nu to imponga loro l 'obbligo di d i f fondere quella cultura in tutto il mondo . Sono quesd gli ingredienti di base che alimen-tano la conflittualità tra Islam e Occidente.

Asia, Cina e America

Il crogiolo delle civiltà. I mutamenti economici verificatisi in Asia, in particolare in Asia orientale, rappresentano uno degli sviluppi più significativi a livello globale della seconda metà del xx secolo. Nei primi anni Novanta lo sviluppo economico aveva generato

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una sorta di euforia economica in mold osservatori, i quali vede-vano l'Asia orientale e l ' intera area del Pacifico congiungersi at-traverso red commerciali sempre più vaste in grado di assicurare pace e armonia tra le nazioni. L 'otdmismo era fondato sull'assai dubbio presupposto che l ' interscambio commerciale fosse inva-riabilmente una forza di pace. Pur t roppo non è così. La crescita economica genera instabilità polidca sia sul piano in terno che nei rapport i internazionali, a l terando gli equilibri di potere tra paesi e regioni. L'interscambio economico mette gli uomini a contatto, ma non li avvicina. Storicamente, esso ha anzi sovente prodot to una maggiore coscienza delle differenze tra i popoli e stimolato paure reciproche. Il commercio tra paesi produce pro-fitti ma anche conflitti. Se l 'esperienza del passato conta qualco-sa, l'Asia del fulgore economico genererà un'Asia piena di om-bre politiche, un'Asia lacerata da instabilità e conflittualità.

Lo sviluppo economico dell'Asia e la sempre maggiore auto-stima delle società asiatiche s tanno disgregando l 'ordine politi-co internazionale in a lmeno tre modi. 1) Lo sviluppo econo-mico consente agli stati asiatici di espandere il propr io poten-ziale militare, genera incertezza sui rapport i futuri tra quei pae-si e por ta alla luce vertenze e rivalità rimaste sopite duran te la Guerra f redda , accrescendo così la probabilità di conflitti e di instabilità nella regione. 2) Lo sviluppo economico accresce l ' intensità dei conflitti tra le società asiatiche e l 'Occidente, Sta-ti Uniti in testa, e aumenta le possibilità per le società asiatiche di prevalere. 3) La crescita economica della maggiore potenza asiatica, la Cina, rafforza l ' inf luenza cinese nella regione e la probabili tà che la Rpc r iaffermi la propr ia tradizionale egemo-nia in Asia orientale, costr ingendo così altre nazioni o ad «alli-nearsi» e adattarsi a tali sviluppi, oppure a fare da «contrappe-so» e tentare di contenere l ' inf luenza cinese.

Nel corso dei molti secoli di influenza occidentale, i rapporti internazionali che davvero contavano si sono ridotti a una parti-ta giocata interamente dalle maggiori potenze occidentali, cui si sono in qualche misura unite prima la Russia nel XVTII secolo e quindi il Giappone nel xx. L 'Europa era la principale arena di conflitti e di cooperazione tra le grandi potenze, e anche duran-te la Guerra f redda la principale linea di confronto tra le due superpotenze passava per il cuore dell 'Europa. Viceversa, se le relazioni internazionali che contano nel m o n d o post-Guerra

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f redda h a n n o una ribalta, questa è l'Asia, e l'Asia orientale in pardcolare. L'Asia è il crogiolo delle civiltà. La sola Asia orienta-le ospita società appar tenend a sei civiltà: giapponese, sinica, or-todossa, buddista, musulmana e occidentale, cui l'Asia meridio-nale aggiunge l ' induismo. Gli stad guida di quattro civiltà (Giap-pone, Cina, Russia e Stati Unid) svolgono un ruolo di pr imo piano in Asia orientale; l'Asia meridionale vi aggiunge l 'India, mentre l 'Indonesia è un'al tra potenza musulmana in ascesa. L'A-sia orientale conuene inoltre diverse potenze di medio livello di un certo prestigio economico, quali Corea del Sud, Taiwan e Ma-laysia, cui si aggiunge un Vietnam potenzialmente forte. Il risul-tato è un modello di relazioni internazionali molto complesso, paragonabile per molti aspetu a quello esisdto in Europa tra il XVIII e il xix, e contenente tutù i fattori d'instabilità e d'incertez-za che caratterizzano le situazioni muldpolari.

La natura composita, in termini di cultura e potere, dell'Asia orientale differenzia ne t tamente quest 'area dal l 'Europa occi-dentale; e queste differenze si aggiungono a quelle economi-che e politiche. Tutti i paesi del l 'Europa occidentale sono de-mocrazie stabili, h a n n o economie di mercato e presentano alti livelli di sviluppo economico. A metà degli anni Novanta l'Asia comprendeva una democrazia stabile, diverse democrazie di recente formazione e instabili, quat t ro dei c inque regimi ditta-toriali comunisti ancora rimasti al mondo , più alcuni regimi militari, dit tature personali e sistemi autoritari monopart i t ici . I livelli di sviluppo economico variano da quelli del Giappone e di Singapore a quelli del Vietnam e della Corea del Nord . E in atto una tendenza generale a l l 'aper tura economica e al regime di mercato, ma i sistemi economici con t inuano a spaziare dal-l ' economia pianificata della Corea del Nord a varie combina-zioni di controllo statale ed imprendi tor ia privata, f ino ad arri-vare al l 'economia liberista di H o n g Kong.

A parte l 'ordine occasionale e relativo garanti to in passato nella regione dall 'egemonia cinese, u n a società internazionale (nel senso britannico del termine) non era mai esistita in Asia orientale così come invece è accaduto per l 'Europa occidenta-le.17 In quest 'ult ima parte di secolo l 'Europa è stata unificata da u n a rete s traordinariamente fitta di istituzioni internazionali:

17 Barry Buzan e Gerald Segai, «Rethinking East Asian Security», in «Survi-val», n. 36 (Estate 1994), p. 15.

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Unione europea, Nato, Unione europea occidentale, Consiglio d 'Europa, Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa e altre ancora. L'Asia orientale non ha avuto niente di paragonabile a eccezione dell 'Asean, che però non comprende nessuna delle maggiori potenze, ha di n o r m a evitato di affron-tare quesdoni legate al tema della sicurezza e sta appena ini-ziando a sviluppare le pr ime f o r m e di integrazione economica. Negli anni Novanta è stata creata l 'Apec, un 'organizzazione molto più ampia che incorpora quasi tutti i paesi del l 'area del Pacifico, ma si è rivelata un f o r u m di dibattito ancor più incon-sistente dell 'Asean. Non esiste nessun'al tra grande istituzione multilaterale che aggreghi le principali potenze asiatiche.

Ancora: in Asia orientale i germi di conflittualità tra gli stati sono numerosissimi. Due aree calde notor iamente pericolose sono quelle che coinvolgono le d u e Coree e le due Cine. Que-sti, tuttavia, sono retaggi della Guer ra f redda . Le di f ferenze ideologiche s tanno p e r d e n d o di significato, e nel 1995 i rap-porti tra le due Cine si e rano notevolmente ampliati e quelli tra le due Coree iniziavano a farlo. La possibilità di una guer ra tra le due Coree è reale, ma remota; le probabilità di u n o scontro tra le due Cine sono più alte, ma pur sempre limitate, a m e n o che i taiwanesi non r inunc ino alla propria identità cinese e si proclamino fo rmalmente Repubblica ind ipenden te di Taiwan. Come recitava un documen to militare cinese ci tando un det to popolare, «dovrebbero esserci dei limiti agli scontri tra membr i di una stessa famiglia».18 Sebbene un 'esplosione di violenza tra le due Coree o le due Cine resti un 'eventual i tà possibile, è pro-babile che la comunanza culturale la renda col passare del tem-po sempre più remota.

In Asia orientale ai contrasti ereditati dalla Guerra f redda si vanno sostituendo altri possibili conflitti f ru t to di vecchie riva-lità e di nuovi rapport i economici. Le analisi sul livello di sicu-rezza dell'Asia orientale condot te nei primi anni Novanta parla-vano invariabilmente di questa regione come di un '«area peri-colosa», «densa di rivalità», u n a regione dilaniata da «svariate

18 Can China \ Armed Forres Win the Nexl War?, brani tradotti e pubblicati in Ross H. Munro, «Eavesdropping on the Chinese Militar)': Where It Expects War Where It Doesn't», in «Orbis», n. 38 (Estate 1994), p. 365. Gli autori di questo documento si spinsero a dire che l'uso della forza militare contro Taiwan «sarebbe una decisione davvero poco saggia».

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guerre fredde», che «avanza spalle al futuro», in cui guer re e in-stabilità regnavano sovrane.19 A differenza del l 'Europa occiden-tale, a metà anni Novanta l'Asia orientale presentava ancora ver-tenze territoriali irrisolte, le più important i delle quali e rano quelle tra Russia e Giappone sulle isole settentrionali, e tra Ci-na, Vietnam, Filippine e forse altri stati dell'Asia sudorientale sul Mar Cinese Meridionale. Le dispute di confine tra Cina da un lato e Russia, India e altri paesi dall 'altro, a metà degli anni Novanta sembravano sopite, ma pot rebbero riesplodere in ogni momento . Lo stesso vale per le rivendicazioni cinesi sulla Mon-golia. Movimenti insurrezionali o secessionisti, a volte sostenud dall 'estero, agivano a Mindanao, a Timor orientale, nel Tibet, nel sud della Thailandia e nella Birmania orientale. Inoltre, se a metà degli anni Novanta tra gli stad dell'Asia orientale regnava la pace, nei precedent i c inquant 'anni Corea e Vietnam avevano combat tuto delle vere e proprie guerre, e la maggiore potenza asiatica, la Cina, era stata in guer ra sia contro gli Stad Uniti sia contro quasi tutti i popoli limitrofi: coreani, vietnamiti, cinesi nazionalisti, indiani, tibetani e russi. Nel 1993 un rappor to del-le forze armate cinesi identificava nella regione otto punt i caldi che minacciavano la sicurezza militare cinese, e la Commissione militare centrale cinese giunse alla conclusione che le prospet-tive per la sicurezza dell'Asia orientale apparivano «molto fo-sche». Dopo secoli di sconvolgimenti, l 'Europa occidentale è un ' a rea pacifica dove l 'eventualità di un conflitto è inimmagi-nabile. In Asia orientale le cose stanno in modo ben diverso e, come ha suggerito Aaron Friedberg, il passato del l 'Europa po-trebbe essere il fu turo dell'Asia.20

Dinamismo economico, dispute territoriali, rivalità riesuma-te e incertezze politiche h a n n o al imentato negli anni Ot tanta e Novanta significativi aument i delle spese e degli arsenali mili-tari in Asia orientale. Sf ru t tando la prosperi tà economica da

19 Buzan e Segai, «Rethinking East Asian Security», p. 7; Richard K. Betts, «Wealth, Power and Instability: East Asia and the United States After the Cold War», in «International Security», n. 18 (Inverno 1993-94), pp. 34-77; Aaron L. Friedberg, «Ripe for Rivalry: Prospects for Peace in Multipolar Asia», in «International Security», n. 18 (Inverno 1993-94), pp. 5-33. 20 Cari China's ArmedForces Win the Next War?, brani tradotti e pubblicati in Munro, «Eavesdropping on the Chinese», p. 355 sgg.; «New York Times», 16 novembre 1993, p. A6; Friednerg, «Ripe for Rivalry», p. 7.

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poco acquisita nonché , nella maggior par te dei casi, u n a popo-lazione ben istruita, i governi est-asiatici h a n n o provveduto a rimpiazzare i propr i enormi eserciti di «contadini» male equi-paggiati con forze armate di dimensioni minori ma più profes-sionali e dota te di armi più sofisticate. Col moltiplicarsi dei dubbi sull 'intensità de l l ' impegno statunitense in Asia orientale, i paesi di quest 'area mirano a u n a sorta di autosufficienza mili-tare. Pur con t inuando a impor ta re grandi quantitativi di armi dal l 'Europa, dagli Stati Uniti e dall 'ex Unione Sovietica, gli sta-ti est-orientali h a n n o privilegiato le importazioni di tecnologia per costruirsi in propr io aerei, missili e apparecchiature elet-t roniche al tamente sofisticate. Il Giappone e gli stati del l 'area sinica (Cina, Taiwan, Singapore e Corea del Sud) possiedono industrie militari sempre più sofisticate. Data la conformazione prevalentemente l i toranea dell'Asia orientale, è stata data mol-ta importanza alla proiezione verso l 'es terno e al potenziale ae-reo e navale. Di conseguenza nazioni che in passato non e rano mil i tarmente in grado di affrontarsi , adesso lo sono sempre di più. Questa escalation militare è stata caratterizzata da un bas-sissimo livello di trasparenza, e ha diffuso sospetti e incertez-za.21 In u n a situazione di rappor t i tra potenze es t remamente fluida, ciascun governo finisce necessar iamente e legittima-men te col chiedersi: «Da qui a dieci anni chi saranno i miei ne-mici e chi, eventualmente, gli amici?».

Le guerre fredde tra Asia e America. Tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta i rappord tra Stati Uniti e paesi asiatici, fatta eccezione per il Vietnam, sono diventati sempre più conflittuali, e la capacità statunitense di prevalere in tali controversie è andata sempre più riducendosi. Questa tendenza risaltava in modo parti-colare nei confronti delle grandi potenze dell'Asia orientale; i rap-porti degli Stati Uniti con Cina e Giappone hanno avuto un'evo-luzione simile; in entrambi i casi si è parlato di vere e proprie

21 Desmond Ball, «Arms and Afiluence: Military Acquisitions in the Asia-Pa-cific Region», in «International Security», n. 18 (Inverno 1993-94), pp. 95-111; Michael T. Klare, «The Next Great Arms Race», in «Foreign Affaire», n. 72 (Estate 1993), p. 137 sgg.; Buzan e Segai, «Rethinking», pp. 8-11; Gerald, Segai, «Managing New Arms Races in the Asia/Pacific», in «Washington Quarterly», n. 15 (Estate 1992), pp. 83-102; «Economist», n. 20, Febbraio 1993, pp. 19-22.

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guerre fredde.22 Tali sviluppi simultanei ebbero origine sotto l'am-ministrazione Bush e si sono quindi acudzzad durante l 'ammini-strazione Clinton. A metà degli anni Novanta, i rappord tra gli Sta-ti Uniti e le due maggiori potenze asiatiche erano a dir poco «tesi» e non sembravano esserci prospettive di miglioramento.23

Nei primi anni Novanta, i rapport i tra Giappone e Stati Uni-ti sono andati sempre più deteriorandosi su un ' ampia gamma di questioni, tra cui il ruo lo del Giappone nella gue r ra del Golfo, la presenza militare statunitense in Giappone, l'atteg-giamento n ipponico verso le iniziative americane nei confron-ti di Cina e di altri paesi sulla questione dei diritti umani , la partecipazione nipponica alle missioni delle forze di pace O n u e, soprattutto, i rapporti economici e quelli commerciali in par-ticolare. I r i ferimenti a u n a guer ra commercia le d ivennero un 'ab i tud ine costante.241 funzionari americani, soprat tut to sot-to l 'amministrazione Clinton, chiesero al Giappone concessio-

22 Si veda, ad esempio, «Economist», 26 giugno 1993, p. 75; 24 luglio 1995, p. 25; «Times», 3 luglio 1995, pp. 30-31; e, sulla Cina, Jacob Heilbrunn, «The Next Cold War», in «New Republic», 20 novembre 1995, p. 27 sgg. 23 Va notato che, almeno negli Stati Uniti, esiste una certa confusione ter-minologica per quanto attiene ai rapporti tra paesi. Per rapporti «buoni» si intende rapporti amichevoli e di cooperazione, mentre per rapporti «cattivi» si intende rapporti ostili e antagonistici. Tale consuetudine terminologica fonde due concetti molto diversi tra loro; quello di amicizia/ostilità e quello di desiderabilità/indesiderabilità. Essa riflette il presupposto, tipicamente americano, che nei rapporti internazionali l'armonia sia sempre cosa buona e la conflittualità sempre cosa cattiva. L'identificazione di buoni rapporti con rapporti amichevoli, tuttavia, è valida solo se si presume che la conflittualità non sia mai desiderabile. La gran parte degli americani considerava che fos-se cosa «buona» il fatto che l'amministrazione Bush instaurasse di fatto «cat-tivi» rapporti con l'Iraq andando in guerra nel Kuwait. Per evitare confusio-ne in merito al quesito se «buoni» rapporti significhi rapporti desiderabili oppure armoniosi e «cattivi» indesiderabili oppure ostili, impiegherò gli ag-gettivi «buono» e «cattivo» solo nel significato di desiderabile e indesiderabi-le. Particolare interessante (anche se lascia alquanto perplessi): all'internò della loro società gli americani sono tenaci assertori della competizione: tra opinioni, gruppi, partiti, settori governativi, aziende. Perché gli americani pensano che la conflittualità sia un bene all'interno della propria società e un male nei rapporti tra società diverse, è un quesito affascinante cui, per quanto ne sappia, nessuno ha mai cercato seriamente di rispondere. 24 Per una discussione sui tipi di guerra commerciale e sulle situazioni che potrebbero farle sfociare in guerre militari, si veda David Rowe, Trade Wars and International Security: The Politicai Economy of International Economie Conjlict (Working Paper no. 6, Project on the Changing Security Environment and American National Interests, John M. Olin Institute for Strategie Studies), Harvard University, Luglio 1994, p. 7 sgg.

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ni sempre maggiori, e i funzionar i nipponici si opposero con sempre maggior veemenza. Ogni nuova controversia commer-ciale che scoppiava tra i due paesi era più aspra e difficile da ri-solvere della precedente . Nel marzo del 1994, ad esempio, il presidente Clinton firmò un decreto che gli conferiva l 'autorità di inasprire le sanzioni commerciali contro il Giappone. Ciò scatenò le proteste non solo dei giapponesi ma anche del pre-sidente del Gatt, la principale organizzazione per il commercio mondiale . Poco tempo dopo, il Giappone rispose con un vele-noso attacco contro gli interessi economici americani, al che gli Stati Uniti accusarono fo rmalmente il Giappone di discrimina-re le aziende americane nell 'assegnazione delle commesse sta-tali. Nella primavera del 1995 l 'amministrazione Clinton mi-nacciò di imporre una tassa del 100 per cento sulle automobil i di lusso giapponesi, e un accordo in materia fu raggiunto solo poco pr ima del l 'entrata in vigore di tale sanzione. Tra i due paesi era chiaramente in atto qualcosa di molto simile a u n a guer ra commerciale. Alla metà degli anni Novanta, i rappor t i tra i due paesi aveva raggiunto un p u n t o di acrimonia tale da indur re alti esponent i politici nipponici a met tere in discussio-ne la presenza militare americana in Giappone.

In questi anni l 'opinione pubblica dei due paesi ha sviluppa-to un at teggiamento rec iprocamente sempre m e n o favorevole. Nel 1985, l '87 per cento dei cittadini americani aveva afferma-to di nutr ire , in generale, simpatia per il Giappone; nel 1990 la percentuale era scesa al 67 per cento, e nel 1993 al 50 per cen-to men t re quasi i due terzi a f f e rmarono di evitare, q u a n d o pos-sibile, di comprare prodot t i nipponici . Nel 1984, il 73 per cen-to dei giapponesi definiva amichevoli i rapport i tra Giappone e Stati Uniti; nel 1993 il 64 per cento li definiva ostili. L ' anno 1991 ha segnato il pun to di svolta cruciale che ha muta to l'at-teggiamento del l 'opinione pubblica rispetto a quello prevalen-te all 'epoca della Guerra f redda . In quel l 'anno, per la pr ima volta, gli americani anteposero il Giappone al l 'Unione Sovieti-ca quale potenziale minaccia alla propr ia sicurezza, e lo stesso fecero i nipponici con gli americani.2 '

25 «New York Times», 6 luglio 1993, p. A l , A6; 10 febbraio 1992, p. 16 sgg.; «Economist», 17 febbraio 1990, pp. 21-4; «Boston Globe», 25 novembre 1991, pp. 1, 8; Dan Oberdorfer, «Washington Post», 1 marzo 1992, p. A l .

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AI muta to at teggiamento del l 'opinione pubblica ha fatto ri-scontro quello delle rispettive élite. Negli Stati Uniti è venuto alla ribalta un consistente g r u p p o di revisionisti accademici, in-tellettuali e politici che ha sottolineato le differenze culturali e strutturali tra i due paesi e la necessità per gli Stati Uniti di as-sumere un at teggiamento molto più intransigente nella risolu-zione dei contenziosi economici con il Giappone. L ' immagine del Giappone proiettata da mass media, saggi e romanzi è di-ventata sempre più negativa. Allo stesso modo, in Giappone è venuta alla ribalta una nuova generazione di leader politici im-m e m o r e della potenza esibita dall 'America duran te la Seconda guer ra mondiale e della benevolenza da essa mostrata nell ' im-media to dopoguerra ; u n a generazione orgogliosa dei successi economici conseguiti dal p ropr io paese e molto più determi-nata di quella precedente a opporsi alle richieste americane. Tali «oppositori» nipponici r appresen tano il contral tare dei «revisionisti» americani, e in en t rambi i paesi i candidati politi-ci h a n n o scoperto che perorare un at teggiamento più intransi-gente nei rapport i nippo-americani riscuoteva g rande successo sull 'elettorato.

Tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta h a n n o assunto un carattere sempre più conflittuale anche le relazioni tra America e Cina. I conflitti in corso tra i due paesi, a f fe rmò Deng Xiaoping nel settembre del 1991, costituivano «una nuova guer ra fredda», espressione poi costantemente r ipetuta sulla stampa cinese. Nell 'agosto del 1995 l 'agenzia di stampa gover-nativa dichiarò che «i rapport i sino-americani sono al livello più basso da quando i due paesi h a n n o ristabilito rapport i diploma-tici», nel 1979. I funzionari cinesi cominciarono a denunciare regolarmente presunte ingerenze americane nei loro affari in-terni. «Occorre dire», sosteneva un documento in te rno del go-verno cinese del 1992, «che da quando sono diventati l 'unica su-perpotenza, gli Stati Uniti s tanno perseguendo u n a forsennata politica di potere e di egemonia, ma anche che la loro forza è in relativo declino». «Le forze occidentali ostili», a f fe rmò il presi-dente J iang Zemin nell 'agosto del 1995, «non h a n n o abbando-nato per un solo istante il loro progetto di occidentalizzare e "dividere" il nostro paese». Nel 1995 esisteva un ampio consen-so tra i leader politici e gli analisti cinesi sul fatto che gli Stati Uniti stessero tentando di «dividere la Cina dal p u n t o di vista

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territoriale, sovvertirla da quello politico, contenerla da quello strategico e frustrarla da quello economico».20

Tutte queste accuse erano suffragate da prove. Gli Stad Unid avevano consendto al presidente taiwanese Lee di recarsi nel lo-ro paese, avevano venduto a Taiwan 150 caccia F-16, avevano de-finito il Tibet un «territorio sovrano occupato», avevano de-nuncia to la Cina per gli abusi dei diritd umani da essa perpe-trad, e inoltre: negato a Pechino le Olimpiadi del 2000, norma-lizzato i r appord con il Vietnam, accusato la Cina di vendere al-l 'Iran componend per la costruzione di armi chimiche, imposto sanzioni commerciali alla Cina in risposta alla vendita da parte cinese di apparecchiature missilisdche al Pakistan, e minacciato la Cina di ulteriori sanzioni economiche, vietandole al tempo stesso l 'ammissione all 'Organizzazione mondiale per il com-mercio. I due paesi si accusavano l 'un l 'altro di malafede: la Ci-na, secondo gli americani, violava gli accordi sulle esportazioni di missili, sui diritti di proprietà intellettuale e sul lavoro coatto; gli Stad Uniti, secondo i cinesi, violavano gli accordi presi per-met tendo l 'ingresso nel loro paese al presidente Lee e venden-do a Taiwan aerei da comba tdmento a tecnologia avanzata.

Il più importante g ruppo sociale cinese ostile agli Stati Uniti sono le forze armate, che pare abbiano esercitato costanti pres-sioni sul governo per indurlo ad assumere una posizione più in-transigente nei confronti degli americani. Risulta che nel giugno del 1993 cento generali cinesi abbiano inviato una lettera a Deng nella quale lamentavano la politica «passiva» del governo nei confronti degli Stati Uniti e la sua incapacità di opporsi ai tentativi americani di «ricattare» la Cina. Nel l 'autunno di quel-l ' anno un rappor to confidenziale del governo cinese del ineò quelli che per l'Esercito costituivano i principali motivi di con-flitto con gli Stati Uniti: «Poiché Cina e Stati Uniti sono divisi da conflitti di vecchia data in merito alle loro diverse ideologie, si-stemi sociali e indirizzi di politica estera, sarà impossibile mi-gliorare in modo sostanziale le relazioni tra i due paesi». Poiché gli americani pensano che l'Asia orientale diverrà «il cuore del-

26 Cit. in «New York Times», 21 aprile 1992, p. AIO; «New York Times», 22 settembre 1991, p. E2; 21 aprile 1992, p. Al ; 19 settembre 1991, p. A7; 1 ago-sto 1995, p. A2; «International Herald Tribune», 24 agosto 1995, p. 4; «China Post» (Taipei), 26 agosto 1995; p. 2; «New York Times», 1 agosto 1995, p. A2; che cita il rapporto di David Shambaugh su interviste realizzate a Pechino.

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l 'economia mondiale ... gli Stati Uniti non possono tollerare la presenza di un avversario potente in Asia orientale».2 ' A metà de-gli anni Novanta, i funzionari e le agenzie cinesi dipingevano quot idianamente gli Stati Uniti come una potenza ostile.

In parte, il crescente antagonismo tra Cina e Stati Uniti era motivato, in entrambi i paesi, da considerazioni di politica in-terna. Come per il Giappone, anche qui l 'opinione pubblica informata americana era divisa. Molti esponenti dell'establish-men t sostenevano una politica di collaborazione costruttiva allo scopo di espandere i rapport i economici con la Cina e di atti-rarla nella cosiddetta comuni tà delle nazioni. Altri invece sotto-lineavano la potenziale minaccia che la Cina costituiva per gli interessi americani, sostenevano che iniziative concilianti nei suoi riguardi avrebbero avuto conseguenze negative e invocava-no u n a politica di rigido contenimento . Nel 1993 l 'opinione pubblica classificò la Cina al secondo posto, alle spalle dell 'Iran, tra i paesi che costituivano la minaccia più grave per gli Stati Uniti. Il governo americano ha spesso compiuto gesti simbolici, ad esempio la visita di Lee a Cornell e l ' incontro di Clinton con il Dalai Lama, che h a n n o fatto infuriare i cinesi, ma al t empo stesso ha preferi to sacrificare principi come la difesa dei diritti umani sull'altare degli interessi economici, com'è accaduto per l 'estensione del trattato che accorda alla Cina lo status di nazio-ne favorita. Da parte cinese, il governo aveva bisogno di un nuo-vo nemico per puntellare i propr i appelli nazionalistici e per le-gittimare il propr io potere. Via via che i tempi della lotta per la successione si allungavano, l ' influenza politica dei militari au-mentava sempre di più, il presidente J iang e gli altri conten-denti alla pol t rona di Deng non potevano permettersi la mini-ma elasticità in materia di promozione degli interessi cinesi.

• N e l corso di un decennio, dunque , si è verificato un «dete-r ioramento» dei rapport i americani sia con la Cina che con il Giappone. Il mutamento nei rapport i asiatico-americani è stato così ampio e ha coinvolto tali e tante aree di conflitto da far escludere che le sue cause siano riconducibili a singoli conflitti di interesse sui pezzi di r icambio delle automobili, sulla vendita

27 Donald Zagoria, American Foreign Policy Newsletter, Ottobre 1993, p. 3; Can China's Armed Forces Win the Next War?, in Munro, «Eavesdropping on the Chinese Military», p. 355 sgg.

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di videocamere o sulle basi militari da un lato, e sull'incarcera-men to dei dissidenti, sul trasferimento di armi o sulla pirateria intellettuale dall 'altro. Inoltre il peggioramento simultaneo dei rapport i con ent rambe le potenze asiatiche andava chiaramen-te a de t r imento degli interessi americani. Le più elementari re-gole della diplomazia e della politica di potenza suggerivano agli Stati Unid di cercare di met tere Cina e Giappone u n o con-tro l 'altro o, quantomeno, di ammorbidire i propri rappord con u n o dei due paesi dove si facevano tesi con l'altro. Ciò tuttavia non è avvenuto. Fattori di carattere più generale h a n n o stimo-lato la conflittualità nei rapport i asiatico-americani e complica-to la risoluzione dei singoli punt i di contrasto che si presenta-vano via via. Questo f e n o m e n o generale aveva cause generali.

1) L'accresciuta interazione tra società asiatiche e Stati Uni-ti sotto fo rma di un maggiore livello di comunicazioni, scambi commerciali , investimenti e conoscenza reciproca ha moltipli-cato i campi di un possibile scontro d'interessi, r e n d e n d o mi-nacciosi agli occhi delle rispettive società usi e costumi altrui che, visti a debita distanza, sembravano innocui ed esotici.

2) La minaccia sovietica degli anni Cinquanta por tò alla fir-ma del trattato nippo-americano di reciproca sicurezza. La cre-scita del potere sovietico negli anni Settanta indusse America e Cina a stabilire relazioni diplomatiche nel 1979 e quindi a sti-pulare un accordo di cooperazione. La fine della Guer ra fred-da ha fatto venir m e n o l ' interesse c o m u n e tra Stati Uniti e po-tenze asiatiche senza sostituirlo con nulla, e facendo anzi sor-gere nuovi p rofondi conflitti di interesse.

3) Lo sviluppo economico dei paesi est-asiatici ha mutato gli equilibri di potere complessivi tra tali società e gli Stad Uniti. Gli asiatici, come abbiamo visto, h a n n o rivendicato con sempre maggior forza la validità dei propri valori e delle proprie istitu-zioni e la superiorità della propria cultura rispetto a quella occi-dentale. Gli americani, da parte loro, sono stati indotd a crede-re, soprattutto dopo la vittoria nella Guerra fredda, che i loro va-lori e isdtuzioni avessero rilevanza universale, e di avere ancora il potere di determinare la politica interna delle società asiatiche.

Il muta to contesto internazionale ha por ta to alla luce le dif-fe renze culturali di fondo . L 'e thos confuc iano che pervade molte società asiatiche celebra valori quali autorità, gerarchia, subordinazione dei diritti e degli interessi dell ' individuo, l 'im-

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portanza del consenso, l ' importanza di evitare il conf ron to e di «salvare la faccia» nonché , più in generale, la supremazia dello stato sulla società e della società sull 'individuo. Gli asiadci, inol-tre, t e n d o n o a pensare all 'evoluzione delle loro società in ter-mini di secoli e millenni, e privilegiare i successi a lungo termi-ne. Tut to ciò contrasta p ro fondamen te con la fede degli ame-ricani in valori quali libertà, uguaglianza, democrazia e indivi-dualismo, con la loro propens ione a diffidare dello stato, a sfi-dare l 'autorità, a p ropugnare il controllo delle istituzioni, a in-coraggiare la competizione, a santificare i diritti dell ' individuo e a dimenticare il passato, a ignorare il f u tu ro e concentrarsi a sfrut tare al massimo i successi a breve termine. Le cause della conflittualità sono d u n q u e da ricercare nelle differenze di fon-do che caratterizzano le rispettive culture e società.

Queste differenze h a n n o avuto particolari conseguenze nei rapport i tra gli Stati Uniti e le maggiori società asiatiche. I di-plomatici americani si sono prodigati in tutti i modi per risol-vere i conflitti economici con il Giappone, soprattutto quelli ri-guardant i le eccedenze commerciali del Giappone e la sua ri-trosia ad aprire le por te ai prodot t i e agli investimenti america-ni. I negoziati commerciali nippo-americani h a n n o assunto molte delle caratteristiche propr ie dei negoziati sovietico-ame-ricani sul controllo degli a rmamen t i al l 'epoca della Guer ra f redda . A tutto il 1995 i primi avevano prodot to risultati ancora minor i dei secondi: il conflit to traeva infatti origine dalle di-versità di f ondo delle due economie, e in particolare dalla na-tura tutta particolare del l 'economia giapponese rispetto a quel-la di tutti gli altri paesi più industrializzati. Le importazioni nip-poniche di beni manufat t i ammontavano a circa il 3,1 per cen-to del Pnl, rispetto a u n a media del 7,4 per cento degli altri paesi più industrializzati. Gli investimenti diretti stranieri in Giappone costituivano un minuscolo 0,7 per cento del Pil ri-spetto al 28,6 per cento degli Stati Uniti e al 38,5 per cento del-l 'Europa. Caso unico tra i paesi industrializzati, nei pr imi anni Novanta il Giappone vantava un avanzo di bilancio.28

Nel complesso, l ' economia n ipponica non ha opera to se-

28 Roger C. Altman, «Why Pressure Tokyo? The US-Japan Rift», in «Foreign Affairs», n. 73 (Maggio-Giugno 1994), p. 3;Jeffrey Garten, «The Clinton Asia Policy», in «International Economy», n. 8 (Marzo-Aprile 1994), p. 18.

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condo il det ta to delle presunte leggi universali de l l ' economia occidentale. La superficiale previsione avanzata dagli economi-sti occidentali negli anni Ot tanta secondo cui la svalutazione del dollaro avrebbe ridotto l 'avanzo commerciale giapponese si è dimostrata errata. Se l 'accordo del Plaza del 1985 rettificò il disavanzo commerciale amer icano con l 'Europa, ben poco ef-fet to ebbe invece su quello con il Giappone. Con un apprezza-men to dello yen inferiore a un centesimo rispetto al dollaro, l 'avanzo commerciale n ipponico è rimasto consistente ed è ad-dirittura aumenta to . I giapponesi si sono così mostrad in grado di sostenere al con tempo u n a valuta forte e u n a bilancia com-merciale in attivo. La teoria economica occidentale presuppo-ne l'esistenza di un rappor to inversamente proporzionale tra disoccupazione e inflazione, r i t enendo che un tasso di disoc-cupazione molto al di sotto del 5 per cento scateni pressioni in-flazionistiche. Ciò nonostante il Giappone ha avuto per anni un tasso med io di disoccupazione inferiore al 3 per cento e un ' inf lazione media dell '1,5 per cento. Negli anni Novanta, sia gli economisti americani che quelli giapponesi sono finalmen-te riusciti a scoprire e concettualizzare le differenze di f o n d o dei due sistemi economici. Il livello eccezionalmente basso di importazioni di beni manufat t i del Giappone, concludeva un accurato studio, «non è spiegabile mediante i fattori economi-ci standard». «Checché possano d i rne gli analisti occidentali», ha sostenuto un altro studioso, «l 'economia n ipponica non se-gue la logica occidentale, per la semplice ragione che non si tratta di u n ' e c o n o m i a di libero merca to di s tampo occidentale.

»1 giapponesi ... h a n n o inventato un tipo di economia le cui re-gole scombussolano le capacità di previsione degli osservatori occidentali».'9

29 Edward J. Lincoln, Japan's Unequal Tra.de, Washington, D.C., Brookings In-stitution, 1990, pp. 2-3. Si veda Fred Bergsten e Marcus Noland, Reconciliable Differences? United States-Japan Economie Conjlict, Washington Institute for In-ternational Economics, 1993; Eisuke Sakakibara, «Less Like You», in «Inter-national Economy», Aprile-Maggio 1990, p. 36, che distingue tra economia di mercato capitalistica statunitense ed economia di mercato non capitalistica giapponese; Marie Anchordoguy, «Japanese-American Trade Conflict and Supercomputers», in «Politicai Science Quarterly», n. 109 (Primavera 1994), p. 36, che cita Rudiger Dornush, Paul Krugman, Edward J. Lincoln e Morde-chai E. Kreinin; Eamonn Fingleton, «Japan's Invisible Leviathan», in «Forei-gn Affairs», n. 74 (Marzo-Aprile 1995), p. 70.

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Cosa spiega il carattere peculiare del l 'economia giapponese? Tra i paesi più industrializzati, l ' economia nipponica non ha uguali in quanto la società nipponica è marcatamente non oc-cidentale. La società e la cultura giapponesi differiscono dalla società e dalla cultura occidentali e da quelle statunitensi in par-ticolare. Queste differenze sono state sottolineate in tutte le più serie analisi comparate dei due paesi.M La soluzione delle con-troversie economiche tra Giappone e Stati Uniti è subordinata a un mutamen to di fondo della natura di una o di en t rambe le economie, e questo è a sua volta subordinato a un mutamen to di fondo della società e della cultura di u n o o di entrambi i pae-si. Tali mutament i non sono impossibili da conseguire; le so-cietà e le culture, infatti, cambiano. Ciò può accadere, ad esem-pio, in conseguenza di un grande evento traumatico: la schiac-ciante sconfitta subita nella Seconda guer ra mondiale ha tra-sformato due dei regimi più militaristi del m o n d o in due paesi tra i più pacifisti della terra. Appare tuttavia improbabile che gli Stati Uniti o il Giappone possano imporre al con tendente u n a Hiroshima economica. Lo sviluppo economico p u ò inoltre mo-dificare p ro fondamente la struttura sociale e la cultura di un paese, com'è accaduto alla Spagna tra i primi anni Cinquanta e la fine degli anni Settanta: forse la prosperità economica tra-sformerà il Giappone in una società più consumistica e più si-mile all'America. Alla fine degli anni Ottanta, sia in America sia in Giappone qualcuno cominciò a dire che i due paesi sarebbe-ro dovuti diventare un po ' più simili l ' uno all'altro. Seppur in fo rma limitata, l 'accordo nippo-americano sulle «iniziative per gli impediment i strutturali» mirava propr io a promuovere u n a convergenza di questo tipo. Il fallimento di questo come di altri tentativi testimonia quan to le differenze economiche siano p ro fondamente radicate nelle culture delle due società.

Se i conflitti tra Stati Uniti e Asia avevano origine nelle diffe-renze culturali, il loro esito rispecchiava fede lmente i mutati rapport i di potere tra essi. Pur avendo, infatti, l 'America otte-nu to qualche vittoria, il t rend generale è stato favorevole all'A-

30 Per un buon riepilogo delle differenze di cultura, valori, rapporti sociali e atteggiamenti, si veda Seymour Martin Lipset, American Expansionism: A Double-Edged Sword, New York, W. W. Norton, 1996, cap. 7, «American Ex-ceptionalism - Japanese Uniqueness».

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sia, e questo mu tamen to nei rapport i di forza ha contr ibuito ad acuire ancor più i conflitti. L'America pensava che i governi asiatici l 'avrebbero accettata come leader della «comunità in-ternazionale» e avrebbero acconsendto ad applicare alle pro-prie società i precetti e i valori occidentali. Gli asiadci, dal can-to loro, come ha af fermato il vice segretario di Stato Winston Lord, diventavano «sempre più consapevoli e fieri dei loro suc-cessi», si aspettavano di essere trattati alla pari e tendevano a considerare gli Stati Uniti alla stregua di un ' indebi ta «gover-nan te - q u a n d o non sfruttatrice - internazionale». Gli impera-tivi della cultura americana, tuttavia, impongono agli Stati Uni-ti di svolgere negli affari internazionali propr io questa funzio-ne, cosicché le aspettative amer icane h a n n o finito col porsi sempre più in rotta di collisione con quelle asiatiche. Su u n ' a m p i a gamma di problemi, i leader nipponici e quelli di al-tri paesi asiatici h a n n o impara to a dire di no alle rispettive con-tropart i americane». Il pun to di svolta simbolico nei rappor t i tra America e Asia è forse individuabile in quello che u n emi-nen te funzionario governativo n ipponico definì il «primo gran-de deragliamento» nei rappor t i tra Stati Uniti e Giappone, oc-corso nel febbraio del 1994 allorché il p r imo ministro Morihiro Hosokawa rifiutò recisamente la richiesta del presidente Clin-ton di stabilire delle quote per le importazioni n ipponiche di manufat t i statunitensi. «Una cosa del genere sarebbe stata im-pensabile ancora un anno fa», c o m m e n t ò un altro funzionar io nipponico. Un anno dopo, il ministro degli Esteri g iapponese sottolineò questa svolta a f f e rmando che, in un ' epoca di com-petizione economica tra nazioni e regioni, gli interessi nazio-nali del Giappone e rano più important i della sua «mera iden-tità» di m e m b r o dell 'Occidente.3 1

Il graduale adat tamento americano ai mutati equilibri di po-tere è riscontrabile nella linea politica perseguita dal governo statunitense nei confront i dell'Asia negli anni Novanta.

1 ) Riconoscendo di fatto di n o n avere la volontà e / o la capa-

31 «Washington Post», 5 maggio 1994, p. A38; «Daily Telegraph», 6 maggio 1994, p. 16; «Boston Globe», 6 maggio 1994, p. 11; «New York Times», 13 feb-braio 1994, p. 10; Karl D. Jackson, «How to Rebuild America's Stature in Asia», in «Orbis», n. 39 (Inverno 1995), p. 14; Yohei Kono, cit. in Chalmers Johnson ed E. B. Keehn, «The P e n t a g o n i Ossified Strategy», in «Foreign Af-fairs», n. 74 (Luglio-Agosto 1995), p. 106.

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cita di esercitare la necessaria pressione sulle società asiadche, gli Stad Unid h a n n o separato le aree di conf ron to nelle quali potevano esercitare una certa autorità da quelle più spiccata-men te conflittuali. Benché avesse proclamato la difesa dei dirit-ti umani un obiettivo primario della politica estera americana nei confront i della Cina, nel 1994 Clinton cedette alle pressioni degli imprendi tor i americani, di Taiwan e altri, separando il problema dei diritti umani dagli affini economici e rinunciando al tentativo di utilizzare lo status di nazione favorita come stru-men to per influenzare la condot ta cinese nei confront i dei dis-sidenti politici. Al tempo stesso, il governo americano ha for-malmente separato nei rapport i con il Giappone le questioni in materia di sicurezza, in cui poteva presumibilmente esercitare una certa influenza, da quelle commerciali ed economiche in generale, dove i rapport i e rano invece più conflittuali. In tal modo, gli Stati Uniti h a n n o di fatto deposto armi che avrebbero invece potuto utilizzare per la difesa dei diritti umani in Cina e per o t tenere concessioni commerciali dal Giappone.

2) Gli Stati Uniti h a n n o cos tantemente adot ta to nei con-front i delle nazioni asiatiche una politica di «reciprocità pre-sunta», facendo loro varie concessioni nella speranza che ciò le avrebbe indotte a un compor t amen to analogo. Questo atteg-giamento è stato spesso giustificato con .la necessità di mante-nere un «rapporto costruttivo», il «dialogo», con i paesi asiatici. Fin t roppo spesso, tuttavia, questi ultimi h a n n o in terpre ta to quelle concessioni come un segno di debolezza e quindi come stimolo a perseguire ancor più la loro politica di rifiuto delle ri-chieste americane. Ciò si è visto soprattutto con la Cina, che ha risposto all'iniziativa americana di separare la quest ione dello status di nazione favorita con u n a nuova e ancor più violenta onda ta di violazioni dei diritti umani . A causa della tendenza americana a identificare i «buoni» rapport i con rapport i «ami-chevoli», gli Stati Uniti si trovano in posizione di g rande svan-taggio allorché compe tono con le società asiatiche, per le qua-li i «buoni» rapport i sono quelli che p roducono vittorie. Per gli asiatici le concessioni amer icane non vanno ricambiate, ma sfruttate.

3) Nei r icorrenti conflitti commerciali tra Giappone e Stati Uniti si era creato un model lo r icorrente in base al quale gli Stati Uniti avanzavano de te rmina te richieste al Giappone mi-

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nacciando sanzioni in caso di rifiuto. Ciò innescava una lunga serie di negoziati f ino a quando , u n minu to pr ima del l 'entrata in vigore delle sanzioni, veniva annunc ia to il raggiungimento di un accordo i cui termini e rano soli tamente così ambigui da pe rmet te re agli Stati Uniti di proclamare u n a vittoria di princi-pio e al Giappone di met ter lo in atto o meno , a propr io piaci-mento; dopo di che, tut to continuava come prima. Allo stesso m o d o i cinesi si sono associati oblorto collo a dichiarazioni gene-rali di principio relative ai diritti umani , alla proprie tà intellet-tuale o alla non proliferazione nucleare, solo per poi interpre-tarle in m o d o del tutto diverso dagli Stati Uniti e pe rpe tuare così la loro solita linea politica.

Queste di f ferenze culturali, sommate al muta to equilibrio dei poter i tra Asia e America, h a n n o incoraggiato le società asiatiche a sostenersi a vicenda nei loro conflitti con gli Stati Uniti. Nel 1994, ad esempio, pra t icamente tutti i paesi asiatici «dall'Australia alla Malaysia alla Corea del Sud», si schierarono a f ianco del Giappone nella sua opposizione alla richiesta ame-ricana di stabilire delle quote per le importazioni americane. Un uguale schieramento si verificò s imul taneamente a favore della concessione alla Cina dello status di nazione favorita, col pr imo ministro giapponese Hosokawa in pr ima fila a dichiarare che il concet to di diritti umani non poteva essere «applicato al-la cieca» in Asia, e con il singaporese Lee Kuan Yew ad ammo-nire che se avessero esercitato pressioni sulla Cina, «gli Stati Uniti si sarebbero trovati comple tamente soli nel Pacifico».32

In un 'a l t ra manifestazione di solidarietà asiatici, africani e altri h a n n o sostenuto la rielezione del presidente giapponese del-l 'Organizzazione mondia le per la salute contro l 'opposizione del l 'Occidente, men t re il Giappone ha proposto un sudcorea-no alla guida dell 'Organizzazione mondia le per il commerc io contro il candidato americano, l 'ex presidente messicano Car-los Salinas. Da quan to è dato vedere, tutto sta a indicare che per quan to r iguarda i rapport i tra le due sponde del Pacifico, negli anni Novanta i paesi est-asiatici pensano di avere molto di più in comune tra loro che con gli Stati Uniti.

La fine della Guer ra f redda , la crescente interazione tra America e cont inente asiatico e il relativo declino della poten-

32 «New York Times», 2 maggio 1994, p. AIO.

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za americana h a n n o d u n q u e por ta to alla luce il divario cultu-rale tra gli Stati Uniti da un lato e il Giappone e le altre società asiatiche dall 'altro, consen tendo a queste ultime di resistere al-le pressioni americane. L'ascesa della Cina ha lanciato inoltre agli Stati Uniti un 'a l t ra e più significativa sfida. La gamma di conflitti tra America e Cina è molto più ampia di quella tra America e Giappone, e c o m p r e n d e tra l 'altro vertenze econo-miche, la questione dei diritti umani , il Tibet, Taiwan, il Mar Ci-nese Meridionale e la proliferazione degli a rmament i . Su qua-si nessun grande tema politico Stati Uniti e Cina h a n n o obiet-tivi comuni . Le di f ferenze sono inconciliabili. Come pe r il Giappone, questi conflitti sono in gran parte radicati nelle di-verse culture delle due società, benché compor t ino fondamen-tali questioni di potere. La Cina non è disposta ad accettare la leadership americana nel mondo ; gli Stati Uniti non sono di-sposti ad accettare la leadership cinese in Asia. Per oltre due-cento anni l 'America ha cercato di impedire la nascita di u n a potenza dominan te in Europa. Per oltre cento anni , a part ire dalla sua politica della «porta aperta» nei confront i della Cina, ha tentato di fare lo stesso in Asia. Per raggiungere il suo obiet-tivo ha combat tu to due guer re mondial i e una guer ra f r edda cont ro la Germania imperiale, la Germania nazista, il Giappo-ne imperiale, l 'Unione Sovietica e la Cina comunista. L'inte-resse amer icano resta tut tora vivo ed è stato r ia f fermato dai presidenti Reagan e Bush. L'ascesa della Cina quale potenza re-gionale dominan t e in Asia orientale, ove mai dovesse conti-nuare , collide con questo interesse di f ondo americano. Il prin-cipale motivo di conflittualità tra America e Cina sta nella loro diversa visione di f o n d o di quelli che dovrebbero essere i futu-ri equilibri di potere in Asia orientale.

L'egemonia cinese: allineamento e contrapposizione. Con sei civiltà, diciotto paesi, economie in rapido sviluppo e marcate disparità sociali, economiche e politiche, nei primi anni del xxi secolo l'Asia orientale pot rebbe scegliere u n o qualsiasi tra vari possi-bili modelli di sviluppo dei rapport i internazionali . Potrebbe venirsi a creare un complesso intreccio di rapport i cooperativi e conflittuali c o m p r e n d e n t e la maggior par te delle grandi e medie potenze della regione. O p p u r e pot rebbe nascere un si-stema internazionale mult ipolare domina to dalle grandi po-

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tenze, con Cina, Giappone, Stati Uniti, Russia e forse India im-pegnate in un processo di reciproco bi lanciamento e competi-zione. O p p u r e lo scenario politico est-asiatico pot rebbe essere domina to da u n a prolungata rivalità tra Cina e Giappone o tra Cina e Stati Uniti, con gli altri paesi allineati a fianco del l 'una o dell 'altra oppure schierati su posizioni neutrali . O ancora, la politica est-asiatica pot rebbe to rnare al suo tradizionale model-lo unipolare , con un for te potere gerarchico incentrato su Pe-chino. Se la Cina riuscirà a man tene re anche nel prossimo se-colo i suoi alti livelli di crescita economica, a preservare la pro-pria uni tà nel l 'epoca post-Deng e n o n verrà falcidiata da lotte di successione, è probabile che tenterà di realizzare quest'ulti-mo obiettivo. Il suo successo d ipenderà dalle reazioni degli al-tri protagonisti dello scacchiere politico est-asiatico.

Storia, cultura, tradizioni, dimensioni , d inamismo economi-co e autostima: tutto spinge la Cina ad assumere una posizione egemonica in Asia orientale: è la naturale conseguenza del suo impetuoso sviluppo economico. Tut te le altre grandi potenze del pianeta, Francia e Gran Bretagna, Germania e Giappone, Stati Uniti e Unione Sovietica, h a n n o avviato un processo di espansione e imperialismo esterni paral lelamente o immedia-tamente dopo l'avvio di un processo di rapida industrializza-zione e crescita economica. Non c 'è motivo di r i tenere che l'ac-quisizione di potere economico e militare non sortisca i mede-simi effetti sulla Cina. Per duemila anni la Cina è stata la po-tenza dominan te in Asia orientale, e i cinesi vanno oggi mani-festando sempre più esplicitamente l ' intenzione di tornare ad assumere quel ruolo storico e met tere fine al secolo di umilia-zioni e di sottomissione al l 'Occidente e al Giappone iniziato con l ' imposizione bri tannica del Trat tato di Nanch ino nel 1842.

Alla fine degli anni Ot t an ta la Cina ha cominciato a con-vertire le p ropr ie crescenti risorse economiche in po tenza mi-litare e inf luenza politica. Se il suo sviluppo economico conti-nuerà , questo processo di conversione assumerà d imens ioni ancora maggiori . Secondo le cifre ufficiali, per b u o n a par te degli ann i Ot tan ta le spese militari cinesi sono diminui te . Tra il 1988 e il 1993, tuttavia, sono cresciute del 100% in te rmini di d e n a r o co r ren te e del 50% in termini reali. Per il 1995 era stato p r o g r a m m a t o un a u m e n t o del 21%. Le stime sulle spese

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militari cinesi relative al 1993 vanno da circa 22 a 37 miliardi di dollari al tasso di cambio ufficiale, per arrivare a 90 miliar-di a pari tà di potere d 'acquisto. Alla fine degli anni Ot tan ta la Cina ha r id isegnato la p ropr i a strategia militare, passando dalla difesa contro il pericolo di un ' invasione sovietica in caso di conf l i t to globale a u n a strategia regionale basata sulla pro iez ione a l l ' es terno del p rop r io potere . Coe ren t emen te , la Cina ha cominciato così a sviluppare un p ropr io potenziale navale, ad acquistare aerei da gue r ra m o d e r n i e a lungo rag-gio, a sviluppare una p ropr ia tecnologia di r i fo rn imen to in volo, e ha deciso di acquistare u n a portaerei . H a inol tre sti-pu la to con la Russia un accordo rec ip rocamente vantaggioso pe r l 'acquisto di armi.

La Cina si sta avviando a diventare la potenza dominan te in Asia orientale. Lo sviluppo economico est-asiatico sta sempre più or ientandosi verso di essa, al imentato dalla rapida crescita economica sia della Rpc sia delle altre tre entità territoriali ci-nesi, n o n c h é dal ruolo fondamenta le svolto dalle comuni tà ci-nesi nello sviluppo economico di Taiwan, Malaysia, Indonesia e Filippine. Cosa più pericolosa, la Cina avanza pretese sempre più esplicite sul Mar Cinese Meridionale: ha una propr ia base nelle isole Paracel, nel 1988 si è scontrata con il Vietnam per il control lo di un pugno di isolette, ha stabilito la propr ia pre-senza militare sul Mischief Reef, al largo delle Filippine, e ha ri-vendicato il possesso delle miniere di gas adiacenti l'isola Na-tuna, di proprietà indonesiana. La Cina ha inoltre revocato il p ropr io tacito assenso alla presenza militare americana in Asia orientale e ha cominciato ad opporsi at t ivamente ad essa. Ugualmente , se durante la Guerra f redda la Cina invitò il Giap-p o n e a rafforzare il propr io potenziale militare, negli anni po-st-Guerra f r edda ha espresso sempre maggior preoccupazione per l 'escalation militare nipponica. Comportandosi da classica potenza regionale egemone , la Cina sta t en tando di el iminare qua lunque ostacolo al raggiungimento della supremazia mili-tare nella regione.

T ranne poche eccezioni, quali forse il Mar Cinese Meridio-nale, è poco probabile che l ' egemonia cinese in Asia orientale implichi un 'espans ione territoriale mediante il ricorso alle ar-mi. Di certo, invece, la Cina si aspetterà che altri paesi asiatici compiano in varia misura u n a o tutte le seguenti azioni:

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• appoggiare l'integrità territoriale cinese, il controllo cinese del Tibet e dello Xinjiang e l 'integrazione di Hong Kong e Taiwan al-la Cina; • accettare la sovranità cinese sul Mar Cinese Meridionale e forse sulla Mongolia; • sostenere in linea di massima la Cina nei conflitti con l'Occi-dente su temi quali economia, diritti umani e proliferazione del-le armi; • accettare il predominio militare cinese nella regione e astener-si dall'acquisire armi nucleari o forze convenzionali in grado di minacciare tale predominio; • adottare politiche commerciali e finanziarie compatibili con gli interessi cinesi e propulsive per lo sviluppo economico della Cina; • delegare alla Cina la soluzione dei problemi riguardanti la re-gione; • aprire i loro confini all 'immigrazione cinese; • vietare o sopprimere movimenti anticinesi al loro interno; • rispettare i diritti dei cinesi residenti presso di loro, compreso quello di mantenere stretti rapporti con le famiglie e le regioni d'origine in Cina; • astenersi dal formare con altre potenze alleanze militari o coa-lizioni in funzione anti-cinese; • promuovere l'uso del mandar ino in aggiunta e nel lungo pe-riodo in sostituzione dell'inglese come lingua di comunicazione ufficiale in Asia orientale.

Gli analisti di solito pa ragonano l'ascesa della Cina a quella della Germania guglielmina nel tardo xix secolo. La nascita di nuove grandi potenze ha sempre un effet to al tamente destabi-lizzante; nel caso in cui si verificasse, l 'avvento della Cina al ruolo di g rande potenza surclasserà qua lunque altro f e n o m e n o comparabi le verificatosi nella seconda metà del secondo mil-lennio. «L'ingresso della Cina nel mondo», osservò Lee Kuan Yew nel 1994, «avrà effetti tali che tra 30 o 40 anni il m o n d o do-vrà trovare un nuovo equilibrio. Non si p u ò pensare che la Ci-na sia semplicemente un 'a l t ra protagonista. Si tratta della pro-tagonista assoluta della storia umana»."" Se lo sviluppo econo-

33 Bany Buzan e Gerald Segai, «Asia: Skepticism About Optimism», in «National Interest», n. 39 (Primavera 1995), pp. 83-4; Arthur Waldron, «Deterring China», in «Commentary», n. 100 (Ottobre 1995), p. 18; Nicholas D. Kristof, «The Rise of China», in «Foreign AfFairs», n. 72 (Novembre-Dicembre) 1993, p. 74.

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mico cinese cont inuerà per altri dieci anni, come sembra pos-sibile, e se la Cina saprà manteners i unita duran te la fase della successione, come sembra probabile, i paesi est-asiatici e il m o n d o in tero dovranno fare i conti con la crescente intra-prendenza di questo protagonista assoluto della storia umana .

In generale, gli stad possono reagire all'avvento di una nuo-va potenza in tre modi. Da soli, o coalizzandosi con altri stad, essi possono tentare di salvaguardare la propr ia sicurezza cer-cando di controbilanciare la potenza nascente, di contener la e, se necessario, di muoverle guer ra per sconfiggerla. Possono al-tresì tentare di allinearsi alla potenza emergente , di assecon-darla e assumere un ruolo subordinato o secondario rispetto ad essa nella speranza che i propr i interessi nevralgici ver ranno tutelati. Infine, possono adottare u n a via di mezzo tra queste due soluzioni, sebbene ciò comport i il doppio rischio di inimi-carsi la potenza emergente senza munirsi di un ' adegua ta pro-tezione. Secondo la concezione occidentale dei r appord inter-nazionali, la polidca della contrapposizione è sol i tamente un 'opz ione più desiderabile ed è stata infatti adottata più spes-so dell 'altra. Come ha osservato Stephen Walt:

In generale, il calcolo dei prò e dei contro dovrebbe indurre gli stati a una politica di contrapposizione. L'allineamento è rischioso in quanto richiede fiducia; si appoggia una potenza dominante nella speranza che questa resterà ben disposta nei nostri confronti. E più si-curo adottare una linea di contrapposizione, nel caso in cui la poten-za dominante dovesse mostrare intenti aggressivi. Inoltre, schierarsi dalla parte del più debole accresce la propria influenza all'interno della coalizione che viene a crearsi, poiché la parte più debole ha più bisogno di aiuto.51

L'analisi di Walt sulla formazione delle alleanze in Asia su-dorientale ha dimostrato come gli stati abbiano sempre tentato di contrapporsi alle minacce esterne. Si è anche r i tenuto, in li-nea generale, che l 'a t teggiamento di contrapposizione abbia costituito la regola per buona par te della storia m o d e r n a euro-pea, con le varie potenze del l 'epoca che cambiavano di volta in

34 Stephen P. Walt, «Alliance Formation in Southwest Asia: Balancing and Bandwagoning in Cold War Competition», in Robert Jervis e Jack Snyder (a cura di), Dominoes and Bandwagons: Strategie Beliefs and Great Power Competition in the Eurasian Rimland, New York, Oxford University Press, 1991, pp. 53, 69.

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volta alleanze per contenere e contrapporsi alle minacce pro-venienti da Filippo il, Luigi xrv, Federico il Grande, Napoleone, il Kaiser e Hitler. Walt ammette , tuttavia, che «in certe condi-zioni» gli stati possono decidere di allinearsi alla potenza na-scente, ed è anzi probabile, come sostiene Randall Schweller, che gli stati revisionisti scelgano questa soluzione perché sono insoddisfatti e sperano che un mu tamen to dello status quo pos-sa arrecare loro dei vantaggi.1 ' Inoltre, come suggerisce Walt, u n a politica di a l l ineamento r ichiede indubbiamente un certo grado di fiducia nella pacificità delle intenzioni dello stato più potente .

Nella strategia di equilibrio dei poteri gli stati possono svol-gere un ruolo primario oppure secondario. Lo Stato A p u ò ten-tare di controbilanciare il potere dello Stato B, r i tenuto un av-versario potenziale o reale, s t ipulando alleanze con gli Stad C e D, accrescendo la propria forza militare e non (il che p roduce probabi lmente u n a corsa agli a rmament i ) , oppure mediante una combinazione di queste misure. In u n a situazione simile, def in i remo gli Stati A e B i reciproci «equilibratori» primari. In secondo luogo, lo Stato A pot rebbe non vedere minacce im-mediate da par te di altri stati ma avere interesse a promuovere un equilibrio di poteri tra gli Stati B e C, ciascuno dei quali po-trebbe costituire u n a minaccia per lo Stato A qualora diventas-se t roppo potente . In tal caso, lo Stato A funge da equil ibratore secondario rispetto agli Stati B e C, i quali po t rebbero essere i re-ciproci equilibratori primari .

Come reagiranno i vari stati nel caso in cui la Cina iniziasse ad emergere quale potenza dominan te in Asia orientale? Le ri-sposte var ieranno ovviamente da un caso all 'altro. Poiché la Ci-na ha indicato nell 'America il suo principale nemico, questa tenderà ad agire da equil ibratore pr imario e a ostacolare l 'ege-monia cinese, sempre p r e s u m e n d o che questo ruolo ben ri-sponda alla tradizionale preoccupazione americana di impedi-re che u n a singola potenza domini l 'Europa o l'Asia. L'obietti-vo, n o n più rilevante in Europa, po t rebbe esserlo viceversa in Asia. Un'elasdca federazione europea occidentale indmamente legata agli Stati Uniti sul p iano culturale, politico ed economi-

35 Randall L. Schweller, «Bandwagoning for Profit: Bringing the Revisionisi State Back In», in «International Security», n. 19 (Estate 1994), p. 72 sgg.

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co non minaccerà la sicurezza americana. Una Cina unita, po-tente e in t raprendente , po t rebbe invece farlo. E interesse del-l 'America esser disposta anche a ent rare in guer ra p u r di im-pedire l 'egemonia cinese in Asia orientale? Se lo sviluppo eco-nomico cinese continuerà, questo pot rebbe essere il più serio quesito in materia di sicurezza che i leader politici americani si t roveranno ad aff rontare all'inizio del xxi secolo. Se in tende contrastare il dominio cinese in Asia orientale, l 'America dovrà r i formulare l 'alleanza con il Giappone in tal senso, sviluppare stretti legami militari con altre nazioni asiatiche, accrescere la propr ia presenza militare in Asia. Se invece non è disposta a sfi-dare l ' egemonia cinese, dovrà abbandonare il propr io univer-salismo, imparare a convivere con quel l ' egemonia e accettare l ' idea di u n a marcata r iduzione della propr ia capacità di deter-minare gli eventi sulla sponda asiadca del Pacifico. Ent rambe le soluzioni implicano costi e rischi non indifferenti . Il pericolo maggiore è che gli Stati Uniti non p r e n d a n o alcuna net ta deci-sione in proposito e si avventurino in un guerra cont ro la Cina senza aver a t tentamente considerato se ciò r isponda effettiva-men te ai propr i interessi nazionali e senza essersi oppor tuna-men te preparata a un simile epilogo.

In teoria, gli Stati Uniti po t rebbero tentare di con tenere la Cina svolgendo un ruolo di contrapposizione secondario nel caso in cui qualche altra g rande potenza agisse da equilibrato-re pr imario. L 'unica possibilità concepibile in tal senso è il Giappone, ma ciò impl icherebbe un radicale mu tamen to degli indirizzi politici giapponesi: for te r iarmo, acquisizione di armi nucleari e un'attiva competizione con la Cina per la conquista del sostegno delle altre potenze asiatiche. Se da un lato il Giap-p o n e pot rebbe forse accettare di p rende re par te a u n a coali-zione guidata dagli Stati Uniti per controbilanciare la Cina (il che peral t ro non è affatto sicuro), dall 'altro è assai improbabi-le che ne diventi l 'equil ibratore primario. Inoltre gli Stad Uni-ti n o n h a n n o mai mostrato part icolare interesse o abilità a svol-gere il ruo lo di equil ibratore secondario. Ci h a n n o provato, nel l 'epoca napoleonica, q u a n d o erano ancora un piccolo e gio-vane paese, e si sono ritrovati in guer ra sia contro la Gran Bre-tagna sia contro la Francia. Nella pr ima metà del xx secolo gli Stati Unid h a n n o tentato t imidamente di promuovere una con-dizione di equilibrio tra i paesi europei e quelli asiatici, ma si

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sono poi ritrovati coinvolti in due guer re mondial i per ripristi-nare gli equilibri saltati. Duran te la Guer ra f redda , gli Stati Uniti non h a n n o avuto altra possibilità che svolgere la funzione di equi l ibratore pr imar io de l l 'Unione Sovietica. In quan to g rande potenza, dunque , gli Stati Uniti non h a n n o mai avuto un ruo lo di equil ibratore secondario. Diventarlo significhereb-be assumere un ruolo di basso profilo, flessibile, ambiguo, fi-nanche infido; potrebbe significare dover cambiare alleanze, ri-fiutarsi di sostenere o di oppors i a u n o stato, ind ipendente-men te dai valori americani. Se anche il Giappone diventasse l 'equil ibratore primario della Cina in Asia, la capacità america-na di sostenere una simile distribuzione dei ruoli è tutta da di-mostrare. L'America è molto più adusa a intervenire diretta-men te cont ro una minaccia reale che non a fungere da ele-m e n t o di equilibrio tra due minacce potenziali. Infine, è pro-babile che tra le potenze asiatiche prevalga una tendenza al-l 'a l l ineamento con la Cina, il che prec luderebbe qualsiasi pos-sibilità per l 'America di fare da equil ibratore secondario.

Se la scelta politica del l 'a l l ineamento a un paese emergen te d ipende dalla fiducia, ne conseguono tre postulati. Innanzitut-to, è più facile che si verifichi tra stati appar tenent i alla stessa civiltà o c o m u n q u e cul tura lmente affini che non viceversa. In secondo luogo, il livello di fiducia p u ò cambiare a seconda del contesto in cui ci si trova. (Un ragazzo tenderà a schierarsi al fianco del fratello maggiore in u n a disputa con altri ragazzi, men t r e è probabile che la sua fiducia in lui diminuisca q u a n d o sono soli a casa.) Ne consegue che u n a maggior interazione tra stati di diversa civiltà induce a u n a politica di a l l ineamento al-l ' in te rno delle varie civiltà. Infine, la propens ione all'allinea-men to o alla contrapposizione p u ò variare da u n a civiltà all'al-tra in quan to diverso è il grado di fiducia tra i suoi membri . Il prevalere della linea di contrapposizione in Medio Oriente , ad esempio, po t rebbe riflettere il livello proverbialmente basso di fiducia esistente nella cultura araba e in altre culture medio-rientali.

Oltre a quesd fattori, la propensione alla contrapposizione o all 'all ineamento d ipende dalle aspettative di ciascuno stato in merito alla distribuzione del potere. Le società europee hanno attraversato una fase di assolutismo, ma non h a n n o mai cono-sciuto i prolungati imperi burocratici o i vari «dispotismi orien-

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tali» che h a n n o caratterizzato il continente asiatico per gran par-te della sua storia. Il feudalesimo generò il pluralismo e la con-vinzione che un certo grado di diffusione del potere fosse cosa naturale e desiderabile. Di conseguenza, anche a livello interna-zionale l 'equilibrio dei poteri fu considerato cosa naturale e de-siderabile, e il suo perseguimento e salvaguardia una precisa re-sponsabilità dei governanti. Cosicché, ogni volta che questo equilibrio veniva minacciato, ci si adoperava alacremente per ri-stabilirlo. Il modello europeo di società internazionale, in breve, rifletteva il modello europeo di società domesdca.

Negli imperi burocratici asiatici, viceversa, c 'era poco spazio per il pluralismo sociale o politico e per la divisione del potere. Rispetto al l 'Europa, la politica di a l l ineamento sembra abbia avuto in Cina un ruolo molto più impor tan te di quella della contrapposizione. Durante gli anni Venti, a f fe rma Lucian Pye, «i signori della guer ra pr ima cercavano di capire cosa ci fosse da guadagnare alleandosi con i forti, e solo in un secondo mo-m e n t o esploravano i possibili vantaggi di un 'a l leanza con i de-boli ... per i signori della guer ra cinesi, l ' au tonomia n o n era il valore principale, come invece avveniva nei tradizionali calcoli europei sull 'equilibrio dei poteri; essi basavano piuttosto le lo-ro decisioni sulla possibilità o m e n o di associarsi al potere». Al-lo stesso modo , Avery Goldstein sostiene che la strategia del-l 'a l l ineamento caratterizzò la politica della Cina comunista tra il 1949 e il 1966, in un 'epoca , cioè, in cui la s trut tura di potere era reladvamente chiara. Allorché la Rivoluzione culturale creò u n a condizione di incertezza e di quasi anarchia e minacciò la sopravvivenza degli attori politici, cominciò a prevalere la poli-tica di contrapposizione.* Presumibi lmente, la restaurazione d o p o il 1978 di una strut tura di potere chiaramente definita ha segnato il r i torno al l 'a l l ineamento quale model lo prevalente di condot ta politica.

36 Lucian W. Pye, Dynamics ofFactions and Consensus in Chínese Politìcs: A Mo-del and Some Propositions, Santa Monica, CA, Rand, 1980, p. 120; Arthur Wal-dron, From War lo Nationalism: China's TurningPoint, 1924-1925, Cambridge, Cambridge University Press, 1995, pp. 48-9, 212; Avery Goldstein, From Bandwagon lo Balance-of-Power Politics: Structured Constraints in Politics in China, 1949-1978, Stanford, CA, Stanford University Press, 1991, pp. 5-6, 35 sgg.; si veda anche Lucian W. Pye, «Social Science Theories in Search of Chínese Realities», in «China Quarterly», n. 132 (Dicembre 1992), pp. 1161-71.

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Storicamente, i cinesi non h a n n o mai operato una distinzio-ne netta tra politica interna e politica estera. La loro «visione del l 'ordine mondiale non era altro che un corollario dell 'ordi-ne domestico cinese e d u n q u e una proiezione amplificata del-l ' identità culturale cinese», la quale «si presumeva si autoripro-ducesse, in cerchi concentrici sempre più ampi, come il giusto ordine cosmico». O, come ha osservato Roderick MacFarquhar, «la tradizionale visione del m o n d o cinese era un riflesso della vi-sione confuciana di una società gerarchica f inemente articolata. Monarchi e stati stranieri e rano considerati tributari del Regno di Mezzo: "Non ci sono due soli nel cielo, non possono esserci due imperatori sulla terra"». Di conseguenza i cinesi non hanno mai avuto simpatia per una «concezione della sicurezza in senso multipolare o finanche multilaterale». Gli asiatici in genere so-no disposti ad «accettare la gerarchia» nelle relazioni interna-zionali, ment re le guerre egemoniche di tipo europeo sono as-senti nella storia dell'Asia orientale. Il sistema di equilibrio dei poteri che caratterizzò l 'Europa era assente in Asia. Fino all'ar-rivo delle potenze occidentali alla metà del xix secolo, i rappor-ti internazionali est-asiatici f u r o n o sinocentrici, con le altre so-cietà organizzate secondo un diverso grado di subordinazione, cooperazione o autonomia da Pechino ." Ovviamente, l ' ideale confuciano di ordine mondiale non trovò mai espressione pra-tica. Ciò nonostante, il model lo asiatico di politica internazio-nale basato sulla gerarchia dei poteri contrasta p ro fondamente con il modello europeo di equilibrio dei poteri.

Secondo questa immagine di ordine mondiale , la propen-sione cinese al l 'a l l ineamento in politica in te rna si manifesta

37 Samuel S. Kim e Lowell Dittmer, «Whither China's Quest for National Iden-tity», in Lowell Dittmer e Samuel S. Kim (a cura di), China's Quest for National Identity, Ithaca, NY, Cornell University Press, 1991, p. 240; Paul Dibb, Towards a New Balance of Power in Asia, London, International Institute for Strategic Stu-dies, Adelphi Paper 295, 1995, pp. 10-6; Roderick MacFarquhar, «The Post-Confucian Challenge», in «Economist», 9 febbraio 1980, pp. 67-72; Kishore Mahbubani, «'The Pacific Impulse"», in «Survival», n. 37 (Primavera 1995), p. 117; James L. Richardson, «Asia-Pacific: The Case for Geopolitical Optimism», in «National Interest», n. 38 (Inverno 1994-95), p. 32; Paul Dibb, «Towards a New Balance», p. 13; si veda Nicola Baker e Leonard C. Sebastian, «The Pro-blem with Parachuting: Strategic Studies and Security in the Asia/Pacific Re-gion», in «Journal of Strategic Studies», n. 18 (Settembre 1995), p. 15 sgg., per una discussione approfondita sull'inapplicabilità all'Asia di concetti tipica-mente europei quali equilibrio dei poteri e problema della sicurezza.

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anche nel campo delle relazioni internazionali . I m u t a m e n d di polidca estera dei singoli stati secondo questa inclinazione di-p e n d o n o da quanto questi ultimi condividono la cultura con-fuciana e dal d p o di r appor to che essi h a n n o tradizionalmente avuto con la Cina. La Corea ha molto in comune con la Cina dal p u n t o di vista culturale, e ha sempre guardato a Pechino, soprat tut to a causa del s e n d m e n t o di rivalità e del Umore nei c o n f r o n d del Giappone. Per Singapore, all 'epoca della Guer ra f r edda la Cina comunista fu u n a nemica. Negli anni Ottanta , tuttavia, Singapore iniziò a modificare la propria posizione ed a metà anni Novanta era diventata u n a delle maggiori investitaci in Cina. I suoi dirigenti h a n n o att ivamente sostenuto la neces-sità che Stati Unid e altri paesi venissero a patti con la potenza cinese. Con la sua vasta comuni tà cinese e gli at teggiamenti an-tioccidentali dei suoi dir igend politici, anche la Malaysia è for-temente orientata verso Pechino. La Thailandia è riuscita a pre-servare la propr ia ind ipendenza nel xix e xx secolo adat tando-si all ' imperialismo eu ropeo e giapponese e ha mostrato l'in-tenzione di fare esat tamente la stessa cosa con la Cina, inco-raggiata in questo dalla potenziale minaccia alla propr ia sicu-rezza costituita dal Vietnam.

Indonesia e Vietnam sono i due paesi del Sud-Est asiadco maggiormente inclini ad adottare una polidca di contrapposi-zione e contenimento della Cina. L'Indonesia è un paese musul-mano, geograficamente vasto e distante dalla Cina, ma senza l 'aiuto di altri stad non può contrastare le pretese cinesi di con-trollare il Mar Cinese Meridionale. Nel l 'autunno del 1995 Indo-nesia e Australia siglarono un accordo che impegnava i due pae-si a reciproche consultazioni in caso di «minacce» alla propria si-curezza. Pur negando il carattere and-cinese di questo accordo, en t rambe le pard indicarono esplicitamente nella Cina la fonte più probabile di tali minacce/8 II Vietnam ha una cultura preva-lentemente confuciana, ma storicamente ha sempre avuto rap-porti for temente antagonistici con la Cina, con la quale ingaggiò nel 1979 perf ino un breve conflitto armato. Sia Vietnam sia Cina h a n n o dichiarato la propria sovranità sulle Isole Sprady, con epi-sodici scontri navali negli ultimi vent 'anni. Negli anni Novanta, la capacità militare vietnamita è calata rispetto a quella cinese.

38 «Economisti», 23 dicembre 1.995; 5 gennaio 1996, pp. 39-40.

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Più di ogni altro stato est-asiadco, dunque , il Vietnam aveva buo-ni modvi di cercare dei par tner per controbilanciare la Cina. Il suo ingresso nell'Asean e la normalizzazione dei rappord con gli Stati Uniti nel 1995 sono stati due passi in tale direzione. Le di-visioni in terne all'Asean e la sua riluttanza a contrastare la Cina rendevano tuttavia quanto mai remota la possibilità che essa po-tesse trasformarsi in un'alleanza anticinese o che avrebbe forni-to un adeguato sostegno al Vietnam in caso di scontro con la Ci-na. Certamente più incline a contenere la Cina è l'America, ma a metà degli anni Novanta non era ancora ben chiaro fino a che pun to essa fosse disposta a spingersi nel contestare le rivendica-zioni cinesi sul Mar Cinese Meridionale. Alla fin fine, per il Viet-nam la soluzione «meno peggiore» potrebbe essere quella di ac-cordarsi con la Cina e accettare u n a sorta di finlandizzazione che se da un lato «ferirebbe l 'orgoglio vietnamita... potrebbe tut-tavia garantirgli la sopravvivenza».19

Negli anni Novanta praticamente tutte le nazioni est-asiatiche, a eccezione di Cina e Corea del Nord, si sono espresse a favore della presenza militare americana nella regione. In concreto, tut-tavia, a eccezione del Vietnam, h a n n o tutte tentato di compiace-re la Cina. Le Filippine h a n n o chiuso le principali basi aeree e navali americane nel paese; a Okinawa l 'opposizione alla massic-cia presenza militare americana si è fatta sempre più pressante. Nel 1994 Thailandia, Malaysia e Indonesia respinsero la richiesta americana di ormeggiare sei nari di appoggio nelle loro acque territoriali quale base galleggiante per facilitare un eventuale in-tervento militare americano in Asia sudorientale o sudocciden-tale. Con non minore deferenza, in occasione della sua prima riunione il Forum regionale dell'Asean accolse la richiesta cine-se che la questione delle Isole Spraty fosse esclusa dall 'agenda dei lavori. L'occupazione cinese del Mischief Reef al largo delle Filippine nel 1995, inoltre, non ha suscitato proteste da parte di nessun membro dell'Asean. Nel 1995-96, i governi h a n n o rispo-sto ancora una volta con un assordante silenzio alle minacce ver-bali e militari lanciate dalla Cina a Taiwan. La loro propensione all 'accondiscendenza è stata ot t imamente compendiata da Mi-chael Oksenberg: «I leader asiatici in realtà temono che l'equili-

39 Richard K. Betts, «Vietnam's Strategie Predicament», in «Survival», n. 37 (Autunno 1995), pp. 61 sgg., 76.

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brio dei poteri possa spostarsi a favore della Cina, ma questa preoccupata attesa del fu turo non significa che essi in tendano scontrarsi con Pechino oggi», perciò «non si un i ranno agli Stad Uniti in una crociata and-cinese».40

L'ascesa della Cina rappresen te rà u n a g rande sfida per il Giappone, che non potrà non dividersi p ro fondamen te sulla strategia da perseguire. Dovrebbe mostrarsi accondiscendente e r iconoscere il dominio politico-militare della Cina in cambio del r iconoscimento cinese del p ropr io pr imato economico? Dovrebbe cercare di dare nuovo impulso e significato all'al-leanza nippo-americana come p e r n o di u n a coalizione intesa a bilanciare e a contrastare la Cina? Dovrebbe cercare di svilup-pare u n propr io potenziale militare a difesa dei propr i interes-si dalle incursioni cinesi? Finché potrà, è probabile che il Giap-pone eviterà di dare risposte net te a queste domande .

Pe rno centrale di un qualsiasi tentativo sensato di con tenere e contrastare la Cina dovrebbe essere un 'al leanza militare nip-po-americana. E presumibile che il Giappone possa a poco a poco convincersi a ridefinire in questa direzione la propr ia al-leanza con gli Stati Uniti. Questa soluzione dovrebbe fondarsi sulla fiducia del Giappone 1) nella capacità globale degli Stati Uniti di sostenere il ruo lo di unica superpotenza mondia le e di guida dinamica delle relazioni internazionali; 2) ne l l ' impegno amer icano a man tene re la propr ia presenza in Asia e a contra-stare fatt ivamente i tentativi cinesi di espandere la propr ia in-fluenza; e 3) nella capacità, propr ia e degli Stati Uniti, di con-tenere la Cina evitando alti costi in termini di risorse, o alti ri-schi in termini militari.

In assenza di un'esplicita quan to improbabile manifestazio-ne di fermezza e di impegno in tal senso da par te degli Stad Uniti, è probabile che il Giappone decida di allinearsi alla Ci-na. Nel corso della storia, a eccezione degli anni Trenta e Qua-ranta, q u a n d o perseguì una politica unilaterale di conquista in Asia orientale con esiti disastrosi, il Giappone ha sempre cerca-to sicurezza alleandosi con quella che riteneva la potenza do-minante . Anche negli anni Trenta, allorché si unì alle potenze

40 «New York Times», 12 novembre 1994, p. 6; 24 novembre 1994, p. A12; «International Herald Tribune», 8 novembre 1994, p. 1; Michel Oksenberg, «Washington Post», n. 3, Settembre 1995, p. CI.

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dell'Asse, il Giappone si schierò dalla par te di quella che appa-riva la più dinamica forza ideologico-militare del pianeta. In precedenza, aveva siglato l 'alleanza anglo-giapponese perché la Gran Bretagna era la potenza dominan te in campo interna-zionale. Allo stesso modo, negli anni Cinquanta il Giappone si alleò agli Stad Uniti in quan to paese più potente del m o n d o e in grado di garantire la sua sicurezza. Come ha osservato un impor tan te studioso nipponico:

Quando i giapponesi pensano alla propria nazione nel contesto della società internazionale, i loro modelli domesuci offrono spesso delle analogie. Essi tendono a vedere nell'ordine internazionale un'entità in cui si esprimono esternamente modelli culturali esistenti all'inter-no della loro società, la quale è caratterizzata dalla preminenza di strutture organizzate in modo verticistico. Questa immagine di ordi-ne internazionale è stata influenzata dalla lunga esperienza di rap-porti sino-giapponesi in epoca premoderna (un sistema di tributi).

Il modello di alleanze tradizionalmente perseguito dal Giap-pone è stato quindi «fondamentalmente di allineamento, non di contrapposizione», e di «adeguamento alla potenza dominan-te».41 I giapponesi, ha affermato un occidentale lì residente da molu anni, «propendono più di mold altri a piegarsi alla force majeure e a cooperare con quand r i tengono moralmente supe-riori a loro ... e a risendrsi più di chiunque altri per le offese su-bite da parte di una potenza egemone ma moralmente fiacca e in fase di declino». Via via che il ruolo degli Stati Unid in Asia si riduce e quello della Cina si amplia, la polidca giapponese si re-golerà di conseguenza. Di fatto, ha già iniziato a farlo. La que-stione chiave dei rapporti tra Cina e Giappone, ha osservato Ki-shore Mahbubani, è: «Chi è il n u m e r o uno?». E la risposta sta di-ventando chiara: «Non vi saranno dichiarazioni o accordi espli-citi, ma è apparso significativo il fatto che l ' Imperatore nipponi-co abbia deciso di recarsi in visita in Cina nel 1992, quando a li-vello internazionale Pechino era ancora relativamente isolata».42

41 Jitsuo Tsuchivama, «The End of the Alliance? Dilemmas in the US-Japan Relations», inedito, Harvard University, John M. Olin Institute for Strategie Studies, 1994, pp. 18-9. 42 Ivan P. Hall, «Japan's Asia Card», in «National Interest», n. 38 (Inverno 1994-95), p. 26; Kishore Mahbubani, «The Pacific Impulse», p. 117.

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Dal p u n t o di vista ideale, élite e opinione pubblica giappo-nese prefer i rebbero indubbiamente cont inuare a seguire il mo-dello dei decenn i passati e restare sotto l 'ala protet t r ice di un 'America ancora dominante . Con la graduale r iduzione del-l ' impegno americano in Asia, tuttavia, le forze in te rne sosteni-trici di una «ri-asianizzazione» del Giappone acquisteranno for-za sempre maggiore e i giapponesi finiranno con l 'accettare come inevitabile il r innovato predominio della Cina sulla scena est-asiatica. Ad esempio, interrogata su quale nazione avrebbe avuto la maggiore influenza in Asia nel xxi secolo, il 44 per cento della popolazione giapponese ha risposto la Cina, il 30 per cento gli Stati Uniti e solo il 16 per cento il Giappone . " Il Giappone, predisse nel 1995 un alto funzionar io n ipponico, avrebbe dato mostra della «disciplina» necessaria per adattarsi all'ascesa della Cina. Si chiese quindi se anche gli Stati Uniti l'a-vrebbero avuta. La pr ima affermazione suona del tutto plausi-bile, men t re la risposta alla d o m a n d a che ne consegue appare incerta.

L 'egemonia cinese r idurrà l 'instabilità e la conflittualità in Asia orientale. Ridurrà altresì l ' inf luenza americana ed euro-pea in quella regione e costringerà gli Stati Uniti ad accettare ciò che storicamente ha sempre tentato di impedire: il dominio di u n a regione chiave del m o n d o da parte di un 'a l t ra potenza. Se questa egemonia minaccerà gli interessi degli altri paesi asia-tici, tuttavia, d ipende in par te da quan to accadrà in Cina. La crescita economica genera forza militare e influenza politica, ma p u ò anche stimolare lo sviluppo politico e il passaggio a u n sistema più aperto, pluralistico e possibilmente democrat ico. Possiamo dire che lo sviluppo economico ha già avuto un ef-fet to di questo tipo in Corea del Sud e a Taiwan. In ent rambi questi paesi, tuttavia, i leader politici maggiormente attivi nella perorazione della democrazia e rano cristiani.

La tradizione confuciana della Cina, con i suoi valori por-tanti come quelli di autorità, ordine, gerarchia e supremazia della collettività sull ' individuo, crea ostacoli alla democratizza-

43 Mike M. Mochizuki, «Japan and the Strategie Quadrangle», in Michael Mandelbaum (a cura di), The Strategie Quadrangle: Russia, China, Japan, and the United States in East Asia, New York, Conncil on Foreign Relations, 1995, pp. 130-9; sondaggio di «Asahi Shimbon» riportato in «Christian Science Mo-nitor», 10 gennaio 1995, p. 7.

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zione. Lo sviluppo economico sta tuttavia c reando nella Cina meridionale livelli di benessere sempre più ald, u n a borghesia dinamica, potentat i economici fuor i dal controllo governativo e u n a classe media in rapida espansione. Inoltre il popolo ci-nese è fo r temente integrato con il m o n d o esterno in termini di commercio, investimenti e istruzione. Tut to ciò crea una base sociale per il passaggio al pluralismo politico.

Solitamente la precondizione perché si verifichi un ' ape r tu ra politica a l l ' in terno di un sistema autoritario è l'ascesa al potere di elementi riformisti. E possibile che questo si verifichi in Ci-na? Probabi lmente non con l ' immediato successore di Deng, ma po t rebbe invece accadere con quello ancora successivo. Il nuovo secolo pot rebbe vedere in Cina meridionale la nascita di g ruppi con precisi interessi politici che saranno di fatto, se non di nome , embrional i partiti politici e che probabi lmente go-d r a n n o di stretti legami e del convinto sostegno dei cinesi di Taiwan, di H o n g Kong e di Singapore. Se realmente questi mo-vimenti emergessero nella Cina meridionale e se u n a fazione riformista assumesse il potere a Pechino, pot rebbe verificarsi una certa fo rma di transizione politica. La democratizzazione po t rebbe incoraggiare i leader politici a lanciare appelli di s tampo nazionalistico e accrescere così le possibilità di u n a guerra, sebbene nel lungo per iodo u n o stabile sistema plurali-stico po t rebbe probabi lmente migliorare i rapport i della Cina con le altre potenze.

Forse, come ha suggerito Friedberg, il passato del l 'Europa è il f u tu ro dell'Asia. Più probabi lmente , tuttavia, il passato del-l'Asia sarà il fu tu ro dell'Asia. La scelta, per l'Asia, è tra un equi-librio dei poteri al prezzo di un alto tasso di conflittualità op-pure u n a pace garantita al prezzo dell 'egemonizzazione. Le so-cietà occidentali op te rebbero probabi lmente per una soluzio-ne di contrapposizione e conflittualità. Storia, cultura e realtà od ie rna del m o n d o asiatico sembrano invece fo r temente indi-care che l'Asia opterà per la pace e l 'egemonizzazione. L 'epoca iniziata con le invasioni occidentali della metà del secolo scor-so volge ormai al termine, la Cina sta r iconquistando il suo ruo-lo di potenza regionale egemone e l 'Or iente si sta appropr ian-do di ciò che gli spetta.

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Civiltà e slati guida: schieramenti emergenti

L 'od i e rno m o n d o post-Guerra f r edda , un m o n d o mult ipo-lare e diviso in più civiltà, non presen ta più u n ' u n i c a g r a n d e l inea di demarcaz ione come al l ' epoca della Gue r r a f r edda . Se tuttavia lo sviluppo demograf ico m u s u l m a n o e quel lo eco-nomico asiatico con t inue ranno , i conflitti tra l 'Occ idente e le civiltà antagonis te acquis i ranno un ' impor t anza in ternaziona-le maggiore rispetto ad altre l inee di divisione. I governi dei paesi musu lman i avranno rappor t i p robab i lmen te sempre m e n o amichevoli con l 'Occ idente , e tra g rupp i islamici e so-cietà occidental i si ver i f icheranno di tan to in tanto scoppi di violenza ora contenut i ora anche mol to intensi. I r appor t i tra Stati Uniti da un lato e Cina, G iappone e altri paesi asiatici dall 'al tro, sa ranno fo r t emen te conflit tuali , ed eventuali tenta-tivi amer icani di sfidare l 'ascesa della Cina al ruo lo di poten-za e g e m o n e in Asia p o t r e b b e r o sfociare in un confl i t to di di-mens ioni globali.

In queste condizioni, l'asse islamico-confuciana è destinata a durare e, forse, ad espandersi e intensificarsi. Alla sua base c 'è la cooperazione in funz ione antioccidentale su problemi quali proliferazione delle armi, diritti umani e altri. Suo nucleo ori-ginario sono stati gli stretti rappor t i tra Pakistan, Iran e Cina, ufficializzatisi nei primi anni Novanta con le visite del presi-den te Yang Shangkun in Iran e Pakistan e del presidente Raf-sanjani in Pakistan e Cina. Sulla via della Cina, Rafsanjani di-chiarò a Islamabad che tra Iran e Pakistan esisteva «un'alleanza strategica» e che un attacco cont ro il Pakistan sarebbe stato considerato un attacco contro l ' Iran. Inoltre, subito d o p o esse-re stata eletta pr imo ministro nel l 'o t tobre del 1993, Benazir But tho si recò in visita in Iran e Cina. La cooperazione tra que-sti tre stati ha incluso scambi regolari di e sponend politici, go-vernativi e militari, e l ' impegno c o m u n e in u n a vasta gamma di settori civili e militari tra cui la difesa, nonché il t rasfer imento di armi dalla Cina agli altri stati. Lo sviluppo di questi rappor t i è stato fo r temente caldeggiato in Pakistan dai r appresen tand della scuola di pensiero «musulmana» o «indipendendsta» in materia di politica estera, fautori di un'«asse Teheran-Islama-bad-Pechino», ment re a Teheran si è det to che «la peculiare na tura del m o n d o contemporaneo» richiedeva «un ' intensa e

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costante collaborazione» tra Iran, Cina, Pakistan e Kazakistan. A metà degli anni Novanta era nata f ra i tre paesi qualcosa di si-mile a un 'a l leanza informale fonda ta sull 'opposizione all'Occi-dente , sul t imore dell ' India e sul desiderio di contrastare l'in-fluenza russa e turca in Asia centrale.44

E possibile che questi tre stati divent ino il p e r n o di u n più vasto r a g g r u p p a m e n t o c o m p r e n d e n t e altri stati musu lmani e asiatici? U n a «alleanza is lamico-confuciana» in formale , so-stiene G r a h a m Fuller, «pot rebbe concretizzarsi n o n pe rché Maomet to e Confuc io sono antioccidentali , ma pe rché le loro cul ture o f f r o n o un veicolo di sfogo e lagnanze delle quali l 'Occidente è parzia lmente responsabile. E men t r e il domin io polit ico, militare, economico e cul turale de l l 'Occ iden te ar-ranca sempre più, molti stati s en tono che è giunta l 'ora di "smetterla di subire"». L 'appel lo più appassionato alla coope-razione è stato lanciato da Gheddaf i , che nel marzo del 1994 ha dichiarato:

Nuovo ordine mondiale significa che ebrei e cristiani controllano i musulmani, e se possono far questo, domani domineranno il confu-cianesimo e le altre religioni in India, Cina, Giappone... Ciò che cristiani ed ebrei vanno oggi affermando è questo: dopo aver distrutto il comunismo, ora l'Occidente deve distruggere l'islamismo e il confucianesimo. Speriamo ora di assistere a uno scontro tra la Cina a capo del campo confuciano e l'America a capo dei crociati cristiani. Abbiamo tutti i motivi di essere prevenuti nei confronti di chi fa le crociate. Noi ci schieriamo dalla parte del confucianesimo, e alleandoci a esso e com-battendo al suo fianco in un unico fronte internazionale elimineremo il nostro nemico comune. E dunque noi, in quanto musulmani, sosterremo la Cina nella sua lot-ta contro il nostro comune nemico... Auspichiamo la vittoria della Cina...1'

44 «Financial Times», 10 settembre 1992, p. 6; Samina Yasmeen, «Pakistan's Cautious Foreign Policy», in «Survival», n. 36 (Estate 1994), pp. 121, 127-8; Bruce Vaughn, «Shifting Geopolitical Realities Between South, Southwest and Central Asia», in «Central Asia Survev», 13 (n. 2, 1994), p. 313: Editoria-le in «Hamshahri», 30 agosto 1994, pp. 1, 4, in FBIS-NES-94-173, 2 settembre 1994, p. 77. 45 Graham E. Fuller, «The Appeal of Iran», in «National Interest», n. 37 (Au-tunno 1994), p. 95; Mu'ammar al-Qadhdhafi, Sermon, Tripoli, Libia, 13 mar-zo 1994, in FBIS-NES-94-049, 14 marzo 1994, p. 21.

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L'entusiasmo per u n a solida alleanza antioccidentale degli stati confuciani e islamici, tuttavia, è stato a lquanto a t tenuato da par te della Cina il cui presidente J iang Zemin nel d icembre del 1995 dichiarò che la Rpc non avrebbe stretto alleanze con nessun paese. Un at teggiamento che rifletteva probabi lmente la classica concezione cinese secondo cui il «Regno di Mezzo» non aveva bisogno di alleati formali , ment re gli altri stati avreb-bero avuto interesse cooperare con essa. I conflitti tra Cina e Occidente, d 'a l t ra parte, indicano che i cinesi favoriranno le-gami con altri stati antioccidentali, di cui i più numeros i e po-tenti appar tengono al m o n d o islamico. Inoltre, il crescente fab-bisogno di petrolio indur rà probabi lmente la Cina ad ampliare i propr i rapport i con l ' Iran, l ' Iraq e l 'Arabia Saudita, n o n c h é con il Kazakistan e l 'Azerbaigian. Un simile asse fonda to sul principio «armi contro petrolio», osservò nel 1994 un esperto di problemi energetici, «non sarà più obbligato a p r e n d e r e or-dini da Londra , Parigi o Washington».40

I rapport i delle altre civiltà e dei rispettivi stati guida nei con-front i del l 'Occidente e delle civiltà che ad esso si o p p o n g o n o var ieranno notevolmente. Le civiltà meridionali - afr icana e la-t inoamericana - non h a n n o u n paese guida, sono state assog-gettate al l 'Occidente e sono relativamente deboli dal p u n t o di vista militare ed economico (sebbene in America latina questo stato di cose stia rapidamente cambiando) . E probabile che per quan to att iene ai rapport i con l 'Occidente esse imboccheran-no direzioni opposte. L'America latina è cul turalmente vicina al l 'Occidente; negli anni Ot tanta e Novanta i sistemi politici ed economici dei suoi paesi sono diventati sempre più simili a quelli occidentali; i due stati la t inoamericani che in passato avevano tentato di acquisire armi nucleari h a n n o oggi abban-dona to questo proposito. Con un livello di spesa militare che è il più basso tra tutte le civiltà, è possibile che i lat inoamericani mal soppor t ino il dominio militare degli Stati Uniti, ma non most rano alcuna intenzione di sfidarlo. Intanto, la rapida asce-sa del protestantesimo in molti paesi lat inoamericani li sta ren-d e n d o più simili alle società miste cattolico-protestanti del-l 'Occidente e stringe tra l 'America latina e Occidente legami

46 Fereidun Fesharaki, «East-West Center, Hawaii», cit. in «New York Times», 3 aprile 1994, p. E3.

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religiosi che non devono più passare per Roma. Allo stesso mo-do l 'arrivo negli Stati Uniti di messicani, centroamericani e ca-raibici e la conseguente inf luenza ispanica sulla società ameri-cana p romuovono la convergenza culturale. I principali p u n d di contrasto tra America latina e Occidente, ossia gli Stati Uni-ti, sono immigrazione, droga e terror ismo correlato al narco-traffico, n o n c h é l ' integrazione economica (vale a dire l 'am-missione degli stati lat inoamericani al Nafta contro l 'espansio-ne delle organizzazioni la t inoamericane quali il Mercosur e il Patto andino) . Come dimost rano i problemi sorti a proposito dell ' ingresso del Messico nel Nafta, il mat r imonio tra la civiltà la t inoamericana e quella occidentale non sarà facile da realiz-zare, i preparativi p r o c e d e r a n n o probab i lmente con g rande lentezza per buona par te del xxi secolo, e pot rebbe anche non consumarsi mai. E tuttavia le differenze tra Occidente e Ameri-ca latina restano di poco conto rispetto a quelle che dividono l 'Occidente dalle altre civiltà.

I rapport i tra Occidente e Africa dovrebbero compor ta re li-velli di conflittualità solo leggermente maggiori, pr incipalmen-te a causa della debolezza che caratterizza il cont inente africa-no. Esistono tuttavia important i questioni sul tappeto. A diffe-renza di Brasile e Argentina, la Repubblica Sudafr icana non ha sempl icemente abbandona to un p r o g r a m m a di a r m a m e n t o atomico, ma ha distrutto armi nucleari già pronte . Queste armi e rano state costruite per prevenire possibili attacchi esterni cont ro l 'apar theid da un governo di bianchi, che non aveva al-cuna intenzione di consegnarle a un governo di neri che avreb-bero potu to utilizzarle ad altri scopi. Ciò che invece n o n si p u ò distruggere è la capacità di costruire queste armi, ed è possibi-le che un governo post-apartheid decida di realizzare un nuovo arsenale nucleare per assicurarsi il ruo lo di stato guida dell'A-frica e scoraggiare l 'Occidente dal l ' intervenire negli affari afri-cani. Diritti umani , immigrazione, economia e terrorismo sono altri temi di conf ron to tra Africa e Occidente . Nonostante gli sforzi francesi di man tene re stretti legami con le sue ex colo-nie, sembra che oggi sia in atto in Africa un processo a lungo te rmine di de-occidentalizzazione: r iduzione degli interessi e del l ' inf luenza occidentale, autoaffermazione della cultura in-digena, subordinazione in Sud Africa degli e lementi di cultura afrikaner-inglesi alla prevalente cultura africana. Se l 'America

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latina sta diventando più occidentale, l 'Africa lo sta diventando sempre meno . Entrambe, tuttavia, restano - seppur in modi di-versi - d ipendent i dal l 'Occidente e incapaci, voto alle Nazioni Unite a parte, di inf luenzare in m o d o decisivo l 'equilibrio tra l 'Occidente e i suoi sfidand.

Non è chiaramente questo il caso delle tre civiltà «oscillanti». I loro stati guida sono attori di p r imo piano nel l ' a rena interna-zionale ed è probabile che man tengano con l 'Occidente e le ci-viltà ad esso contrapposte rappor t i mutevoli e ambivalenti. Al-tret tanto variabili appa iono poi i rappor t i reciproci. Come ab-biamo già osservato, è probabile che, nel corso del t empo e at-traverso un angoscioso processo di ricerca della propr ia iden-tità, il Giappone si allontani dagli Stati Uniti e si orienti in di-rezione della Cina. Al pari di altre alleanze tra civiltà diverse det ta te dall ' imperativo dalla Guer ra f redda , i legami nippo-americani in tema di sicurezza si a l lenteranno, sebbene proba-bi lmente non cesseranno formalmente . I rapport i con la Russia res teranno difficili fino a q u a n d o questa si rifiuterà di giungere a un compromesso sulle Isole Kurili, occupate nel 1945. Il mo-m e n t o propizio, alla fine della Guer ra f redda , in cui il proble-ma avrebbe po tu to trovare soluzione è svanito r ap idamente con l'ascesa del nazionalismo russo, e in fu tu ro gli Stati Uniti non avranno alcun motivo di sostenere come in passato le ri-vendicazioni giapponesi.

Se negli ultimi decenni della Guerra f r edda la Cina ha gio-cato con g rande perizia la «carta cinese» contro Stati Uniti e Unione Sovietica, nel m o n d o post-Guerra f r edda è la Russia ad avere una «carta russa» da giocare. Un'al leanza tra Russia e Ci-na fa rebbe pende re defini t ivamente la bilancia eurasiatica a sfavore del l 'Occidente e risveglierebbe tutti i timori di una pos-sibile relazione russo-cinese, come negli anni Cinquanta . D'al-tra parte , u n a Russia operan te a stretto contat to con l 'Occi-den te farebbe da ul ter iore contral tare all'asse islamico-confu-ciana su tutti i maggiori temi di interesse internazionale e ri-sveglierebbe le paure cinesi, t ipiche della Guer ra f redda , di un ' invasione da nord . La Russia, da par te sua, ha dei problemi con en t r ambe le civiltà confinanti . Per quan to riguarda l 'Occi-dente , i problemi sono più a breve termine. Finita la Guer ra f redda , c 'è la necessità di r idefinire gli equilibri tra Russia e Occidente e di trovare un accordo sul reciproco status parita-

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rio e sulle rispettive sfere di influenza. In pratica ciò signifi-cherebbe:

1. L'accettazione da par te russa dell 'espansione del l 'Unione europea e della Nato e dell ' ingresso nelle sue fila degli stati cri-stiani occidentali e del l 'Europa centrale ed orientale, e l ' impe-gno da parte del l 'Occidente a non ampliare u l ter iormente la Nato, se non nel caso in cui l 'Ucraina dovesse spaccarsi in due distinti paesi.

2. Un trattato di associazione tra la Russia e la Nato che pre-veda un pat to di non aggressione, regolari consultazioni in ma-teria di sicurezza, sforzi congiunti per evitare una competizione nel campo degli a rmament i , e la negoziazione di accordi sul controllo degli a rmament i appropriat i alle rispettive necessità di sicurezza post-Guerra f redda .

3. Il riconoscimento, da parte dell 'Occidente, della Russia qua-le principale responsabile del mantenimento della sicurezza tra i paesi ortodossi e nelle aree in cui l'ortodossia è predominante.

4. Il r iconoscimento da par te occidentale della minaccia, reale e potenziale, posta alla Russia dai popoli musulmani lun-go il propr io conf ine meridionale; la disponibilità a rinegozia-re il trattato Cfe e un at teggiamento comprensivo verso altre iniziative che la Russia po t rebbe r i tenere necessario adottare per far f ron te a tali minacce.

5. Un accordo di cooperazione paritaria tra Russia e Occi-dente per a f f rontare temi, quali ad esempio la Bosnia, che toc-cano interessi sia occidentali che ortodossi.

Nel caso in cui si giunga a un accordo come questo, è pro-babile che né la Russia né l 'Occidente costi tuiranno nel lungo per iodo una minaccia per la reciproca sicurezza. Europa e Rus-sia sono società demograf icamente mature con bassi tassi di na-talità e una popolazione med iamente non giovane; società di questo tipo sono prive del l ' a rdore giovanile necessario a ren-derle espansioniste e aggressive.

Nel l ' immediato per iodo post-Guerra f r edda i rappor t i sino-russi sono diventati molto più cooperativi. Le dispute di confi-ne sono state risolte; le forze militari di conf ine sono state ri-dotte da ent rambi i lati; il volume degli scambi commerciali è aumentato; ent rambi h a n n o smesso di puntarsi contro i missili

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nucleari, e i rispettivi ministri degli Esteri h a n n o ricercato un interesse c o m u n e nella lotta cont ro il fondamenta l i smo islami-co. Cosa più importante , la Russia ha trovato nella Cina un im-por tante acquirente di tecnologia e attrezzature militari, tra cui carri armati, caccia, bombardier i a lungo raggio e missili terra-aria." Per la Russia, il migl ioramento dei rapport i con la Cina è stato la conseguenza di u n a cosciente decisione, alla luce della persistente freddezza dei rappor t i con il Giappone, di far della Cina il propr io «partner» in Asia. Ma è stata anche u n a reazio-ne alle vertenze in atto con l 'Occidente su temi quali espansio-ne della Nato, r i forma economica, controllo degli a r m a m e n d , assistenza economica e ingresso nelle organizzazioni interna-zionali occidentali. Da parte sua la Cina ha potu to dimostrare al l 'Occidente di non essere sola nel m o n d o e di poter conse-guire la capacità militare per po r re in atto una strategia di su-premazia regionale. Un'asse russo-cinese è, per en t rambi le parti, al pari di quella islamico-confuciana, un mezzo per con-trapporsi al potere e all 'universalismo occidentale.

La sopravvivenza di quest'asse nel lungo periodo dipende in gran parte da quanto i rappord tra Russia e Occidente riusciran-no a stabilizzarsi su una base di reciproca soddisfazione e, in se-condo luogo, dall'ascesa della Cina a potenza egemone dell'Asia orientale e dalla conseguente minaccia per gli interessi russi da un pun to di vista economico, demografico e militare. Il dinami-smo economico cinese si è riversato in Siberia, e singoli impren-ditori cinesi - ma anche coreani e giapponesi - stanno esploran-do e sfruttando le opportunità che quell 'area offre. I russi della Siberia vedono il proprio futuro economico legato sempre più al-l'Asia orientale che alla Russia europea. Ancor più preoccupante per la Russia è l 'immigrazione cinese in Siberia: nel 1995 il nu-mero di immigrad cinesi clandestini variava tra i 3 e i 5 milioni, a f ronte dei 7 milioni di russi residenti in Siberia orientale. «I cine-si», ha ammoni to il ministro della Difesa Pavel Graciov, «stanno lentamente compiendo una conquista pacifica dell 'Estremo Oriente russo». Il responsabile russo dell'immigrazione, ha affer-mato: «Dobbiamo opporci all'espansionismo cinese».'" Inoltre, i

47 StephenJ. Blank, Challenging the New World Order: TheArms Transfer Policies of the Russian Republic, Carlisle Barracks, PA, U.S. Army War College, Strategie Studies, Institute, 1993, pp. 53-60. 48 «International Herald Tribune», 25 agosto 1995, p. 5.

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legami economici che la Cina sta sviluppando con le ex repubbli-che sovietiche dell'Asia centrale potrebbero inasprire i rapporti con la Russia. L'espansione cinese potrebbe assumere persino un carattere militare ove mai Pechino decidesse di reclamare la Mongolia, che la Russia separò dalla Cina dopo la Prima guerra mondiale e che è stata per decenni un satellite sovietico. Presto o tardi, le «orde gialle» che tanto hanno ossessionato la fantasia russa sin dai tempi delle invasioni mongole potrebbero tornare a essere una realtà.

I rapporti della Russia con il mondo islamico sono segnati da secoli di espansione militare contro i turchi, le popolazioni nord-caucasiche e gli emirati centroasiatici. Oggi la Russia collabora con Serbia e Grecia, alleati ortodossi, nel tentativo di contrastare l ' influenza turca nei Balcani, e altrettanto fa con l 'Armenia, altra alleata, per limitare questa influenza in Transcaucasia. Ha attiva-mente cercato di preservare il proprio peso politico, economico e militare nelle repubbliche centroasiatiche, le ha cooptate nella Comunità di Stati Indipendenti e mantiene contingenti militari in ciascuna di esse. Di interesse centrale per la Russia sono le ri-serve di gas e petrolio del Mar Caspio e le vie attraverso cui que-ste raggiungono l 'Occidente e l'Asia orientale. La Russia è anche impegnata in una guerra nel Caucaso settentrionale contro i musulmani della Cecenia, e in un'al tra in Tagikistan a sostegno del governo contro un' insurrezione che vede la presenza di fon-damentalisti islamici. Simili timori per la propria sicurezza costi-tuiscono un ulteriore incentivo alla cooperazione con la Cina per il contenimento della «minaccia islamica» in Asia centrale non-ché un importante stimolo a un riavvicinamento russo all'Iran. La Russia ha venduto all'Iran sottomarini, caccia altamente sofi-sticati, cacciabombardieri, missili terra-aria e apparecchiature elettroniche per uso militare, e ha inoltre accettato di costruire in Iran reattori nucleari ad acqua leggera e di fornire agli irania-ni apparecchiature per l 'arricchimento dell 'uranio. In cambio, essa si aspetta esplicitamente che l 'Iran metta f reno alla diffusio-ne del fondamentalismo in Asia centrale e, implicitamente, che collabori al contenimento dell ' influenza turca nella stessa Asia centrale e nel Caucaso. Per i decenni a venire, i rapporti russo-islamici d ipenderanno in misura decisiva dall 'atteggiamento rus-so di f ronte alla minaccia costituita dall'esplosione demografica musulmana lungo il proprio confine meridionale.

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Duran te la Guer ra f r edda l ' India, il terzo stato guida «oscil-lante», è stata alleata a l l 'Unione Sovietica e ha sostenuto u n a guer ra contro la Cina e più d ' u n a cont ro il Pakistan. I suoi rap-porti con l 'Occidente , e in part icolare con gli Stati Uniti, era-no tiepidi, q u a n d o non esplicitamente ostili. Nel m o n d o post-Guerra f redda , è probabile che i rappor t i tra India e Pakistan res teranno fo r t emente conflittuali su alcuni punt i specifici: Ka-shmir, armi nucleari ed equilibri militari nella regione. Più il Pakistan saprà guadagnarsi il sostegno di altri paesi musulma-ni, più i rappor t i tra India e m o n d o islamico res te ranno diffi-cili. E perciò probabile che l ' India si adopererà con particola-re vigore, com 'è già accaduto in passato, per persuadere sin-goli paesi musulmani ad allontanarsi dal Pakistan. Con la fine della Guer ra f redda , i tentativi cinesi di stabilire rappor t i più amichevoli con i propr i vicini si sono estesi anche all ' India, con conseguente a l lentamento della tensione tra i due gover-ni. Questa tendenza non sembra tuttavia destinata a protrarsi a lungo. La Cina è decisamente or ientata verso l'Asia meridio-nale ed è presumibile che cont inui su questa strada: manteni-m e n t o di stretti rappor t i con il Pakistan e ra f forzamento del potenziale militare nucleare e convenzionale pakistano, cor-teggiamento della Birmania med ian te aiuti economici , investi-ment i e assistenza militare, e - forse - sviluppo di propr ie basi navali. La potenza cinese è già oggi in for te espansione; quella del l ' India pot rebbe fare al t ret tanto all'inizio del prossimo se-colo. Le probabil i tà di fu tur i conflitti appa iono mol to alte. «L'implicita rivalità tra i due giganti asiatici, la centrali tà poli-tica e culturale che ciascuna ascrive a sé», ha osservato u n ana-lista, «li i n d u r r a n n o a sostenere cause e paesi diversi. L 'India tenterà di emergere non solo come centro di po tere indipen-den te nel m o n d o mult ipolare, ma anche come contral tare al potere e al l ' influenza cinese.49

Messa di f ron te a un 'a l leanza sino-pakistana, se non a una più generale asse islamico-confuciana, l ' India avrà chiaramente tutti gli interessi a man tene re stretti rapport i con la Russia e a restare un ' impor t an t e acquirente di apparecchiature militari russe. Alla metà degli anni Novanta l ' India aveva acquistato dal-

49 J. Mohan Malik, «India Copes with the Kremlin's Fall», in «Orbis», n. 37 (Inverno 1993), p. 75.

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la Russia quasi tutti i più important i tipi di armi, compresi u n a por taere i e tecnologia per la costruzione di missili criogeni, con conseguenti sanzioni da par te degli Stati Uniti. Oltre alla proliferazione degli a rmament i , altri punt i di contrasto tra In-dia e Stati Uniti e rano i diritti umani , il Kashmir e la liberaliz-zazione del l 'economia. Nel lungo per iodo, tuttavia, è probabi-le che il r a f f r eddamen to dei rapport i tra Stati Uniti e Pakistan e l ' interesse comune a con tenere la Cina po r t e ranno ad un av-vicinamento tra India e Stati Uniti. L 'espansione del potere in-d iano in Asia meridionale non minaccia infatti di danneggiare gli interessi statunitensi e potrebbe, anzi, favorirli.

I r appord tra le varie civiltà e i rispettivi stati guida sono com-plessi, spesso ambivalenti e cer tamente soggetti a mutament i . La gran par te dei paesi appar tenent i a una civiltà seguirà di n o r m a le o r m e del propr io stato guida nella de terminazione dei r appord con paesi di civiltà diverse. Questa, tuttavia, non è una regola fissa, ed è ovvio che tra paesi di cultura diversa non si ins taureranno sempre gli stessi rapport i . Interessi comuni e (di solito) un nemico c o m u n e appar tenen te ad u n a terza ci-viltà, possono dar vita a una f o r m a di cooperazione tra paesi di due civiltà diverse. Conflitti possono ovviamente scoppiare an-che a l l ' in terno di u n a stessa civiltà, soprat tut to nell 'Islam. Inol-tre, i rappor t i tra gruppi di civiltà diverse possono divergere in m o d o significativo da quelli in tercorrent i tra stati guida di u n a stessa civiltà. Ciò detto, la tendenza generale appare tuttavia molto chiara, ed è possibile fo rmula re delle generalizzazioni sui probabili all ineamenti e antagonismi emergent i tra civiltà e stati guida, come illustrato nella figura 9.1. Il bipolarismo rela-tivamente semplice della Guer ra f r edda sta cedendo il posto ai ben più complessi rapport i di un m o n d o mult ipolare e suddi-viso in civiltà.

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Figura 9.1 I rapporti politici tra le civiltà: schieramenti emergenti

Giapponese Ortodossa

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CAPITOLO DECIMO Dalle guer re di transizione alle guerre di faglia

Guerre di transizione: Afghanistan e Golfo

La première guerre civilisationnelle. Così l'illustre studioso ma-rocchino Mahdi Elmandjra definì la guer ra del Golfo allorché essa esplose.1 In realtà è stata la seconda. La pr ima è stata la guer ra sovietico-afghana del 1979-1989. Entrambi i conflitti so-no nati dall ' invasione militare di un paese da parte di un altro, per poi trasformarsi ed essere ridefiniti in termini di guer re di civiltà. In realtà, si è trattato di guer re di transizione verso un 'e-poca dominata da conflitti etnici e da guer re di faglia tra grup-pi appar tenent i a civiltà diverse.

Il conflit to a fghano nacque dal tentativo de l l 'Unione Sovie-tica di sostenere un regime satellite. Si t rasformò in Guer ra f r edda allorché gli Stati Uniti reagi rono f e rmamen te e orga-nizzarono, finanziarono ed equipaggiarono i ribelli afghani in-sorti cont ro le forze sovietiche. Per gli americani, la sconfitta sovietica rappresentò il t r ionfo della dot tr ina reaganiana di so-stegno dell 'opposizione armata ai regimi comunisti e u n a toni-ficante umiliazione dei sovietici simile a quella subita dagli Sta-ti Uniti in Vietnam. La sconfitta causò p ro fonde ferite nella so-cietà e nel l 'es tabl ishment politico sovietici, con t r ibuendo in m o d o significativo alla disintegrazione del l ' impero di Mosca. Per gli americani e gli occidentali in genere, l 'Afghanistan fu la vittoria finale e decisiva, la Waterloo della Guerra f redda .

Per i nemici dei sovietici, tuttavia, la guer ra afghana fu qual-cosa di diverso: fu «la pr ima lotta di resistenza vittoriosa contro u n a potenza straniera», ne l l 'opin ione di un osservatore occi-

1 Mahdi Elmandjra, «Der Spicgel», 11 febbraio 1991, cit. in Elmandjra, «Cul-tural Diversity: Key to Survival in Future» (Primo Congresso messicano sugli studi del futuro), Città del Messico, 26-27 settembre 1994, pp. 3, 11

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dentale,2 «basata non su principi nazionalisti o socialisti», ben-sì su principi islamici, che fu combat tu ta come jihad, e che fornì un ' incredibi le spinta propulsiva al senso di autostima e al potere islamici. Il suo impatto sul m o n d o islamico è stato para-gonabile a quello sortito sul m o n d o orientale dalla vittoria giapponese sui russi del 1905. Quella che per gli occidentali fu« una vittoria del Mondo libero, per i musulmani fu u n a vittoria del m o n d o islamico.

I dollari e i missili americani f u r o n o indispensabili per scon-figgere i sovietici. Altrettanto indispensabile, tuttavia, fu lo sfor-zo sostenuto dall ' intero m o n d o islamico, con un ampio schie-ramento di governi e gruppi in competizione tra loro per scon-figgere i sovietici e conseguire u n a vittoria preziosa per i propr i interessi. Il sostegno finanziario musu lmano venne principal-men te dall 'Arabia Saudita. Tra il 1984 e il 1986 i saudid offri-r ono alla resistenza a fghana 525 milioni di dollari; nel 1989 versarono il 61 per cento di un totale di 715 milioni di dollari, pari a 436 miliardi, con la par te restante a carico degli Stati Uniti. Nel 1993 elargirono altri 193 miliardi di dollari al gover-no afghano. La cifra totale da essi versata nel corso del l ' intera guer ra ha uguagliato e probabi lmente superato i 3-3,3 miliardi di dollari erogati dagli Stati Uniti. Alla guer ra presero par te circa 25.000 volontari provenienti da altri paesi islamici, preva-len temente arabi. Reclutati in gran par te in Giordania, f u r o n o addestrati dai servizi segreti pakistani. Il Pakistan forn ì alla re-sistenza anche l ' indispensabile base d 'appoggio esterna, in sen-so non solo logistico. Inoltre, il dena ro americano giunse in Afghanistan attraverso il Pakistan, che indirizzò mira tamente il 75 per cento di tali fondi ai gruppi islamici più fondamentalisti , di cui il 50 per cento d i re t tamente alla fazione fondamental is ta sunni ta più estrema guidata da Gulbuddin Hekmatyar. Pur comba t t endo contro i sovietici, i partecipanti arabi al conflitto e rano in prevalenza antioccidentali e denunc i a rono gli enti umanitar i occidentali come immorali e sovversivi. Alla fine, i sovietici f u r o n o sconfitti da tre fattori che non f u r o n o in grado

2 David C. Rapoport, «Comparing Militant Fundamentalist Groups», in Mar-tin E. Marty e R. Scott Appleby (a cura di), Fundamentali.sms and the State: Re-making Politici, Economies, and Militarne, Chicago, University of Chicago Press, 1993, p. 445.

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di controbilanciare: tecnologia americana, denaro saudita, ar-dore ed esuberanza demograf ica musulmani.1

La guerra ha lasciato dietro di sé una complessa coalizione di organizzazioni islamiste votate alla promozione dell 'Islam con-tro tutte le forze non musulmane. Ha lasciato in eredità anche un ' ampia congerie di unità di guerriglia, accampamend, campi d 'addes t ramento e strutture logisdche, complesse red interisla-miche di rapport i - personali e tra le varie organizzazioni - e una notevole quanti tà di apparecchiature militari, tra cui dai t recento ai c inquecento missili Sdnger (mai pagad). Soprattut-to, ha lasciato un ' inebr ian te sensazione di potere e sicurezza per i successi o t tenud e un irrefrenabile desiderio di muovere verso altre vittorie. Le «credenziali religiose e politiche» dei vo-lontari afghani, a f fe rmò nel 1994 un funzionario americano, «sono impeccabili. H a n n o già abbat tuto una delle due super-potenze mondiali , e adesso stanno lavorando sull'altra».4

La guer ra a fghana divenne u n a guer ra di civiltà perché tale la cons iderarono i musulmani di ogni par te del m o n d o facen-do quadra to contro l 'Unione Sovietica. La guer ra del Golfo di-venne u n a guer ra di civiltà pe rché l 'Occidente in te rvenne mi-l i tarmente in un conflitto musulmano, perché i paesi occiden-tali appoggiarono a larga maggioranza l ' intervento, e perché i musulmani di tutto il m o n d o la in te rpre ta rono come u n a guer-ra contro di loro, schierandosi compat tamente contro quella che cons idera rono una nuova manifestazione dell ' imperiali-smo occidentale.

In un p r imo momento , i governi arabi e musulmani si mo-strarono divisi sulla guerra . Saddam Hussein aveva violato la sacralità dei confini e nell 'agosto del 1990 la Lega araba con-d a n n ò a s t ragrande maggioranza (quattordici a favore, due contro, c inque astenuti o non votanti) la sua iniziativa. Egitto e

3 Ted Galen Carpenter, «The Unintended Consequences of Afghanistan», in «World Policy Journal», n. 11 (Primavera 1994), pp. 78-9, 81, 82; Anthony Hyman, «Arab Involvment in the Afghan War», in «Beirut Review», n. 7 (Pri-mavera 1994), pp. 78, 82; Mary Anne Weaver, «Letter from Pakistan: Chil-dren of thej ihad», in «New Yorker», 12 giugno 1995, pp. 44-5; «Washington Post», 24 luglio 1995, p. Al; «New York Times», 20 marzo 1995, p. A; 28 mar-zo 1993, p. 14. 4 Tini Weiner, «Blowback from the Afghan Battlefield», in «New York Times Magazine», 13 marzo 1994, p. 54.

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Siria cont r ibui rono con ingenti forze - seguiti, seppur in misu-ra minore , da Pakistan, Marocco e Bangladesh - alla coalizione and-irakena organizzata dagli Stati Uniti. La Turchia chiuse l'o-leodot to che attraverso il suo terri torio collegava l ' Iraq al Me-di te r raneo e permise alla coalizione di utilizzare le propr ie ba-si aeree. In cambio, la Turchia intensificò le pressioni pe r esse-re ammessa in Europa; Pakistan e Marocco r i confe rmarono i loro stretti legami con l 'Arabia Saudita; l 'Egitto vide cancellati i propr i debiti, e la Siria ebbe il Libano. Sul versante opposto, i governi di Iran, Giordania, Libia, Mauritania, Yemen, Sudan e Tunisia, n o n c h é organizzazioni quali l 'Olp, Hamas e il Fis, no-nostante il sostegno finanziario ricevuto dall 'Arabia Saudita so-s tennero l 'Iraq e c o n d a n n a r o n o l ' intervento occidentale. Altri governi musulmani , come l ' Indonesia, assunsero posizioni di compromesso o tentarono di evitare di p rende re posizione.

Se i governi musulmani si mos t ra rono in un pr imo momen-to divisi, l 'opinione pubblica araba e musulmana fu sin dal pri-m o m o m e n t o prevalentemente antioccidentale. Il «mondo ara-bo», riferì u n osservatore amer icano recatosi in Yemen, Siria, Egitto, Giordania e Arabia Saudita tre sett imane d o p o l'inva-sione del Kuwait, «freme di rabbia contro gli Stati Uniti, e trat-tiene a stento la propria gioia all ' idea che vi sia un leader arabo tanto audace da sconfiggere la più grande potenza della ter-ra». ' Milioni di musulmani , dal Marocco alla Cina, si schieraro-no al fianco di Saddam Hussein e «lo proc lamarono eroe mu-sulmano».0 La democrazia costituì «il grande paradosso di que-sto conflitto»: il sostegno a Saddam Hussein fu più «fervente e diffuso» in quei paesi arabi il cui sistema politico era più aper-to e la l iber tà di espress ione sogget ta a minor i restrizioni.7

In Marocco, Pakistan, Giordania, Indonesia e altri paesi vi fu-rono imponent i manifestazioni di denuncia contro l 'Occidente

5 Harrison J. Goldin, «New York Times», 28 agosto 1992, p. A25. 6 James Piscatori, «Religion and Realpolitik: Islamic Responses to the Gulf War», in James Piscatori (a cura di), Islamic Fundamentalisms and the Gulf Cri-sis, Chicago, Fundainentalism Project, American Academy of Arts and Scien-ces, 1991, pp. 1, 6-7. Si veda anche Fatima Mernissi, Islam and Democracy: Fear of the Modem World, Reading, MA, Addison-Wesley, pp. 16-7. 7 Rami G. Khouri, «Collage of Commenti The Gulf War and the Mideast Peace; The Appeal of Saddam Hussein», in «New Perspectives Quarterly», n. 8 (Primavera 1991), p. 56.

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e contro Hassan, Benazir Bhut to e Suharto, considerati lacchè del l 'Occidente . L'opposizione alla coalizione emerse finanche in Siria, dove «un 'ampia parte dei cittadini si oppose alla pre-senza di forze straniere nel Golfo», e Hafiz al-Assad dovette giu-stificare l'invio delle propr ie t r uppe come necessario per equi-librare e nel lungo per iodo soppiantare le forze alleate. Il 75 per cento dei cento milioni di musulmani indiani addebi tò la responsabilità della guer ra agli Stati Uniti, e i 171 milioni di musulmani indonesiani si p ronunc ia rono «nella quasi totalità» contro l 'azione militare americana nel Golfo. Anche gli intel-lettuali arabi si al l inearono su analoghe posizioni, e laborando complesse motivazioni per dimenticare la brutalità di Saddam e denunc ia re l ' in tervento occidentale."

Gli arabi e gli altri musulmani ammettevano in linea di mas-sima che Saddam Hussein potesse essere un t i ranno sanguina-rio, ma sostenevano, paraf rasando Franklin Delano Roosevelt, che «è il nostro tiranno sanguinario». L'invasione era insomma un affare di famiglia e andava risolto in famiglia; quanti perciò intervenivano in n o m e di qualche grande teoria di giustizia in-ternazionale lo facevano solo per proteggere i propr i egoistici interessi e perpe tuare la subordinazione degli arabi all'Occi-dente . Gli intellettuali arabi, commentava u n o studio, «di-sprezzano il regime i rakeno e ne dep lorano la brutali tà e l'au-toritarismo, ma lo considerano come la fucina di un cent ro di resistenza al g rande nemico del m o n d o arabo, l 'Occidente». Essi «definiscono il m o n d o arabo in opposizione all 'Occiden-te». «Quello che ha fatto Saddam è sbagliato», a f fe rmò un pro-fessore palestinese, «ma noi n o n possiamo condanna re l 'Iraq per essersi opposto al l ' intervento militare occidentale». I mu-sulmani residenti sia in Occidente che altrove denunc ia rono la presenza di t ruppe non musu lmane in Arabia Saudita e la con-seguente «profanazione» dei luoghi santi musulmani.9 In bre-

8 Ann Mosely Lesch, «Contrasting Reactions to the Persian Gulf Crisis: Egypt, Syria, Jordan, and the Palestinians», in «Middle East Journal», n. 45 (Inverno 1991), p. 43; «Time», 3 dicembre 1990, p. 70; Kanan Makiya, Cruelty and Silence: War, Tyranny, Uprisìng and the Arab World, New York, W. W. Nor-ton, 1993, p. 242 sgg. 9 Eric Evans, «Arab Nationalism and the Persian Gulf War», in «Harvard Middle Eastern and Islamic Review», n. 1 (Febbraio 1994), p. 28; Sari Nus-selbeh, cit. in «Time», 15 ottobre 1990, pp. 54-5.

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ve, l 'op in ione prevalente era: Saddam ha sbagliato a invadere, l 'Occidente ha sbagliato ancora di più a intervenire, perciò Saddam fa bene a combat tere l 'Occidente e noi facciamo bene a sostenerlo.

Come i protagonisti di altre guer re di faglia, Saddam Hus-sein identificò il propr io regime - fino ad allora impronta to a un marcato laicismo - con la causa capace di guadagnarsi il più ampio sostegno: l'Islam. Alla luce del model lo a U di diffu-sione dell ' identi tà nel m o n d o musulmano, Saddam non ebbe altra alternativa che identificarsi con l'Islam. La scelta dell 'I-slam rispetto al nazionalismo arabo o a un vago antioccidenta-lismo terzomondista, osservò u n commenta tore egiziano, «di-mostra in p ieno il valore dell 'Islam quale ideologia politica per la mobilitazione del sostegno».1" Sebbene l 'Arabia Saudita ab-bia costumi e istituzioni più marca tamente islamici rispetto ad altri stati musulmani , a eccezione forse di Iran e Sudan, e seb-bene abbia finanziato gruppi islamisd in tutto il mondo , nessun movimento islamista di qualsiasi paese sostenne la coalizione occidentale contro l 'Iraq, e prat icamente tutti denunc ia rono l ' in tervento occidentale.

Per i musulmani , dunque , il conflit to si t rasformò rapida-men te in u n a guer ra di civiltà in cui era a rischio l'inviolabilità stessa del m o n d o islamico. I g rupp i fondamental is t i islamici provenienti da Egitto, Siria, Giordania, Pakistan, Malaysia, Af-ghanistan, Sudan e altri paesi denunc ia rono il confi t to in atto come una guer ra contro «l'Islam e la sua civiltà» scatenata da un 'a l leanza di «crociati e sionisd» e proc lamarono il loro soste-gno all 'Iraq di f ron te all '«aggressione militare ed economica subita dal suo popolo». Ne l l ' au tunno del 1980 il ret tore del-l 'Università islamica a La Mecca, Safar al-Hawali, dichiarò in u n a registrazione su cassetta che ebbe in seguito un ' ampia dif-fusione in Arabia Saudita, che la guerra «non vede schierati il m o n d o contro l 'Iraq, bensì l 'Occidente contro l'Islam». Allo stesso modo , Re Hussein di Giordania sostenne che si trattava di «una guer ra contro tutti gli arabi e tutti i musulmani , e non soltanto contro l 'Iraq». Inoltre, come sottolinea Fatima Mer-nissi, le f requent i invocazioni a Dio a protezione degli Stati

10 Karin Haggag, «One Year After the Storm», in «Civil Society», (Cairo), n. 5 (Maggio 1992), p. 12.

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Uniti lanciate dal presidente Bush raf forzarono negli arabi la convinzione che si trattava di «una guer ra religiosa»: i com-menti di Bush non riecheggiavano forse «i deliberati e merce-nari attacchi delle o rde preislamiche del MI secolo e le succes-sive crociate cristiane»? A sua volta, la tesi che la guer ra fosse u n a crociata orchestrata da una cospirazione occidentale e sio-nista giustificava e finanche imponeva come risposta la mobili-tazione di una jihad.u

L'identificazione della guer ra come di un conflitto tra Islam e Occidente facilitò la r iduzione o l ' accantonamento degli an-tagonismi esistenti nel m o n d o musulmano. Le vecchie diffe-renze tra i musulmani persero di rilievo rispetto alla g rande differenza tra l 'Occidente e l 'Islam. Nel corso del conflitto, go-verni e g ruppi musulmani presero sempre più le distanze dal-l 'Occidente. Così com'e ra accaduto in Afghanistan, la guer ra del Golfo affratel lò musulmani che in precedenza si e rano spesso azzannati: secolaristi, nazionalisti e fondamental is t i ara-bi; governo giordano e palestinesi; Olp e Hamas; Iran e Iraq; governi e partiti d 'opposiz ione in generale . «Quei ba'athisti dell 'Iraq», ha det to Safar Al-Hawali, «potranno essere i nostri nemici di un 'o ra , ma Roma sarà la nostra nemica fino al g iorno del giudizio universale».1" La guer ra avviò inoltre il processo di riconciliazione tra Iran e Iraq. I capi religiosi sciiti del l ' I ran de-nunc ia rono l ' in tervento occidentale e invocarono u n a jihad contro l 'Occidente, il governo i raniano prese le distanze dalle misure adottate contro il suo ex nemico, e dopo la guer ra vi fu un graduale migl ioramento dei rapport i tra i due regimi.

Un nemico esterno r iduce anche il livello di conflittualità in terna di un paese. Nel gennaio del 1991, ad esempio, il Paki-stan venne descritto come «travolto da una polemica antiocci-dentale» che unì, seppur per breve tempo, il paese. «Il Pakistan non è mai stato così uni to. Nella provincia mer id ionale del Sind, dove residenti locali e immigrati indiani si vanno ammaz-zando da cinque anni, la gente di ambo le parti manifesta fian-

11 «Boston Globe», 19 febbraio 1991, p. 7; Safar al-Hawali, cit. da Mamoum Fandv, «New York Times», 24 novembre 1990, p. 21; Re Hussein, cit. da Da-vid S. Landes, «Islam Dunk: the Wars ol Muslim Resentment», in «New Re-public», 8 aprile 1991, pp. 15-6; Fatima Mernissi, Islam and Democrary, p. 102. 12 Safar Al-Hawali, «Infìdels, Without. and Within», in «New Perspectives Quarterlv». n. 8 (Primavera 1991), p. 51.

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co a fianco contro gli americani. Nelle aree tribali ultraconser-vatrici della f ront iera nordoccidenta le per f ino le d o n n e mani-festano in strada, spesso in luoghi in cui la gente non si era mai r iunita se non per le preghiere del venerdì»."

Man m a n o che l 'opinione pubblica si pronunciava sempre più f e r m a m e n t e contro la guerra , i governi in un p r imo t empo schieratisi a fianco della coalizione fecero marcia indietro, o si spaccarono, sviluppando complesse argomentazioni a suppor-to delle loro scelte. I governi che avevano forni to t ruppe so-s tennero che ciò era necessario per bilanciare e successiva-men te soppiantare le forze occidentali in Arabia Saudita e che c o m u n q u e sarebbero state impiegate esclusivamente a scopi di-fensivi e a protezione dei luoghi sacri. In Turchia e Pakistan esponent i militari di p r imo piano denunc ia rono esplicitamen-te l 'a l l ineamento dei propr i governi con la coalizione. Il gover-no egiziano e quello siriano, che fo rn i rono i contingenti mili-tari più numerosi , avevano sulle rispettive società un controllo tale da permet te re loro di soppr imere o ignorare le pressioni antioccidentali; quelli di paesi musulmani più aperti f u r o n o vi-ceversa indotti a p rendere le distanze dall 'Occidente e adottare posizioni sempre più ne t t amen te antioccidentali . Nel Magh-reb, «l'esplosione del sostegno all'Iraq» fu «una delle più gran-di sorprese del conflitto». L 'opinione pubblica tunisina si mo-strò fo r temente antioccidentale, i nducendo in breve il presi-den te Ben Ali a condannare l ' intervento occidentale. Il gover-n o marocchino fornì in un p r imo m o m e n t o un cont ingente di 150 soldati alle forze della coalizione, ma a seguito della mobi-litazione dei gruppi antioccidentali proclamò anche u n o scio-pero generale a favore dell 'Iraq. In Algeria, una manifestazione filoirakena cui par tec iparono 400.000 persone indusse il presi-den te Bendjedid, che in un p r imo m o m e n t o aveva esibito un at teggiamento filoccidentale, a muta re posizione, denuncian-do l 'Occidente e d ichiarando che «l'Algeria sarà a fianco dei suoi fratelli irakeni»." Nell 'agosto del 1990 i tre governi magh-rebini avevano votato in seno alla Lega araba u n a mozione di condanna contro l 'Iraq. Ne l l ' au tunno dello stesso anno , riflet-

13 «New York Times», 1 febbraio 1991, p. A7; «Economist», 2 febbraio 1991, p. 32. 14 «Washington Post», 29 gennaio 1991, p. AIO; 24 febbraio 1991, p. Bl; «New York Times», 20 ottobre 1990, p. 4.

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tando i s e n u m e n d delle propr ie popolazioni, votarono a favore di una mozione di condanna del l ' in tervento americano.

Lo sforzo militare occidentale o t t enne scarso sostegno anche dalle popolazioni non occidentali e non musulmane. Nel gen-naio del 1991, il 53 per cento dei giapponesi intervistad al ri-guardo si dichiarò contrar io alla guerra , contro un 25 per cen-to a favore. Gli induisd si divisero a metà nel l 'addebi tare la re-sponsabilità della guer ra a Saddam Hussein e a George Bush: una guer ra che - ammonì il «Times of India» - avrebbe potu to por tare a «un ben più vasto conf ron to tra un m o n d o ebraico-cristiano forte e ar rogante e un debole m o n d o musu lmano in-fiammato dal fervore religioso». La guer ra del Golfo, dunque , iniziata come un conflitto tra Iraq e Kuwait, si t rasformò in una guer ra dappr ima tra Iraq e Occidente, quindi tra Islam e Occi-dente, e alla fine fu vista da molti n o n occidentali come u n a guerra tra Est e Ovest: «una guer ra de l l 'uomo bianco, una nuo-va esplosione di imperialismo vecchio stile».1'

Kuwaitiani a parte, nessuna popolazione islamica si mostrò entusiasta della guerra e quasi tutte si opposero all ' intervento occidentale. Q u a n d o la guer ra ebbe fine, le manifestazioni di vittoria inscenate a Londra e a New York non ebbero corrispet-tivi in nessun altro paese. La «conclusione della guerra», os-servò Sohail H. Hashmi, «non offrì alcun motivo di gioia» tra gli arabi. L'atmosfera prevalente fu invece di intensa frustrazione, sgomento, umiliazione e risentimento. Ancora una volta l'Occi-dente aveva vinto. Ancora u n a volta l 'ult imo Saladino che aveva alimentato le speranze arabe si era dovuto inchinare, sconfitto, dinanzi al potere occidentale imposto con la forza sulla comu-nità islamica. «Cos'altro pot rebbe accadere agli arabi di peggio di ciò che la guer ra ha prodotto», si chiese Fatima Mernissi, e cioè «l ' intero Occidente che con tutta la sua tecnologia ci som-merge di bombe? Quello è stato il massimo degli orrori»."'

Dopo quella guerra, l 'opinione pubblica araba al di fuor i del Kuwait divenne sempre più ostile alla presenza militare ameri-cana nel Golfo. La liberazione del Kuwait eliminava ogni moti-

15 Cit. in «Saturday Star» (Johannesburg), 19 gennaio 1991, p. 3; «Econo-mist», 26 gennaio 1991, pp. 31-3. 16 Sohail H. Hasmi, recensione di Mohammed Haikal, «Illusions of Triumph», in «Harvard Middle Eastern and Islamic Review», n. 1 (Febbraio 1994), p. 107; Mernissi, Islam and Democracy, cit., p. 102.

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vo di conunua re a opporsi a Saddam Hussein e ne lasciava ben pochi a giusdficazione della c o n d n u a presenza militare ameri-cana nel Golfo. Perciò anche in paesi come l 'Egitto l 'op in ione pubblica divenne sempre più solidale con l 'Iraq. I governi ara-bi che avevano fatto par te della coalizione passarono nel cam-po oppos to ." Nell 'agosto del 1992 Egitto e Siria, insieme ad al-tri, si opposero all ' imposizione di u n a zona di non sorvolo nel-l 'Iraq meridionale. Nel gennaio del 1993, inoltre, i governi ara-bi più la Turchia si opposero agli attacchi aerei sull 'Iraq. Se la potenza aerea poteva essere impiegata come risposta agli attac-chi musulmani curdi e sciiti da par te di musulmani sunniti , pe rché non veniva usata anche per r i spondere agli attacchi dei serbi ortodossi contro i musulmani bosniaci? Nel giugno del 1993, q u a n d o il presidente Clinton ord inò di bombardare Ba-ghdad in risposta al tentadvo i rakeno di assassinare l 'ex presi-dente Bush, la reazione internazionale si divise in campi che ri-specchiavano ne t tamente le rispettive civiltà di appar tenenza . Israele e i governi europei occidentali sostennero fo r t emente il raid aereo; la Russia lo accettò in quan to atto «giustificato» di autodifesa; la Cina espresse «profonda preoccupazione»; l'Ara-bia Saudita e gli emirati del Golfo non dissero nulla; altri go-verni musulmani , compreso l'Egitto, lo denunc ia rono come un ulteriore esempio della politica dei due pesi e due misure per-seguita dagli occidentali, men t r e l ' Iran lo definì u n a «flagrante aggressióne» guidata dal «neo-espansionismo e dall 'egotismo» americani.18 Più volte fu sollevata la questione: perché gli Stati Uniti e la «comunità internazionale» (vale a dire l 'Occidente) non reagiscono allo stesso m o d o dinanzi all 'oltraggiosa con-dotta di Israele e alle sue violazioni delle risoluzioni delle Na-zioni Unite?

La Guer ra del Golfo è stata la pr ima guerra tra civiltà del-l 'eopoca post-Guerra f redda. La posta in gioco era stabilire se il grosso delle maggiori riserve petrol i fere del m o n d o sarebbe stato controllato dai governi saudita e degli emirati - la cui si-curezza era affidata alla potenza militare occidentale - oppu re da regimi ind ipendent i antioccidentali in grado e forse decisi a

17 Shibley Telhami, «Arab Public Opinion and the Gulf War», in «Politicai Science Quarterly», n. 108 (Autunno 1993), p. 451. 18 «International Herald Tribune», 28 g iugno 1993, p. 10.

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utilizzare l ' a rma del petrolio contro l 'Occidente. Il quale non riuscì a spodestare Saddam Hussein, ma r iportò una vittoria in quan to ribadì la d ipendenza della sicurezza degli stati del Golfo dal l 'Occidente e si assicurò u n ' i m p o n e n t e presenza mi-litare nel Golfo anche in t empo di pace. Prima della guerra , Iran, Iraq, il Consiglio per la cooperazione nel Golfo e gli Stati Uniti competevano per l 'acquisizione di influenza nel Golfo. Al t e rmine del conflitto, il Golfo Persico era diventato u n lago americano.

Caralleristiche delle guerre di faglia

Le guer re tra clan, tribù, g rupp i etnici, comuni tà religiose e nazioni sono sempre scoppiate in ogni epoca e in qualsiasi ci-viltà in quan to a f fondano le propr ie radici nelle identità dei popoli. Questi conflitti t endono ad essere particolaristici, nel senso che non implicano questioni ideologiche o politiche di interesse per le parti non di re t tamente coinvolte in esso, seb-bene possano a volte suscitare timori di tipo umanitar io. Essi t endono altresì ad essere par t icolarmente violenti e sanguinosi, in quan to vi sono in gioco basilari questioni di identità. Infine, t e n d o n o a protrarsi nel tempo. Sebbene possano essere inter-rotti da tregue o accordi, questi f iniscono genera lmente col ve-nir meno , e il conflitto torna a riesplodere. D'altro canto, u n a decisa vittoria militare di una delle due parti in una guer ra ci-vile di identità accresce le probabilità di genocidio.19

I conflitti di faglia sono conflitti tra stati o gruppi apparte-nent i a diverse civiltà, e assumono carattere violento. Simili guer re possono verificarsi tra stati, tra gruppi non governativi, oppu re tra stati e gruppi non governativi. I conflitti di faglia al-l ' in te rno di u n o stato possono coinvolgere gruppi prevalente-

19 Roy Licklider, «The Consequences of Negotiated Settlements in Civil Wars, 1945-93», in «American Politicai Science Review», n. 89 (Settembre 1995), p. 685, il quale definisce le guerre tra gruppi «guerre di identità», e Samuel P. Huntington, «Civil Violence and the Process of Development», in Civil Violence and the International System, London, International Institute for Strategie Studies, Adelphi Paper No. 83, dicembre 1971, pp. 12-14, il quale indica le cinque caratteristiche peculiari delle guerre di faglia: alto grado di polarizzazione, ambivalenza ideologica; particolarismo, estrema violenza e lunga durata.

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mente localizzati in aree specifiche del paese, nel qual caso il g r u p p o che non controlla il governo lotta solitamente per la propr ia ind ipendenza e p u ò essere disposto (ma p u ò anche non esserlo) a sedare il conflit to per un obietdvo un po ' infe-riore. I conflitti di faglia a l l ' in terno di u n o stato possono anche coinvolgere gruppi geograf icamente interconnessi, nel qual ca-so rappor t i costantemente tesi e r o m p o n o di tanto in tanto in scontri violenti, come accade tra indù e musulmani in India, o tra musulmani e cinesi in Malaysia, oppu re possono sfociare in guer re globali - soprat tut to nel caso in cui vengano a definirsi nuovi stati e relativi confini - dando luogo a tentativi violenti di separazione coatta di popolazioni.

A volte i conflitti di faglia r iguardano lotte per il controllo di popolazioni. Più di f requente , la posta in palio è il controllo di territorio. Obiettivo di a lmeno u n o dei belligeranti è conqui-stare terri torio e liberarlo da chi vi abita mediante espulsione coatta, eliminazione fisica, o en t r ambe le cose, vale a dire me-diante operazioni di «pulizia etnica». Simili conflitti t e n d o n o ad essere par t icolarmente violenti e brutali, con il ricorso da en t r ambe le parti al massacro, al terrorismo, allo s tupro e alla tortura. Spesso il terri torio oggetto di contesa è per u n o o per en t rambi i contendent i un simbolo vitale della propr ia storia ed identità, terra sacra sulla quale vantano un diritto inviolabi-le: la West Bank in Palestina, il Kashmir, il Nagornyj-Karabach, la valle della Drina, il Kosovo.

Le guerre di faglia possiedono alcune ma non tutte le caratte-risdche comuni delle altre guerre locali. Si tratta di conilitd pro-lungati nel tempo. Tutte le guerre di questo dpo scoppiate al-l ' in terno di un paese sono durate in media sei volte più delle guerre tra stati. Poiché implicano quesdoni fondamental i quali l ' idendtà e il potere dei gruppi che ne sono coinvold, sono diffi-cilmente risolvibili mediante il ricorso al negoziato e al compro-messo. Q u a n d o si riesce a giungere a degli accordi, accade spes-so che quesu non vengano sottoscritti da tutte le component i delle rispettive parti, e solitamente non durano a lungo. Le guer-re di faglia sono guerre a singhiozzo, che possono esplodere e degenerare in violenza di massa, attenuarsi e quindi divampare nuovamente. Ben di rado le fiamme dell ' identità e dell 'odio tra comunità vengono estinte con mezzi diversi dal genocidio. In conseguenza del loro carattere prolungato, le guerre di faglia, al

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pari di altre guerre tra gruppi rivali, t endono a p rodur re un ele-vato numero di vittime e di rifugiati. Le stime al riguardo vanno prese con cautela, ma le cifre comunemen te accettate relative al numero di morti prodotti dalle guerre di faglia in corso nei pri-mi anni Novanta sono: 50.000 nelle Filippine, 50.000-100.000 nello Sri Lanka, 20.000 nel Kashmir, 500.000-1,5 milioni in Su-dan, 100.000 in Tagikistan, 50.000 in Croazia, 50.000-200.000 in Bosnia, 30.000-50.000 in Cecenia, 100.000 in Tibet, 200.000 a Ti-mor orientale.2" Tutti questi conflitti h anno inoltre prodot to un n u m e r o ancora più alto di rifugiati.

Molte di queste guer re od ie rne sono semplicemente l'ulti-m o r o u n d di una lunga storia di conflitti sanguinosi la cui vio-lenza ha raggiunto in questa fine di secolo un tale livello da sconfiggere qualsiasi tentativo di por re loro fine. Il conflitto in Sudan, ad esempio, scoppiò nel 1956, si protrasse fino al 1972 q u a n d o fu raggiunto un accordo che concedeva una certa au-tonomia al Sudan meridionale, per poi tornare a divampare nel 1983; i negoziati di pace si i n t e r ruppe ro nel 1991 e f u r o n o ripresi nel 1994 con il raggiungimento, nel gennaio del 1995, di un accordo per un cessate il fuoco. Quat t ro mesi dopo, tut-tavia, i guerriglieri insurrezionisti (le «tigri») infransero la tre-gua e abbandona rono il tavolo delle trattative, e la guer ra rie-splose con violenza ancora maggiore. La ribellione del Moro National Liberation Front nelle Filippine ebbe inizio nei primi anni Settanta e si affievolì nel 1976 allorché fu raggiunto un ac-cordo che concedeva l ' au tonomia ad alcune aree di Mindanao. Nel 1993, tuttavia, è tornata a crescere d ' intensi tà in seguito al ripudio dei tentativi di pace da par te di alcuni g ruppi ribelli dissidenti. Nel luglio del 1995 i dirigenti russi e ceceni h a n n o raggiunto un accordo di smilitarizzazione per por re fine ai vio-lenti scontri scoppiati nel d icembre de l l ' anno prima. Lo scon-tro si è placato per un po ' , per poi r ip rendere con gli attacchi ceceni contro singoli dirigenti russi o filorussi, la risposta russa, l ' incursione cecena in Daghestan del gennaio 1996 e la massic-cia offensiva russa nei primi mesi dello stesso anno .

Se da un lato le guerre di faglia condividono la lunga durata, l 'alto livello di violenza e l 'ambivalenza ideologica delle altre

20 Stime tratte da resoconti giornalistici, nonché da Ted Robert Gurr e Bar-bara Harff, Ethnic Conflict in World Politics, Boulder, Westview Press, 1994, pp. 160-5.

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guerre tra g ruppi rivali, dall 'altro se ne differenziano per due aspetd. Primo, le guer re locali possono scoppiare tra g ruppi et-nici, religiosi, razziali o linguistici. Poiché, tuttavia, la religione è il più impor tante e lemento caratterizzante le civiltà, le guer re di faglia scoppiano quasi sempre tra popoli di religione diversa. Alcuni analisti sottovalutano l ' impor tanza di questo fat tore. Met tono in evidenza, ad esempio, la comunanza etnica e lin-guistica, la passata coesistenza pacifica e l 'alto n u m e r o di ma-trimoni misti tra serbi e musulmani in Bosnia, e l iquidano il fat-tore religioso con riferimenti al «narcisismo delle piccole diffe-renze» di Freud.21 Giudizi come questo a f fondano le radici nel-la miopia del secolarismo. Interi millenni di storia u m a n a di-most rano come la religione n o n sia affatto una «piccola diffe-renza», ma probabi lmente l ' e lemento distintivo più p r o f o n d o che possa esistere tra i popoli. La frequenza, intensità e violen-za delle guer re di faglia sono fo r t emente alimentate dalla fede in u n dio diverso.

Inoltre, le altre guer re t e n d o n o a essere particolaristiche, e quindi relativamente poco inclini a diffondersi e coinvolgere altri partecipanti . Le guer re di faglia, viceversa, sono per defi-nizione guer re tra gruppi che f a n n o par te di più ampie entità culturali. In un normale conflit to locale, il G r u p p o A combat te contro il G r u p p o B, ed i Grupp i C, D ed E non h a n n o alcun motivo di farsi coinvolgere, a m e n o che A o B non minacci in m o d o diret to gli interessi di C, D od E. In u n a guer ra di faglia, viceversa, se il G r u p p o Al combat te contro il g r u p p o Bl , cia-scuno di essi tenterà di espandere il conflit to e mobili tare il so-stegno a propr io favore dei g ruppi affini A2, A3 e A4, e B2, B3 e B4, i quali si ident i f icheranno con una delle fazioni in lotta. L 'espansione dei mezzi di t rasporto e di comunicazione nel m o n d o m o d e r n o ha facilitato la creazione di queste connessio-ni e, quindi , l '«internazionalizzazione» dei conflitti di faglia. L'emigrazione ha prodot to diaspore al l ' in terno di altre civiltà. I mode rn i mezzi di comunicazione consentono più faci lmente alle parti belligeranti di chiedere aiuto e ai rispettivi g ruppi af-fini di venire immedia tamente a conoscenza di quello che ac-cade. U n a contrazione generale del m o n d o consente così ai ri-

21 Richard H. Shultz, Jr., e William J. Olson, Ethnic and Religious Conflict: Emer-ging Threat to U.S. Security, Washington D.C., National Strategie Information Center, p. 17 sgg.; H. D. S. Greenway, «Boston Globe», 3 dicembre 1992, p. 19.

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spettivi g ruppi affini delle pard belligeranti di forni re loro so-stegno morale , diplomatico, finanziario e materiale, e r e n d e molto più difficile impedire che ciò accada. Ciò porta alla crea-zione di fitte reti internazionali di sostegno, le quali consento-no a loro volta ai belligeranti di pro lungare il conflitto. Tale «sindrome dei paesi fratelli», come la definisce H. D. S. Greenway, è u n a tipica caratteristica delle guer re di faglia di fi-ne secolo." Più in generale, anche un basso livello di violenza tra popoli appar tenent i a civiltà diverse compor ta ramificazioni e conseguenze solitamente assend nei conflitti tra civiltà diver-se. Allorché nel febbraio del 1995 un c o m m a n d o di terroristi sunniti uccise diciotto fedeli sciiti in u n a moschea di Karachi, ciò pregiudicò la pace in città e creò un problema per il Paki-stan. Quando , esat tamente un a n n o prima, un colono eb reo uccise ventinove musulmani recatisi a pregare alla Grotta dei patriarchi, egli pregiudicò il processo di pace in Medio Orien-te e creò un problema per il m o n d o intero.

Incidenza: i confini insanguinati dell'Islam

I conflitti locali e le guer re di comuni tà sono il sale della sto-ria, e u n a fonte riferisce che duran te la Guer ra f r edda vi furo-n o circa t ren tadue conflitti etnici, comprese guer re tra arabi e israeliani, indiani e pakistani, musulmani sudanesi e crisdani, buddisti e tamil dello Sri Lanka, sciiti e maronit i libanesi. Le guer re di identità h a n n o rappresenta to circa la metà di tutte le guer re civili scoppiate negli anni Quaran ta e Cinquanta , m a circa i tre quarti di quelle esplose nei decenni successivi, e nel-l 'arco di t empo che va dai primi anni Cinquanta ai tardi ann i Ot tanta l ' intensità delle ribellioni che h a n n o come protagoni-sti g rupp i etnici è triplicato. Alla luce della ben più impor tan te rivalità tra le superpotenze, tuttavia, tali conflitti h a n n o attira-to, salvo poche eccezioni, scarsa at tenzione e sono stati gene-

22 Roy Licklider, «Settlements in Civil Wars», p. 685; Gurr e Harff, Ethnic Confluì, p. 11; Trent N. Thomas, «Global Assessment of Current and Future Trends in Ethnic and Religious Conflict», in Robert L. Pfaltzgraff, Jr. e Ri-chard H. Schultz,Jr. (a cura di), Ethnic Conflict and Regional Instability: Impli-calions for U.S. Policy and Army Roles and Missioni, Carlisle Barracks, PA, Stra-tegie Studies Institute, U.S. Army War College 1994, p. 36.

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ra ímente analizzati attraverso il prisma della Guer ra f redda . Una volta conclusa quest 'ul t ima, i conflitti di faglia h a n n o ac-quisito maggiore prominenza e prevalenza rispetto al passato, e si è verificato qualcosa di molto simile a u n a «impennata» del-la conflittualità etnica.23

Conflitti etnici e guer re di faglia non h a n n o avuto u n a di-stribuzione u n i f o r m e tra le varie civiltà del pianeta. Grandi scontri si sono verificati tra serbi e croati nella ex Jugoslavia e tra buddisti e induisti nello Sri Lanka, men t re conflitti m e n o violenti sono occorsi tra g ruppi non musulmani in altre part i del m o n d o . La stragrande maggioranza delle guer re di comu-nità, tuttavia, ha avuto luogo lungo il conf ine tra Eurasia e Afri-ca che separa i musulmani dai non musulmani. Se al livello glo-bale, o macrolivello, il principale scontro di civiltà è tra l'Occi-den te e gli altri, al livello locale, o microlivello lo scontro è tra l 'Islam e gli altri.

Forti antagonismi e conflitti violenti sono assai diffusi a livel-lo locale tra le popolazioni musu lmane da un lato e quelle non musu lmane dall 'altro. In Bosnia, i musulmani h a n n o combat-tuto u n a sventurata e sanguinosa guer ra contro i serbi ortodos-si e sono stati coinvolti in altri scontri violenti cont ro i croati cristiani. Nel Kosovo, i musulmani albanesi patiscono il domi-nio serbo e sostengono il propr io governo parallelo clandesti-no: le probabili tà di u n o scoppio di violenza tra le due fazioni sono molto alte. I governi albanese e greco sono ai ferri corti in meri to ai diritti delle rispettive minoranze. Turchi e greci sono per tradizione acerrimi nemici. A Cipro, turchi musulmani e greci ortodossi man tengono due stati separati e ostili. Nel Cau-caso, Turchia e Armenia sono nemici storici, ment re azeri e ar-meni sono stati in guer ra per il controllo del Nagornyj-Karaba-ch. Nel Caucaso settentrionale, da duecen to anni ceceni, ingu-sci e altri popoli musulmani combat tono a singhiozzo per la propr ia indipendenza dalla Russia, e nel 1994 c 'è stato un nuo-

23 Si veda Shultz, Jr. e Olson, lithnic and lieltgious Conjlict, pp. 3-9; Sugata Bo-se, «Factors Causing the Proliferation of Etlinic and Religious Conflict», in Pfaltzgraff e Shultz, Ethnic Conflict, pp. 43-49; Michael E. Brown, «Causes and Implications of Ethnic Conflict», in Michael E. Brown (a cura di), Ethnic Con-jlict and International Serurity, Princeton, NJ, Princeton University Press, 1993, pp. 3-26. Per una tesi opposta secondo la quale dalla fine della Guerra fredda il numero dei conflitti etnici non è aumentato, si veda Thomas, «Global Ax-sessmcnt», pp. 33-41.

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vo, sanguinoso conflitto armato tra Russia e Cecenia. Scontri si-mili si sono avuti anche tra ingusci e osseti ortodossi. Nel baci-no del Volga, i tatari musulmani h a n n o in passato combat tu to contro i russi, raggiungendo in seguito con Mosca un n o n faci-le compromesso fonda to su una sorta di sovranità limitata.

Per tutto il xix secolo la Russia ha gradualmente esteso con la forza il propr io controllo sulle popolazioni musulmane dell'A-sia centrale. Negli anni Ottanta, russi e afghani h a n n o combat-tuto una vera e propria guerra, e lo stesso è accaduto, dopo il ri-tiro russo dall 'Afghanistan, in Tagikistan tra le forze russe a so-stegno del governo esistente e i ribelli in prevalenza musulma-ni. Nello Xinjiang, uiguri e altri g ruppi musulmani lottano con-tro il processo di cinesizzazione in atto e vanno sviluppando le-gami con i loro confratelli etnici e religiosi residenti nelle ex re-pubbl iche sovietiche. Nel subcont inente indiano, Pakistan e In-dia h a n n o combat tuto tre guerre , u n a ribellione musulmana sfida il dominio indiano nel Kashmir, gli immigrati musulmani combat tono contro le popolazioni tribali nell'Assam, e in tutta l ' India musulmani e induisti d a n n o luogo a periodici scontri alimentati dal l 'emergere di movimenti fondamentalist i dall 'u-na e dall 'arte parte. In Bangladesh, i buddisti denunc iano le di-scriminazioni subite dalla maggioranza musulmana della popo-lazione, men t re in Birmania avviene esattamente il contrario. In Malaysia e Indonesia i musulmani insorgono periodicamen-te contro i cinesi, di cui contestano il dominio in campo eco-nomico. Nel sud della Thailandia, g ruppi musulmani esplodo-no in r icorrenti rivolte contro il governo buddista, men t re nel sud delle Filippine un ' insurrez ione musulmana lotta per l'indi-pendenza da un paese e un governo cattolici. In Indonesia, d 'a l t ro canto, i cattolici di Timor orientale lottano contro la re-pressione perpetra ta ai loro danni da un governo musulmano.

In Medio Oriente , la conflittualità tra arabi ed ebrei in Pale-stina risale alla costituzione della nazione ebraica; tra Israele e stati arabi ci sono state quat t ro guerre , e i palestinesi h a n n o in-gaggiato Yintifada contro il governo israeliano. In Libano, i cri-stiani maronit i h a n n o combat tu to e perso una guer ra contro gli sciiti e altri musulmani . In Etiopia, gli amhara ortodossi h a n n o tradizionalmente soppresso i g ruppi etnici musulmani e a f f ron tano oggi un ' insur rez ione da par te degli o romo musul-mani. In tutta l 'Africa occidentale ci sono stati numerosi con-

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flitti tra arabi e musulmani al n o r d e tra popolazioni arabe e popolazioni cristiane e animiste di razza nera al sud. La guer ra più sanguinosa tra cristiani e musulmani si è avuta in Sudan, un conflit to che si prot rae da decenni e che ha causato centinaia di migliaia di vittime. La politica nigeriana è stata dominata dal conflit to tra i fulani-hausa musulmani del nord e le tribù cri-stiane del sud, con f requent i disordini, colpi di stato e u n a guer ra vera e propria. In Ciad, Kenya e Tanzania, scontri simili sono scoppiati tra gruppi musulmani e cristiani.

In tutti questi luoghi, i rapport i tra musulmani e le popola-zioni di altre civiltà - cattolica, protestante, ortodossa, indù, ci-nese, buddista, ebraica - sono stati genera lmente antagonistici. In qualsiasi p u n t o dell 'Islam si guardi, i musulmani sembrano far fatica a vivere in pace con i propr i vicini. Viene d u n q u e na-turale chiedersi se tale model lo tardo-novecentesco di conflit-tualità tra gruppi musulmani e non musulmani valga anche per i rappor t i tra gruppi di altre civiltà. I fatti dicono di no. I mu-sulmani costituiscono circa un quinto della popolazione mon-diale, ma negli anni Novanta la loro percentuale di coinvolgi-m e n t o in atti di violenza tra comuni tà locali è superiore a quel-la di qualsiasi altra civiltà. Le indicazioni al r iguardo sono evi-denti .

1. I musulmani sono stati coinvolti in ventisei dei c inquanta conflitti etno-politici scoppiati nel 1993-94 e analizzati in detta-glio da Ted Robert Gur r (Tabella 10.1). Venti tra questi conflit-ti e rano tra gruppi di civiltà diverse e, di questi, quindici tra musulmani e non musulmani . In breve, il n u m e r o di conflitti tra civiltà che ha coinvolto i musulmani è tre volte superiore a quello dei conflitti tra civiltà non musulmane. Anche il n u m e r o di conflitti scoppiati a l l ' in terno del m o n d o islamico è maggio-re di quelli verificatisi nel l 'ambito di qualsiasi altra civiltà, com-presi i conflitti tribali in Africa. A differenza dell 'Islam, l'Occi-den te è stato coinvolto soltanto in due conflitti interni e due con altre civiltà. Le guer re che h a n n o i musulmani come pro-tagonisti t endono inoltre a essere par t icolarmente pesanti in termini di vittime. Delle sei guer re che Gurr rit iene abbiano provocato oltre duecentomila vittime, tre (Sudan, Bosnia, Ti-m o r orientale) e rano tra musulmani e non musulmani , due (Somalia, Iraq-curdi) tra musulmani e solo una (Angola) tra non musulmani .

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2. Il «New York Times» ha individuato quarantot to luoghi teatro nel 1993 di circa c inquantanove conflitti etnici. In metà di essi i musulmani si scontravano con altri musulmani o con non musulmani . T ren tuno di quei cinquantanove conflitti era-no tra g ruppi di civiltà diverse e, a confe rma dei dati di Gurr, due terzi (ventuno) di essi vedevano impegnati i musulmani (Tabella 10.2).

3. In u n a terza analisi, nel 1992 Ruth Leger Sivard ha indivi-duato ventinove guer re (def inendo tali i conflitti che causava-no ogni anno mille o più vittime) in corso. Nove guer re di ci-viltà su dodici e rano tra musulmani e non musulmani: anche in questo caso d u n q u e il n u m e r o di conflitti che vede coinvold i musulmani è superiore a quello di qualsiasi altra civiltà.24

Tabella 10.1 Conflitti etno-politici, 1993-1994

Interni a una civiltà Tra civiltà diverse Totale Islam 11 15 26 Altre 19* 5 24 Totale 30 20 50

* di cui 10 conflitti tribali in Africa Fonte: Ted Robert Gurr, «Peoples Against States: Ethnopolitical Con-flict and the Changing World System», in «International Studies Quarterly», vol. 38 (Settembre 1994), pp. 347-78. Ho qui ripreso la classificazione dei conflitti impiegata da Gurr, ad eccezione di quello sino-tibetano, che Gurr non considera uno scontro di civiltà e che ho invece inserito in tale categoria, in quanto si tratta chiaramente di uno scontro tra cinesi han confuciani e tibetani buddisti lamaisti.

Tabella 10.2 Conflitti etnia, 1993

Interni a una civiltà Tra civiltà diverse Totale Islam 7 21 28 Altre 21* 10 31 Totale 28 31 59

* di cui 10 conflitti tribali in Africa Fonte: «New York Times», 7 febbraio 1993, pp. 1, 14

Tre differenti analisi g iungono d u n q u e alla medesima con-clusione: nei primi anni Novanta i musulmani e rano coinvolti

24 Ruth Leger Sivard, World Military and Social Expenditures 1993, Washing-ton, D.C., World Priorities, Inc., 1993, pp. 20-22.

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più di qualsiasi altra comuni tà in conflitti con gruppi diversi, e dai due terzi ai tre quarti di tutte le guer re tra civiltà in corso nel m o n d o vedevano contrappost i musulmani e non musulma-ni. I confini dell 'Islam g rondano sangue, perché sanguinario è chi vive al loro interno.2 '

La propens ione dei musulmani alla conflittualità violenta ri-salta altresì dal grado di militarizzazione delle civiltà musulma-ne. Negli anni Ot tanta i paesi musulmani presentavano un tas-so di militarizzazione (vale a dire il n u m e r o di militari per ogni mille abitanti) e un indice di p ropens ione militare (il tasso di militarizzazione in rappor to al livello di benessere di un paese) significativamente più alto di quelli di altri paesi. Nei paesi cri-stiani, viceversa, entrambi i tassi risultavano più bassi di quelli degli altri paesi. Entrambi i tassi dei paesi musulmani e rano al-l ' incirca il doppio di quelli dei paesi crisdani (Tabella 10.3). «E del tutto evidente», conclude James Payne, «che esiste u n a cor-relazione diretta tra Islam e militarismo».20

Tabella 10.3 Militarismo dei paesi musulmani e cristiani

Tasso di militarizzazione

Indice di propensione militare

Paesi musulmani (n = 25) 11,8 17,7 Altri paesi (n = 112) 7,1 12,3 Paesi cristiani (n =57) 5,8 8,2 Altri paesi (n = 80) 9,5 16,9

Fonte: James L. Payne, Why Nations Arm, Oxford, Basii Blackwell, 1989, pp. 125,138-9.1 paesi musulmani e cristiani sono quelli in cui oltre l'80 per cento della popolazione aderisce alla religione principale.

Gli stati musulmani h a n n o anche dimostrato un 'a l ta pro-pensione alla violenza in occasione di crisi internazionali. Tra il 1928 e il 1979 vi h a n n o fatto ricorso per risolvere 76 crisi su un totale di 142. In 25 di questi casi, la violenza è stata il principa-

25 Nessuna singola affermazione contenuta nel mio articolo su «Foreign Af-fairs» ha attirato su di sé un fuoco di critiche maggiore di: «I confini dell'I-slam grondano sangue». Espressi quel giudizio sulla base di un'indagine a campione sui conflitti tra civiltà. L'evidenza numerica risultante da qualun-que fonte disinteressata dimostra al di là di ogni dubbio la validità di quel-l'affermazione, p. 124. 26 James L. Payne, Why Nations Arm, Oxford, B. Blackwell, 1989.

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le s t rumento di soluzione della crisi, ment re negli altri 51 è sta-ta solo u n o degli s t rumenti impiegati. In tutti i casi in cui gli stati musulmani hanno fatto ricorso alla violenza, il suo livello è sempre stato altissimo: nel 41 per cento dei casi è scoppiata u n a guer ra di dimensioni globali, men t re conflitti di vaste di-mensioni si sono avuti in un altro 38 per cento dei casi. Se gli stati musulmani h a n n o fatto ricorso alla violenza nel 53,5 per cento delle crisi che li ha visti come protagonisti, per quanto conce rne il Regno Unito ciò è avvenuto solo nel l ' I 1,5 per cen-to dei casi, per gli Stati Uniti nel 17,9 per cento e per l 'Unione Sovietica nel 28,5 per cento. Tra le grandi potenze solo la Cina ha mostrato u n a propens ione alla violenza maggiore degli stati musulmani: il 76,9 per cento delle crisi in cui è stata coinvolta.27

La bellicosità e la violenza musu lmane di fine secolo sono u n a realtà che né i musulmani né altri possono negare.

Cause: storia, demografia, politica

Come spiegare l 'escalation di fine secolo delle gue r re di fa-glia e il ruo lo centrale dei musulmani in questi conflitti? In-nanzi tut to queste guer re a f fondano le propr ie radici nella sto-ria. Scoppi intermittenti di violenza tra gruppi di civiltà diverse sono avvenuti in passato ed e rano ben presenti nella memoria , provocando a loro volta paure e insicurezze da ambo le parti. Musulmani e indù nel subcont inente indiano, russi e caucasici nel Caucaso settentrionale, a rmen i e turchi nella Transcauca-sia, arabi ed ebrei in Palestina, cattolici, musulmani e ortodos-si nei Balcani, russi e popoli di razza turca dai Balcani all'Asia centrale, singalesi e tamil nello Sri Lanka, arabi e popolazioni di razza nera in tutto il cont inente africano: tutti questi rap-porti sono stati caratterizzati nel corso dei secoli da un alter-narsi di circospetta coesistenza e di feroce violenza. C 'è u n a lunga tradizione di violenza alla quale ch iunque veda dei buo-ni motivi per farlo può att ingere. In tutti questi rapport i , la sto-ria appare quanto mai vivida e terrificante.

27 Christopher B. Stone, «Westphalia and Hudaybiyya: A Survey of Islamic Perspectives on the Use of Force as Conflict Management Technique», ine-dito, Harvard University, pp. 27-31; Jonathan Wilkenfeld, Michael Brecher e Sheila Moser (a cura di), Crises in the Twentieth Century, Oxford, Pergamon Press, 1988-89, voi. II, pp. 15, 161.

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Una storia fatta di reiterate carneficine, tuttavia, non basta di per sé a spiegare perché una simile violenza sia tornata prepo-ten temente alla ribalta alla fine di questo secolo. In fin dei con-ti, come molti h a n n o sostenuto, serbi, croati e musulmani han-no vissuto pacif icamente per decenni fianco a fianco in Jugo-slavia, e lo stesso h a n n o fatto musulmani e indù in India. I nu-merosi g ruppi religiosi ed etnici esistenti in Unione Sovietica sono coesisdd tranquil lamente, con alcune impor tand eccezio-ni di cui tuttavia si rese responsabile lo stesso governo sovietico. Anche tamil e singalesi h a n n o convissuto pacif icamente su un' isola spesso descritta come un paradiso tropicale. La storia non ha impedi to che per lunghi periodi di t empo potessero prevalere rappor t i relativamente pacifici; essa d u n q u e non ba-sta di per sé a spiegare il venire m e n o della pace. Altri fattori devono essere intervenuti negli ultimi decenni .

U n o di questi è certamente individuabile nei mutati equilibri demografici. L'espansione numerica di un g ruppo genera pres-sioni politiche, economiche e sociali sugli altri gruppi e induce a contromisure. Cosa ancor più importante, produce pressioni mi-litari su gruppi demograficamente m e n o dinamici. Il crollo, nei primi anni Settanta, del t rentennale ordine costituzionale in Li-bano fu in gran parte conseguenza dello spettacolare aumento della popolazione sciita rispetto ai cristiani maroniti. Nello Sri Lanka, come ha dimostrato Gary Fuller, i punti culminanti del-l ' insurrezione nazionalista singalese del 1970 e della rivolta tamil di fine anni Ottanta coincisero perfe t tamente con gli anni in cui all ' interno di ciascuno dei due gruppi etnici la fascia di popola-zione compresa tra i quindici e i vent 'anni superò il 20 per cen-to del totale (si veda la Figura 10.1).28 Praticamente tutti i ribelli singalesi, ha osservato un diplomatico statunitense in servizio nello Sri Lanka, e rano al di sotto dei ventiquattro anni di età, ment re le «tigri tamil», è stato affermato, «ricorsero a un vero e proprio esercito di bambini», a r ruolando «ragazzi e ragazze an-che di undici anni», e molti di coloro che mor i rono negli scontri «erano ancora adolescenti, pochissimi avevano compiuto diciot-

28 Gary Fuller, «The Demographic Backdrop to Ethnic Conflict: A Geo-graphic Overview», in Central Intelligence Agency, The Challenge of Ethnic Conjlict lo National and International Order in the 1990's: Geographic Perspectives, Washington, D.C., Central Intelligence Agency, RTT 95-10039, Ottobre 1995, pp. 151-4.

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to anni». Le tigri, scrisse l '«Economist», combattevano u n a «guerra di minorenni».29 Analogamente le guerre di faglia scop-piate tra russi e popolazioni musulmane lungo i confini meri-dionali della Russia vennero alimentate dalle grandi differenze nel tasso di crescita demografica. Agli inizi degli anni Novanta, il tasso di fertilità nella Federazione russa era dell ' I ,5 per cento, ment re quello delle ex repubbliche sovietiche dell'Asia centrale, a prevalenza musulmana, era di circa il 4,4 per cento e il tasso di incremento demografico net to (tasso di natalità m e n o tasso di mortalità) era, alla fine degli anni Ottanta, cinque-sei volte mag-giore di quello della Russia. Negli anni Ottanta la popolazione cecena era cresciuta del 26 per cento; la Cecenia era u n o dei luo-ghi più densamente popolati della Russia e il suo alto tasso di na-talità produceva emigrati e guerriglieri/" Allo stesso modo, alti tassi di natalità e di emigrazione musulmana nel Kashmir dal Pakistan hanno stimolato la rinascita dell 'opposizione al domino indiano.

Figura 10.1 Sri Lanka: punte massime delie fasce di giovani singalesi e tamil

1950 1955 1960 1965 1970 1975 1980 1985 1990 1995 2000 2005

* Quando la popolazione giovanile raggiunge o supera il 20% del totale.

• Totale di Sri Lanka • Singalesi • Tamil

29 «New York Times», 16 ottobre 1994, p. 3; «Economist», 5 agosto 1995, p. 32. 30 Uni ted Nat ions Department for E c o n o m i c and Social Information and Policy Analysis, Populat ion Division, World Population Prospects: The 1994 Revi-sion, N e w York, Uni t ed Nations, 1995, pp. 29, 51; Denis Dragounski, «Thre-shold o f V i o l e n c e » , in «Freedom Review», n. 26 (Marzo-Aprile 1995) , p. 11.

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I complicati processi che sfociarono nelle guer re della ex Ju-goslavia h a n n o avuto molte cause. Tuttavia, il maggior fat tore scatenante è stato probabi lmente il mu tamen to demograf ico verificatosi nel Kosovo. Il Kosovo era u n a provincia au tonoma della repubblica serba, dotata in p radca degli stessi poteri del-le sei repubbl iche jugoslave salvo quello di secessione. Nel 1961 la sua popolazione era composta per il 67 per cento da musul-mani albanesi e per il 24 per cento da serbi ortodossi. Il tasso di natalità degli albanesi, tuttavia, era il più alto d 'Europa , e il Ko-sovo divenne l 'area più densamente popolata della Jugoslavia. Negli anni Ot tanta quasi il 50 per cento degli albanesi avevano m e n o di vent 'anni . Di f ron te a queste cifre, i serbi cominciaro-no a emigrare e a cercare nuove oppor tun i tà economiche a Belgrado e altrove. La conseguenza fu che nel 1991 il Kosovo era abitato per il 90 per cento da musulmani e solo per il 10 per cento da serbi.'1 Questi ultimi, tuttavia, consideravano il Kosovo come la loro «Terra santa» o «Gerusalemme», il luogo, tra l 'altro, della grande battaglia del 28 giugno 1389 che segnò la loro sconfitta per m a n o dei turchi e la conseguente sotto-missione per oltre cinque secoli al dominio o t tomano.

Alla fine degli anni Ottanta, questo muta to equilibrio demo-grafico indusse gli albanesi a rivendicare per il Kosovo lo status di repubblica jugoslava. I serbi e il governo di Belgrado si op-posero, nel t imore che se il Kosovo avesse conquistato il diritto di secessione avrebbe potuto esercitarlo per unirsi all 'Albania. Nel marzo del 1981 c 'e rano state proteste e scontri da par te de-gli albanesi a sostegno delle propr ie rivendicazioni. Secondo i serbi, gli atti di discriminazione, persecuzione e violenza ai loro danni si e rano intensificati. «A part ire dalla fine degli anni Set-tanta», disse un protestante croato, «... nel Kosovo presero a ve-rificarsi r ipetud episodi di violenza, tra cui danni alle proprietà , l icenziamenti , vessazioni, stupri, scontri armati e assassinii». Perciò «i serbi sostennero che la minaccia cui e rano sottoposti, avendo ormai assunto proporzioni da genocidio, non poteva più essere tollerata». La protesta dei serbi del Kosovo riecheg-giò in Serbia, sfociando nel 1986 in u n a dichiarazione firmata

31 Susan Woodward, Balkan Tragedy: Chaos and Dissolution after the Cold War, Washington, D.C., Brookings Institution, 1995, pp. 32-35; Branka Magas, The Destruction of Yugoslavìa: Tracking the Breakup 1980-92, London, Verso, 1993,

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mata da duecen to eminent i intellettuali, politici, leader reli-giosi e ufficiali militari serbi, compresi gli editori della rivista dell 'opposizione liberale «Praxis», nella quale si chiedeva l'a-dozione da par te del governo di vigorose misure che mettesse-ro fine al genocidio contro i serbi in atto nel Kosovo. In base a qua lunque ragionevole def inizione del te rmine genocidio, questa accusa appariva un 'evidente esagerazione, anche se se-condo un osservatore straniero simpatizzante degli albanesi, «nel corso degli anni Ot tanta i nazionalisti albanesi si sono resi responsabili di un certo n u m e r o di atti di violenza contro i ser-bi, n o n c h é della distruzione di alcune proprie tà serbe».12

Tutto ciò scatenò il nazionalismo serbo, nel quale Slobodan Milosevic vide un 'oppor tun i t à da non perdere . Nel 1987, in un discorso tenuto nel Kosovo, Milosevic esortò i serbi a rivendi-care la propr ia terra e la propr ia storia. «Immediatamente un gran n u m e r o di serbi - comunisti , non comunisti e finanche andcomunist i - iniziò a raccogliersi in torno a lui, decisi non so-lo a proteggere la minoranza serba nel Kosovo, ma a soppri-mere gli albanesi e trasformarli in cittadini di serie B. Milosevic fu ben presto riconosciuto come un leader nazionale».31 Due anni dopo, il 28 giugno 1989, Milosevic tornò nel Kosovo insie-me a più di un milione di serbi per celebrare il seicentesimo anniversario della g rande battaglia simbolo della loro guer ra infinita contro i musulmani .

Le paure e il nazionalismo serbi fomentat i dall ' incessante au-men to del n u m e r o e del potere degli albanesi vennero ancor più accresciud dai mutamend demografici registratisi in Bosnia. Nel 1961 i serbi costituivano il 43 per cento e i musulmani il 23 per cento della popolazione della Bosnia-Erzegovina. Nel 1991 le percentual i risultavano pressoché rovesciate: i serbi e rano scesi al 31 per cento ment re i musulmani erano saliti al 44 per cento. Nel corso di questi t rent 'anni i croati sono passati dal 22 al 17 per cento. L'espansione di un g ruppo etnico ha portato al-le operazioni di pulizia etnica del g ruppo rivale. «Perché ucci-

32 Paul Mojzes, Yugoslavian Inferno: Ethnoreligious Warfare in the Balkans, New York, Continuum, 1994, pp. 95-96; Magas, Destruction ofYugoslavia, pp. 49-73; Aryeh Neier, «Kosovo Survives», in «New York Review of Books», 3 febbraio 1994, p. 26. 33 Aleska Djilas, «A Profile of Slobodan Milosevic», in «Foreign Affaire», n. 72 (Estate 1992), p. 83.

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diamo i bambini?», si chiese un soldato serbo nel 1992, e rispo-se: «Perché un giorno cresceranno e dovremmo ucciderli allo-ra». Con espressione meno brutale, le autorità croato-bosniache in tervennero allo scopo di prevenire che le loro località venis-sero «occupate demograficamente» dai musulmani.^1

I mutat i equilibri demografici e u n a percentuale di giovani superiore al 20 per cento della popolazione complessiva spie-gano molti dei conflitti tra civiltà di questo fine secolo, ma non tutti. Lo scontro tra serbi e croati, ad esempio, non p u ò essere spiegato da fattori demografici , e soltanto in parte dalla storia, dal m o m e n t o che questi due popoli h a n n o convissuto in m o d o relat ivamente pacifico fino a q u a n d o gli ustascia croati non massacrarono i serbi du ran te la Seconda guer ra mondia le . Qui, come altrove, un ulteriore motivo di scontro è stato offer-to dalla politica. Il crollo degli imperi austro-ungarico, ottoma-no e russo al termine della Prima guerra mondiale stimolò con-flitti etnici e di civiltà tra popolazioni e tra gli stati che sostitui-rono quegli imperi. Risultati analoghi produsse la fine degli imperi britannico, francese e olandese d o p o la Seconda guer ra mondiale . E così anche è stato per la caduta dei regimi comu-nisti in Unione Sovietica e in Jugoslavia alla fine della Guer ra f redda . Tutti coloro che non po te rono più identificarsi come comunisti , cittadini sovietici o jugoslavi avvertirono il disperato bisogno di acquisire nuove identità, e le trovarono nei vecchi baluardi dell 'etnia e della religione. L 'ordine repressivo ma pa-cifico di stau fedeli al principio che non esiste alcun dio fu so-stituito dalla violenza di popoli che c redono in dei diversi.

Tale processo fu poi esacerbato dalla necessità, da par te del-le enti tà politiche emergent i , di adot tare il model lo democra-tico. Q u a n d o l 'Unione Sovietica e la Jugoslavia iniziarono a sfaldarsi, le élite al potere non indissero elezioni nazionali. Se lo avessero fatto, i leader politici, concor rendo per il po te re centrale, avrebbero po tu to lanciare all 'elettorato appelli di ca-rat tere mult ietnico e mult iculturale e costituire in pa r l amento coalizioni di maggioranza così impronta te . Invece sia in Unio-

34 Woodward, Balkan Tragedy, pp. 33-35, le cifre sono tratte da censimenti ju-goslavi e da altre fonti; William T. Johnsen, Deciphering the Balkan Enigma: Using History lo Inform Policy, Carlisle Barracks, Strategie Studies Institute, 1993, p. 25, che cita il «Washington Post», 6 dicembre 1992, p. C2; «New York Times», 4 novembre 1995, p. 6.

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ne Sovietica che in Jugoslavia le elezioni f u r o n o organizzate pr ima a livello di repubblica: ciò spinse irresistibilmente i lea-der politici a scagliarsi cont ro l 'autori tà centrale, appellandosi al nazionalismo etnico e p romuovendo l ' ind ipendenza delle propr ie repubbl iche. Perf ino in Bosnia, alle elezioni del 1990 il voto della popolazione ricalcò fede lmente le linee di demar-cazione etnica. Il mult ietnico pa rd to riformista e l 'ex part i to comunista o t t enne ro il 10 per cento dei voti ciascuno. I voti ot-tenuti dal Partito musu lmano di azione democrat ica (34 per cento) , dal Partito democrat ico serbo (30 per cento) e dall 'U-n ione democrat ica croata (18 per cento) , r ispecchiano alla perfez ione le percentual i di popolazione musulmana , serba e croata. In quasi tutte le ex repubbl iche sovietiche e jugoslave, le p r ime elezioni libere f u r o n o vinte dai leader politici che si e rano appellati ai sent imenti nazionalisti e che promet tevano una for te azione di difesa della propr ia nazionalità dagli altri g rupp i etnici. La compet iz ione elettorale incoraggia gli appel-li nazionalisti, e provoca così la degeneraz ione dei conflitti di faglia in vere e propr ie guerre . Quando , secondo l 'espressione di Bogdan Denitch, «l 'ethnos diventa demos», ' ' il risultato è po-lemos (guerra) .

Rimane il quesito del perché, sul finire del secolo, i musul-mani risultino coinvolti molto più di altre civiltà in scontri vio-lenti con altre comunità . E sempre stato così? In passato, i cri-stiani s te rminarono intere popolazioni, cristiane e non . Valuta-re la p ropens ione alla violenza delle civiltà nel corso della sto-ria r ichiederebbe una ricerca approfondi ta che non è possibile effet tuare in questa sede. Possiamo invece identificare le possi-bili cause della violenza, sia in te rna sia nei confront i di altri g ruppi , che caratterizza i musulmani oggi e dist inguere tra quelle che spiegano la loro propens ione alla conflittualità in chiave storica (sempre che questa chiave ci sia) e quelle che in-vece la spiegano soltanto in relazione al tardo xx secolo. E pos-sibile evidenziare sei cause. Tre spiegano soltanto la violenza tra musulmani e tre anche quella nei confront i di altre civiltà. Inoltre, tre di esse spiegano solo l 'attuale p ropens ione dei mu-sulmani alla violenza, ment re altre tre ne spiegano anche le ra-

35 Bogdan Denis Denitch, Elhnic Nalionalism: The Tragic Death of Yugoslavia, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1994, pp. 108-109.

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dici storiche, sempre che esistano. Se però la p ropens ione sto-rica non esiste, allora le sue presunte cause, se non possono spiegare qualcosa che non esiste, n o n possono spiegare nean-che la palese e dimostrata p ropens ione con temporanea dei musulmani alla violenza. In tal caso, dunque , quest 'ul t ima p u ò essere spiegata solo con cause propr ie del xx secolo, e che nei secoli precedent i non esistevano (si veda la Tabella 10.4).

Tabella 10.4 Possibili cause della propensione alla violenza dei musulmani

Conflittualità interna Conflittualità interna ed esterna

Conflittualità Contiguità Militarismo storica e Indigeribilità contemporrtttea

Conflittualità Status di vittima Espansione demografica contemporanea Assenza di uno stato guida

1) È stato sostenuto che l 'islamismo è sempre stato, sin dalle origini, una religione bellicista, che glorifica le virtù militari. L'Islam ebbe origine tra «le tribù nomadi di bellicosi beduini» e questa «origine violenta è marchiata a fuoco nelle fonda-men ta dell 'Islam. Lo stesso Maometto viene ricordato come un p rode combat ten te e un valente condottiero»1 '1 (nessuno di-rebbe mai una cosa simile di Gesù o di Buddha) . Le dot t r ine islamiche, si dice, predicano la guer ra contro gli infedeli; quan-do l'iniziale spinta espansionistica dell 'Islam si affievolì, i grup-pi musulmani , diversamente da quanto postulava la dottr ina, cominc ia rono a farsi guer ra tra loro. Il r appor to tra fitna, o conflittualità interna, ejihad m u t ò drast icamente a favore della prima. Il Corano e altri testi religiosi musulmani con tengono poche proibizioni r iguardo alla violenza, e il concet to di non-violenza è assente dai precetti e dalle tradizioni musulmane .

2) Sin dalle sue origini, l 'Islam si diffuse rapidamente in Afri-ca settentrionale e in gran par te del Medio Oriente , e successi-vamente in Asia centrale, nel subcont inente indiano e nei Bal-cani. L 'espansione por tò i musulmani a contat to diretto con molte e variegate popolazioni che f u r o n o conquistate e con-

36 Payne, Wliy Nations Ann, pp. 125, 127.

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vertite, un processo il cui lascito si p u ò chiaramente avvertire ancora oggi. Sul l 'onda delle conquiste o t tomane nei Balcani, gli slavi meridionali delle aree u rbane si converdrono spesso al-l'Islam, a differenza di quanto invece accadde per i ceti rurali. Proprio da qui ebbe origine la disdnzione tra bosniaci musul-mani e serbi ortodossi. Viceversa, l 'espansione in direzione del Mar Nero, del Caucaso e dell'Asia centrale por tò per diversi se-coli l ' Impero russo in costante conflit to con una varietà di po-poli musulmani . Il contr ibuto del l 'Occidente - a quel l 'epoca all 'apice del po te re nei confront i dell 'Islam - alla nascita di una nazione ebraica in Medio Or ien te gettò le basi dell ' inter-minabile antagonismo tra arabi e israeliani. L'espansione via terra di popolazioni musu lmane e non musulmane produsse perciò u n a stretta contiguità fisica tra musulmani e non musul-mani in tutta l 'Eurasia. Viceversa, l 'espansione via mare del-l 'Occidente n o n creò di n o r m a situazioni di stretta convivenza tra popoli occidentali e non occidentali: questi ultimi vennero 0 asserviti al dominio eu ropeo oppure , fatta eccezione per l'A-frica meridionale , let teralmente decimati dai colonizzatori oc-cidentali.

3) U n a terza possibile fonte di conflittualità tra musulmani e non musulmani chiama in causa quella che u n o statista, rife-rendosi al p ropr io paese, ha defini to 1'«indigeribilità» dei mu-sulmani. Questo f e n o m e n o tuttavia, è a doppio senso: i paesi musulmani manifes tano nei conf ront i delle minoranze non musulmane problemi paragonabili a quelli che i paesi non mu-sulmani h a n n o con le minoranze musulmane. Ancor più del cristianesimo, l'Islam è u n a fede assoluta, che fonde in sé reli-gione e politica e traccia un net to conf ine tra appa r t enend al Dar ai-Islam e appar tenent i al Dar al-harb. Confuciani , buddisd, induisti, cristiani occidentali e cristiani ortodossi h a n n o m e n o difficoltà ad adattarsi gli uni agli altri e a vivere fianco a fianco di quante ne abbiano ad adattarsi e convivere con i musulmani. 1 cinesi, ad esempio, rappresen tano una minoranza economi-camente dominante in gran parte dei paesi del Sud-Est asiatico. Sono stati assimilati con successo tanto alla società buddis ta thailandese quan to a quella cattolica filippina; non esistono ca-si significativi di violenza anticinese da parte dei gruppi di mag-gioranza di quei paesi. Viceversa, rivolte e / o atti di violenza an-ticinese sono scoppiati in Indonesia e in Malaysia, en t rambi

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paesi musulmani , e il ruo lo dei cinesi in quelle società resta a tutt 'oggi una questione delicata e potenzialmente esplosiva, a differenza di quanto accade in Thai landia e nelle Filippine.

Militarismo, indigeribilità e contiguità con gruppi non mu-sulmani sono caratteristiche costanti dei musulmani e potreb-bero spiegare, ove mai esista, la loro propens ione storica alla conflittualità.

Tre altri fattori, più limitati dal pun to di vista temporale, pos-sono però u l te r iormente spiegare l 'esplosione della violenza islamica in questo tardo xx secolo. Una pr ima motivazione, avanzata dai musulmani , è che l ' imperial ismo occidentale e l 'asservimento delle società musu lmane nel xix e xx secolo h a n n o prodot to un ' immagine di debolezza militare ed econo-mica dei musulmani i nducendo i g ruppi non islamici a vedere nei musulmani un facile bersaglio. Questi uldmi, secondo tale interpretazione, sono vittime di un diffuso pregiudizio antimu-sulmano paragonabi le al l 'antisemitismo che ha tradizional-men te pervaso le società occidentali. Gruppi musulmani quali ad esempio i palestinesi, i bosniaci, la popolazione del Kashmir e i ceceni - sostiene Akbar A h m e d - sono come «gli indiani d 'America: depressi, privi di dignità, rinchiusi in riserve rita-gliate dalle loro terre ancestrali».37 La tesi dei musulmani come vittime, tuttavia, non spiega la conflittualità tra maggioranze musu lmane e minoranze non musu lmane in paesi quali il Su-dan, l 'Egitto, l 'Iran, l ' Indonesia.

Un e lemento più convincente, che pot rebbe spiegare sia la conflittualità in terna che quella rivolta all 'esterno, è l 'assenza nel m o n d o islamico di u n o o più stati guida. I difensori dell'I-slam sostengono spesso che i suoi critici occidentali c redono -e r r o n e a m e n t e - che esista nel m o n d o islamico u n a centrale cospirativa che mobilita tutte le forze islamiche e coordina le sue azioni cont ro l 'Occidente e altre civiltà. Invece, l 'Islam è u n a fonte di instabilità nel m o n d o propr io perché manca di un cent ro dominante . I paesi che aspirano al ruolo di leader del-l'Islam, quali ad esempio l 'Arabia Saudita, l ' Iran, il Pakistan, la Turchia e potenzia lmente l ' Indonesia, sono in compet iz ione per la leadership nel m o n d o musulmano; nessuno di essi è però in u n a posizione suff ic ientemente forte da poter mediare

37 «Middle East International», 20 gennaio 1995, p. 2.

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i conflitti a l l ' in terno dell 'Islam, e nessuno di essi è in grado di agire con la dovuta autori tà a n o m e di tutto l'Islam nel l 'affron-tare i conflitti tra gruppi musulmani e non musulmani .

Infine, cosa più importante , l 'esplosione demograf ica nelle società musu lmane e la presenza di moltissimi maschi, spesso disoccupad, di età compresa tra i quindici e i t ren t ' ann i è u n a naturale fonte di instabilità e di violenza sia a l l ' in terno dell'I-slam sia contro i non musulmani . Qua lunque altra causa possa concorrere , ques t 'unico e l emen to basterebbe a spiegare in buona par te la violenza musu lmana degli anni Ot tanta e No-vanta. L' invecchiamento di questa insofferente generazione en-tro il p r imo t ren tennio del xxi secolo e lo sviluppo economico delle società musulmane, nel caso in cui si verifichi, potrebbe-ro por tare a una significativa r iduzione della propens ione alla violenza dei musulmani e quindi a un generale decl ino della f requenza ed intensità delle guer re di faglia.

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CAPITOLO UNDICESIMO La dinamica delle guer re di faglia

Identità: l'emergere di una coscienza di appartenenza

Le guerre di faglia attraversano processi di intensificazione, espansione, contenimento, interruzione e, raramente, soluzione. Iniziano solitamente in ordine sequenziale, ma spesso si sovrap-pongono e possono anche ripetersi. Una volta iniziate, le guerre di faglia, al pari di altri conflitti tra gruppi rivali, t endono ad as-sumere vita propria e a sviluppare un precipuo modello di azio-ne/ reazione. Identità fino ad allora sfumate e occasionali vengo-no a precisarsi e irrigidirsi, tanto che i conflitti tra gruppi rivali vengono appropriatamente definiti «guerre di identità».1 Col cre-scere della violenza, le vertenze iniziali tendono a cristallizzarsi in un perentorio «noi contro loro» e il livello di coinvolgimento e coesione di g ruppo diventa sempre più alto. I leader politici mol-tiplicano e intensificano i loro appelli all'unità etnica e religiosa, e la coscienza della propria civiltà d 'appartenenza si rafforza in rapporto ad altre identità. Emerge così una «dinamica dell'odio» paragonabile al «dilemma della sicurezza» nelle relazioni inter-nazionali, dove paura, sfiducia e odio si alimentano reciproca-mente.2 Ciascuna parte accentua e drammatizza la distinzione tra forze del bene e forze del male, e tenta infine di trasformarla nel-la distinzione ultima tra chi deve vivere e chi morire.

Con l'evolversi delle rivoluzioni, moderati, girondini e men-scevichi vengono sconfitti da radicali, giacobini e bolscevichi. Un processo analogo tende a verificarsi nelle guerre di faglia. I mo-derati che perseguono obiettivi limitati, quali ad esempio l 'auto-

1 Roy Licklider, «The Consequences of Negotiated Setdements in Civil Wars, 1945-93», in «American Politicai Science Review», n. 89 (Settembre 1995), p. 685. 2 Si veda Barry R. Posen, «The Security Dilemma and Ethnic Conflict», in Mi-chael E. Brown (a cura di), Ethnic Conflict and International Security, Princeton, Princeton University Press, 1993, pp. 103-24.

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nomia anziché l ' indipendenza, non riescono a raggiungere que-sti obiettivi tramite il negoziato, che all'inizio ha quasi sempre esito fallimentare, e vengono affiancati o soppiantati da forze ra-dicali votate al perseguimento di obiettivi più estremi attraverso il ricorso alla violenza. Nel conflitto tra il Fronte Moro e il gover-no filippino, il principale g ruppo insurrezionale, il Moro Natio-nal Liberation Front, fu prima affiancato dal più radicale Moro Islamic Liberation Front, e quindi dal g ruppo di Abu Sayyaf, at-testato su posizioni ancor più estremistiche e che rifiutò i cessate il fuoco negoziati da altri gruppi con il governo filippino. In Su-dan, negli anni Ottanta il governo assunse posizioni islamiste sempre più radicali fino a che, nei primi anni Novanta, il movi-mento insurrezionale cristiano si spaccò e un nuovo gruppo, il Movimento di indipendenza del Sudan meridionale, cominciò a rivendicare l ' indipendenza anziché la semplice autonomia. Nel-l ' interminabile conflitto tra arabi e israeliani, non appena l 'Olp ha avviato una politica di negoziati con il governo israeliano, l'or-ganizzazione estremista Hamas ha iniziato a fare proseliti tra i pa-lestinesi. Contemporaneamente , l'avvio dei negoziati da parte del governo israeliano ha scatenato proteste e manifestazioni di violenza da parte di gruppi religiosi estremisti israeliani. Con l'intensificarsi del conflitto ceceno con la Russia nel 1992-93, il governo di Dudaev fini con l'essere dominato dalle «fazioni più radicali dei nazionalisti ceceni contrari a qualsiasi accordo con Mosca, mentre le forze più moderate fu rono relegate all'opposi-zione». Un f e n o m e n o analogo si è verificato in Tagikistan: «Quando nel 1992 il conflitto iniziò a espandersi, i gruppi de-mocratico-nazionalisti tagiki persero gradualmente influenza ri-spetto ai gruppi islamisti, più capaci di mobilitare le fasce rurali povere e i giovani sbandati delle città. Il messaggio islamista ac-quistò toni progressivamente più radicali anche man mano che leader più giovani andavano sfidando la tradizionale e più prag-matica gerarchia religiosa». «Sto abbandonando il vocabolario della diplomazia», affermò un dirigente tagiko, «e sto iniziando a parlare il linguaggio del campo di battaglia, l 'unico appropriato alla situazione innescata dalla Russia nella mia patria».3 In Bo-

3 Roland Dannreuther, CreatingNew States in Central Asia, International Insritu-te for Strategie Studies/Brassey's, Adelphi Paper n. 288, Marzo 1994, pp. 30-31; Dodjoni Atovullo, cit. in Urzula Dorozewska, «The Forgotten War: What Really Happened in Tajikistan», in «Uncaptive Minds», n. 6 (Autunno 1993), p. 33.

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snia, al l ' interno del Pardto musulmano di azione democradca (Sda), la fazione nazionalista più estrema guidata da Alija Izet-begovic acquisì più influenza rispetto a quella più tollerante e culturalmente meno settaria guidata da Haris Silajdzic.4

La vittoria delle fazioni estremiste non ha un carattere ne-cessariamente definidvo. La violenza estremista n o n ha mag-giori probabili tà di por re fine a una guerra di faglia di quan te ne abbia il compromesso modera to . Via via che il prezzo della guer ra si fa sempre più alto in termini di morte e distruzione senza offr ire in cambio risultati concred, è probabile che i mo-derati di ent rambi gli schieramenti to rn ino a far sentire la pro-pria voce, a denunciare 1'«insensatezza» di quanto va accaden-do e a p ropugnare un nuovo tentativo di porvi fine attraverso il negoziato.

Nel corso della guerra, molte identità scompaiono, sovrasta-te da quella che risulta più autorevole in rappor to al conflit to in atto. E quasi sempre si tratta dell ' identi tà religiosa. Dal pun-to di vista psicologico, la religione off re la giusdficazione più p iena e motivante per la lotta alle forze «infedeli», considerate come u n a minaccia. In termini concreti, quella religiosa o del-la civiltà di appar tenenza è la comuni tà più vasta alla quale il g r u p p o locale coinvolto in un conflitto p u ò chiedere sostegno. Se in un conflit to tra due tribù africane una si autodefinisce musu lmana e l 'altra cristiana, la pr ima può confidare nel de-na ro saudita, nei mujaheddin afghani e nelle armi e consiglieri militari iraniani, ment re la seconda p u ò cercare l 'aiuto econo-mico e umani tar io del l 'Occidente e il sostegno politico e di-plomatico dei governi occidentali. A m e n o che un g r u p p o non riesca a fare come i musulmani bosniaci - e cioè apparire come vittima di u n genocidio e guadagnarsi il sostegno dell 'Occi-den te - esso può solo sperare di ricevere un suppor to significa-tivo dai propri confratelli, e questo è infatti, a eccezione dei bo-sniaci musulmani , quanto si è sempre verificato. Le guer re di faglia sono per definizione guer re locali tra gruppi locali dota-ti di più ampie connessioni e che quindi stimolano tra le pa rd belligeranti una più stretta identificazione con le rispettive ci-viltà d 'appar tenenza .

Questo ra f forzamento d ' ident i tà è stato par t ico larmente

4 «Economist», 26 agosto 1995, p. 43; 20 gennaio 1996, p. 21.

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pronunc ia to tra i musulmani . Una guer ra di faglia p u ò scaturi-re da conflitti di famiglie, di clan o di tribù, ma poiché le iden-tità nel m o n d o musulmano seguono genera lmente u n a curva a U, via via che il conflitto progredisce i belligeranti musulmani ten tano rap idamente di ampliare la propr ia identità appellan-dosi al l ' intero m o n d o islamico. Persino un laicista antifonda-mentalista come Saddam Hussein non appena ent rò in conflit-to con l 'Occidente adottò rap idamente un ' ident i tà musulmana nel tentativo di guadagnarsi il sostegno di tutta Vummah. Allo stesso modo , ha commenta to un osservatore occidentale, il go-verno azerbaigiano ha giocato la «carta islamica». In Tagiki-stan, in una guer ra iniziata come conflitto regionale interno, le forze ribelli identif icarono sempre più stret tamente la loro cau-sa con quella dell 'Islam. Nelle guer re ot tocentesche divampate tra russi e popolazioni nordcaucasiche, il leader musu lmano Shamil si au toproclamò islamista e unì decine di g ruppi etnici e linguistici «in n o m e dell 'Islam e della resistenza alla conqui-sta russa». Negli anni Novanta, Dudaev sfruttò la «rinascita isla-mica» diffusasi nel Caucaso nel decenn io precedente per per-seguire u n a strategia simile: si guadagnò l 'appoggio dei cre-denti musulmani e dei partiti islamisti, prestò g iuramento di fe-deltà al paese sul Corano (mentre Eltsin lo fece sulla Bibbia) e nel 1994 propose che la Cecenia divenisse u n o stato islamico governato dalla sharia. Le t ruppe cecene indossavano fazzolet-ti verdi «con la scritta "Gazavat", guer ra santa in Cecenia» e si lanciavano in battaglia al grido di «Allahu Akbar». ' E ancora: il processo di autoidentif icazione dei musulmani del Kashmir è passato da un ' ident i tà di ambito regionale comprenden t e mu-sulmani, induisti e buddisti oppu re da un' identif icazione con il secolarismo indiano, a u n a terza identi tà che si rifletteva nell '«ascesa del nazionalismo musu lmano nel Kashmir e nella d i f fus ione dei valori fondamental is t i islamici transnazionali , che h a n n o fatto sentire i musulmani del Kashmir par te inte-grante del Pakistan islamico e del l ' in tero m o n d o islamico». L ' insurrezione del 1989 contro l ' India fu inizialmente guidata da un 'organizzazione «relativamente laica», sostenuta dal go-

5 «Boston Globe», 8 novembre 1993, p. 2; Brian Murray, «Peace in the Cauca-sus: Multi-Ethnic Stability in Dagestan», in «Central Asian Survey», 13, n. 4, 1994, pp. 514-15; «New York Times», 11 novembre 1991, p. A7; 17 dicembre 1994, p. 7; «Boston Globe», 7 settembre 1994, p. 16; 17 dicembre 1994, p. 1 sgg.

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verno pakistano, ma il sostegno in seguito passò ai g ruppi fon-damentalisti islamici, che finirono col prevalere. Essi compren-devano anche dei «ribelli irriducibili» che sembravano «votad a proseguire la loro jihad, i nd ipenden temen te dalle speranze di vittoria finale». Un altro osservatore commen tò che «i senti-menti nazionalisti sono stati rafforzati dalle differenze religio-se; l'ascesa a livello mondiale della militanza islamica ha infuso coraggio ai ribelli del Kashmir e ha eroso la tradizione di tolle-ranza tra induisti e musulmani che contraddistingueva il Kash-mir ».(>

Una drammatica intensificazione delle identità culturali si è manifestata in Bosnia, e in particolare nella sua comuni tà mu-sulmana. Storicamente le identi tà di g r u p p o non e rano mai state forti in Bosnia: serbi, croati e musulmani vivevano pacifi-camente gli uni accanto agli altri. I matr imoni misti e rano pra-tica comune , le idendficazioni religiose molto tenui. I musul-mani, si era soliti dire, e rano bosniaci che non f requentavano la moschea, i croati e rano bosniaci che non f requentavano la basilica e i serbi e rano bosniaci che non f requentavano la chie-sa ortodossa. Una volta f rantumatasi la più ampia identità ju-goslava, tuttavia, le identità religiose to rna rono ad assumere g rande importanza, e gli scontri, una volta iniziati, si diffusero e intensificarono rapidamente . La commist ione etnica si dis-solse, e ciascun g r u p p o si identificò sempre più con la propr ia specifica comuni tà culturale definita in termini religiosi. I serbi bosniaci divennero accesi nazionalisti e si identif icarono con la Grande Serbia, con la Chiesa ortodossa serba e con la più ge-nerale comuni tà ortodossa. I croati bosniaci divennero i più ferventi fautori del nazionalismo croato, si considerarono cit-tadini della Croazia, r insaldarono il loro cattolicesimo nonché , insieme ai croati di Croazia, i loro legami con l 'Occidente cat-tolico.

Ancor più intenso fu il risveglio di coscienza tra i musulma-ni. Pr ima che scoppiasse la guerra, i musulmani bosniaci esibi-vano un at teggiamento fo r temente laico, si consideravano eu-ropei ed e rano i più accesi sostenitori di una società e di u n o stato bosniaco multiculturale. Questo a t teggiamento tuttavia

6 Raju G. C. Thomas, «Secessional Movement* in South Asia», in «Survival», n. 36 (Estate 1994), pp. 99-101, 109; Stefan Wagstyl, «Kashiniri Condici De-stroys a "Paradise"», in «Financial Times», 23-24 ottobre 1993, p. 3.

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m u t ò n o n a p p e n a la Jugoslavia si dissolse. Al pari di serbi e croati, alle elezioni del 1990 i musulmani voltarono le spalle ai partiti multiculturali, votando in massa per il Partito musulma-no di azione democrat ica (Sda) guidato da Izetbegovic, un fer-vente religioso imprigionato dal governo comunista per il suo attivismo islamista, e che in un libro pubblicato nel 1970 dal ti-tolo La dichiarazione islamica sostenne 1'«incompatibilità dell'I-slam con i sistemi non islamici. Non p u ò esserci pace né coesi-stenza tra la religione islamica e le istituzioni sociali e politiche non islamiche». Una volta acquistata forza sufficiente, il movi-m e n t o islamico dovrà conquis tare il potere e creare u n a re-pubblica islamica. In questo nuovo stato, sarà par t icolarmente impor tan te che istruzione e mezzi di comunicazione «siano nelle mani di persone la cui morale islamica e la cui autorità in-tellettuale siano indiscutibili».7

Q u a n d o la Bosnia è diventata ind ipendente , Izetbegovic ha perora to la creazione di u n o stato multietnico nel quale i mu-sulmani sarebbero stati il g r u p p o dominan te sebbene non maggioritario. Tuttavia non era certo in grado di opporsi all'i-slamizzazione del suo paese prodot ta dalla guerra. La sua rilut-tanza a r ipudiare pubbl icamente ed esplicitamente La dichiara-zione islamica suscitò forte apprens ione nei non musulmani. Col proseguire della guerra , serbi e croati bosniaci cominciarono a emigrare dalle aree controllate dal governo bosniaco, e chi ri-mase si vide gradua lmente escluso dai posti più ambiti e dalla par tecipazione alle istituzioni sociali. «L'islamismo acquistò maggiore importanza al l ' interno della comuni tà nazionale mu-sulmana, e ... u n a forte identità nazionale musulmana divenne par te in tegrante della vita politica e religiosa». Il nazionalismo musulmano, in contrapposizione al nazionalismo multietnico bosniaco, ha trovato sempre più spazio nei mezzi di comunica-zione. L ' insegnamento religioso si è espanso nelle scuole e nuovi libri di testo sottolineano i benefici effetti del domin io o t tomano. La lingua bosniaca viene promossa come distinta da quella serbo-croata e sempre più arricchita di parole turche e arabe. I funzionar i governativi si scagliano sempre più contro i matr imoni misti e contro la diffusione della musica «degli ag-gressori», vale a dire serba. Il governo ha incoraggiato la reli-

7 Alija Izetbegovic, The Islamic Declaration, 1991, pp. 23, 33.

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gione islamica e privilegiato i musulmani nelle assunzioni e promozioni . Fatto ancor più significativo, l 'esercito bosniaco è stato islamizzato: nel 1995 il 90 per cento del suo personale era costituito da musulmani . Sempre più alto è il n u m e r o di solda-ti che si professano islamisti e che adot tano consuetudini e sim-boli islamici. Le unità speciali sono state ampliate di n u m e r o e totalmente islamizzate. Questa tendenza ha sollevato le prote-ste - comple tamente ignorate - di c inque membri (di cui due croati e due serbi) del governo bosniaco di Izetbegovic, e nel 1995 ha por ta to alle dimissioni del pr imo ministro Haris Si-lajdzic, di o r ien tamento multietnico.8

Dal p u n t o di vista politico, il part i to musu lmano di Izetbego-vic, lo Sda, ha esteso il propr io controllo sullo stato e la società bosniaca. Nel 1995 dominava «l'esercito, l 'amministrazione sta-tale e le imprese pubbliche». «I musulmani non iscritti al parti-to», fu riferito, «per non parlare dei non musulmani , f a n n o fa-tica a trovare un lavoro decente». Il pardto, accusarono i suoi critici, è «diventato u n o s t rumento di autoritarismo islamico caratterizzato dai metodi di un governo comunista».9 Nel com-plesso, ha commenta to un altro osservatore,

Il nazionalismo musulmano sta diventando sempre più estremistico. Non tiene più in alcun conto altre sensibilità nazionali; è proprietà, prerogativa e strumento politico della nazione musulmana oggi pre-dominante. ... Principale conseguenza del nuovo nazionalismo musulmano è una tendenza all'omogeneizzazione nazionale. ... Il fondamentalismo religioso islamico sta inoltre diventando il crite-rio predominante di determinazione degli interessi nazionali musul-mani.10

L'intensificazione dell ' identi tà religiosa prodot ta dalla guer-ra e dalle operazioni di pulizia etnica, le inclinazioni dei suoi leader, il sostegno e le pressioni di altri stati musulmani h a n n o l en tamente ma inelut tabi lmente t rasformato la Bosnia dalla Svizzera dei Balcani nel l ' I ran dei Balcani.

8 «New York Times», 4 febbraio 1995, p. 4; 15 giugno 1995, p. A12; 16 giugno 1995, p. A12. 9 «Economist», 20 gennaio 1996, p. 21; «New York Times», 4 febbraio 1995, p. 4. 10 Stojan Obradovic, «Tuzla: The Last Oasis», in «Uncaptive Minds», n. 7 (Autunno-Inverno 1994), pp. 12-13.

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Nelle guer re di faglia, ciascuna delle due pard in causa ha in-teresse a r imarcare non soltanto la propr ia identità culturale, ma anche quella dell 'antagonista. I due con tendend si consi-de rano in guer ra non solo cont ro un altro g r u p p o etnico, ma contro un 'a l t ra civiltà. Così la minaccia viene dilatata e accre-sciuta in virtù delle risorse messe a disposizione da u n a g rande civiltà, e la sconfitta comporta conseguenze non solo per la par-te d i re t tamente in causa, ma per l ' intera civiltà cui essa appar-tiene. Da qui l ' imperativo, per u n a civiltà, di schierarsi al suo fianco nel conflitto in atto. La guer ra locale si ridefinisce quin-di come guer ra di religione: u n o scontro di civiltà carico dun-que di conseguenze per u n a par te consistente del l 'umani tà . Nei primi anni Novanta, q u a n d o la religione e la chiesa orto-dossa to rna rono a essere elementi centrali dell ' identità nazio-nale russa, «schiacciando altre confessioni russe, di cui l'Islam è la più importante»," i russi ebbero interesse a definire il con-flitto tra clan e regioni in corso in Tagikistan e la loro guer ra cont ro la Cecenia come parti di un più generale e secolare scontro tra Ortodossia e Islam, con i propr i oppositori locali nella veste di nuovi adepti del fondamenta l i smo islamico e del-la jihad, emissari di Islamabad, Teheran, Riyadh e Ankara.

Nell 'ex Jugoslavia, i croati si considerarono i prodi guardiani delle f ront iere del l 'Occidente contro gli assalti dell 'Ortodossia e dell 'Islam. I serbi def in i rono i propr i nemici non semplice-mente come croati bosniaci e musulmani , bensì come «il Vati-cano», «fondamentalisti islamici» e «turchi infedeli» che da se-coli minacciavano il cristianesimo. «Karadzic», a f fe rmò un di-plomatico occidentale a proposi to del leader serbo-bosniaco, «vede questo conflitto come la guer ra antimperialista dell 'Eu-ropa. Sostiene di avere la missione di cancellare le ult ime trac-ce del l ' impero turco o t tomano in Europa».12 I musulmani bo-sniaci, dal canto loro, si considerarono vittime di un genocidio, ignorati dal l 'Occidente a causa della loro religione e perciò meritevoli di suppor to da par te del m o n d o musulmano. Tutte le parti in causa, e la gran par te degli osservatori esterni, fini-

11 Fiona Hill, Russia 's Tinderbox: Conflicl in the North Caucasus and Its Implica-lions for the Future of the Russian Federatimi, Harvard University, John F. Ken-nedy School of Government, Strengthening Democratic Institution Project, Settembre 1995, p. 104. 12 «New York Times», 6 dicembre 1994, p. A3.

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rono in tal m o d o con l ' in terpretare il conflitto in atto come u n a guer ra religiosa o etnico-religiosa. Il conflitto, sostenne Mi-sha Glenny, «ha assunto sempre più le caratteristiche di u n a lotta religiosa, caratterizzata da tre grandi fedi europee - catto-licesimo romano , ortodossia orientale e islamismo - , i detriti confessionali degli imperi le cui f ront iere collidevano in Bo-snia»."

L ' interpretazione delle gue r re di faglia come scontri di ci-viltà ha dato altresì nuova linfa alla «teoria del domino» in au-ge al l 'epoca della Guerra f redda . Ora, però, i paesi guida delle rispettive civiltà h a n n o cercato essi stessi di scongiurare il peri-colo di u n a sconfitta in un conflitto locale che avrebbe rischia-to di innescare una sequenza di altre sconfitte e condur re infi-ne al disastro. La fe rma posizione assunta dal governo indiano sul Kashmir è motivata in gran par te dalla paura che la perdi ta di quel terri torio avrebbe incoraggiato la lotta per l ' indipen-denza di altre minoranze etniche e religiose e por ta to alla di-sgregazione dell ' India. Se la Russia non avesse posto fine alla violenza politica in Tagikistan, ammonì il ministro degli Esteri Kozyrev, questa sarebbe probabi lmente dilagata in Kirghizistan e in Uzbekistan. Ciò, fu sostenuto, avrebbe potuto promuovere la formazione di movimenti secessionisd nelle repubbl iche mu-sulmane della Federazione russa. Qualcuno si spinse ad affer-mare che questo avrebbe po tu to significare addir i t tura l'in-gresso del fondamenta l i smo islamico sulla Piazza Rossa. Ecco pe rché il conf ine tra Afghanistan e Tagikistan è, come disse Eltsin «in sostanza un confine russo». Gli europei , dal canto lo-ro, espressero il t imore che la creazione di u n o stato musulma-no nell 'ex Jugoslavia potesse fare da canale di diffusione del-l ' immigrazione musu lmana e del fondamenta l i smo islamico, intensif icando così quelli che Jacques Chirac definì «les odeurs d'Islam» in Europa.1 41 confini della Croazia sono, in sostanza, i confini del l 'Europa.

13 Si veda Mojez, Yugoslavian Inferno, cap. 7: «The Religious Component in Wars»; Denitch, Ethnìc Nationalism, pp. 29-30, 72-3, 131-3; «New York Times», 17 settembre 1992, p. A14; Misha Glenny, «Carnage in Bosnia, for Starters», in «New York Times», 29 luglio 1993, p. A23. 14 «New York Times», 13 maggio 1995, p. A3; 7 novembre 1993, p. E4; 13 marzo 1994, p. E3; Boris Eltsin, cit. in Barnett R. Rubin, «The Fragmentation of Tajikistan», in «Survival», n. 35 (Inverno 1993-94), p. 86.

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Man mano che una guer ra di faglia cresce, ciascuna par te in causa demonizza i propr i avversari, spesso dipingendoli come subumani , e d u n q u e giustificando la loro eliminazione. «I cani randagi vanno uccisi», a f fe rmò Eltsin r iferendosi ai guerriglie-ri ceceni. «Questa gente incivile deve essere eliminata... e noi la el imineremo», sostenne il generale indonesiano Try Sutrisno in r i fer imento al massacro del 1991 contro gli abitanti di Timor orientale. Ricompaiono i fantasmi del passato: i croati diventa-no «ustascia», i musulmani , «turchi» e i serbi «cetnici». Massa-cri, tor ture, stupri, esodi forzati: l 'odio etnico cont inua senza posa ad autoalimentarsi e tutto diventa giustificabile. I simboli e i prodot t i caratteristici della cultura opposta diventano obiet-tivi da colpire. I serbi distrussero sistematicamente moschee e monaster i francescani, men t re i croati fecero saltare in aria i monasteri ortodossi. In quan to depositari di cultura, musei e li-brerie diventano luoghi par t icolarmente vulnerabili: le forze di sicurezza singalesi det tero alle fiamme la biblioteca pubblica di Ja f fna , d is t ruggendo «document i letterari e storici insosti-tuibili» relativi alla cultura tamil; l 'artiglieria serba b o m b a r d ò e distrusse il Museo nazionale di Sarajevo. I serbi ripulirono la città bosniaca di Zvornik dei suoi quarantamila musulmani e p iantarono una croce al posto della torre o t tomana appena fat-ta saltare in aria, che aveva sostituito la chiesa ortodossa rasa al suolo dai turchi nel 1463.1' Nelle guer re tra culture, la cultura perde sempre.

La chiamata a raccolta delle civiltà: paesi fratelli e diaspore

Durante i q u a r a n t a n n i di Guer ra f redda, il conflitto a n d ò gradua lmente espandendosi via via che en t rambe le superpo-tenze ten ta rono di conquistare pa r tner e alleati e di cor rompe-re, convertire o neutralizzare pa r tne r e alleati del campo op-posto. Ovviamente, la competizione fu part icolarmente intensa nel Terzo Mondo, dove stati ancora deboli f u r o n o sollecitati dalle due superpotenze ad ent rare nella g rande sfida mondia-

15 «New York Times», 7 marzo 1994, p. 1; 26 ottobre 1995, p. A25; 24 set-tembre 1995, p. E3; Stanley Jeyaraja Tambiah, Sri Lanka: EthnicFratricide and theDismantling of Democracy, Chicago, University of Chicago Press, 1986, p. 19.

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le. Nel m o n d o post-Guerra f redda , u n a pletora di conflitti lo- " cali ha sostituito il g rande scontro globale tra superpotenze. Q u a n d o coinvolgono g rupp i appar tenent i a civiltà diverse, i conflitti locali t endono ad espandersi e a crescere d ' intensità. Ciascuna parte tenta di conquistarsi il sostegno di paesi e grup-pi appa r t enend alla propria civiltà, sostegno che, in una fo rma o nell 'altra, ufficiale o meno, esplicito o meno, materiale, uma-no, diplomatico, finanziario, simbolico o militare che sia, non manca mai di arrivare. Più u n a guer ra di faglia si prolunga, più alto è il n u m e r o di paesi che verrà probabi lmente coinvolto in attività di sostegno, coercizione e mediazione. A causa di que-sta «sindrome dei paesi fratelli», i conflitti di faglia presentano un rischio di escalation molto maggiore rispetto a un conflit to tra paesi appar tenent i a una stessa civiltà, e il loro contenimen-to e soluzione finale r ichiede solitamente la cooperazione del-le rispettive civiltà d 'appar tenenza . A differenza di quanto ac-cadeva ai tempi della Guerra f redda , la conflittualità non filtra dall 'alto verso il basso, ma trasuda dal basso verso l'alto.

Nelle guer re di faglia, i vari stati e gruppi h a n n o livelli di coinvolgimento diversi. Al livello principale troviamo i conten-denti veri e propri , quelli che si ucc idono a vicenda. Può trat-tarsi di stati, come nelle guer re tra India e Pakistan e tra Israe-le e paesi confinati, ma anche di g ruppi locali, che n o n sono stati oppu re lo sono, nella migliore delle ipotesi, solo a livello embrionale , com'è accaduto in Bosnia e con gli a rmeni del Na-gornyj-Karabach. Vi sono poi i partecipanti di secondo livello, soli tamente gli stati più inf imamente legad agli attori principa-li, come ad esempio i governi di Serbia e Croazia nell 'ex Jugo-slavia e quelli di Armenia e Azerbaigian nel Caucaso. Seguono poi gli stati di terzo livello, ancor più defilati rispetto al conflit-to vero e proprio, ma che vantano legami culturali con le parti belligeranti, come ad esempio Germania , Russia e stati islamici rispetto all 'ex Jugoslavia, e Russia, Turchia e Iran nel caso del-la disputa tra a rmeni e azeri. Questi partecipanti di terzo livel-lo sono spesso gli stati guida delle rispettive civiltà. Laddove esistono, le diaspore dei partecipanti di p r imo livello svolgono spesso anch'esse un ruolo attivo. Alla luce delle esigue forze militari, in termini di uomini ed armament i , messe solitamente in campo dalle fazioni d i re t tamente impegnate nello scontro, un sostegno esterno relativamente modesto in denaro , arma-

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ment i o volontari sortisce speso un effet to significativo sulle sorti del conflitto.

Gli interessi in gioco degli altri partecipanti al conflitto non sono uguali a quelli di p r imo livello. Il sostegno maggiore e più par tecipe alle parti belligeranti proviene di n o r m a dalle comuni tà della diaspora, le quali si identif icano stret tamente con la causa dei propr i confratell i e finiscono col diventare «più papisti del Papa». Più complessi sono invece gli interessi dei governi di secondo e terzo livello. Anch'essi forniscono di n o r m a sostegno alle parti belligeranti, e anche laddove ciò non avviene essi sono comunque sospettati di farlo dai gruppi riva-li, che in questo m o d o si sen tono giustificati a intervenire a lo-ro volta. Al t empo stesso, tuttavia, i governi di secondo e terzo livello h a n n o interesse a contenere lo scontro e a non farvisi coinvolgere diret tamente. Perciò, pu r sostenendo i protagoni-sti di p r imo livello, essi tentano di frenarl i e indurli a modera re i loro obiettivi. Essi ten tano inoltre di negoziare con le contro-parti di secondo e terzo livello e impedire così l 'escalation di un conflitto locale in una guer ra generale che coinvolga gli sta-ti guida. La Figura 11.1 illustra i tipi di rappor to che legano questi potenziali partecipanti alle guer re di faglia. Non tutti i conflitti di questo tipo presentano un n u m e r o di attori così ele-vato, ma alcuni sì, come ad esempio quelli dell 'ex Jugoslavia e della Transcaucasia, e pressoché tutte le guerre di faglia posso-no potenzialmente espandersi e arrivare a coinvolgere i parte-cipanti di tutti i livelli.

In un m o d o o nell 'altro, tutte le guerre locali scoppiate negli anni Novanta h a n n o coinvolto le diaspore e i paesi loro con-sanguinei. Dato il gran n u m e r o di casi in cui i g ruppi musul-mani h a n n o svolto un ruo lo primario, i governi e le associazio-ni musulmane risultano i più f requent i partecipanti di secondo e terzo livello. I governi più attivi sono stati quelli di Arabia Saudita, Pakistan, Iran, Turchia e Libia, che insieme, e a volte con altri stati musulmani , h a n n o assicurato un livello variabile di sostegno ai musulmani impegnati in Palestina, Libano, Bo-snia, Cecenia, in Transcaucasia, Tagikistan, Sudan, nel Kash-mir e nelle Filippine. Oltre al sostegno di vari governi, molti g ruppi musulmani di p r imo livello sono stati aiutati da u n a In-ternazionale islamica di guerriglieri provenienti dalla guer ra afghana e che ha preso parte ad u n a lunga serie di conflitti

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Figura 11.1 La struttura di una guerra di faglia complessa

Civiltà A Civiltà B

^ ^ m Violenza Coercizione

Sostegno Negoziato

che vanno dalla guer ra civile in Algeria alla Cecenia alle Filip-pine. L 'Internazionale islamica è stata coinvolta nell '«invio di volontari con l'obiettivo di impor re la legge islamica in Afgha-nistan, nel Kashmir e in Bosnia; in guer re di p ropaganda con-tro governi ostili agli islamisti in vari paesi; nella creazione di centri islamici tra le comuni tà della diaspora, con funzione di quart ier generali politici per tutte queste fazioni».16 Anche la Lega Araba e l 'Organizzazione della Conferenza Islamica han-no contr ibuito a tal fine raf forzando i g ruppi musulmani im-pegnati nei diversi conflitti di civiltà.

L 'Unione Sovietica è stata u n a protagonista diret ta nella

16 Khalid, Duran, cit. in Richard H. Schultz, Jr. e William J. Olson, Ethnic and Religious Conflict: Emerging Threat to U.S. Security, Washington, D.C., National Strategy Information Center, p. 25.

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guerra cont ro l 'Afghanistan, e negli anni successivi alla Guerra f r edda la Russia è stata u n a par tecipante di p r imo livello nella guer ra cecena, di secondo livello negli scontri in Tagikistan e di terzo livello nella ex Jugoslavia. L 'India ha avuto un coinvol-g imento diret to nel Kashmir e secondario a Sri Lanka. I princi-pali stati occidentali sono stati partecipanti di terzo livello nel-la ex Jugoslavia. Le diaspore h a n n o svolto un ruolo principale su ent rambi i versanti del lungo conflitto tra arabi e israeliani, n o n c h é di sostegno ad armeni , greci e ceceni nei rispettivi con-flitti. Attraverso televisione, fax e posta elettronica, «l ' impegno delle varie diaspore viene rafforzato e a volte estremizzato me-diante un contat to costante con le rispettive ex madrepatr ie ; dove "ex" n o n significa più quello che significava u n a volta».17

Nella guer ra del Kashmir, il Pakistan ha forni to un esplicito sostegno diplomatico e politico ai ribelli nonché , secondo fon-ti militari pakistane, ingenti quant i tà di dena ro ed armi, adde-stramento, suppor to logistico e rifugio politico. Inoltre ha eser-citato pressioni a loro favore presso altri governi musulmani . Risulta che nel 1995 le forze ribelli f u r o n o rinforzate dall 'arri-vo di a lmeno 1200 guerriglieri mujaheddin provenienti da Af-ghanistan, Tagikistan e Sudan, equipaggiati di missili Stinger e di altre armi ricevute dagli americani per la loro guer ra contro l 'Unione Sovietica».18 L ' insurrezione Moro nelle Filippine rice-vette per un certo per iodo fondi e mezzi dalla Malaysia; i go-verni arabi f o rn i rono anch'essi denaro ; diverse migliaia di guerriglieri f u r o n o addestrati in Libia, e il g ruppo ribelle estre-mista, Abu Sayyaf, venne organizzato da fondamental is t i paki-stani e afghani.19 In Africa, il Sudan fornì costante aiuto ai ri-belli musulmani eritrei contro l 'Etiopia, e per ri torsione l'Etio-pia forn ì «supporto logistico e asilo» ai «cristiani ribelli» in Su-dan. Uguale sostegno ricevettero questi ultimi dal l 'Uganda, a

17 Khaching Tololyan, «The Impact of Diasporas in U.S. Foreign Policy», in Robert L. Pfaltzgraff, Jr. e Richard H. Schultz, Jr. (a cura di), Ethnic Conflict and Regional Instability: Implications far U.S. Policy and Army Roles and Missioni, Carlisle Barracks, PA, Strategie Studies Institute, U.S. Army War College, 1994, p. 156. 18 «New York Times», 25 g iugno 1994, p. A6; 7 agosto 1994, p. A9; «Econo-mist», 31 ottobre 192, p. 38; 19 agosto 1995, p. 32; «Boston Globe», 16 mag-gio 1994, p. 12; 3 aprile 1995, p. 12. 19 «Economist», 27 febbraio 1988, p. 25; 8 aprile 1995, p. 34; David C. Rapo-port, «The Role of External Forces in Supporting Ethno-Religious Conflict», in Pfaltzgraff e Schultz, Ethnic Conflict, p. 64.

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parziale riconoscimento dei suoi «intimi legami religiosi, raz-ziali ed etnici con i ribelli sudanesi». Il governo sudanese, da parte sua, ricevette dall ' Iran armi di fabbricazione cinese per un valore di 300 milioni di dollari n o n c h é l'invio di consiglieri e addestratori militari iraniani, il che gli permise nel 1992 di scagliare una grande offensiva contro i ribelli. Un gran n u m e r o di organizzazioni cristiane occidentali fo rn i rono cibo, medici-ne, vettovaglie e, secondo il governo sudanese, armi ai ribelli cristiani.2"

Nella guer ra tra i ribelli tamil induisti e il governo buddista dello Sri Lanka, le autorità indiane fo rn i rono inizialmente un significativo sostegno ai ribelli, addestrandoli nel sud del pro-prio paese e f o r n e n d o loro armi e denaro . Nel 1987, q u a n d o le forze governative e rano sul p u n t o di sconfiggere le «tigri ta-mil», venne mobilitata l 'op in ione pubblica contro il «genoci-dio» in atto e il governo indiano inviò ai tamil aiud alimentari median te ponte aereo, «facendo in tal m o d o in tendere [al pre-sidente] Jayewardene che l ' India era decisa a usare la forza p u r di impedirgli di soppr imere le Tigri».211 governi ind iano e sin-galese raggiunsero quindi un accordo in base al quale lo Sri Lanka avrebbe concesso un notevole grado di au tonomia alle aree tamil e i ribelli avrebbero consegnato le armi al governo indiano. L'India schierò cinquantamila soldati sull'isola a sal-vaguardia dell 'accordo, ma le tigri si r i f iutarono di consegnare le armi e le t ruppe indiane si r i t rovarono ben presto coinvolte in u n a guer ra contro quelle stesse forze di guerriglia che in precedenza avevano appoggiato. Nel 1988 le t ruppe indiane cominciarono a ritirarsi. Nel 1991 il p r imo ministro indiano Rajiv Gandhi fu assassinato, secondo gli indiani, da un sosteni-tore dei ribelli tamil, nei confront i dei quali l 'a t teggiamento del governo indiano si fece sempre più ostile. Il governo, tutta-via, non potè ignorare la s impada e il sostegno di cui i ribelli godevano presso i c inquanta milioni di tamil residend nel sud dell ' India. Così i funzionari del governo tamil Nadu, disobbe-

20 Rapoport, «External Forces», p. 66; «New York Times», 19 luglio 1992, p. E3; Carolyn Fluehr-Lobban, «Protraeteci Civil War in the Sudan: Its Future as a Multi-Religious, Multi-Ethnic State», in «Fletcher Forum of World Affairs», n. 16 (Estate 1992), p. 73. 21 Steven R. Weismar, «Sri Lanka: A Nation Disintegrates», in «New York Ti-mes Magazine», 13 dicembre 1987, p. 85.

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d e n d o agli ordini di Nuova Delhi, consendrono alle dgri tamil di operare nel propr io stato concedendo loro «praticamente m a n o libera» lungo 650 chilometri di costa e di inviare vettova-glie ed armi ai ribelli nello Sri Lanka attraverso lo Stretto di Palk.22

A part ire dal 1979, i sovietici e quindi i russi sono stati coin-volti in tre grandi guer re di faglia lungo i confini meridionali con i loro vicini musulmani: la guer ra afghana del 1979-89, il suo proseguimento con la guer ra tagika, iniziata nel 1992, e la guer ra cecena iniziata nel 1994. Dopo il crollo de l l 'Unione So-vietica, in Tagikistan salì al potere un nuovo governo comuni-sta. Cont ro di esso insorse nella primavera del 1992 un 'opposi -zione composta da gruppi etnici e regionali rivali e compren-den te e l emend sia laici che islamici. Nel set tembre del 1992 l 'opposizione, al imentata dalle armi provenienti dall 'Afghani-stan, rovesciò ed espulse il governo filosovietico dalla capitale, Dusanbe. T e m e n d o il diffondersi del fondamenta l i smo islami-co, i governi russo ed uzbeko reagirono con veemenza. La 201-Divisione fucilieri motorizzati, rimasta di stanza in Tagikistan, fornì armi alle forze filogovernative, e la Russia inviò ulteriori t ruppe a difesa dei confini con l 'Afganistan. Nel novembre del 1992 Russia, Uzbekistan, Kazakistan e Kirghizistan diedero il lo-ro assenso a un intervento militare congiunto russo e uzbeko, uff icialmente in veste di forza di pace, ma in realtà per parteci-pare att ivamente alla guerra. Grazie a questo aiuto, cui si ag-giunse l'invio di denaro e armi russe, le forze dell 'ex governo riuscirono a r iconquistare Dusanbe e a ristabilire il p ropr io control lo su gran parte del paese. Seguì poi un 'operaz ione di pulizia etnica, con le t ruppe di opposizione costrette a rifu-giarsi in Afghanistan.

I governi musulmani medioriental i protes tarono contro l'in-tervento militare russo. Iran, Pakistan e Afghanistan a iu tarono l 'opposizione sempre più fo r t emente islamista con denaro , ar-mi e addest ramento. Risulta che nel 1993 diverse migliaia di guerriglieri venivano addestrati dai mujahedin afghani, e tra la primavera e l 'estate del 1993 i ribelli tagiki lanciarono dall'Af-

22 «New York Times», 29 aprile 1984, p. 6; 19 giugno 1995, p. A3; 24 settem-bre 1995, p. 9; «Economist», 11 giugno 1988, p. 38; 26 agosto 1995, p. 29; 20 maggio 1995, p. 35; 4 novembre 1995, p. 39.

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ghanistan diversi attacchi ol t reconfine ucc idendo molte guar-die di f ront ie ra russe. La Russia rispose dis locando ulteriori t ruppe in Tagikistan e scagliando «un massiccio fuoco di sbar-ramento di artiglieria» e attacchi aerei su obiettivi afghani. I go-verni arabi, tuttavia, fo rn i rono ai ribelli i fondi necessari per consentire l 'acquisto di missili Stinger e far f ronte agli attacchi aerei. Nel 1995 la Russia aveva circa 25.000 soldati in Tagikistan e forniva ben oltre la metà dei fondi necessari per sostenere il governo. I ribelli, dal canto loro, e rano attivamente sostenuti dal governo afghano e da altri stati musulmani . Come ha os-servato Barnet t Rubin, l ' incapacità delle associazioni interna-zionali o del l 'Occidente di forn i re un aiuto significativo sia al Tagikistan che all 'Afghanistan rese i due stati to ta lmente di-penden t i il p r imo dai russi ed il secondo dai confratelli musul-mani. «Qualsiasi ufficiale a fghano che oggigiorno speri in un aiuto straniero deve o piegarsi alle richieste dei finanziatori ara-bi e pakistani desiderosi di d i f fondere la jihad in Asia centrale, o rivolgersi al mercato della droga».'3

La terza gue r r a ant i -musulmana condot ta dai russi, quella nel Caucaso set tentr ionale con t ro i ceceni, ebbe un pro logo negli scontri del 1992-93 tra d u e popol i contigui: gli osseti or-todossi e gli ingusci musulmani . Quest i ultimi, ins ieme ai ce-ceni e ad altri popol i musulmani , e rano stati depor ta t i in Asia centra le d u r a n t e la Seconda gue r r a mondia le , e le loro pro-pr ie tà occupa te dagli osseti. Nel 1956-57 i popol i depor ta t i p o t e r o n o f ina lmente fare r i torno , e subito sorsero dispute sui diritti di p ropr ie tà e sul control lo del terr i torio. Nel novem-bre del 1992 gli ingusci lanc iarono dalla loro repubbl ica u n a serie di at tacchi per r iconquis tare la regione di Prigorodnyj , che il governo sovietico aveva assegnato agli osseti. I russi ri-sposero con un massiccio in te rvento di uni tà cosacche a so-s tegno degli osseti ortodossi. Test imonia un osservatore stra-niero: «Nel novembre del 1992 i villaggi ingusci in Ossezia so-

23 Barnett Rubin, «Fragmentation of Tajikistan», pp. 84, 88; «New York Ti-mes», 29 luglio 1993, p. 11; «Boston Globe», 4 agosto 1993, p. 4. Per gli svi-luppi della guerra in Tagikistan mi sono basato soprattutto su Barnett R. Ru-bin, «The Fragmentation of Tajikistan», pp. 71-91; Roland Dannreuther, Crea-tina New States in Central Asia, International Institute for Strategie Studies, Adelphi Paper n. 288, marzo 1994; Hafizulla Emadi, «State Ideology, and Isla-mic Resurgence in Tajikistan», in «Central Asian Survey», 13, n. 4, 1994, pp. 565-74; e su resoconti giornalistici.

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n o stati c i rcondat i e bombarda t i dai carri a rmat i russi. I so-pravvissuti al b o m b a r d a m e n t o sono stati uccisi o depor ta t i . Il massacro è stato pe rpe t r a to dalle squadre ossete d e l l ' O m o n [la polizia speciale], ma le t r u p p e russe inviate nella reg ione "per m a n t e n e r e la pace" h a n n o fat to anch 'esse la loro par-te».24 «E difficile», riferì l '«Economist», capire come u n a tale dis t ruzione si sia po tu ta consumare in m e n o di u n a settima-na». Fu quella «la pr ima operaz ione di pulizia etnica nella Fe-deraz ione russa». All 'epoca, la Russia si servì di ques to con-flitto pe r minacciare i ceceni alleati degli ingusci. Ciò, a sua volta, «portò a l l ' immedia ta mobil i tazione della Cecenia e alla nascita della Confederaz ione dei Popoli del Caucaso (Knk), con for te prevalenza musu lmana . Il Knk minacciò di inviare 500.000 volontari con t ro le forze russe se queste n o n si fosse-ro r i t i rare dal terr i tor io ceceno. Dopo u n a fase di stallo carica di tensione, Mosca decise di ritirarsi per evitare che il conflit-to tra osseti del no rd e ingusci degenerasse in un confl i t to su scala regionale».2"

U n a conflagrazione più ampia e intensa scoppiò invece nel d icembre del 1994 q u a n d o la Russia lanciò un massiccio attac-co militare contro la Cecenia. I leader di due repubbl iche or-todosse, Georgia e Armenia , appoggiarono l'iniziativa russa, men t re il presidente ucraino m a n t e n n e una «diplomatica neu-tralità, limitandosi ad auspicare una soluzione pacifica della cri-si». L'azione russa trovò l 'appoggio anche del governo orto-dosso dell 'Ossezia del Nord e del 55-60 per cento della sua po-polazione.26 Viceversa, i musulmani den t ro e fuor i la Federa-zione russa si schierarono nella s tragrande maggioranza dei ca-si con i ceceni. L ' Internazionale islamica inviò immedia tamen-te guerriglieri dall 'Azerbaigian, Afghanistan, Pakistan, Sudan e altri paesi. Gli stati musulmani abbracciarono in blocco la cau-sa cecena; in particolare, risulta che Turchia e Iran abbiano forn i to aiuti materiali, il che indusse la Russia a cercare di am-morbid i re u l te r iormente i rappor t i con l ' Iran. Un flusso co-stante di armi per i ceceni cominciò a penet rare nella Federa-zione russa dall 'Azerbaigian, costr ingendo la Russia a chiudere

24 Urszula Doroszewska, «Caucasus Wars», in «Uncaptive Minds», n. 7 (In-verno-Primavera 1994), p. 86. 25 «Economist», 28 novembre 1992, p. 58; Hill, Russia's Tinderbox, p. 50 26 «Moscow Times», 20 gennaio 1995, p. 4; Hill, Russia's Tinderbox, p. 90.

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le f ront iere con quel paese e i n t e r rompendo così anche i rifor-niment i di medicine e altre vettovaglie ai ceceni.27

I popol i musulmani della Federazione russa si schierarono a favore dei ceceni. Sebbene gli appelli a una guer ra santa dei musulmani di tutto il Caucaso cont ro la Russia non produces-sero il risultato sperato, i leader delle sei repubbl iche centroa-siatiche chiesero alla Russia di met tere f ine al l ' intervento mili-tare, e rappresentant i delle repubbl iche musulmane del Cau-caso invocarono u n a campagna di disobbedienza civile cont ro il domin io russo. Il presidente della repubblica ciuvascia di-spensò i soldati di leva ciuvasci dall ' intervenire contro i loro fratelli musulmani . Le «proteste più vibranti cont ro la guerra» si ebbero nelle due repubbl iche limitrofe dell 'Inguscezia e del Daghestan. Gli ingusci at taccarono le t ruppe russe in marcia per la Cecenia, inducendo il ministro della Difesa russo a di-chiarare che il governo inguscio aveva «praticamente dichiara-to guer ra alla Russia». Attacchi alle forze russe si verificarono anche in Daghestan. I russi risposero b o m b a r d a n d o i villaggi ingusci e daghestani. '8 La distruzione totale del villaggio di Per-vomajskoe successiva al raid ceceno nella città di Kizlyar del genna io del 1996 accrebbe u l ter iormente l'ostilità dei daghe-stani nei confront i della Russia.

La causa cecena fu aiutata anche dai ceceni della diaspora -f rut to , quest 'ul t ima, dell 'aggressione perpet ra ta dai russi nel xix secolo ai danni delle popolazioni mon tane del Caucaso. La diaspora raccolse fondi , p rocurò armi, e forn ì volontari alle forze cecene, dimostrandosi par t icolarmente for te in Giorda-nia e Turchia. Ciò spinse la Giordania a p rende re f e r m a m e n t e posizione contro i russi e rafforzo l ' inclinazione filocecena dei turchi. Nel gennaio del 1996, la guer ra si allargò alla Turchia. L 'opin ione pubblica turca salutò con u n a certa simpatia la cat-

27 «Economist», 14 gennaio 1995, p. 43 sgg.; «New York Times», 21 dicembre 1994, p. A18; 23 dicembre 1994, p. AIO; 21 dicembre 1994, p. A18; 23 di-cembre 1994, pp. A l , AIO; 3 gennaio 1995, p. 1; 1 aprile 1995, p. 3; 11 di-cembre 1995, p. A6; Vicken Cheterian, «Chechenya and the Transcaucasian Republic», in «Swiss Review of World Affaire», febbraio 1995, pp. 10-11; «Bo-ston Globe», 5 gennaio 1995, p. 1 sgg.; 12 agosto 1995, p. 2. 28 Vera Tolz, «Moscow and Russia's Ethnic Republics in the Wake of Che-chenya», Center for Strategie and International Studies, in «Post-Soviet Pro-speets», n. 3 (Ottobre 1995), p. 2; «New York Times», 20 dicembre 1994, p. A14.

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tura di u n a nave russa e relativi ostaggi da parte di membr i del-la diaspora. Con l 'aiuto dei leader ceceni, il governo turco ne-goziò la soluzione della crisi causando un ulteriore peggiora-men to nei già precari rapport i tra Turchia e Russia.

L ' incursione cecena in Daghestan, la reazione dei russi e l'assalto alla nave russa all'inizio del 1996 misero in luce i pos-sibili rischi di al largamento del conflitto in una conflagrazione generale tra i russi e le popolazioni mon tane sulla falsariga del-la lotta perpetuatasi per decenni nel xix secolo. «Il Caucaso set-tentr ionale è u n a polveriera», a m m o n ì Fiona Hill nel 1995. «Un conflitto in una repubblica p u ò fare da miccia per u n a conflagrazione regionale che deborde rebbe dai propr i confini per dilagare in tutta la Federazione russa, e che coinvolgerebbe Georgia, Azerbaigian, Turchia e Iran e le loro diaspore nord-caucasiche. Come dimostra la guer ra in Cecenia, il livello di conflittualità nella regione non è facile da controllare ... e gli scontri sono dilagati nelle repubbl iche e nei territori adiacend alla Cecenia». Anche secondo un analista russo si stavano c reando «coalizioni informali» basate sul l 'appar tenenza a u n a stessa cultura. «Georgia, Armenia, Nagornyj-Karabach e Osse-zia set tentr ionale, paesi cristiani, si s tanno al leando cont ro Azerbaigian, Abkazia, Cecenia e Inguscezia, paesi musulmani». Dopo essere stata coinvolta in un conflitto in Tagikistan, la Rus-sia correva d u n q u e «il pericolo di farsi trascinare in un prolun-gato conf ron to con il m o n d o musulmano».2 9

Un'a l t ra guer ra tra ortodossi e musulmani ha visto gli arme-ni residenti nell 'enclave del Nagornyj-Karabach in lotta per l ' ind ipendenza contro il governo e il popolo dell 'Azerbaigian. Il governo del l 'Armenia era un partecipante di secondo livello, men t re Russia, Turchia e Iran e rano attori di terzo livello. Un ruolo impor tan te è stato svolto anche dalla nutri ta diaspora ar-mena in Europa occidentale e in Nord America. Lo scontro iniziò nel 1988, pr ima del crollo de l l 'Unione Sovietica, si in-tensificò nel 1992-93 per placarsi d o p o il negoziato di u n a tre-gua nel 1994. Turchi e altri popoli musulmani si schierarono con l 'Azerbaigian, ment re la Russia sostenne gli a rmeni , utiliz-zando poi la propria influenza su di essi anche per contrastare

29 Hill, Russia's Tinderbox, p. 4; DmitryTemin, «Decision Time f'or Russia», in «Moscow Times», 3 febbraio 1995, p. 8,

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l ' influenza turca in Azerbaigian. Questa guer ra fu l 'ul t imo epi-sodio sia della secolare lotta tra Impero russo e Impero otto-m a n o per il controllo della regione caucasica e del Mar Nero, sia del l ' in tenso antagonismo tra a rmeni e turchi risalente ai massacri perpetrat i dai secondi ai danni dei primi all'inizio del xx secolo.

In questa guerra, la Turchia si schierò costantemente dalla parte dell 'Azerbaigian e contro gli a rmeni . Il p r imo riconosci-men to in assoluto del l ' indipendenza di una ex repubblica so-vietica non baltica è stato quello della Turchia nei confront i dell 'Azerbaigian. Durante tutto il conflitto la Turchia forn ì al-l 'Azerbaigian sostegno materiale e finanziario e addes t ramento militare. Con l 'intensificarsi dello scontro nel 1991-92 e con l'avanzata degli a rmeni in terri torio azerbaigiano, l 'op in ione pubblica turca insorse e il governo turco fu sollecitato a soste-nere i propr i fratelli etnico-religiosi, pu r t e m e n d o che ciò avrebbe accentrato la divisione tra cristiani e musulmani , pro-vocato l ' intervento occidentale a favore del l 'Armenia e suscita-to la reazione dei suoi par tner della Nato. La Turchia fu dun-que soggetta alle classiche pressioni incrociate di un parteci-pante di secondo o terzo livello in u n a guerra di comunità . A ogni modo , alla f ine il governo turco decise che fosse propr io interesse sostenere l 'Azerbaigian e opporsi all 'Armenia. «Non si p u ò restare impassibili q u a n d o i tuoi fratelli vengono uccisi», a f f e rmò un funzionar io turco, ed un altro aggiunse: «Siamo sotto pressione. I nostri giornali t raboccano di foto p iene di atrocità... Forse dovremmo dimostrare al l 'Armenia che in que-sta regione esiste una grande Turchia». Il presidente Turgot Òzal ratificò poi questa posizione, a f f e rmando che la Turchia «dovrebbe met tere un po ' di paura agli armeni». La Turchia, spalleggiata dall ' Iran, ammonì gli a rmeni che non avrebbe tol-lerato alcun mu tamen to dei confini. Òzal bloccò i r i fornimen-ti al imentari e di altro genere in transito per la Turchia e diret-ti all 'Armenia, il che por tò nell ' inverno 1992-93 la popolazione a rmena sull 'orlo della carestia. A questo pun to il maresciallo russo Evgenij Saposnikov ammonì che «se un 'a l t ra fazione [va-le a dire la Turchia] venisse coinvolta» nella guerra, «ci trove-r e m m o sull 'orlo della Terza guerra mondiale». Un a n n o d o p o Òzal mostrava ancora propositi bellicosi. «Cosa po t rebbero fa-re gli armeni», a f fermò sarcasticamente, «nel caso in cui do-

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vesserò esserci degli spari ... Marciare sulla Turchia?» La Tur-chia «mostrerà i denti».3"

Nell 'estate-autunno del 1993 l 'offensiva armena, che por tò le propr ie t ruppe vicino ai confini con l ' Iran, scatenò ulteriori reazioni da par te sia della Turchia sia dell ' Iran, in competizio-ne tra loro per l ' influenza in Azerbaigian, nonché tra gli stati musulmani dell'Asia centrale. La Turchia dichiarò che l 'offen-siva minacciava la propria sicurezza, chiese il ritiro «immediato e senza condizioni» delle t ruppe a rmene dal terri torio dell'A-zerbaigian, e rafforzò mil i tarmente i propr i confini con l'Ar-menia, dove risulta vi siano stati degli scontri a fuoco tra t ruppe russe e turche. Il Pr imo ministro turco Tansu Ciller a f fe rmò che avrebbe dichiarato guer ra nel caso in cui le t ruppe a rmene avessero invaso l 'enclave azera di Nachicevan, vicino al conf ine turco. Anche l ' Iran fece ent rare le propr ie t ruppe in Azerbai-gian, a sua det ta per creare dei campi profughi per accogliere quant i cercavano di sottrarsi alle offensive a rmene . L'iniziativa i raniana indusse i turchi a credere di poter promuovere ulte-riori misure senza scatenare reazioni da par te russa, stimolan-doli inoltre ad inasprire la competizione con l ' Iran per la pre-minenza sull 'Azerbaigian. Alla fine la crisi si allentò a seguito dei negoziati svoltisi a Mosca tra i dirigenti di Turchia, Armenia e Azerbaigian, delle pressioni americane sul governo a r m e n o e di quelle del governo a r m e n o sugli a rmen i del Nagornyj-Kara-bach."

Vivendo in un paese piccolo, privo di sbocchi sul mare, ava-ro di risorse e circondato da ostili popolazioni turche, gli ar-meni h a n n o da sempre cercato la protezione dei loro confra-telli ortodossi: russi e georgiani. La Russia, in particolare, è sempre stata vista dagli a rmeni come un fratello maggiore. Quando , tuttavia, l 'Unione Sovietica fu sul pun to di crollare e gli a rmeni del Nagornyj-Karabach iniziarono la loro lotta d ' in-dipendenza, il regime di Gorbacèv respinse le loro richieste e inviò propr ie t ruppe nella regione a sostegno di quello che era

30 «New York Times», 7 marzo 1992, p. 3; 24 maggio 1992, p. 7; «Boston Glo-be», 5 febbraio 1993, p. 1; Bahri Yilmaz, «Turkey's New Role in International Politics», in «Aussenpolitik», n. 45 (Gennaio 1994), p. 95; «Boston Globe», 7 aprile 1993, p. 2. 31 «Boston Globe», 4 settembre 1993, p. 2; 5 settembre 1993, p. 19; 10 set-tembre 1993, p. A3.

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considerato il fedele governo comunista di Baku. Dopo la dis-soluzione de l l 'Unione Sovietica, queste considerazioni lascia-rono il passo ad altre, di più andca tradizione storica e cultura-le, e l 'Azerbaigian accusò «il governo russo di aver ope ra to un ' inversione di 180 gradi» e di sostenere attivamente l 'Arme-nia cristiana. L'assistenza militare russa agli a rmeni era in realtà iniziata già da t empo tra le forze armate sovietiche, dove gli a rmen i venivano promossi alle alte cariche e assegnati a unità di combat t imento molto più spesso dei musulmani . Una volta iniziata la guerra, il 3669 reggimento motorizzato fucilieri dell 'Esercito sovietico, di stanza nel Nagornyj-Karabach, svolse un ruo lo di pr imo piano nel l 'a t tacco scagliato dagli a rmeni contro la città di Chodjali, dove f u r o n o massacrati circa mille azeri. In seguito, t ruppe specnaz russe presero par te attiva al conflitto. Nell ' inverno del 1992-93, ai tempi de l l ' embargo tur-co, l 'Armenia fu «salvata dal totale collasso economico grazie ai miliardi di rubli di credito offert i dalla Russia». Nel corso di quella primavera le t ruppe russe si schierarono regolarmente a fianco di quelle a rmene per aprire un corr idoio di collega-m e n t o tra l 'Armenia e il Nagornyj-Karabach. Un cont ingente russo di quaranta carri armati par tecipò poi all 'offensiva nel Karabach dell 'estate del 1993.32 L 'Armenia, da par te sua, come h a n n o osservato Hill e Jewett, «non ebbe altra scelta se n o n quella di allearsi con i russi. Essa infatti d ipende completa-men te dalla Russia per quan to r iguarda le mater ie pr ime, i r i forn iment i alimentari ed energetici e la difesa del p ropr io terri torio dai nemici storici d 'ol t re confine: Azerbaigian e Tur-chia. L 'Armenia ha firmato tutti gli accordi economici e milita-ri previsti dalla Csi, ha permesso lo s tazionamento di t r uppe russe sul propr io territorio e ha soddisfatto tutte le rivendica-zioni russe sugli ex beni sovietici».33

Il sostegno russo agli a rmeni accrebbe l ' influenza dei russi sullo stesso Azerbaigian. Nel g iugno del 1993 il leader naziona-

32 «New York Times», 12 febbraio 1993, p. A3; 8 marzo 1992, p. 20; 5 aprile 1993, p. A7; 15 aprile 1993, p. A9; Thomas Goltz, «Letter from Eurasia: Rus-sia's Hidden Hand», in «Foreign Policy», n. 92 (Autunno 1993), pp. 98-104; Fiona Hill e Pamela Jewett, Back in the USSR: Russia's Intervention in the Internai AJfairs of the Former Soviet Republics and the Implications far the United States Policy Toward Russia, Harvard University, John F. Kennedy School of Government, Strengthening Democratic Institutions Project, Gennaio 1994, p. 15. 33 Hill e Jewett, Back in the USSR p. 10.

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lista azero Abulfez Elchibej fu rovesciato in seguito a un colpo di stato e sostituito dall 'ex comunista e presumibi lmente filo-russo Gaider Alijev. Alijev ammise la necessità di propiziarsi la benevolenza russa per f renare l 'Armenia. Ribaltando la linea politica fino allora perseguita, accettò di aderire alla Csi e ac-consentì allo s tazionamento di t r uppe russe sul p ropr io terri-torio. Aprì inoltre la strada alla partecipazione russa in un con-sorzio internazionale per l 'estrazione del petrolio azerbaigia-no. In cambio, la Russia si prese carico del l ' addes t ramento di t ruppe azere e fece pressione sull 'Armenia perché cessasse di appoggiare le forze armate del Karabach e le inducesse a riti-rarsi dal territorio azero. Spostando il propr io peso politico da una parte all'altra, la Russia è riuscita a o t tenere risultati positi-vi anche per l 'Azerbaigian e a controbilanciare l ' influenza ira-niana e turca in quel paese. Il sostegno all 'Armenia, dunque , non solo ha rafforzato il più stretto alleato della Russia nel Cau-caso, ma ha altresì indeboli to i suoi principali rivali musulmani in quella regione.

Russia a parte, la maggiore fon te di sostegno per l 'Armenia fu la sua nutrita, ricca e inf luente diaspora in Europa occiden-tale e in Nord America (che conta un milione circa di a rmeni negli Stati Uniti e 450.000 in Francia), la quale offrì non solo denaro e r i fornimenti per aiutare l 'Armenia a sopravvivere al-l 'embargo turco, ma anche funzionari per il governo e volon-tari per le forze armate. A metà anni Novanta, i contributi ver-sati agli a rmeni dalla comuni tà americana ammontavano a u n a cifra compresa tra i 50 e i 75 miliardi di dollari l ' anno. Gli ar-meni della diaspora esercitarono anche una notevole influenza politica sui governi dei rispettivi paesi di residenza. Le più vaste comunità di armeno-americani si trovano in stati chiave: Ca-lifornia, Massachusetts e New Jersey. Ciò indusse il Congresso americano a proibire qua lunque fo rma di aiuto all 'Azerbaigian e a fare dell 'Armenia il terzo maggiore beneficiario prò capile di aiuti americani. Tale sostentamento dall 'estero si rivelò es-senziale per la sopravvivenza del l 'Armenia, che fu giustamente chiamata «Israele del Caucaso»/ ' Come gli attacchi russi al Caucaso settentrionale del xix secolo diedero vita a quella dia-

34 «New York Times», 22 maggio 1992, p. A29; 4 agosto 1993, p. A3; 10 luglio 1994, p. E4; «Boston Globe», 25 dicembre 1993, p. 18; 23 aprile 1995, pp. 1, 23.

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spora che aiutò poi i ceceni a resistere ai russi, così i massacri perpetrat i all'inizio del xx secolo dai turchi ai danni degli ar-meni produssero una diaspora che ha poi consentito all 'Arme-nia di resistere alla Turchia e sconfiggere l 'Azerbaigian.

L'ex Jugoslavia è stato il teatro del più complesso, confuso e variegato intreccio di guer re di faglia dei primi anni Novanta. Al livello primario, in Croazia governo e popolo croato h a n n o combat tu to contro i serbi di Croazia, ment re in Bosnia-Erzego-vina il governo bosniaco si è opposto a serbi bosniaci e croati bosniaci, che a loro volta si combattevano reciprocamente . AI secondo livello, il governo serbo propugnava la creazione di u n a «Grande Serbia» a iu tando serbi bosniaci e serbi croati, men t r e il governo croato aspirava ad u n a «Grande Croazia» e sosteneva i croati bosniaci. Al terzo livello si è verificato un mas-siccio schieramento di civiltà: Germania, Austria, il Vaticano, al-tri paesi e gruppi cattolici europei nonché , successivamente, gli Stati Uniti, dalla par te della Croazia; Russia, Grecia e altri paesi e g ruppi ortodossi dalla par te dei serbi; Iran, Arabia Sau-dita, Turchia, Libia, l ' Internazionale islamica e i paesi islamici in generale dalla par te dei musulmani bosniaci. Quesd ultimi h a n n o o t tenuto il suppor to anche degli Stad Unid: un ' anoma-lia in u n o schieramento che per tutti gli altri aspetti riflette ap-p ieno le diverse civiltà di appar tenenza . La diaspora croata in Germania e quella bosniaca in Turchia sono accorse in aiuto delle rispettive madrepatr ie . Chiese e gruppi religiosi sono sta-ti attivi in tutti e tre gli schieramenti . Le iniziative di numeros i governi - cer tamente di quelli tedesco, turco, russo e america-no - sono state fo r temente influenzate dai gruppi di pressione e dal l 'opinione pubblica.

Il sostegno offer to dai partecipanti di secondo e terzo livello è stato fondamenta le per il corso della guerra , e le restrizioni da essi imposte fondamenta l i per la sua conclusione. I governi serbo e croato h a n n o forni to armi, vettovagliamento, denaro , rifugio e a volte forze militari ai rispettivi popoli in lotta in altre repubbl iche. Sia i serbi sia i croati sia i musulmani h a n n o rice-vuto dalle rispettive popolazioni consanguinee residenti al di fuor i dell 'ex Jugoslavia sostanziosi aiuti in denaro, armi, vetto-vaglie, volontari, addes t ramento militare e sostegno politico e diplomatico. I serbi e i croati d i re t tamente impegnati nel con-flitto - i partecipanti di p r imo livello — sono stati in generale i

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più estremisti nel loro nazionalismo, i più inflessibili nelle loro rivendicazioni e i più pugnaci nel perseguimento dei loro obiettivi. I governi serbo e croato (partecipanti di secondo li-vello) in un p r imo tempo h a n n o fo r t emente sostenuto i rispet-tivi popoli , dopod iché i loro interessi più complessi e variegati li h a n n o indott i a un ruolo di maggior mediazione e conteni-mento . Allo stesso modo, i governi russo, tedesco e amer icano (partecipanti di terzo livello) h a n n o indot to i governi del se-condo livello da essi appoggiati a u n a posizione di moderazio-ne e compromesso.

Il crollo della Jugoslavia ebbe inizio nel 1991, q u a n d o Slo-venia e Croazia imbocca rono la strada de l l ' i nd ipendenza e chiesero il sostegno delle po tenze europee . La risposta del-l 'Occidente fu decisa dalla Germania , e la risposta della Ger-mania fu in b u o n a par te decisa dalla Chiesa cattolica. Pressan-ti inviti all 'azione giunsero al governo di Bonn da par te delle alte sfere cattoliche tedesche, dal pa r tne r di coalizione, l 'U-n ione cristiano-sociale bavarese, dalla «Frankfurter Allgemei-ne Zeitung» e da altri organi di informazione. I media bavare-si in part icolare svolsero un ruolo fondamenta le nella campa-gna di sensibilizzazione de l l ' op in ione pubblica tedesca. «Quando scoppiò la guer ra con i serbi», ha a f fe rmato Flora Lewis, «la TV bavarese, f o r t emen te influenzata dall 'ul tracon-servatore governo locale e dalla po ten te e dogmatica chiesa cattolica bavarese, in t imamente connessa a quella croata, forn ì i servizi televisivi a tutta la Germania . Erano c ronache estre-m a m e n t e parziali». Il governo di Bonn si mostrò esitante in mer i to al r iconoscimento dei d u e paesi ma, spinto dalle pres-sioni della società tedesca, non ebbe scelta. «Il sostegno al ri-conosc imento della Croazia in German ia non fu persegui to dal governo, bensì imposto da l l 'op in ione pubblica». La Ger-man ia esercitò fort i pressioni su l l 'Unione eu ropea a f f inché questa riconoscesse l ' i nd ipendenza di Slovenia e Croazia; u n a volta o t t enu to il consenso del l 'Ue, tuttavia, la Germania si pre-cipitò a sancirne il r iconoscimento a titolo personale, senza at-t endere quello ufficiale de l l 'Unione europea , ratificato nel di-cembre del 1991. «Durante l ' in tero conflit to», osservò u n o studioso tedesco nel 1995, «Bonn ha considerato la Croazia e il suo leader Franjo T u d j m a n come u n a sorta di protegé della politica estera tedesca, la cui condot ta erratica era forse irri-

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tante ma che c o m u n q u e avrebbe sempre potu to contare sul deciso appoggio della Germania».3 '

Austria e Italia si precipi tarono anch'esse a riconoscere i due nuovi stati, p ron tamen te seguiti da altri paesi occidentali, tra cui gli Stad Unid . Anche il Vaticano ebbe un ruolo di primissi-mo piano. Il Papa definì la Croazia il «baluardo del Cristianesi-mo» occidentale e si affret tò a r iconoscere i due stad ancor pri-ma de l l 'Unione europea.36 Così, il Vaticano finì di fat to col p r ende re posizione; la conseguenza di questo fatto si vide nel 1994, q u a n d o il Papa decise di recarsi in visita nelle tre repub-bliche. L'opposizione da par te della Chiesa serba ortodossa gli impedì di recarsi a Belgrado, e l ' indisponibilità serba a garan-tire per la sua sicurezza indussero il Vaticano a cancellare la p rogrammata visita a Sarajevo. Il Papa si recò tuttavia a Zaga-bria, dove rese omaggio al cardinale Alojzieje Septinac, un uo-m o associato al regime croato fascista che all 'epoca della Se-conda guer ra mondiale perseguitò e massacrò serbi, zingari e ebrei.

Conquis ta to d u n q u e il r iconoscimento occidentale della propr ia indipendenza, la Croazia iniziò a rafforzare il p ropr io appara to militare a dispetto de l l ' embargo sanzionato dalle Na-zioni Unite nel set tembre del 1991 ed esteso a tutte le repub-bliche dell 'ex Jugoslavia. Le armi giunsero in Croazia da paesi cattolici europei quali Germania , Polonia e Ungheria , n o n c h é da stati dell 'America latina quali Panama, Cile e Bolivia. Con l ' intensificarsi della guer ra nel 1991 le esportazioni di a rmi spagnole, a quan to pare «controllate soprat tut to da l l 'Opus Dei», a u m e n t a r o n o in breve t empo di ben sei volte, diret te in gran par te presumibi lmente a Ljubliana e a Zagabria. Nel 1993 la Croazia acquistò diversi Mig-21 da Germania e Polonia con il beneplaci to dei rispettivi governi. Le file delle «Forze di difesa croate» f u r o n o ingrossate da centinaia e forse migliaia di vo-lontari provenient i «dal l 'Europa occidentale, dalla diaspora

35 Flora Lewis, «Between TV and the Balkan War», in «New Perspectives Quarterly», n. 11 (Estate 1994), p. 47; Hanns W. Manli, «Germany in the Yu-goslav Crisis», in «Survival», n. 37 (Inverno 1995-96), p. 112; Wolfgang Rrie-ger, «Toward a Gaullist Germany? Some Lessons frm the Yugoslav Crisis», in «World Policy Journal», n. 11 (Primavera 1994), pp. 31-32. 36 Misha Glenny, «Yugoslavia: The Great Fall», in «New York Review of Books», 23 marzo 1993, p. 61; Pierre Behar, «Central Europe: The New Lines of Fracture», in «Geopolitique», n. 39 (Autunno 1994), p. 44.

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croata e dai paesi cattolici de l l 'Europa orientale», ansiosi di partecipare ad «una crociata cristiana rivolta al con tempo con-tro il comunismo serbo e il fondamenta l i smo islamico». Inol-tre, esperti militari dei paesi occidentali fo rn i rono assistenza tecnica. Grazie anche all 'aiuto di questi paesi fratelli, i croati po te rono accrescere la propr ia forza militare e contrapporsi al-l 'esercito jugoslavo domina to dai serbi.1 '

Il sostegno occidentale alla Croazia compor tò anche che si chiudesse un occhio su operazioni di pulizia etnica e su viola-zioni dei diritti umani e delle leggi di guer ra di cui viceversa i serbi e rano stati cos tantemente accusati. L 'Occidente rimase in silenzio q u a n d o nel 1995 il rabberciato esercito croato sferrò un attacco contro i serbi della Krajina, residenti lì da secoli, co-s t r ingendo centinaia di migliaia di essi all'esilio in Bosnia e in Serbia. Anche la Croazia potè contare sull 'aiuto della propr ia diaspora, r icevendo denaro e r i forniment i da facoltosi croad residenti in Europa occidentale e in Nord America. Le associa-zioni di croati negli Stad Uniti esercitarono pressioni sul Con-gresso e sul presidente a n o m e della loro madrepatr ia . Partico-la rmente important i e influenti f u r o n o i seicentomila croati re-sidenti in Germania . Nel forn i re centinaia di volontari per l'e-sercito croato, «le comuni tà croate in Canada, negli Stati Uniti, in Australia e in Germania si mobi l i tarono a difesa della loro patria di fresca indipendenza».1"

Nel 1994 anche gli Stati Uniti contr ibuirono all 'escalation militare croata. Ignorando le flagranti violazioni croate del-l ' embargo sulle armi imposto dalle Nazioni Unite, gli Stati Uni-ti f o rn i rono addes t ramento militare ai croati autorizzando ge-nerali americani in pensione ad assumere l ' incarico di consi-glieri militari. Nel 1995 i governi amer icano e tedesco d iedero il loro assenso all 'offensiva croata in Krajina. Consiglieri milita-ri americani par tec iparono alla proget tazione dell 'at tacco, compiu to in per fe t to stile amer icano e supporta to , secondo

37 Pierre Behar, «Central Europe and the Balkans Today: Strengths and Weaknesses», in «Geopolitique», n. 35 (Autunno 1991), p. 33; «New York Ti-mes», 23 settembre 1993, p. A9; «Washington Post», 13 febbraio 1993, p. 16; Janusz Bugajski, «TheJoy of War», in «Post-Soviet Prospects», Center for Stra-tegie and International Studies, 18 marzo 1993, p. 4. 38 Dov Ronen, The Origini ofEthnic Conjlict: Isaonsfrom Yugpsìavia, Australian National University, Research School of Pacific Studies, Working Paper n. 155, novembre 1994, pp. 23-24; Bugajski, «Joy of War», p. 3.

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fonti croate, da satelliti spia americani. La Croazia divenne «il nostro alleato strategico de facto», come dichiarò un funziona-rio del Dipart imento di Stato americano. Questo sviluppo, pro-seguì, rifletteva «un calcolo di lungo per iodo secondo il quale due potenze locali avrebbero alla f ine dominato questa par te del mondo : u n a a Zagabria, u n a a Belgrado; una legata a Wa-shington, l 'altra facente par te di un blocco slavo che si es tende f ino a Mosca».19

Alla fine il conflitto jugoslavo produsse u n a chiamata a rac-colta pressoché unan ime del m o n d o ortodosso a difesa della Serbia. Nazionalisti, ufficiali militari, esponent i par lamentar i e leader della Chiesa ortodossa russa manifes tarono aper tamen-te il loro sostegno alla Serbia, il loro disprezzo per i «turchi» bosniaci e le loro critiche all ' imperialismo Nato e occidentale. I nazionalisti russi e serbi si adope ra rono congiun tamente per sobillare in en t rambi i paesi l 'opposizione al «nuovo o rd ine mondiale» occidentale. Sent imend condivisi in notevole misu-ra dal popolo russo; il 60 per cento dei moscoviti, ad esempio, c o n d a n n ò gli attacchi aerei sferrati dalla Nato nell 'estate del 1995.1 g ruppi nazionalisti russi rec lutarono giovani russi in di-verse grandi città alla «causa della fratellanza slava». Fu riferito che un migliaio o più di russi, oltre ai volontari giunti da Ro-mania e Grecia, si fossero uniti alle milizie serbe per combatte-re quelli che definivano i «fascisti cattolici» e i «militanti isla-mici», e che nel 1992 operasse in Bosnia un 'un i t à russa «in un i fo rme cosacca». Nel 1995 i russi prestavano servizio nelle unità speciali serbe e, secondo u n rappor to delle Nazioni Uni-te, soldati russi e greci par tec iparono all 'attacco serbo a Zepa, l 'area sicura controllata dalle Nazioni Unite.4"

Nonostante l 'embargo, i serbi ricevettero dai propr i alleati ortodossi le armi e l ' equipaggiamento necessari. All'inizio del 1993 l 'esercito e i servizi segreti russi vendet tero ai serbi carri armati, missili antimissile e missili ant iaereo per un valore di t recento milioni di dollari. Tecnici militari russi f u r o n o inviati ad addestrare i serbi all 'uso di queste armi. La Serbia acquistò

39 «New York Times», 1 agosto 1995, p. A6; 28 ottobre 1995, pp. 1, 5; 5 ago-sto 1995, p. 4; «Economist», 11 novembre 1995, pp. 48-49. 40 «Boston Globe», 4 gennaio 1993, p. 5; 9 febbraio 1993, p. 6; 8 settembre 1995, p. 7; 30 novembre 1995, p. 13; «New York Times», 18 settembre 1995, p. A6; 22 giugno 1993, p. A23; Janusz Bugajski, «Joy of War», p. 4.

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armi da altri paesi ortodossi, con Romania e Bulgaria tra i for-nitori più attivi, seguiti dall 'Ucraina. Inoltre le unità russe del-le forze di pace in Slavonia orientale di rot tarono ai serbi rifor-n iment i O n u , facilitarono gli spostamenti militari serbi e aiuta-rono le forze serbe ad acquistare armi.41

Nonostante le sanzioni economiche , la Serbia potè mante-nere condizioni di vita ragionevolmente agiate grazie al mas-siccio con t rabbando di carburante e altri beni da Timisoara (organizzato dai funzionari governativi rumeni ) e dall 'Albania (con l'ausilio di società pr ima italiane e poi greche, queste ul-time con la connivenza dello stesso governo di Atene) . Riforni-ment i alimentari, prodott i chimici, compute r e altre attrezza-ture giunsero in Serbia dalla Grecia attraverso la Macedonia, e lo stesso canale percorsero ingenti esportazioni serbe.42 Brama di dollari e simpatia per un popolo affine ridussero a barzellet-ta le sanzioni economiche delle Nazioni Unite contro la Serbia, così come anche l ' embargo O n u sulle armi imposto a tutte le ex repubbl iche jugoslave.

Duran te tut to il conflitto jugoslavo, il governo greco prese le distanze dalle misure adottate dai membri occidentali della Na-to, si oppose al l ' intervento militare Nato in Bosnia, sostenne i serbi in sede O n u e fece pressioni sul governo americano per-ché revocasse le sanzioni economiche contro la Serbia. Nel 1994 il p r imo ministro greco, Andreas Papandreu , nel sottoli-neare l ' importanza del legame ortodosso che univa il suo pae-se alla Serbia, attaccò pubbl icamente il Vaticano, la Germania e l 'Unione eu ropea per l'eccessiva fret ta con cui avevano esteso alla f ine del 1991 il r iconoscimento diplomatico alla Slovenia e alla Croazia.41

In qualità di leader di un paese par tecipante di terzo livello, Boris Eltsin era spinto dal bisogno da un lato di mantenere , espandere e trarre profit to dai buoni rapport i con l 'Occidente,

41 «Boston Globe», 1 marzo 1993, p. 3; 21 febbraio 1993, p. 11; 5 dicembre 1993, p. 30; «Times» (Londra), 2 marzo 1993, p. 14; «Washington Post», 6 novembre 1995 p. Al 5. 42 «New York Times», 2 aprile 1995, p. 10; 30 aprile 1995, p. 4; 30 luglio 1995, p. 8; 19 novembre 1995, p. E3. 43 «New York Times», 9 febbraio 1994, p. A12; 10 febbraio 1994, p. A l ; 7 giu-gno 1995, p. A l ; «Boston Globe», 9 dicembre 1993, p. 25; «Europa Times», maggio 1994, p. 6; Andreas Papandreou, «Europe Turns Left», in «New Per-spectives Quarterly», n. 11 (Inverno 1994), p. 53.

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e dall 'altro di aiutare i serbi e spuntare così le armi dei suoi op-positori polidci sempre p r o n d ad accusarlo di sottomettersi al-l 'Occidente . Quest 'u l t ima preoccupazione finì col prevalere, assicurando in tal m o d o ai serbi il f e rmo e costante sostegno di-plomatico russo. Nel 1993 e nel 1995 il governo russo si rifiutò f e rmamen te di impor re ulteriori sanzioni economiche alla Ser-bia e il par lamento russo votò pressoché al l 'unanimità a favore del l ' annul lamento delle sanzioni vigenti. La Russia cercò infine di rafforzare l ' embargo sulle armi contro i musulmani e di ap-plicare sanzioni economiche alla Croazia. Nel d icembre del 1993 Mosca chiese un al lentamento delle sanzioni economiche in m o d o da permet ter le di r i fornire la Serbia di gas naturale per l ' inverno. Ma la proposta fu respinta da Stati Uniti e Gran Bretagna. Nel 1994 e ancora nel 1995 la Russia si oppose fer-m a m e n t e agli attacchi aerei Nato contro i serbi bosniaci. Nel 1995 la Duma russa denunc iò il bombardamen to con voto una-n ime e chiese le dimissioni del ministro degli Esteri Andre j Kozyrev per la sua inefficace difesa degli interessi nazionali rus-si nei Balcani. Sempre nel 1995 la Russia accusò la Nato di «ge-nocidio» contro i serbi, e il pres idente Eltsin ammonì che la cont inuazione dei b o m b a r d a m e n t i avrebbe ser iamente com-promesso la cooperazione russa con l 'Occidente, ivi compresa la propr ia partecipazione all'iniziativa Nato «Partnership for Peace». «Come possiamo concludere u n accordo con la Nato», chiese Eltsin, «se questa bombarda i serbi?». Chiaramente l 'Oc-cidente usava due pesi e due misure: «Come mai q u a n d o attac-cano i musulmani non viene intrapresa alcuna azione contro di loro? O q u a n d o attaccano i croati?».44 La Russia si oppose an-che ai tentativi di sospendere l ' embargo sulle armi contro le ex repubbl iche jugoslave, che danneggiava pr incipalmente i mu-sulmani bosniaci, t en tando viceversa di intensificarlo.

La Russia sfruttò la propr ia posizione in seno alle Nazioni Unite e in altre sedi a difesa degli interessi serbi anche in altri modi . Nel d icembre del 1994 pose il propr io veto a u n a risolu-zione del Consiglio di sicurezza de l l 'Onu, avanzata dai paesi musulmani , per proibire il r i fo rn imento di carburante serbo ai

44 «New York Times», 10 settembre 1995, p. 12; 13 settembre 1995, p. A l i ; 18 settembre 1995, p. A6; «Boston Globe», 8 settembre 1995, p. 2; 12 settembre 1995, p. 1; 10 settembre 1995, p. 28.

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serbi bosniaci e croati. Nell 'apri le dello stesso anno bloccò una risoluzione O n u che condannava i serbi per le loro operazioni di pulizia etnica; impedì la n o m i n a di un esponente apparte-nen te a un qualsiasi paese della Nato a pubblico ministero del-le Nazioni Uni te nei processi per i crimini di guerra, o n d e evi-tare probabili pregiudizi sfavorevoli ai serbi; si oppose all'incri-minazione del comandan te militare serbo-croato Ratko Mladic da par te del Tr ibunale internazionale per i crimini di guer ra e offrì a Mladic asilo in Russia/ ' Nel set tembre del 1993 la Russia ostacolò il r innovo dell 'autorizzazione O n u al man ten imen to nella ex Jugoslavia dei vent iduemila uomini della forza di pace delle Nazioni Unite. Nell 'estate del 1995 votò contro, ma non oppose il p ropr io veto, a u n a risoluzione del Consiglio di sicu-rezza che autorizzava l'invio di altri dodicimila caschi blu e pro-testò sia per l 'offensiva croata cont ro i serbi della Krajina sia per l ' incapacità a r isponderci da par te dei governi occidentali.

Ma la chiamata a raccolta più significadva per effet to e di-mensioni fu quella del m o n d o musu lmano a favore dei musul-mani bosniaci, la cui causa acquisì e n o r m e popolari tà in tutti i paesi musulmani e ricevette aiuto attraverso numerosissimi ca-nali, pubblici e privati. I governi musulmani , e in particolare quelli i raniano e saudita, fecero a gara nel sostenere i bosniaci - acquistando così sempre maggiore influenza su di essi - e tut-te le società musulmane (sunnite e sciite, fondamental is te e lai-che, arabe e non arabe, dal Marocco alla Malaysia) f u r o n o coinvolte in questa generale chiamata alle armi. Il sostegno musu lmano spaziò dagli aiuti umani tar i (compresi 90 milioni di dollari raccolti nel 1995 in Arabia Saudita) al l 'appoggio di-plomatico, all'assistenza militare, ad atti violenti quali ad esem-pio l'assassinio di dodici croati nel 1993 in Algeria da par te di estremisd islamici «in risposta al massacro dei nostri correligio-nari musulmani sgozzati in Bosnia».4" La chiamata a raccolta ebbe un grosso impatto sugli esiti della guerra, r isultando es-senziale per la sopravvivenza dello stato bosniaco e permet ten-dogli di r iguadagnare il terri torio pe rdu to in seguito alle pri-me, folgoranti vittorie dei serbi. Inoltre stimolò fo r t emente l'i-

45 «Boston Globe», 16 dicembre 1995, p. 8; «New York Times», 9 luglio 1994,

P- 2-46 Margaret Blunden, «Insecurity on Europe's Southern Flank», in «Survi-val», n. 36 (Estate 1994), p. 145; «New York Times», 16 dicembre 1993, p. A7.

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slamizzazione della società bosniaca e l ' identificazione dei mu-sulmani bosniaci con la comuni tà islamica internazionale. Infi-ne, convinse gli Stati Uniti ad avere un occhio di r iguardo per le esigenze bosniache.

Sia s ingolarmente che collegialmente, i governi musulmani espressero più volte la loro solidarietà ai correligionari bosnia-ci. Su questo pun to l 'Iran assunse la leadership nel 1992, quan-do definì la guer ra un conflit to religioso con i serbi cristiani, rei di genocidio contro i musulmani bosniaci. L'Iran versò così «un p r imo acconto per la conquista della grat i tudine dello sta-to bosniaco», fece da apripista ad altre potenze musulmane , quali ad esempio Turchia e Arabia Saudita, che seguirono il suo esempio. Su pressioni i raniane, l 'Organizzazione della Conferenza Islamica (Oci) in te rvenne in pr ima persona crean-do un g r u p p o di pressione a favore della causa bosniaca presso le Nazioni Unite. Nell 'agosto del 1992 i rappresentant i islamici presso l 'Assemblea generale delle Nazioni Unite denunc ia rono il p resunto genocidio perpe t ra to ai danni dei bosniaci, e a no-me dell 'Oci la Turchia presentò u n a risoluzione nella quale si richiedeva l ' intervento militare ai sensi dell 'Articolo 7 dello sta-tuto delle Nazioni Unite. All'inizio del 1993 i paesi musulmani stabilirono un termine massimo en t ro il quale l 'Occidente sa-rebbe dovuto intervenire a difesa dei bosniaci, scaduto il quale si sarebbero sentiti liberi di forn i re armi alla Bosnia. A maggio del 1993 l 'Oci denunc iò il p iano messo a pun to dalle nazioni occidentali e dalla Russia, che prevedeva di offr ire rifugi sicuri ai musulmani e di controllare il conf ine con la Serbia ma ri-nunciava a qualsiasi in tervento militare. L'Oci chiese la fine de l l ' embargo sulle armi, il ricorso alla forza contro l 'artiglieria pesante serba, un rigido controllo dei confini serbi e l ' ingresso nelle forze di pace di t ruppe provenienti da paesi musulmani . Il mese successivo, nonos tante le obiezioni sollevate dalla Rus-sia e dai paesi occidentali, l 'Oci riuscì a o t tenere che la Confe-renza delle Nazioni Unite sui diritti umani approvasse u n a ri-soluzione la quale denunciava l 'aggressione serba e croata e chiedeva la fine del l ' embargo sulle armi. Nel luglio del 1993, con un certo imbarazzo del l 'Occidente , l 'Oci si offrì di raffor-zare il cont ingente di pace delle Nazioni Unite con diciottomi-la uomini provenienti da Iran, Turchia, Malaysia, Tunisia, Paki-stan e Bangladesh. Gli Stati Uniti posero il veto sulle t ruppe ira-

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niane e i serbi obie t tarono vigorosamente contro quelle tur-che. Queste ultime, tuttavia, giunsero in Bosnia nell 'estate del 1994, e nel 1995 tra i venticinquemila uomini della Forza di protezione de l l 'Onu c 'e rano settemila soldati provenienti da Turchia, Pakistan, Malaysia, Indonesia e Bangladesh. Nell 'ago-sto del 1993 u n a delegazione del l 'Ori , guidata dal ministro de-gli Esteri turco, chiese a Boutros-Ghali e Warren Chris topher un immediato intervento aereo della Nato per d i fendere i bo-sniaci dagli attacchi serbi. La manca ta risposta occidentale creò, fu riferito, serie tensioni tra la Turchia e i suoi alleati del-la Nato.'7

In seguito, i primi ministri di Turchia e Pakistan compi rono u n a ben pubblicizzata visita a Sarajevo al f ine di dare maggior risalto alla quest ione musulmana, e l 'Or i reiterò le sue richie-ste di assistenza militare ai bosniaci. Nell 'estate del 1995, l'in-capacità occidentale di d i fendere le aree protette dagli attacchi serbi indusse la Turchia a inviare aiuti militari alla Bosnia e ad addestrare t ruppe bosniache, la Malaysia a vendere loro armi in violazione de l l ' embargo delle Nazioni Unite e gli Emirati Arabi Uniti a forni re fondi destinati a scopi umanitar i e milita-ri. Nell 'agosto del 1995 i ministri degli Esteri di nove paesi del-l 'Ori d ichiararono non valido l ' embargo sulle armi delle Na-zioni Unite, e in set tembre i c inquantadue membr i de l l 'Or i ap-provarono misure di assistenza economica e militare a favore dei bosniaci.

Se la condizione dei musulmani bosniaci suscitò in tut to il m o n d o islamico un sostegno u n a n i m e quale mai si era visto prima, essa acquisì tuttavia u n a rilevanza part icolare in Tur-chia. La Bosnia aveva fat to par te de l l ' Impero o t tomano in pra-tica f ino al 1878 e in teoria f ino al 1908, e i bosniaci ammonta-vano, tra immigranti e rifugiati, a circa il 5 per cento dell ' inte-ra popolazione turca. Simpatia per la causa bosniaca e rabbia per la percepita incapacità del l 'Occidente di d i fendere i bo-sniaci f u r o n o sentimenti assai diffusi tra il popolo turco, e il partito islamista all 'opposizione - il Partito del Benessere - sep-

47 Fouad Ajami, «Under Western Eyes: The Fate of Bosnia» (rapporto pre-parato per la Commissione internazionale sui Balcani del Carnegie Endow-ment for International Peace e dell'Aspen Institute, Aprile 1996), p. 5 sgg.; «Boston Globe», 14 agosto 1993, p. 2; «Wall Street Journal», 17 agosto 1992, p. A4.

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pe ben sfrut tare questi sentimenti indirizzandoli cont ro il go-verno. Questo, da parte sua, sottolineò le particolari responsa-bilità della Turchia dinanzi ai musulmani dell ' intera regione balcanica, ch iedendo sistematicamente un intervento militare delle Nazioni Unite a difesa dei musulmani bosniaci.48

L'aiuto di gran lunga più impor tan te forni to dall'ummah ai musulmani bosniaci fu l'assistenza militare: armi, dena ro per comprare armi, addes t ramento militare e volontari. Subito do-po l'inizio della guerra il governo bosniaco chiese l ' in tervento dei mujaheddin, e il totale dei volontari arrivò a 4000, un nume-ro superiore a quello dei soldati stranieri giunti al f ianco dei serbi o dei croati. Questi comprendevano unità provenient i dalle Guardie repubbl icane i raniane e molti ex combat tent i dell 'Afghanistan, originari del Pakistan, della Turchia, dell'I-ran, dell 'Algeria, dell 'Arabia Saudita, dell 'Egitto e del Sudan, più alcuni lavoratori immigrati albanesi e turchi provenienti dalla Germania , dall 'Austria e dalla Svizzera. Le organizzazioni religiose saudite f inanziarono un gran n u m e r o di volontari -circa venticinque sauditi f u r o n o uccisi nel 1992, nei pr imi me-si di guer ra - e l 'Assemblea mondia le della gioventù musulma-na si incaricò di far r ientrare i combat tend feriti a j i d d a pe rché fossero curad. Nel l ' au tunno del 1992 giunsero in Bosnia i guer-riglieri appa r t enend all 'organizzazione libanese sciita Hezbol-lah col compi to di addestrare l 'esercito bosniaco, per essere poi rimpiazzati in questa mansione soprattutto dalle Guardie della repubblica islamica. Nella primavera del 1994 i servizi se-greti occidentali r i fer irono che un 'un i t à di Guardie della re-pubblica islamica composta da 400 uomini stava organizzando squadre di terroristi e guerriglieri estremisti. «Gli iraniani», af-f e r m ò un funzionar io americano, «considerano questo un mo-do per ent rare nel ventre molle dell 'Europa». Secondo le Na-zioni Unite, i mujaheddin addes t ra rono tra i tre e i c inquemila bosniaci per la costituzione di speciali brigate islamiche. Il go-verno bosniaco utilizzò i mujaheddin per «attività terroristiche, illegali e di guerriglia», anche se finiva spesso col vessare la po-polazione locale e causare altri problemi al governo. Gli accor-di di Dayton imposero a tutti i belligeranti stranieri di lasciare la Bosnia, ma il governo bosniaco aiutò alcuni di loro a restare

48 Yilmaz, «Turkey's New Role», pp. 94, 97.

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d a n d o loro la cittadinanza bosniaca e assumendo le Guardie della repubblica iraniana come forza lavoro impegnata in ope-re socialmente utili. «Il governo bosniaco deve moltissimo a quesd gruppi , e in pardcolare agli iraniani», a f fe rmò un uffi-ciale americano all'inizio del 1996. «Il governo si è dimostrato incapace di opporvisi. Tra dodici mesi noi ce ne saremo anda-ti, ma i mujaheddin h a n n o tutte le intenzioni di restare».

I ricchi stati della ummah, guidati dall 'Arabia Saudita e com-prenden t i Iran e Libia, profusero immense quanti tà di dena ro a favore delle forze militari bosniache. Nel 1992, duran te i pri-mi mesi del conflitto il governo saudita e fonti private forniro-no ai bosniaci 150 milioni di dollari, uff icialmente per scopi umanitari , ma che tutti sanno essere stati invece usati per scopi militari. Risulta che nei primi due anni di guer ra i bosniaci ri-cevettero armi per un valore di 160 milioni di dollari. Nel pe-riodo 1993-1995 i bosniaci ricevettero quindi altri 300 milioni di dollari in armi dai sauditi, più 500 milioni di dollari ufficial-mente per aiuti umanitari . Anche l ' Iran fu un ' impor t an te fon-te di assistenza militare, avendo speso, secondo le stime dei funzionari americani, centinaia di milioni di dollari a l l ' anno in a rmament i a favore dei bosniaci. Un 'a l t ra fonte riferisce che, del totale di 2 miliardi di dollari in armi approdat i in Bosnia duran te i primi anni del conflitto, l'80-90 per cento sia anda to ai musulmani . Grazie a un simile sostegno finanziario, i bo-sniaci po t e rono comprare migliaia di tonnellate di armi. Tra i carichi di r i forniment i intercettati ce ne fu u n o di 4000 fucili e un milione di cartucce, un secondo di 11.000 fucili, 30 mortai e 750.000 cartucce, e un terzo costituito da missili terra-terra, munizioni, jeep e pistole. Tutti questi r i fornimenti provenivano dall ' Iran, il principale forn i tore di armi, ma anche Turchia e Malaysia ebbero un ruolo es t remamente importante . Alcune armi f u r o n o spedite d i re t tamente in Bosnia, ma la maggior parte giunse attraverso la Croazia, o via aereo f ino a Zagabria e

49Janus7. Bugajski, «Joy of War», p. 4; «New York Times», 14 novembre 1992, p. 5; 5 dicembre 1992, p. 1; 15 novembre 1993, p. 1; 18 febbraio 1995, p. 3; 1 dicembre 1995, p. A14; 3 dicembre 1995, p. 1; 16 dicembre 1995, p. 6; 24 gennaio 1996, pp. A l , A6; Susan Woodward, Balkan Tragedy: Chaos andDisso-lulìon After the Cold War, Washington D.C., Brookings Institution, 1995, pp. 356-7; «Boston Globe», 10 novembre 1992, p. 7; 13 luglio 1993, p. 10; 13 lu-glio 1993, p. 10; 24 giugno 1995, p. 9; 22 settembre 1995, pp. 1, 15; Bill Gertz, «Washington Times», 2 giugno 1994, p. A l .

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quindi via terra, o via mare f ino a Spalato o altri port i croati e poi via terra. In cambio, i croati acquisivano u n a par te di ar-mament i , pare un terzo; coscienti del fatto che in un fu tu ro si sarebbero anche potuti ritrovare a dover combat tere contro la Bosnia, vietarono il t rasfer imento di carri armati e ardglieria pesante attraverso il loro territorio. "

Denaro, uomini, addes t ramento e armi dall 'Iran, dall 'Arabia Saudita, dalla Turchia e da altri paesi musulmani permisero ai bosniaci di t rasformare quello che tutti definivano u n a «fec-cia» di esercito in una forza militare suff ic ientemente equipag-giata e competente . Nell ' inverno del 1994 osservatori esterni r i fer i rono di spettacolari miglioramenti nella sua coesione or-ganizzativa ed efficienza militare. '1 S f ru t tando la loro nuova forza militare, i bosniaci infransero la tregua e scagliarono vit-toriose offensive pr ima contro i miliziani croati e poi, in pri-mavera, cont ro i serbi. Ne l l ' au tunno del 1994 il Quin to Reggi-men to bosniaco si spinse fuor i dall 'area protet ta delle Nazioni Uni te di Bihac e ricacciò indietro le forze serbe, registrando la più impor tante vittoria bosniaca f ino allora o t tenuta e ripren-d e n d o u n a sostanziosa fetta di terri torio ai serbi, che pat i rono il mancato sostegno del presidente Milosevic. Nel marzo del 1995 l 'esercito bosniaco r u p p e nuovamente la tregua e iniziò un 'avanzata in grande stile verso Tuzla, seguita a g iugno da un 'offensiva nei d intorni di Sarajevo. L'aiuto degli altri paesi musulmani fu e lemento decisivo per il mu tamen to degli equi-libri militari in Bosnia.

La guer ra in Bosnia è stata una guer ra di civiltà. I tre con-tendent i principali appar tenevano a civiltà differenti e seguiva-no religioni differenti . Con u n a parziale eccezione, la parteci-pazione degli attori di secondo e terzo livello ha seguito esatta-men te questo model lo di schieramento. Gli stati e le organiz-zazioni musu lmane h a n n o tutte fatto quadra to a t to rno ai mu-sulmani bosniaci contro croati e serbi. I paesi e le organizza-zioni ortodosse si sono tutti schierati a fianco dei serbi cont ro

50 Jane's Sentimi, cit. in «Economist», 6 agosto 1994, p. 41; «Economist», 12 febbraio 1994, p. 21; «New York Times», 10 settembre 1992, p. A6; 5 dicembre 1992, p. 6; 26 gennaio 1993, p. A9; 14 ottobre 1993, p. Al; 14 maggio 1994, p. 6; 15 aprile 1995, p. 3; 15 giugno 1995, p. A12; 3 febbraio 1996, p. 6; «Boston Globe», 14 aprile 1995, p. 2; «Washington Post», 2 febbraio 1996, p. 1. 51 «New York Times», 23 gennaio 1994, p. 1; «Boston Globe», 1 febbraio 1994, p. 8.

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croati e musulmani . I governi e le classi dirigenti occidentali h a n n o sostenuto i croati, f rena to i serbi e manifestato nei con-front i dei musulmani indifferenza o umore . Con il protrarsi del conflitto, gli odi e le spaccature tra i g ruppi si sono accen-tuati, le rispettive idendtà religiose e culturali si sono cristalliz-zate, soprat tut to da parte musulmana. Nel complesso, le lezio-ni da t rarre dalla guerra in Bosnia sono: primo, che i parteci-panti diretti alle guerre di faglia possono contare sull 'aiuto, an-che consistente, dei paesi appar tenent i alla propr ia stessa ci-viltà; secondo, che questo aiuto p u ò influenzare in m o d o an-che significativo il corso della guerra ; terzo, che i governi e i popoli di una civiltà non versano sangue o dena ro per aiutare a combat tere una guerra di faglia un popolo appar tenen te a u n a diversa civiltà.

L 'unica parziale eccezione è costituita dagli Stati Uniti. In li-nea di principio, i suoi dirigenti si schierarono dalla par te dei musulmani , anche se in pratica il sostegno americano fu limi-tato. L 'amministrazione Clinton acconsentì al l ' impiego del-l 'aeronautica ma non alle forze di terra per proteggere le aree di sicurezza delle Nazioni Unite, e pe ro rò la fine de l l ' embargo sulle armi. Non esercitò pressioni serie sui propri alleati per po r re effett ivamente fine al l 'embargo, ma chiuse un occhio sia sulle forn i ture di armi iraniane che sui finanziamenti sauditi ai bosniaci per l 'acquisto di armi, e nel 1994 cessò di applicare l ' embargo . 2 Gli Stati Uniti finirono così con l'inimicarsi i pro-pri alleati e gettare la Nato in quella che agli occhi di tutti ap-parve u n a grave crisi. Una volta firmati gli accordi di Dayton, gli Stati Uniti accettarono di cooperare con l'Arabia Saudita e con altri paesi musulmani a l l ' addes t ramento ed equipaggia-men to delle forze bosniache. La d o m a n d a è dunque : perché, duran te e dopo la guerra, l 'America è stata l 'unico paese ad aver inf ran to il modello di schieramenti per civiltà ed è diven-tata l 'unico paese non musu lmano a promuovere gli interessi dei musulmani bosniaci e a operare al fianco dei paesi musul-mani a loro favore? Come spiegare questa anomalia?

Una possibile spiegazione è che non si sia trattato affatto di

52 Sull'acquiescenza americana in merito alle forniture di armi dei musulma-ni, si veda «New York Times», 15 aprile 1995, p. 3; 3 febbraio 1996, p. 6; «Wa-shington Post», 2 febbraio 1996, p. 1; «Boston Globe», 14 aprile 1995, p. 2.

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un 'anomal ia , ma piuttosto di u n a fo rma at tentamente calcolata di realpolidk culturale. Schierandosi a fianco dei bosniaci e pro-ponendo , senza successo, la fine del l 'embargo, gli Stati Uniti t en tarono di ridurre l ' influenza di paesi musulmani fondamen-talisd come l 'Iran e l 'Arabia Saudita sui bosniaci, un popolo fi-no ad allora di inclinazione laica e filoeuropea. Se questo fu il modvo, tuttavia, perché gli Stati Uniti accettarono senza prote-stare il sostegno offerto da Iran e Arabia Saudita e perché non cercarono con maggior vigore di por re fine al l 'embargo, legit-timando con ciò l 'aiuto occidentale? Perché i funzionari ameri-cani non misero pubbl icamente in guardia dal pericolo del fon-damental ismo islamico nei Balcani? Una spiegazione alternati-va per la condot ta americana è che il governo statunitense ab-bia subito forti pressioni da parte dei suoi amici nel m o n d o mu-sulmano, segnatamente dalla Turchia e dall 'Arabia Saudita, e che abbia ceduto al fine di salvaguardarne i buoni rapport i . Questi rapporti , tuttavia, a f fondano le loro radici in u n a con-vergenza di interessi indipendent i dalla Bosnia e appare impro-babile che potessero venire seriamente compromessi da un ri-fiuto americano. Inoltre, ciò non spiega perché gli Stati Uniti abbiano implicitamente approvato la forni tura alla Bosnia di eno rmi quanti tà di armi iraniane in un m o m e n t o in cui era im-pegnata a contrastare l 'Iran su altri f ronti e in cui l 'Arabia Sau-dita competeva con l 'Iran per l 'acquisizione di influenza sulla Bosnia.

Per quan to considerazioni, per così dire, di realpolitik pos-sano avere avuto u n certo ruo lo nel de te rminare l 'atteggia-m e n t o americano, altri fattori sembrano aver avuto maggior ri-levanza. In qualsiasi conflitto esterno, gli americani t e n d o n o a operare u n a net ta separazione tra forze del bene e forze del male e a schierarsi con le prime. Le atrocità perpe t ra te dai ser-bi nelle pr ime fasi del conflitto finirono con l 'appiccicare loro addosso l ' immagine dei «cattivi» che uccidono innocent i e at-tuano genocidi, ment re i bosniaci d iedero di sé un ' immagine di vittime disperate. Per tutta la guer ra la stampa americana de-dicò scarsa at tenzione alle operazioni di pulizia etnica e ai cri-mini di guer ra croati e musulmani , o alle violazioni delle aree di sicurezza delle Nazioni Unite o dei cessate il fuoco da par te delle forze bosniache. Per gli americani, i bosniaci divennero, per usare l 'espressione di Rebecca West, «il loro caro popolo

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balcanico, vicini al loro cuore perché sofferenti e innocenti , sempre massacrati, e mai massacratori».

Anche le élite amer icane f u r o n o favorevolmente disposte nei confront i dei bosniaci, poiché piaceva loro l ' idea di u n pae-se multiculturale, un ' immagine che nelle pr ime fasi della guer-ra il governo bosniaco riuscì a promuovere con molta abilità. Per tutta la dura ta del conflitto, la strategia politica americana rimase testardamente fedele all ' idea di una Bosnia multietnica, nonos tante si trattasse di un ' immag ine in gran parte rifiutata da serbi bosniaci e croati bosniaci. Per quanto la creazione di u n o stato multietnico fosse ovviamente impossibile laddove, co-me tutti sapevano, un g r u p p o etnico andava pe rpe t r ando il ge-nocidio di un altro, le élite amer icane mischiarono nella pro-pria men te tutte queste immagini contraddittorie: il risultato fu una diffusa simpatia per la causa bosniaca. L'idealismo, il mo-ralismo, l 'istinto umanitario, l ' ingenuità e l ' ignoranza america-ni rispetto alla crisi balcanica li indusse d u n q u e ad un atteggia-m e n t o filobosniaco e antiserbo. Al t empo stesso, l 'assenza in Bosnia di significativi interessi di sicurezza americani e di un qualsiasi collegamento culturale non fornì al governo america-no alcun motivo di sforzarsi per aiutare i bosniaci al di là della concessione, fatta a iraniani e sauditi, di armarli. Rifiutandosi di r iconoscere la guerra per quello che effett ivamente era, il governo americano finì con l 'alienarsi i propr i alleati, prolun-gando il conflitto e con t r ibuendo a fo rmare nei Balcani u n o stato musu lmano fo r temente filo-iraniano. Alla fine, i bosniaci f in i rono con lo sviluppare un for te r isent imento nei confront i degli Stati Uniti, i quali avevano parlato molto ma agito poco, e di g rande grat i tudine verso i propr i fratelli musulmani , giunti con le armi e il denaro necessari a consentire loro di sopravvi-vere e di o t tenere vittorie militari.

«La Bosnia è la nostra Spagna», disse Bernard-Henri Lévy, cui si associò un editorialista saudita: «La guer ra in Bosnia e in Erzegovina è diventata dal pun to di vista emotivo l 'equivalente della lotta contro il fascismo nella guerra civile spagnola. Quan-ti vi sono morti sono considerati dei martiri caduti nel tentativo

53 Rebecca West, Black Lamb and Grey Falcon: The Record of a Journey Ihrough Yugoslavia in 1937, London, Macmillan, 1941, p. 22, cit. in Charles G. Boyd, «Making Peace with the Guiltv: the Truth About Bosnia», in «Foreign Af-fairs» (Settembre-Ottobre 1995), p. 22.

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di salvare i loro fratelli musulmani». '4 Il paragone è calzante. In un ' epoca di divisioni per civiltà, la Bosnia è la Spagna di tutti. La guer ra civile spagnola fu un conflitto tra sistemi politici e ideologie; la guerra bosniaca è stata una guerra tra civiltà e re-ligioni. Democratici, comunisti e fascisti anda rono in Spagna per combat tere a fianco dei rispettivi compagni di ideologia, e i governi democratici, comunisti e soprattutto fascisti forniro-no tutti il loro aiuto. La guer ra jugoslava ha visto una uguale, massiccia mobilitazione di aiuto esterno da parte di cristiani oc-cidentali, cristiani ortodossi e musulmani in difesa dei rispetti-vi compagni di civiltà. Tutte le principali potenze del m o n d o ortodosso, di quello islamico e di quello occidentale ne sono state coinvolte. Dopo quat t ro anni di lotta, la guer ra spagnola t e rminò con la vittoria delle forze franchiste. Le guer re tra le comuni tà religiose nei Balcani possono affievolirsi e pe r f ino cessare per un po ' , ma è improbabile che qualcuno riesca a ot-tenere una vittoria decisiva, e un conflit to senza vittoria è un conflit to non concluso. La guer ra civile spagnola fu un prelu-dio alla Seconda guerra mondiale . La guer ra bosniaca è un ul-teriore episodio di sangue in un interminabile scontro di ci-viltà.

Guerre di faglia: soluzioni possibili

«Tutte le guer re pr ima o poi finiscono», recita un det to po-polare. Ma vale anche per le guer re di faglia? La risposta è: sì e no. La violenza di questo tipo p u ò arrestarsi comple tamente per un certo per iodo di tempo, ma ben di rado cessa per sem-pre. Le guer re di faglia sono caratterizzate da f requent i t regue e armistizi, ma non da trattati di pace globali capaci di risolve-re i nodi politici di fondo . Ciò d ipende dal fatto che queste gue r re a f fondano le propr ie radici nei rapport i antagonistici tra g ruppi di civiltà diverse e nei conflitti culturali che li sot-t endono . Questi conflitti h a n n o a loro volta origine dalla con-tiguità geografica, dalle diverse religioni e culture, da s trut ture sociali diverse e dalle memor ie storiche delle varie società. Nel

54 Cit. in Timothy Gal ton Ash, «Bosnia in Olir Future», in «New York Review of Books», 21 dicembre 1995, p. 27; «New York Times», 5 dicembre 1992, p. 1.

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corso dei secoli le diversità possono r icomporsi e la conflit-tualità la tente dissolversi. O p p u r e la confli t tuali tà po t r ebbe scomparire r ap idamente e r epen t i namen te nel caso in cui un g r u p p o sterminasse l 'altro. Se non si verifica nessuna di queste due eventualità, tuttavia, la conflit tualità pe rmane , e così an-che i r icorrent i periodi di violenza. Se d u n q u e le guer re di fa-glia sono intermit tent i , i conflitti che le gene rano sono senza fine.

La cessazione anche t emporanea di u n a guerra di faglia di-p e n d e da due fattori. Il p r imo è l 'esausdone delle parti belli-geranti . A un certo punto , allorché le vittime sono decine di migliaia, i rifugiati centinaia di migliaia e le città - Beirut , Grozny, Vukovar - r idotte ad ammassi di rovine, la gente co-mincia a gridare «basta con questa follia», gli esponent i radi-cali di en t r ambe le parti non sono più in grado di aizzare la fu-ria popolare , i negoziatori che pe r anni non h a n n o fat to che farfugl iare t o rnano a farsi vivi, e i m o d e r a d prevalgono, rag-g iungendo u n a sorta di accordo per met tere f ine alla carnefi-cina. Nella primavera del 1994 la guer ra nel Nagornyj-Karaba-ch in corso ormai da sei anni aveva «stremato» tanto gli arme-ni quan to gli azeri, che concorda rono d u n q u e u n a tregua. Al-lo stesso modo , è stato riferito che ne l l ' au tunno del 1995 in Bosnia «tutte le parti e rano stremate», ragion per cui si giunse agli accordi di Dayton. '' Queste tregue, tuttavia, h a n n o u n ca-rat tere in t r insecamente limitato. Servono a en t rambe le part i per recuperare le forze e riorganizzarsi. Dopodiché, non ap-pena u n a delle due parti vede u n ' o p p o r t u n i t à favorevole, la guer ra ricomincia.

Il raggiungimento di u n a tregua temporanea richiede anche un secondo fattore: che siano coinvolti i partecipanti degli altri livelli e che questi abbiano l ' interesse e l 'autorevolezza neces-sari per riuscire a met tere le parti belligeranti in torno a un ta-volo. Quasi mai le guer re di faglia t e rminano a seguito di ne-goziati diretti tra le sole parti interessate, e solo ra ramente gra-zie al l ' intervento di parti disinteressate. La distanza culturale, gli odi feroci, il r icordo delle rec iproche violenze r e n d o n o es t remamente improbabile che le parti in causa decidano di av-

55 «New York Times», 3 settembre 1995, p. E6; «Boston Globe», 11 maggio 1995, p. 4.

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viare colloqui produttivi per g iungere a una qualche fo rma di tregua. I problemi politici di f o n d o - chi controlla quale terri-torio e quale popolazione e su quali basi - t o rnano inevitabil-men te in superficie e impediscono accordi su obiettivi più li-mitati.

I conflitti tra paesi o gruppi di cultura comune possono a volte essere risolti attraverso la mediazione di u n a terza par te disinteressata appar tenen te anch'essa a quella cultura, che go-da al l ' in terno di esse di u n a sua legittimità, e che le parti belli-geranti r i tengano in grado di trovare u n a soluzione coerente con i loro valori. Il Papa, ad esempio, potè mediare con succes-so la disputa sui confini tra Cile e Argentina. Nei conflitti tra g rupp i di civiltà diverse, tuttavia, non esistono parti disinteres-sate. Trovare un individuo, un' ist i tuzione o u n o stato che goda della fiducia di en t rambe le parti è impresa es t remamente ar-dua. Qualsiasi potenziale mediatore appart iene a una delle due civiltà in conflitto oppure a u n a terza civiltà con cultura e inte-ressi ancora diversi, e che non ispira fiducia in nessuna delle due parti in lotta. Ceceni e russi, o tamil e singalesi n o n invo-che ranno mai l ' intervento del Papa. Anche le organizzazioni internazionali t endono solitamente a fallire, perché incapaci di imporre pesanti sacrifìci come di offr ire benefici significativi al-le due parti in causa.

Le guer re di faglia vengono risolte non da individui, g rupp i od organizzazioni disinteressate, ma dagli interessati parteci-panti di secondo e terzo livello accorsi in aiuto dei rispettivi po-poli fratelli e che h a n n o la capacità da un lato di negoziare ac-cordi con la contropar te , e dall 'al tro di i ndur re la propr ia par-te a farli rispettare. Sebbene lo schieramento in g rupp i con-trapposti intensifichi e p ro lunghi la guerra , esso è anche di n o r m a u n a condizione necessaria, sebbene n o n sufficiente, per contener la e porvi fine. Di n o r m a i partecipanti di secon-do e terzo livello non desiderano trasformarsi in belligeranti di p r imo livello e ten tano quindi di man tene re il confli t to sotto controllo. Essi h a n n o inoltre interessi diversificati rispetto ai par tecipant i di p r imo livello, che sono invece concentra t i esclusivamente sulla guerra , e i loro rappor t i reciproci non so-n o esclusivamente limitati allo scontro in atto. E quindi proba-bile che a un certo p u n t o consider ino propr io interesse po r r e fine al conflitto. Essendo accorsi in aiuto dei rispettivi paesi

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fratelli, esercitano su questi u n a certa influenza, e sono dun-que soggetti qualificati a modera re e po r re f ine alla guerra .

Le guer re che non coinvolgono partecipanti di secondo o terzo livello h a n n o m e n o probabili tà di espandersi, ma sono più difficili da far cessare, così come accade con le guer re tra gruppi appar tenent i a civiltà senza u n o stato guida. Particolari problemi p o n g o n o le guer re di faglia che scatenano u n a rivol-ta a l l ' in terno di u n o stato sovrano senza p rodu r r e però schie-rament i di par te generalizzati. Se la guer ra si protrae all'infini-to, le richieste dei ribelli t e n d o n o a passare da una certa auto-nomia alla completa indipendenza, e vengono ovviamente re-spinte dal governo. Il quale, da par te sua, chiede di n o r m a che gli insorti d e p o n g a n o le armi come pr imo passo per la cessa-zione delle ostilità: cosa che gli insorti si r if iutano di fare. Il go-verno, com'è naturale, rifiuta il coinvolgimento di parti esterne in quello che considera un prob lema pu ramen te in te rno che r iguarda «elementi criminali». La definizione di «questione in-terna» data allo scontro fornisce inoltre agli altri stati la scusa per non farsi coinvolgere, com'è avvenuto per le potenze occi-dentali nel caso della Cecenia.

Questi problemi possono essere aggravati q u a n d o le civiltà coinvolte mancano di stati guida. La guer ra in Sudan, ad esem-pio, scoppiata nel 1956, ebbe fine nel 1972 per la completa esausdone di en t rambe le parti in causa, il che permise al Con-siglio mondia le delle Chiese e al Consiglio delle Chiese pana-fr icane - mai le organizzazioni internazionali non governative avevano ot tenuto un simile successo - di negoziare l 'accordo di Addis Abeba che dava l ' au tonomia al Sudan meridionale. Die-ci anni dopo, tuttavia, il governo abrogò l 'accordo, la guer ra riesplose, gli obiettivi degli insorti assunsero un profilo più al-to, la posizione del governo si irrigidì e i tentativi di negoziare u n a nuova pace fallirono. Né il m o n d o arabo né l'Africa aveva-no stati guida interessati a esercitare pressioni sui partecipanti . Gli sforzi di mediazione di J immy Carter e di vari leader africa-ni non ebbero successo, come non lo ebbero quelli di un co-mitato di stati estafricani composto da Kenya, Eritrea, Uganda ed Etiopia. L'America, che ha rapport i es t remamente tesi con il Sudan, non potè agire in pr ima persona, né potè chiedere a Iran, Iraq o Libia, che invece in t ra t tengono stretti r appord con il Sudan, di svolgere un ruolo di qualche utilità, e dovette così

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limitarsi a rivolgersi all 'Arabia Saudita, ma anche l ' inf luenza saudita sul Sudan era limitata. '6

In generale i negoziad per un cessate il fuoco progrediscono se esiste un uguale e parallelo coinvolgimento dei partecipanti di secondo e terzo livello di entrambi gli schieramend. In alcune circostanze, tuttavia, un singolo stato guida può risultare abba-stanza potente da mettere fine a un conflitto. Nel 1992, la Con-ferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa (Csce) tentò di mediare il conflitto tra Armenia e Azerbaigian. Venne creato un comitato, il Gruppo di Minsk, comprendente i parte-cipanti al conflitto di primo, secondo e terzo livello (armeni del Nagornyj-Karabach, Armenia, Azerbaigian, Russia, Turchia), più Francia, Germania, Italia, Svezia, Repubblica Ceca, Bielorussia e Stati Uniti. A eccezione di Francia e Stati Uniti, che ospitano una nutrita comunità armena, questi ultimi paesi avevano scarso interesse e nessuna capacità di por re fine al conflitto. I due par-tecipanti di terzo livello, Russia e Turchia, più gli Stati Uniti, mi-sero a pun to un piano che però fu respinto dagli a rmeni del Na-gornyj-Karabach. La Russia tuttavia sponsorizzò a titolo perso-nale una lunga serie di negoziati a Mosca tra Armenia e Azer-baigian i quali «crearono un 'al ternadva al Gruppo di Minsk ... facendo così naufragare gli sforzi della comunità internaziona-le».'7 Alla fine, essendo giunti i partecipanti di pr imo livello allo sfinimento, ed essendo riuscita la Russia a ot tenere il sostegno dell 'Iran ai negoziad, si giunse a un accordo per un cessate il fuoco. In quanto partecipanti di secondo livello, Russia e Iran collaborarono anche ai tentativi - riusciti solo in parte e a spraz-zi - di organizzare un cessate il fuoco in Tagikistan.

La Russia sarà u n a presenza costante nella Transcaucasia e avrà la capacità di impor re la tregua da lei stessa sponsorizzata fino a q u a n d o avrà interesse a farlo. Questo contrasta forte-men te con la situazione degli Stati Uniti in Bosnia. Gli accordi di Dayton nacquero da proposte sviluppate dal G r u p p o di con-tatto costituito da stati guida di re t tamente interessati al conflit-to (Germania, Inghilterra, Francia, Russia e Stati Unit i) , ma

56 Si veda U.S. l imit ine of Peace, Sudan: Ending the War, Moving Talks Eorward, Washington, D.C., U.S. Institute of Peace Special Report, 1994; «New York Times», 26 febbraio 1994, p. 3. 57 John J. Maresca, War in the Caucasus, Washington, U.S. Institute of Peace, Special Report, s.d., p. 4.

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nessuno degli altri partecipanti di terzo livello fu rea lmente in-terpellato nell 'e laborazione del l 'accordo finale, e due dei tre paesi d i re t tamente coinvolti nel conflitto restarono ai margini dei negoziati. L 'applicazione del l ' accordo era fonda ta sulla presenza di u n a forza militare Nato fondamenta lmen te ameri-cana. Se gli Stati Uniti ritirassero le propr ie t ruppe dalla Bo-snia, né le potenze europee né la Russia avrebbero un incend-vo a far rispettare l 'accordo; governo bosniaco, serbi e croad, u n a volta riorganizzate le propr ie forze avrebbero ogni interes-se a r ip rendere la guerra, e i governi serbo e croato sarebbero tentati di cogliere l 'occasione per realizzare i propr i sogni di u n a Grande Serbia e di u n a Grande Croazia.

Robert Putnam ha ben sottolineato come i negoziati tra stati siano «partite giocate su due livelli» in cui i diplomatici negozia-no al contempo con l 'elettorato del proprio paese e con le con-troparti dell 'altro paese. In un'analisi dello stesso tenore, Hun-tington ha dimostrato come i r iformatori di un governo autori-tario impegnati a negoziare una transizione alla democrazia con i moderad dell 'opposizione, debbano al contempo negoziare od opporsi alla fazione di irriducibili presente nel governo, e lo stes-so devono fare i moderati con le f range radicali dell'opposizio-ne.'8 Una simile partita a due livelli coinvolge come minimo quattro partecipanti e a lmeno tre, ma spesso quattro canali di rapport i tra loro. Una guerra di faglia complessa, tuttavia, impli-ca una pardta a tre livelli con almeno sei partecipanti e a lmeno sette tipi di relazioni tra loro (si veda la Figura 11.1). Tra le cop-pie di partecipanti del primo, secondo e terzo livello si stabili-scono rapporti orizzontali. Tra i partecipanti di diverso livello al-l ' in terno di ciascuna civiltà si sviluppano rapporti verdcali. La cessazione delle ostilità in una guerra di «dpo completo» richie-de dunque probabilmente le seguenti condizioni:

• l'attivo coinvolgimento dei partecipanti di secondo e terzo li-vello; • la negoziazione da par te dei partecipanti di terzo livello dei termini generali per la cessazione delle ostilità;

58 Robert D. Putnam, «Diplomacy and Domestic Politics: The Logic of Two Level Games», in «International Organization», n. 42 (Estate 1988), pp. 427-60; Samuel P. Huntington, The Third Wave: Democratisation in the Late Twentieth Cenluiy, Norman, OK, University of Oklahoma Press, 1991, pp. 121-63.

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• il ricorso, da parte dei par tecipand di terzo livello, alla politi-ca del bastone e della carota pe r indur re i par tec ipand di se-condo livello ad accettare i termini stabiliti e fare pressione sui partecipanti di pr imo livello pe rché li accettino; • il ritiro del l 'appoggio e - in pratica - il t radimento dei parte-cipanti di p r imo livello da par te di quelli di secondo livello; • Infine, come risultato di tutte queste pressioni, l 'accettazione delle condizioni da par te dei partecipanti di p r imo livello; con-dizioni che, ovviamente, essi sovvertiranno non appena avran-no interesse a farlo.

Il processo di pace in Bosnia implicò tutti questi elementi . Tutti i tentativi dei protagonisti - Stati Uniti, Russia e Unione europea - di giungere a un accordo fallirono. Le potenze occi-dentali si mostrarono riluttanti a includere la Russia quale part-ner a p ieno titolo nel processo di pace. I russi protes tarono vi-vamente per l 'esclusione, sos tenendo di avere legami storici con i serbi nonché interessi diretti nei Balcani maggiori rispet-to a qualsiasi altra g rande potenza. La Russia insistette per par-tecipare a p ieno titolo ai tentativi di risoluzione del conflit to e denunc iò la «tendenza degli Stati Uniti a voler det tare le pro-prie condizioni». La necessità di includere la Russia divenne palese nel febbraio del 1994. Senza consultare la Russia, la Na-to aveva lanciato un ul t imatum ai serbi bosniaci: a l lontanare la loro artiglieria pesante dall 'area circostante Sarajevo o subire gli attacchi aerei Nato. I serbi si r i f iutarono di obbedire , facen-do presagire un violento scontro con le forze Nato. Eltsin am-monì: «qualcuno sta t en tando di risolvere la quest ione bosnia-ca senza la partecipazione della Russia» ma «noi non lo per-met teremo». Il governo russo prese d u n q u e l'iniziativa e per-suase i serbi a ritirare le armi in cambio del dislocamento di forze di pace russe nell 'area di Sarajevo. Il successo dell 'opera-zione diplomatica evitò l 'escalation del conflitto, rese evidente agli occidentali l ' influenza russa sui serbi e por tò le t ruppe rus-se nel cuore dell 'area contesa da musulmani bosniaci e serbi.'9

Con tale manovra, la Russia sostanziò con g rande efficacia la

59 «New York Times», 27 gennaio 1993, p. A6; 16 febbraiol994, p. 47. Sull'i-niziativa russa del febbraio 1994, si veda in generale LeonardJ. Cohen, «Rus-sia and the Balkans: Pan-Slavism, Partnership and Power», in «International Journal», n. 49 (Agosto 1994), pp. 836-45.

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propr ia rivendicazione a u n a «partnership paritaria» con l 'Oc-cidente in meri to alla crisi bosniaca.

Ad aprile, tuttavia, la Nato autorizzò nuovamente il bombar-d a m e n t o delle postazioni serbe senza consultare la Russia. Vi f u r o n o reazioni es t remamente negative tra tutte le forze politi-che russe e l 'opposizione nazionalista a Eltsin e Kozyrev ne uscì rafforzata. Subito dopo i maggiori protagonisti di terzo livello -Inghil terra, Francia, Germania , Russia e Stati Uniti - costitui-rono un G r u p p o di contatto incaricato di elaborare i termini di u n possibile accordo. Nel giugno del 1994 il g r u p p o presentò un piano che assegnava il 51 per cento della Bosnia a u n a fe-derazione croato-musulmana e il 49 per cento ai serbo-bosnia-ci, e che fece da base per i successivi accordi di Dayton.

Gli accordi raggiunti dai partecipanti di terzo livello dovettero quindi essere fatti accettare a quelli di secondo e pr imo livello. Gli americani, come disse il diplomatico russo Vitalij Curkin, avrebbero dovuto fare pressioni sui bosniaci, i tedeschi sui croa-ti e i russi sui serbi.1'0 Nelle pr ime fasi della guerra jugoslava, la Russia aveva fatto un ' impor tan te concessione acconsentendo al-le sanzioni economiche contro la Serbia. In quanto paese di uguale razza e di cui quindi la Serbia poteva fidarsi, la Russia fu talvolta anche in grado di imporre un f reno ai serbi e indurli ad accettare compromessi che sarebbero stati altrimenti rifiutati. Nel 1995, ad esempio, Russia e Grecia intercessero presso i ser-bo-bosniaci per il rilascio dei soldati olandesi della forza di pace O n u che avevano preso in ostaggio. Di tanto in tanto, tuttavia, i serbi bosniaci si r imangiarono gli accordi fatti sotto pressione dei russi, mettendoli in forte imbarazzo. Nell'aprile del 1994, ad esempio, la Russia strappò ai serbi bosniaci un accordo per por-re fine agli attacchi serbi su Gorazde, ma in seguito i serbi lo in-fransero. Un diplomatico russo af fermò che i serbi bosniaci era-no «impazziti per la guerra», Eltsin insistette che «la leadership serba deve mantenere la promessa fatta alla Russia» e la Russia ri-tirò le proprie obiezioni agli attacchi aerei della Nato.1'1

Pur appoggiando e sostenendo la Croazia, la Germania e gli altri stati occidentali f u r o n o anche in grado di m o d e r a r n e la condot ta . Il presidente Tud jman desiderava fo r t emente che il

60 «Economist», 26 febbraio 1994, p. 50. 61 «New York Times», 20 aprile 1994, p. Al2; «Boston Globe», 19 aprile 1994, p. 8.

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propr io paese cattolico fosse accettato come u n o stato euro-peo e fosse ammesso nelle organizzazioni europee . Le potenze occidentali s f ru t tarono sia il sostegno diplomatico, economico e militare offer to alla Croazia, sia il desiderio croato di essere accolto nel «club Europa» per indur re Tud jman ad accettare compromessi su alcuni punti . Nel marzo del 1995 f u det to a Tud jman che se intendeva far par te del l 'Occidente avrebbe do-vuto pe rmet t e re lo s taz ionamento della forza di protezione O n u in Krajina. «Unirsi all 'Occidente», a f fe rmò un diplomati-co europeo, «è mol to impor tante per Tud jman . Non vuole es-sere lasciato solo con serbi e russi». Il premier croato fu anche ammoni to a moderare le operazioni di pulizia etnica nei terri-tori della Krajina e in qualsiasi altra area abitata da serbi e con-quistata dal suo esercito, n o n c h é a guardarsi dal l 'es tendere la propr ia offensiva alla Slavonia orientale. Su un altro punto , fu det to ai croati che se se non si fossero uniti in federazione con i musulmani , «la por ta del l 'Occidente sarebbe stata loro chiusa per sempre».'" In quan to principale fonte di sos tentamento fi-nanziario per la Croazia, la Germania era in una posizione par-t icolarmente propizia per inf luenzarne il compor tamento . An-che gli stretti rapport i tra Stati Uniti e Croazia contr ibuirono, a lmeno fino al 1995, a impedire a Tud jman di mettere in atto il suo mai abbandona to disegno di spartire la Bosnia-Erzegovina tra Serbia e Croazia.

A differenza di Russia e Germania , gli Stati Uniti non aveva-no alcun legame culturale con i bosniaci, e mancavano d u n q u e della forza necessaria per indur re i musulmani al compromes-so. Inoltre, come detto, a dispetto delle tante parole l 'aiuto sta-tunitense ai bosniaci si limitò a chiudere un occhio sulle viola-zioni a l l 'embargo sulle armi perpe t ra te dall ' Iran e dagli altri stati musulmani , di m o d o che i musulmani bosniaci finirono col sentirsi sempre più grati e a identificarsi sempre più forte-men te con la grande comuni tà islamica, accusando al t empo stesso gli Stati Uniti di applicare «due pesi e due misure», di non reagire cioè all 'aggressione ai loro danni così come aveva fatto con il Kuwait. Questo compromise ancor più le possibilità degli Stati Uniti di indur re alla moderaz ione i musulmani , i quali po te rono in tal m o d o rifiutare le proposte di pace, accre-

62 «New York Times», 15 agosto 1995, p. 13.

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scere la loro forza militare grazie all 'aiuto dei paesi amici e in-fine p r e n d e r e l'iniziativa e riconquistare u n a consistente par te del terri torio p receden temen te perduto .

Il r ifiuto del compromesso è par t icolarmente forte tra i par-tecipanti di p r imo livello. Nella guer ra transcaucasica, l 'ultra-nazionalista Federazione rivoluzionaria a rmena (Dasnak), mol-to for te tra la diaspora a rmena , d o m i n ò la regione del Na-gornyj-Karabach, rifiutò la proposta di pace turco-russo-ameri-cana del maggio 1993, che era stata accettata dai governi ar-m e n o e azerbaigiano, scagliò offensive militari che produssero accuse di pulizia etnica, accrebbe il rischio di un 'escalat ion del conflitto e pregiudicò i propr i rappor t i con il più modera to go-verno a rmeno . Il successo dell 'offensiva del Nagornyj-Karaba-ch pose seri problemi all 'Armenia, ansiosa di migliorare i rap-porti con Turchia e Iran in m o d o da alleviare la penur ia di cibo ed energia causate dalla guerra e dal l ' embargo turco. «Quanto meglio vanno le cose nel Karabach, tanto più difficili si f a n n o per Erevan», commen tò un diplomatico occidentale.''3 Al pari di Eltsin, il presidente a r m e n o Levon Ter-Petrossian dovette scegliere tra le pressioni esercitate dalle forze nazionaliste in-terne e una posizione di moderaz ione nei confront i degli altri stati suggerita da più generali interessi di politica estera, cosic-ché alla fine del 1994 il suo governo mise fuorilegge il part i to del Dasnak.

Al pari degli a rmeni del Nagornyj-Karabach, serbi e croati bosniaci si schierarono su posizioni oltranziste, e q u a n d o i go-verni serbo e croato vennero indotti a collaborare al processo di pace, sorsero dei problemi con i rispettivi confratelli bosnia-ci. Con i croati, i problemi f u r o n o m e n o seri, in quan to i croa-ti bosniaci, in via di principio se n o n nella pratica, accet tarono di unirsi alla federazione con i musulmani . Alimentato da an-tagonismi personali, il conflit to tra il presidente Milosevic ed il leader serbo bosniaco Radovan Karadzic andò viceversa ap-profondendos i fino ad assumere un carattere pubblico. Nell'a-gosto del 1994 Karadzic rifiutò il p iano di pace approvato da Milosevic. Il governo serbo, ansioso di met tere fine alle sanzio-

63 Hill e Jewitt, Back in the USSR, p. 12; Paul Henze, Georgia and Armenia Toward Independence, Santa Monica, CA, RAND P-7924, 1995, p. 9; «Boston Globe», 22 novembre 1993, p. 34.

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ni economiche , annunc iò che avrebbe interrot to tutti i rappor-ti commercial i con i serbo-bosniaci a eccezione dei riforni-m e n d di cibo e medicinali. In cambio, le Nazioni Uni te am-morb id i rono le sanzioni contro la Serbia. L ' anno seguente, Mi-losevic permise all 'esercito croato di espellere i serbi dalla Krajina e alle forze croate e musu lmane di ricacciarle nella Bo-snia nordoccidentale , concedendo altresì, d ' accordo con Tudj-man , il graduale r i torno della Slavonia orientale, occupata dai serbi, sotto il controllo croato. Con l 'approvazione delle grandi potenze, egli poi in pratica «consegnò» i serbo-bosniaci ai ne-goziati di Dayton inglobandoli nella propria delegazione.

Le iniziative di Milosevic por ta rono alla fine delle sanzioni O n u contro la Serbia e gli guadagnarono il cauto plauso di un'al-quanto sorpresa comunità internazionale. Il guerrafondaio na-zionalista, aggressivo, fautore delle operazioni di pulizia etnica e di u n a Grande Serbia del 1992 era diventato nel 1995 l ' uomo della pace. Da mold serbi, viceversa, Milosevic fu considerato un traditore. Fu denunciato a Belgrado dai nazionalisd serbi e dai capi della Chiesa ortodossa, ed esplicitamente accusato di tradi-men to dai serbi bosniaci e della Krajina. Le accuse sul suo conto non erano dissimili da quelle lanciate dai coloni della West Bank contro il governo israeliano per il suo accordo con l 'Olp. In una guerra di faglia, il t radimento della propria razza è il prezzo da pagare per raggiungere la pace.

L'esaust ione causata dal conflitto, oltre agli incentivi e le pressioni dei partecipanti di terzo livello, impongono dei mu-tamenti nelle fda dei partecipanti di p r imo e secondo livello. O i modera t i suben t rano agli estremisti al potere, o p p u r e gli estremisti, come Milosevic, trovano interesse a diventare mo-derati. Essi lo f anno tuttavia a propr io rischio. I traditori, o pre-sunti tali, suscitano un odio molto più intenso dei nemici. I lea-der ceceni, singalesi e musulmani del Kashmir accusati di aver tradito la causa e di aver tentato di trovare soluzioni di com-promesso con gli arcinemici h a n n o fatto la stessa fine di Sadat e di Rabin. Nel 1914 un nazionalista serbo assassinò un arcidu-ca austriaco. Dopo Dayton, il suo obiettivo più probabile po-t rebbe essere Slobodan Milosevic.

Un accordo per por re fine a u n a guer ra di faglia p u ò avere successo, anche se solo t emporaneamente , nella misura in cui riflette gli equilibri di potere locali tra i protagonisti di p r imo li-

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vello e gli interessi di quelli di secondo e terzo livello. La divi-sione della Bosnia tra un 51% ai croati e un 49% ai serbi non era praticabile nel 1994, q u a n d o i serbi controllavano il 70% del paese, ma lo divenne allorché le offensive croate e musul-mane ridussero il controllo serbo a quasi la metà del territorio. Il processo di pace fu inoltre aiutato dalle operazioni di pulizia etnica, con i serbi ridotti a m e n o del 3 per cento della popola-zione complessiva della Croazia e con la separazione, forzata o volontaria, operata in Bosnia fra i tre gruppi . Inoltre, poiché i partecipanti di secondo e terzo livello - e tra questi ultimi spes-so gli stati guida - sponsorizzino u n a soluzione accettabile, oc-corre che abbiano interessi concreti dettati da questioni di si-curezza o da legami culturali. Da sole, le parti belligeranti non possono por re f ine a u n a guer ra di faglia. La possibilità di ar-restarle e impedire che degener ino in guerre globali d ipende pr incipalmente dagli interessi e dalle iniziative degli stati guida delle maggiori civiltà del m o n d o . Le guer re di comuni tà fer-m e n t a n o dal basso, gli accordi di pace piovono dall 'alto.

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IL FUTURO DELLE CIVILTÀ

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CAPITOLO DODICESIMO L'Occidente, le civiltà e la civiltà

La rinascita dell'Occidente?

Nel processo evolutivo di ogni civiltà accade sempre, a lmeno u n a volta ma occasionalmente più spesso, che la storia giunga al termine. Q u a n d o nasce lo stato universale di u n a civiltà, la sua popolazione viene accecata da quello che Toynbee defini-sce «il miraggio dell ' immortalità» e si convince che la propr ia sia la fo rma ultima di società umana . Così è stato con l ' Impero romano, il Califfato degli abbasidi, l ' Impero mughal e l ' Impero o t tomano. I cittadini di u n o stato universale «a dispetto della più evidente realtà, sono inclini a considerarlo non il r iparo di u n a not te in u n a landa desolata, bensì la Terra Promessa, il fi-ne ul t imo degli sforzi umani». La stessa cosa accadde al culmi-ne della Pax britannica. Per la classe media inglese del 1897, «così come la vedevano loro, la storia era finita. ... Ed essi ave-vano tutti i motivi di congratularsi con se stessi per lo stato per-manen te di felicità che la fine della storia aveva dato loro».' Le società che c redono che la propr ia storia sia giunta al termine, tuttavia, sono di solito società la cui storia è in via di declino.

L 'Occidente costituisce un 'eccezione? I due quesiti chiave sono stati ben formulat i da Melko:

1) La civiltà occidentale è una specie nuova, facente par te di una classe a se stante, incomparabi lmente diversa da tutte le al-tre civiltà finora esistite? 2) La sua espansione mondiale minaccia (o promet te) di im-pedire qualsiasi possibilità di sviluppo per tutte le altre civiltà?2

1 Arnold J. Toynbee, A Study ofHistory, London, Oxford University Press, 12 voli., 1934-1961, voi. VII, pp. 7-17, voi IX, pp. 421-22; idem, Civilization on Trial: Essays, New York, Oxford University Press, 1948, pp. 17-18; 2 Matthew Melko, The Nature of Civilization, Boston, Pot ter Sargent, 1969, p. 155.

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C o m ' è naturale che sia, gran par te degli occidentali tende a r ispondere in modo affermativo a en t rambe le domande . E for-se a ragione. In passato, tuttavia, i popoli di altre civiltà h a n n o creduto la stessa cosa, e si sono sbagliati.

L 'Occidente si differenzia ovviamente da qualsiasi altra ci-viltà per la fortissima influenza che ha esercitato su tutte le al-tre civiltà sorte a part ire dal 1500. H a altresì inaugurato il pro-cesso di modernizzazione e di industrializzazione poi diffusosi su scala mondiale , i nducendo le società di tutte le altre civiltà a cercare di raggiungere il suo livello di ricchezza e modern i tà . E tuttavia, queste caratteristiche implicano forse che il suo pro-cesso evolutivo e la sua dinamica in quan to civiltà siano drasti-camente diverse dai modelli prevalsi in tutte le altre civiltà? L'e-sperienza storica e i giudizi degli studiosi di storia comparata delle civiltà d icono di no. Fino a oggi, lo sviluppo dell 'Occi-dente non ha deviato in misura significativa dai modelli evolu-zionistici comuni a tutte le civiltà della storia. La Rinascita isla-mica e il dinamismo economico asiatico dimostrano come altre civiltà siano vive e vegete e costituiscano a lmeno potenzial-men te u n a minaccia per l 'Occidente . Una grande guer ra che coinvolga l 'Occidente e gli stati guida di altre civiltà non è ine-vitabile ma pot rebbe ben accadere. Oppure , il graduale ed ir-regolare declino del l 'Occidente iniziato nei primi anni del xx secolo pot rebbe cont inuare per decenni e finanche per secoli a venire. O, ancora, l 'Occidente po t rebbe attraversare un perio-do di ripresa, riacquistare influenza in campo internazionale e r iconfermare la propria posizione di leader seguita e imitata dalle altre civiltà.

In quella che è probabi lmente la più utile periodizzazione dell 'evoluzione delle civiltà storiche, Carroll Quigley individua un model lo comune costituito da sette fasi (si veda sopra, p. 49). ' Secondo Quigley, la civiltà occidentale iniziò a formarsi gradualmente tra il 370 ed il 750 d.C. attraverso la commistione di e lementi delle culture classica, semitica, saracena e barbari-ca. A un per iodo di gestazione, protrattosi dalla metà del vm al-la fine del x secolo, seguì un movimento oscillatorio, inusuale tra le civiltà, tra fasi di espansione e fasi di conflittualità. Per

3 Carroll Quigley, 'The Evolution of Civilization: An Inlroduclion lo Hisloririd Analysìs, New York, Macmillan, 1961, p. 146 sgg.

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Quigley, come anche per altri studiosi delle civiltà, l 'Occidente appare oggi sul pun to di uscire da u n a fase di conflittualità. La civiltà occidentale è diventata un ' a r ea sicura: le guer re al suo in terno, a par te l 'occasionale episodio della Guerra f redda , so-no prat icamente impensabili. L 'Occidente sta sviluppando, co-me abbiamo sostenuto nel capitolo 2, l 'equivalente di un im-pe ro universale sotto fo rma di un complesso sistema di confe-derazioni, federazioni, regimi e altri tipi di istituzioni coopera-tive che incarnano a livello di civiltà la propria adesione alla po-litica democrat ica e pluralisdca. L 'Occidente , in breve, è di-ventato u n a società matura ed è entra to in quella che nel ri-cor ren te model lo delle civiltà le fu ture generazioni considere-r a n n o una «età dell 'oro», un per iodo di pace scaturito, secon-do l 'espressione di Quigley dalla «assenza di entità rivali all'in-te rno di una stessa civiltà e dall ' improbabil i tà o finanche dal-l'assenza di lotte con altre società esterne». E anche un per iodo di prosperità, risultante dalla «fine delle distruzioni belliche al p ropr io in terno, dalla r iduzione delle barr iere commerciali in-terne, dalla creazione di un sistema comune di mone te , pesi e misure, e dal vasto sistema di spesa pubblica associato alla crea-zione di un impero universale».

Nelle civiltà precedenti , questa fase di beata età del l 'oro con le sue visioni di immortali tà giunse al te rmine o in m o d o re-pen t ino e drammatico con la vittoria di una società esterna, o l en tamente e in m o d o altret tanto doloroso attraverso u n a di-sgregazione interna. Quan to accade al l ' interno di u n a civiltà è di uguale importanza sia per poter resistere agli attacchi ester-ni che per riuscire a evitare il decad imento in terno. Le civiltà crescono, sostenne Quigley nel 1961, perché possiedono u n o «st rumento di espansione», vale a dire un 'organizzazione mili-tare, religiosa, politica o economica che accumula eccedenze e le investe in innovazioni produttive. Le civiltà decl inano quan-do cessano di applicare queste «eccedenze a nuovi modi di fa-re le cose. Secondo la terminologia moderna , diciamo che il tasso di investimento si riduce». Ciò accade perché i g ruppi so-ciali che control lano le eccedenze h a n n o interesse a usarle a «fini non produttivi, bensì finalizzati a l l 'autocompiacimento ... dest inano le eccedenze al consumo ma non forniscono metodi di p roduz ione più efficaci». La gente consuma il p ropr io capi-tale e la civiltà passa dalla fase dello stato universale a quella della decadenza. E questo è un per iodo di

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acuta depressione economica, di abbassamento del tenore di vita, di guerre civili tra vari interessi costituiti, di crescente analfabetismo. La società diventa sempre più debole. Si varano leggi nel vano tentativo di mettere fine allo spreco, ma il declino continua. I ceti religioso, in-tellettuale, sociale e politico della società iniziano a perdere seguito tra le masse popolari. Nuovi movimenti religiosi iniziano a diffonder-si nella società. Nasce una riluttanza sempre maggiore a combattere per la società o finanche a sostenerla pagando le tasse.

Il decad imento porta d u n q u e alla fase dell ' invasione «quan-do la civiltà non è più capace di difendersi perché non ha più la volontà di difendersi, e si off re prostrata agli «invasori barbari», spesso provenienti da «un'al tra civiltà, più giovane e più po-tente».1

La principale lezione che la storia delle civiltà ci insegna, tut-tavia, è che molte sono le direzioni probabili, ma nessuna ine-vitabile. Le civiltà possono riformarsi e rinnovarsi, e lo h a n n o dimostrato. La questione di f ondo per l 'Occidente è se, a pre-scindere da minacce esterne, esso sia capace di arrestare e in-vertire i processi di decad imento in terno. L 'Occidente sarà in grado di rinnovarsi, oppu re un cont inuo sovvertimento inter-no finirà semplicemente per accelerare la propria fine e / o la propr ia subordinazione ad altre civiltà economicamente e de-mograf icamente più dinamiche?1

Alla metà degli anni Novanta l 'Occidente presente molte delle caratteristiche che Quigley identifica come proprie di u n a civiltà matura sull 'orlo del decadimento . Economicamente , è più ricco di qua lunque altra civiltà, ma presenta anche bassi tassi di crescita economica, di r isparmio e di investimenti, so-prat tut to rispetto alle società est-asiatiche. Il consumo indivi-duale e collettivo ha priorità sulla creazione di condizioni per un fu tu ro potere economico e militare. L ' incremento naturale

4 Quigley, Evolution of Civilizations, pp. 138-9, 158-60. 5 In una previsione che potrebbe rivelarsi corretta ma che non è supportata dalla sua analisi teorica ed empirica, Quigley conclude: «Nel 500 d.C. la ci-viltà occidentale non esisteva; nel 1500 d.C. era pienamente fiorita, e di cer-to cesserà prima o poi di esistere, forse prima del 2500 d.C.». Nuove civiltà in Cina e India, afferma Quigley, sostituendo quelle distrutte dall'Occidente entreranno allora nelle loro fasi di espansione e minacceranno sia la civiltà occidentale che quella ortodossa. Carroll Quingley, The Evolution of Civiliza-tions: An Inlroduction to Historical Analysis, Indianapolis, Liberty Press, 1979, (prima edizione Macmillan, 1961), pp. 127, 164-66.

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di popolazione è basso, soprat tut to rispetto a quello dei paesi islamici. Nessuno di quesd e lemend , tuttavia, por ta necessaria-m e n t e con sé conseguenze catastrofiche. Le economie occi-dental i con t inuano a crescere; nel complesso le popolazioni del l 'Occidente diventano sempre più agiate, e l 'Occidente è ancora all 'avanguardia nel campo della ricerca scientifica e del-l ' innovazione tecnologica. E difficile incrementare i bassi tassi di natalità median te iniziative di governo (che h a n n o solita-men te un successo ancora minore di quelle che cercano di con tenere l 'espansione demograf ica) . Tuttavia, l ' immigrazio-ne è u n a potenziale risorsa di r innovato vigore e di capitale umano , a pat to che siano soddisfatte due condizioni: pr imo, che la priorità vada a persone capaci, qualificate ed energiche dotate del talento e dell 'esperienza necessaria al paese ospitan-te; e secondo, che i nuovi immigrati e i loro figli vengano assi-milati alle culture del paese ospitante e del l 'Occidente in ge-nerale. L'America ha probabi lmente dei problemi a soddisfare la pr ima condizione, i paesi europei la seconda. Ciò nonostan-te, l 'at tuazione di politiche di controllo su numero , origine, ca-ratteristiche e grado di assimilazione degli immigranti r ientra nel l 'esperienza e nelle competenze dei governi occidentali.

Ben più important i dei problemi economici e demografici sono quelli legati al degrado morale, al suicido culturale e alla f rammentaz ione politica che investono l 'Occidente. Le manife-stazioni di degrado morale più spesso rilevate comprendono :

1. l ' aumen to di compor tament i antisociali, quali atti criminali, uso di droga e violenza in generale; 2. il decad imento dell ' istituzione della famiglia, l ' aumento del n u m e r o di divorzi, di figli illegittimi, di gravidanze p remature e di famiglie formate un unico genitore; 3. a lmeno negli Stati Uniti, un declino del «capitale sociale», vale a dire u n a riduzione degli iscritti alle associazioni di vo-lontariato e della fiducia interpersonale correlata a queste as-sociazioni; 4. u n generale indebol imento dell '«etica del lavoro» e la nasci-ta di un culto del l 'autoindulgenza; 5. un minore impegno nei confront i della cultura e dell'attività intellettuale, che negli Stati Uniti si è palesato in un abbassa-men to del livello medio di r end imen to scolastico.

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La futura prosperità dell 'Occidente e la sua influenza su altre società d ipendono in considerevole misura da come saprà rispon-dere a queste tendenze che alimentano, ovviamente, le rivendica-zioni di superiorità morale da parte di musulmani e asiadci.

La cultura occidentale è minacciata da gruppi operant i al-l ' in te rno delle stesse società occidentali. Una di queste minac-ce è costituita dagli immigrati provenienti da altre civiltà che ri-f iu tano l'assimilazione e con t inuano a praticare e propagare valori, usanze e culture delle propr ie società d 'origine. Questo f e n o m e n o prevale soprattutto tra i musulmani in Europa, che sono, comunque , una piccola minoranza, ma è presente an-che, in minor misura, tra gli ispanici degli Stati Uniti, che inve-ce sono una minoranza molto nutri ta. In questo caso, se il pro-cesso di assimilazione fallirà, l 'America diventerà un paese di-viso, con tutti i rischi di f rammentaz ione e disgregazione inter-na che questo comporta . In Europa, la civiltà occidentale po-trebbe essere minacciata anche dal l ' indebol imento della sua c o m p o n e n t e principale, il cristianesimo. Il n u m e r o di europei che si professa credente, osserva le prat iche e partecipa alle at-tività religiose è infatti in costante declino/ ' Nei confront i della religione prevale un sent imento non tanto di ostilità, quan to piuttosto d ' indifferenza. Ciò nonostante , precetti , usanze e va-lori cristiani pe rvadono la civiltà europea . «Gli svedesi sono probabi lmente il popolo m e n o credente d 'Europa», ha osser-vato un commenta tore svedese, «ma non è possibile capire nul-la di questo paese se non ci si r ende conto che le nostre istitu-zioni, costumi sociali, famiglie, strategie politiche e modi di vi-ta sono p ro fondamen te influenzati dalla nostra tradizione lu-terana». A differenza degli europei , gli americani c r edono p ro fondamen te in Dio, si r i tengono un popolo religioso, e un gran n u m e r o di essi f requenta le chiese. Se alla metà degli an-ni Ot tanta non c 'era alcun segno di rinascita della religione in America, il decennio successivo ha invece registrato un' intensi-ficazione della fede religiosa.7 L 'erosione del cristianesimo tra

6 Mattei Dogan, «The Decline of Religious Beliefs in Western Europe», in «International Social Science Journal», n. 47 (Settembre 1995), pp. 405-19. 7 Robert Wuthnow, «Indices of Religious Resurgence in the United States», in Richard T. Antoun e Mary Elaine Hegland (a cura di), Religious Resurgence; Contemporary Cases in Islam, Christianity, and Judaism, Syracuse, Syracuse Uni-versity Press, 1987, pp. 15-34; «Economist», n. 8 (Luglio 1995), pp. 19-21.

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gli occidentali appare nella peggiore delle ipotesi u n a minaccia es t remamente remota alla prosperi tà della civiltà occidentale.

Ben più immediata e pericolosa per gli Stati Uniti è invece un 'a l t ra minaccia. Storicamente, l ' identità nazionale america-na è stata definita cul tura lmente dal pat r imonio della civiltà occidentale e poli t icamente dai principi della dot t r ina ameri-cana cui la maggioranza del popolo aderiva: libertà, democra-zia, individualismo, uguaglianza dinanzi alla legge, costituzio-nalismo, proprietà privata. Alla fine del xx secolo, en t rambe le componen t i dell ' identità americana sono state sottoposte a un massiccio e sostenuto attacco da par te di un r idot to ma in-fluente g r u p p o di intellettuali e pubblicisti. In n o m e del plura-lismo culturale essi h a n n o attaccato l ' identificazione degli Sta-ti Uniti con la civiltà occidentale, negato l'esistenza di u n a co-m u n e cultura americana e promosso lo sviluppo di g ruppi ed identità razziali, etniche e particolaristiche in generale. H a n n o denuncia to , secondo le parole di u n o di loro, il «sistematico pregiudizio a favore della cultura europea e dei suoi derivad» in campo pedagogico e «il domin io della visione monocul tura-le euro-americana». I fautori del pluralismo culturale sono, co-me ha af fermato Arthur M. Schlesinger, Jr., «molto spesso dei separatisti etnocentrici i quali nella tradizione occidentale n o n vedono altro che i crimini perpetrat i dall 'Occidente». La loro «inclinazione è quella di affrancare gli americani dalla pecca-minosa tradizione europea e di cercare redendve infusioni di culture non occidentali»."

Questa tendenza multiculturale si manifestò anche in una se-rie di atti legislativi susseguenti alle leggi sui diritti civili degli anni Sessanta, e negli anni Novanta l 'amministrazione Clinton ha fatto del l ' incoraggiamento alla diversità u n o dei suoi slogan principali. Il contrasto rispetto al passato è quanto mai striden-te. I Padri fondator i cons iderarono la diversità u n a realtà di fatto e un problema, da cui il mot to nazionale epluribus unum, scelto da un comitato del Congresso cont inentale costituito da Benjamin Franklin, Thomas Jefferson e J o h n Adams. Successi-vi leader politici anch'essi timorosi dei pericoli insiti nella di-versità razziale, etnica, economica e culturale (che, di fatto,

8 Arthur M. Schlesinger, Jr., The Disuniting of America: Rejlections on a Multi-cultural Society, New York, W. W. Norton, 1992, pp. 66-67, 123.

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produssero la più grande guer ra del secolo che va dal 1815 al 1914), r isposero al l 'appello all '«unificazione» e fecero della p romozione del l 'uni tà nazionale il loro principale obietdvo. «L'unico m o d o assolutamente sicuro di por tare la nazione allo sfascio, di negarle qualsiasi possibilità di cont inuare a esistere come nazione», ammonì T h e o d o r e Roosevelt, «sarebbe quello di permet te r le di diventare un coacervo di litigiose naziona-lità».9 Negli anni Novanta, tuttavia, i governanti degli Stati Uni-ti non solo h a n n o permesso che ciò accadesse, ma h a n n o addi-rit tura assiduamente incoraggiato la diversità, anziché l 'unità, del popolo da essi governato.

I leader di altri paesi hanno a volte tentato, come abbiamo vi-sto, di disconoscere il patr imonio culturale del proprio paese e di assumere l ' identità di un 'a l t ra civiltà. Fino a oggi h a n n o sem-pre fallito, riuscendo a creare soltanto dei paesi divisi e schizo-frenici. Allo stesso modo, i fautori americani del pluralismo cul-turale rifiutano il patr imonio di civiltà del proprio paese, ma an-ziché tentare di identificare gli Stati Uniti con un'al tra civiltà, es-si desiderano creare un paese composto da più civiltà, vale a di-re un paese che non appart iene a nessuna civiltà e privo di un suo nucleo culturale costitutivo. La storia dimostra che nessuna nazione così costruita può durare a lungo come società coesa. Se gli Stati Uniti diventassero un paese costituito da più civiltà, non sarebbero più gli Stati Uniti, bensì le Nazioni Unite.

I fautori del pluralismo culturale h a n n o anche messo in di-scussione l 'e lemento centrale del credo americano, sostituendo ai diritti degli individui i diritti dei gruppi , gener icamente defi-niti in termini di etnia, sesso e inclinazione sessuale. Questo cre-do, a f fe rmò Gunnar Myrdal negli anni Quaranta, con fe rmando le impressioni di altri osservatori stranieri f ino a Hector St. J o h n de Crèvecoeur e Alexis de Tocqueville, è stato «il cemento che ha tenuto in piedi la struttura di questa grande e disparata na-zione». «Il nostro destino in quanto nazione», aggiunse Richard Hofstader, «è stato di non avere ideologie se non quella di esse-re un unico popolo».10 Cosa accadrebbe d u n q u e agli Stati Uniti

9 Cit. in Schlesinger, Disuniting of America, p. 118. 10 Gunnar Myrdal, Alt American Dilemma, New York, Harper 8c Bros., 1944, voi. I, p. 3; Richard Hofstadter, cit. in Hans Kohn, American Nationalism: An Interpretative Essay, New York, Macmillan, 1957, p. 13.

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se la sua ideologia venisse disconosciuta da una par te significa-tiva dei suoi abitanti? Il desdno del l 'Unione Sovietica, l 'altro g rande paese la cui unità, ancor più di quella degli Stati Uniti, fu caratterizzata in termini ideologici, è un esempio i l luminante per gli americani. «Il totale fal l imento del marxismo ... e la drammatica dissoluzione del l 'Unione Sovietica», sostiene il filo-sofo giapponese Takeshi Umehara , «non sono altro che i pre-cursori del crollo del liberalismo occidentale, la principale cor-ren te del l 'epoca moderna . Lungi dall 'essere l 'alternativa al marxismo e l 'ideologia dominante dell 'epoca che segna la fine della storia, il liberalismo sarà la prossima torre a cadere»." In u n ' e r a in cui i popoli di tutto il m o n d o si definiscono in termi-ni culturali, quale posto p u ò esserci per una società priva di un suo nucleo culturale e definita unicamente da un credo politi-co? I principi politici sono un fondamen to t roppo instabile su cui poter costruire u n a comuni tà durevole. In un m o n d o di ci-viltà variegate fondato sulla cultura, gli Stati Uniti po t rebbero semplicemente essere l 'ult imo anomalo residuo di un fatiscente m o n d o occidentale fondato sull'ideologia.

Il r ifiuto del c redo e della civiltà occidentale significa la fine degli Stati Uniti d 'America così come oggi li conosciamo. E si-gnifica anche la fine della civiltà occidentale. Se gli Stati Unit i si deoccidentalizzassero, l 'Occidente sarebbe r idot to alla sola Europa e a u n o sparuto g ruppe t to di paesi australi scarsamen-te popolat i da colonizzatori europei . Senza gli Stati Uniti l 'Oc-c idente d iverrebbe un minuscolo e sempre più esiguo seg-m e n t o della popolazione mondia le , conf inato sua su u n a pic-cola e marginale penisola al l 'estremità del con tenen te eura-siatico.

Lo scontro tra i fautori del pluralismo culturale e i difensori della civiltà occidentale e del credo americano è, secondo Ja-mes Kurth, «il vero scontro» in atto nella componen te america-na della civiltà occidentale.12 Gli americani non possono evitare di porsi questa domanda: siamo un popolo occidentale o siamo qualcos'altro? Il fu tu ro degli Stati Uniti e del l 'Occidente di-

11 Takeshi Umehara, «Ancient Japan Shows Post-Modernism the Way», in «New Perspectives Quarterly», n. 9 (Primavera 1992), p. 10. 12 James Kurth, «The Real Clash», in «National Interest», n. 37 (Autunno 1994), pp. 3-15.

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p e n d e r à dalla volontà degli americani di r iconfermare la pro-pria appar tenenza alla civiltà occidentale. Sul p iano in terno, ciò significa respingere i canti di sirena disgregatori dei paladi-ni del pluralismo culturale; su quello internazionale, respinge-re i vaghi e illusori appelli a identificare gli Stati Uniti con l'A-sia. Qualsiasi legame economico possa stabilirsi tra le due spon-de del Pacifico, il divario culturale di f ondo che separa la so-cietà americana da quella asiatica preclude ogni possibilità di convivenza comune . Gli americani f anno cul turalmente par te della famiglia occidentale, un rappor to che i fautori del plura-lismo culturale possono minare e finanche distruggere, ma che non possono sostituire. Q u a n d o gli americani cercano le pro-prie radici culturali, le trovano in Europa.

In questi anni ha preso vita un nuovo dibattito sulla na tura e sul f u tu ro del l 'Occidente. L'esistenza di questa realtà è stata più volte riconosciuta, ed è r inato l ' interesse per tutto quan to potesse contr ibuire a preservarne l'esistenza. Tut to è na to in par te dall 'esigenza di allargare la più impor tante organizzazio-ne occidentale, la Nato, ai paesi occidentali dell'Est, e in par te dalle p ro fonde divisioni sorte a l l ' in terno del l 'Occidente su co-me r i spondere al crollo della Jugoslavia. Rispecchiò altresì, in termini più generali, un 'ans ia per la fu tu ra unità dell 'Occiden-te in assenza di u n a minaccia sovietica, soprattutto nei termini di un impegno americano in Europa. Via via che interagiscono più s t re t tamente con società n o n occidentali in progressiva espansione, le società occidentali d iventano sempre più co-scienti del nucleo culturale c o m u n e che le unisce. I leader di en t r ambe le sponde dell 'Atlantico h a n n o sottolineato la neces-sità di in fondere nuovo vigore alla comuni tà atlantica. Alla fine del 1994 e nel 1995 i ministri della Difesa tedesco e bri tannico, i ministri degli Esteri francese e americano, Henry Kissinger e varie altre illustri personalità h a n n o tutti sposato questa causa. La loro opin ione è stata riassunta dal ministro della Difesa bri-tannico, Malcom Rifkind, il quale nel novembre del 1994 af-f e rmò che «una comuni tà atlantica» dovesse poggiare su quat-tro pilastri: difesa e sicurezza incarnate nella Nato; «una fede c o m u n e nello stato di diritto e nella democrazia parlamenta-re»; «capitalismo liberale e libero scambio»; e «il c o m u n e pa-t r imonio culturale europeo derivante dalla Grecia e da Roma, e quindi dal Rinascimento, e incarnato nella comune civiltà,

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nei valori e nelle credenze comuni del nostro secolo».13 Nel 1995, la Commissione europea lanciò un proget to volto a «rav-vivare» i rapport i tra le due sponde dell 'Atlantico e che por tò alla f i rma di un grande patto tra Unione europea e Stati Uniti. Con temporaneamen te , molti leader europei del m o n d o politi-co ed economico auspicarono la creazione di un ' a r ea transa-tlantica di libero scambio. Sebbene l'Afl-Cio14 si fosse opposta alla creazione del Nafta e ad altre misure di liberalizzazione commerciale, i loro dirigenti accolsero con favore tale accordo, che non minacciava posti di lavoro americani esponendol i alla competizione dei paesi con manodope ra a basso costo. Fu ap-poggiato dai conservatori sia europei (Margaret Thatcher ) sia americani (Newt Gingrich), ol treché dai leader di governo del Canada e da altri dirigenti britannici.

L 'Occidente , come abbiamo visto nel capitolo 2, ha vissuto una pr ima fase europea di sviluppo ed espansione dura ta di-versi secoli, seguita nel xx secolo da u n a seconda fase america-na. Se Europa e Nord America sapranno rigenerarsi moral-mente , rafforzare e sfrut tare la propria comunanza culturale e sviluppare intensi legami di integrazione economica e politica in aggiunta a quelli esistenti nel campo della sicurezza, esse po-t rebbero dare vita ad una terza fase euroamer icana di prospe-rità economica e prestigio politico occidentale. Una significati-va integrazione politica po t rebbe bilanciare in qualche misura il declino relativo del l 'Occidente per quan to concerne crescita demografica, produzione economica e potenziale militare, e rivitalizzarne il potere agli occhi dei leader delle altre civiltà. «Con il suo potere commerciale», ha ammoni to gli asiatici il p r imo ministro Mahathir, «la confederazione Ue-Nafta potreb-be det tare legge al resto del mondo».1 ' L 'un ione politica ed economica del l 'Occidente, tuttavia, d ipende soprattut to dalla volontà o m e n o degli Stati Uniti di r iaffermare la propr ia iden-tità di nazione occidentale e di definire il propr io ruo lo inter-nazionale di leader della civiltà occidentale.

13 Malcom Rifkind, discorso alla Pilgrim Society, Londra, 15 novembre 1994, New York, British Information Services, 16 novembre 1994, p. 2. 14 Afl: American Federation of Labour. Ciò: Congress of Industriai Organi-zations [n.d.t.]. 15 «International Herald Tribune», 23 maggio 1995, p. 13.

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L'Occidente nel mondo

Un m o n d o nel quale le identità culturali - etniche, naziona-li, religiose, di civiltà - h a n n o un ruolo fondamenta le e in cui le affinità e differenze culturali de t e rminano alleanze, antago-nismi e or ientament i politici degli stati, presenta tre implica-zioni generali per l 'Occidente nel suo complesso e per gli Stati Uniti in particolare.

1 ) Gli stadsti possono modificare in modo costruttivo la realtà solo se la riconoscono e la comprendono. Il peso crescente che la cultura sta acquisendo sullo scenario politico mondiale, il potere emergente delle civiltà non occidentali e la crescente espansione culturale di tali società è stata ampiamente riconosciuta nel mon-do non occidentale. I leader europei hanno preso coscienza del-le forze culturali che uniscono e dividono i popoli. Le élite ame-ricane, viceversa, hanno avuto difficoltà ad accettare e venire a patti con queste nuove realtà. Le amministrazioni Bush e Clinton hanno sostenuto l 'unità di paesi multiculturali quali Unione So-vietica, Jugoslavia, Bosnia e Russia nel vano tentativo di ostacolare le possenti forze etniche e culturali che spingono alla disgrega-zione. H a n n o promosso piani di integrazione economica tra ci-viltà diverse che sono o di nessun rilievo, come l'Apec, o che im-plicano imprevisti costi politici ed economici, come il Nafta e quello con il Messico. Hanno tentato di instaurare stretti rappor-ti con gli stati guida di altre civiltà sotto forma di «partnership glo-bale» con la Russia o di «collaborazione costruttiva» con la Cina, a dispetto dei naturali conflitti di interesse esistenti con questi paesi. Al tempo stesso, l 'amministrazione Clinton non è riuscita a coinvolgere appieno Mosca nel processo di pace in Bosnia, no-nostante il grande interesse della Russia in quella guerra in qua-lità di stato guida della civiltà ortodossa. Perseguendo la chimera di un paese multiculturale, l 'amministrazione Clinton ha negato l 'autodeterminazione alle minoranze serbe e croate, contribuen-do alla nascita nei Balcani di un paese islamista monoparti t ico al-leato dell 'Iran. Inoltre, il governo americano ha appoggiato l'as-servimento dei musulmani al dominio ortodosso, sostenendo che «non c'è dubbio che la Cecenia faccia parte della Federazione russa».

16 Richard Holbrooke, «America: A European Power», in «Foreign Affairs», n. 74 (Marzo-Aprile 1995), p. 49.

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Sebbene gli europei r iconoscano p ienamente la na tura so-stanziale della linea di demarcazione tra Cristianesimo occi-dentale da un lato e Ortodossia e Islam dall 'altro, gli Stad Uni-ti, ha a f fermato il suo Segretario di Stato, «non r iconoscono al-cuna divisione di fondo tra le aree cattolica, ortodossa e islami-ca dell 'Europa». Quant i non r iconoscono divisioni di fondo , tuttavia, sono destinati a restarne vitdme. L'amministrazione Clinton è apparsa in un pr imo m o m e n t o come ignara dei mu-tati equilibri di forze tra gli Stati Uniti e le società est-asiatiche ed ha perciò più volte proclamato in materia di scambi com-merciali, diritti umani , proliferazione nucleare e altro ancora, obiettivi che non è stata poi in grado di realizzare. Nel com-plesso, il governo statunitense ha avuto grandissime difficoltà ad adattarsi a un ' epoca in cui lo scenario politico mondia le è de te rmina to dai mod ondosi delle varie culture e civiltà.

2) La politica estera americana ha pagato la propr ia rilut-tanza ad abbandonare , modificare e a volte finanche a riconsi-derare le strategie politiche adottate per far f ron te alla Guerra f redda . Per alcuni ciò ha significato cont inuare a vedere u n a ri-sorta Unione Sovietica come u n a potenziale minaccia. Più in generale, c 'è stata una diffusa tendenza a santificare le alleanze e gli accordi sul controllo degli a rmament i stipulati al l 'epoca della Guerra f redda: la Nato deve restare così com'è; il Trattato sulla sicurezza nippo-americano è di importanza fondamenta le per la sicurezza est-asiatica; il Trattato Abm è inviolabile; il Trat-tato Cfe va rispettato. Ovviamente, nessuno di questi o altri la-sciti della Guerra f r edda va abbandona to di p u n t o in bianco, ma n e p p u r e è necessariamente negli interessi degli Stati Uniti o del l 'Occidente che essi vengano perpetuat i esat tamente co-me sono. Le realtà di un m o n d o a più civiltà suggeriscono che la Nato dovrebbe aprire le por te ad altre società occidentali che desiderino parteciparvi e dovrebbe riconoscere l 'insensa-tezza di avere al propr io in te rno due stati che sono u n o il peg-giore nemico dell 'altro, e che non h a n n o alcuna affinità cultu-rale con tutti gli altri membri . Un trattato Abm pensato in pie-na era Guerra f redda con lo scopo di a f fermare il principio di reciproca vulnerabilità delle società sovietica e amer icana e d u n q u e di impedire una guer ra nucleare tra Urss e America pot rebbe pregiudicare la capacità degli Stati Uniti e di altre so-cietà di proteggersi da imprevedibili minacce o attacchi nu-

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cleari sferrati da movimenti terroristici o da volubili dittatori. Il trattato nippo-americano sulla sicurezza ha contr ibuito a sco-raggiare un 'aggressione sovietica al Giappone, ma quale scopo è chiamato a servire nel l 'epoca post-Guerra fredda? Contenere e tenere a f r eno la Cina? Rallentare il processo di a l l ineamento alla Cina da par te del Giappone? Prevenire un 'u l ter iore milita-rizzazione del Giappone? Dubbi sempre maggiori vengono sol-levati in Giappone circa la presenza militare americana sul pro-prio terri torio e negli Stati Uniti sul l 'opportuni tà di un impe-gno, non ricambiato, a d i fendere il Giappone. L 'accordo sulle forze convenzionali in Europa mirava a contenere il conf ron to tra Nato e Patto di Varsavia in Europa centrale: un conf ron to che ormai non esiste più. Principale scopo del l 'accordo è oggi quello di creare difficoltà alla Russia nel l 'a f f rontare le minacce alla sicurezza dei propr i confini meridionali da parte delle po-polazioni musulmane.

3) La diversità di culture e civiltà contrasta con la certezza occidentale - e americana in particolare - della rilevanza uni-versale della cultura occidentale. Una certezza espressa sia a li-vello espositivo che normativo. Nel pr imo caso, sostiene che le popolazioni di tutte le società des iderano adottare valori, isti-tuzioni e prat iche occidentali. Laddove sembrano non manife-stare questo desiderio e restare fedeli alle proprie culture tra-dizionali, esse sono vittime di u n a «falsa coscienza» paragona-bile a quella rilevata dai marxisti tra i proletari che sostenevano il capitalismo. A livello normativo, il credo universalista occi-dentale a f fe rma che i popoli di tutto il m o n d o dovrebbero ab-bracciare cultura, valori e istituzioni occidentali pe rché essi rappresentano la fo rma di pensiero più alta, più illuminata, più liberale, più razionale, più m o d e r n a e più civile di tutta l 'uma-nità.

Nel l ' emergente m o n d o di conflittualità etnica e di scontri tra civiltà, la fede occidentale nella validità universale della pro-pria cultura ha tre difetti: è falsa; è immorale; è pericolosa. La sua n o n veridicità costituisce la tesi centrale di questo libro, una tesi ben riassunta da Michael Howard: «la diffusa convin-zione occidentale secondo cui la diversità culturale sia u n a cu-riosità della storia sempre più velocemente erosa dallo sviluppo di u n a c o m u n e cultura mondiale anglofona ed orientata a Oc-cidente, che modella tutti i nostri valori di f ondo ... è semplice-

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mente infondata».1 ' Ch iunque non sia ancora convinto della saggezza delle osservazioni di sir Michael vive in un m o n d o comple tamente estraneo a quello descritto in questo libro.

La convinzione che i popol i non occidentali dovrebbero adot tare cultura, valori e istituzioni occidentali è immorale per le conseguenze che essa implicherebbe. Il dominio quasi uni-versale del potere eu ropeo nel tardo Ot tocento e quello plane-tario degli Stati Uniti nel tardo Novecento h a n n o diffuso mol-tissimi aspetti della civiltà occidentale in tutto il mondo . L'uni-versalismo europeo, tuttavia, non esiste più. L 'egemonia ame-ricana si sta r iducendo, se non altro perché non più necessaria a proteggere gli Stati Uniti da una minaccia militare sovietica. La cultura, come abbiamo già detto, segue il potere. Se le so-cietà non occidentali t o rne ranno un giorno ad essere modella-te sulla cultura occidentale, ciò accadrà solo come conseguen-za di un 'espans ione e dispiegamento del potere occidentale. L ' imperial ismo è l ' inevitabile corollario dell 'universalismo. Inoltre, in quanto civiltà matura l 'Occidente non ha più il di-namismo economico o demograf ico necessario per imporre la propr ia volontà ad altre società, senza contare che qualsiasi tentativo in tal senso è contrar io ai valori occidentali di auto-determinazione e democrazia. Via via che la civiltà asiatica e quella musulmana inizieranno ad af fermare con sempre mag-gior forza il carattere universale delle proprie culture, gli occi-dentali finiranno col rendersi conto sempre più chiaramente del rappor to che esiste tra universalismo e imperialismo.

L'universalismo occidentale, infine, è pericoloso per il mon-do perché pot rebbe portare ad una grande guer ra tra stati gui-da di civiltà diverse ed è pericoloso per l 'Occidente perché da questa guer ra pot rebbe uscire sconfitto. Con il crollo dell 'U-n ione Sovietica, gli occidentali vedono la propria civiltà in una posizione di incontrastato dominio, ment re le società asiatiche, musu lmane e altre, oggi più deboli, s tanno iniziando ad acqui-sire forza, e po t rebbero d u n q u e essere indotte ad applicare la logica di Bruto:

17 Michael Howard, America and the World, St. Louis, Washington University, the Annual Lewin Lecture, 5 aprile 1984, p. 6.

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Le legioni son più che al completo, la nostra causa matura. Il nemico ogni giorno s'ingrandisce; noi, giunti all'apice, siamo awiad al declino. C'è negli affari degli uomini un flusso e riflusso di marea, presa al suo apice, conduce alla fortuna; intermessa, tutto il viaggio della vita umana è costretto in secche e in pene. Sopra un simile gondio mare noi ora galleggiamo, e dobbiamo prendere la corrente quando giova, o perdere il carico che abbiamo rischiato.

Questa logica, tuttavia, causò la sconfitta di Bruto a Filippi, e per l 'Occidente sarebbe p r u d e n t e non tentare di arrestare il processo di mu tamen to degli equilibri di potere ma di impara-re a navigare nelle secche, patire le pene , modera re i carichi e salvaguardare la propria cultura.

Tut te le civiltà attraversano processi simili di nascita, espan-sione e declino. L 'Occidente si differenzia dalle altre civiltà non per il m o d o in cui si è sviluppato, ma per la peculiarità dei propr i valori e delle proprie istituzioni. Queste c o m p r e n d o n o in particolare il cristianesimo, il pluralismo, l ' individualismo e lo stato di diritto, che ha permesso al l 'Occidente di inventare la moderni tà , espandersi in tutto il m o n d o e suscitare l'invidia di altre società. Nel loro complesso, queste caratteristiche sono peculiari del l 'Occidente . L 'Europa, ha a f fe rmato Ar thur M. Schlesingerjr . , è «la fonte, l 'unica fonte» degli «ideali di libertà individuale, democrazia politica, stato di diritto, diritti umani , libertà culturale ... Tutti questi sono ideali europei, non asiatici, africani, né mediorientali , se non per adozione».18 Essi f a n n o della civiltà occidentale qualcosa di unico e la r e n d o n o d u n q u e impor tante non perché universale ma perché unica. La princi-pale responsabilità dei leader occidentali, dunque , n o n è ten-tare di r imodellare altre civiltà a immagine e somiglianza del-l 'Occidente - cosa che va al di là delle loro sempre più r idotte capacità - bensì preservare, proteggere e r innovare le qualità peculiari della civiltà occidentale. Essendo il più potente tra i paesi occidentali, questa responsabilità ricade in grandissima parte sugli Stati Uniti d 'America.

18 Schlesinger, Disuniting of America, p. 127.

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Per preservare la civiltà occidentale nonostante il decl inante potere del l 'Occidente, è negli interessi degli Stati Uniti e dei paesi europei:

• creare u n a maggiore integrazione politica, economica e mili-tare, e coordinare le rispettive politiche in m o d o da impedire agli stati di altre civiltà di sfrut tare le differenze; • incorporare ne l l 'Unione europea e nella Nato gli stati occi-dentali del l 'Europa centrale, ossia i paesi del Visegrad, le re-pubbl iche baltiche, la Slovenia e la Croazia; • incoraggiare 1'«occidentalizzazione» dell 'America latina e, per quan to possibile, l 'a l l ineamento dei paesi lat inoamericani al l 'Occidente; • f r enare lo sviluppo della potenza militare, convenzionale e non , dei paesi islamici e sinici; • rallentare l ' a l lontanamento del Giappone dal l 'Occidente e la sua politica di avvicinamento alla Cina; • accettare la Russia come stato guida dell 'Ortodossia e come grande potenza regionale con interessi legittimi alla sicurezza dei propr i confini meridionali ; • man tene re la superiorità militare e tecnologica occidentale sulle altre civiltà; • infine, cosa più importante , r iconoscere che in un m o n d o composto da più civiltà, l ' in tervento occidentale negli affari delle altre civiltà è probabi lmente la fonte più pericolosa di in-stabilità e di potenziale conflit to planetario.

All 'epoca della Guerra f r edda gli Stad Uniu si consumarono in es tenuand dibattid su quale fosse la strada migliore da segui-re per la polidca estera americana. Nell 'epoca attuale, tuttavia, gli Stati Unid non possono né dominare né evitare il mondo . Né l ' internazionalismo né isolazionismo, né il muldlateralismo né l 'unilateralismo possono ben servire i suoi interessi, che sa-r a n n o protetti al meglio ignorando gli opposti estremismi e adot tando invece u n a polidca di stretta cooperazione con i part-ner europei allo scopo di proteggere e promuovere gli interessi e i valori peculiari della civiltà occidentale.

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Guerre di civiltà e ordine delle civiltà

Una guer ra planetaria che coinvolga gli stati guida delle maggiori civiltà del m o n d o è al tamente improbabile ma non impossibile. Un simile conflitto, è stato qui sostenuto, po t rebbe scaturire dall 'escalation di una guer ra di faglia tra g ruppi ap-par tenent i a civiltà diverse, presumibi lmente tra musulmani e non musulmani . Le probabilità di escalation aumen tano se più aspiranti stati guida musulmani c o m p e t o n o nel fo rn i re assi-stenza ai propr i correligionari belligeranti, ment re vengono ri-dotte dall ' interesse dei paesi fratelli di secondo e terzo livello a non farsi coinvolgere eccessivamente nel conflit to in atto. Un 'a l t ra e più pericolosa causa di guer ra globale tra civiltà è il mutare degli equilibri di potere tra le diverse civiltà e i rispetti-vi stati guida. Se avrà seguito, l'ascesa della Cina e la crescente spavalderia culturale di questa «protagonista assoluta della sto-ria umana» p r o d u r r a n n o nei primi anni del xxi secolo tensioni t r emende sulla stabilità internazionale. L 'emergere della Cina quale potenza dominan te in Asia orientale e sudorientale an-drebbe contro gli interessi americani così come questi sono sta-ti s toricamente concepiti.19

Alla luce degli interessi americani, quali sviluppi po t rebbe avere u n a guer ra tra Stati Uniti e Cina? Immaginiamo di tro-varci ne l l ' anno 2010. Le t ruppe americane sono rientrate dalla Corea, che è stata riunificata, e la presenza militare degli Stati Uniti in Giappone si è fo r temente ridotta. Taiwan e Repubblica popolare cinese h a n n o raggiunto un accordo in base al quale Taiwan mant iene gran parte della propr ia ind ipendenza de fac-to, ma riconosce esplicitamente la sovranità di Pechino e grazie al sostegno cinese è stata ammessa alle Nazioni Unite sulla fal-sariga di quan to accaduto con Ucraina e Bielorussia nel 1946. Lo s f ru t tamento delle risorse petrolifere nel Mar Cinese Meri-dionale ha proceduto a p ieno ri tmo, in gran parte sotto l 'egida della Cina ma - in alcune aree sotto controllo vietnamita - da parte di società americane. Sospinta dalla riconquistata capa-cità di proiezione al l 'esterno del propr io potere, la Cina an-nuncia che stabilirà il p ieno controllo su tutto il Mar Cinese

19 «Defense Planning Guidance for the Fiscal Years 1994-1999», bozza di programma, 18 febbraio 1992; «New York Times», 8 marzo 1992, p. 14.

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Meridionale, sul quale ha sempre rivendicato la propr ia sovra-nità. I vietnamiti si o p p o n g o n o e scoppia un conflitto tra uni tà navali militari cinesi e vietnamite. I cinesi, bramosi di vendicare l 'umiliazione subita nel 1979, invadono il Vietnam. I vietnami-ti ch i edono aiuto agli Stati Uniti. I cinesi ammoniscono gli americani a starsene buoni . Il Giappone e le altre nazioni asia-tiche tergiversano. Gli Stati Uniti p roc lamano di non poter ac-cettare la conquista del Vietnam da parte della Cina, invocano l 'adozione di sanzioni economiche cont ro i cinesi e inviano u n a delle poche squadre di portaerei rimaste nel Mar Cinese Meridionale. I cinesi denunc iano la cosa come una violazione delle propr ie acque territoriali e lanciano un attacco aereo cont ro la flotta navale americana. I tentativi del segretario ge-nerale delle Nazioni Unite e del p r imo ministro giapponese di negoziare u n a tregua falliscono e il conflit to attecchisce in qualche altra parte dell'Asia orientale. Il Giappone vieta l 'uso delle basi militari americane situate sul propr io terri torio per interventi cont ro la Cina, gli Stati Uniti ignorano il divieto, il Giappone annuncia la propr ia neutrali tà e mette le basi in qua-rantena . I sottomarini e gli aerei operant i sia da Taiwan sia dal-la Rpc provocano ingenti danni alle navi e alle basi americane in Asia orientale. Nel f ra t tempo, l 'esercito cinese entra a Hanoi e occupa un ' ampia parte del Vietnam.

Poiché sia la Cina che gli Stati Uniti possiedono missili a te-stata nucleare capaci di raggiungere l 'altrui terri torio, nelle pr ime fasi del conflitto si verifica un' implici ta astensione co-m u n e dal ricorso a tali armi. La paura di un simile attacco tut-tavia esiste, ed è par t icolarmente forte negli Stati Uniti. Ciò in-duce molti americani a cominciare a chiedersi perché mai deb-bano subire tale minaccia. Che differenza fa se la Cina control-la il Mar Cinese Meridionale, il Vietnam o anche tutto il Sud-Est asiatico? L'opposizione alla guer ra è par t icolarmente forte negli stati a p redominanza ispanica del sud-ovest degli Stati Uniti, dove popoli e governi d icono «questa non è la nostra guerra» e ten tano di emulare il model lo del New England nel-la guer ra del 1812. Mentre i cinesi consolidano le vittorie ini-ziali in Asia orientale, l 'opposizione americana comincia a orientarsi nella direzione che il Giappone sperava avrebbe pre-so nel 1942: il prezzo imposto per sconfiggere questa manife-stazione di potere egemonico è t roppo alto; accontent iamoci

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di o t tenere u n a fine negoziata agli sporadici conflitti, alla «guerra finta» a t tualmente in corso nel Pacifico occidentale.

Nel f ra t tempo, tuttavia, la guer ra sta avendo serie ripercus-sioni sui maggiori stati delle altre civiltà. Essendo la Cina im-pegnata in Asia orientale, l ' India coglie l 'oppor tuni tà per lan-ciare un devastante attacco contro il Pakistan nel l ' intento di di-s t ruggerne l 'arsenale militare sia nucleare sia convenzionale. L ' India ot t iene un iniziale successo, ma subito d o p o scatta l'al-leanza militare tra Pakistan, Iran e Cina, e l ' I ran giunge in aiu-to del Pakistan con forze militari m o d e r n e e sofisticate. L 'India resta int rappolata negli scontri con le t ruppe iraniane e i guer-riglieri pakistani provenient i da svariati g rupp i etnici. Sia il Pakistan sia l ' India cercano il sostegno degli stati arabi - l 'In-dia agi tando lo spettro del domin io i raniano in Asia sudorien-tale, ma gli iniziali successi della Cina cont ro gli Stati Uniti h a n n o suscitato nelle società musu lmane la nascita di grandi movimenti antioccidentali . U n o d o p o l 'altro, i pochi governi filoccidentali rimasti nei paesi arabi e in Turchia vengono ro-vesciati da movimenti islamisti alimentati da schiere di giovani. L 'onda ta antioccidentale provocata dalla debolezza occidenta-le por ta a un massiccio attacco arabo cont ro Israele che la ( t roppo ridotta) Sesta Flotta amer icana non è in grado di con-trastare.

Cina e Stati Uniti ten tano di o t tenere l 'appoggio di altri sta-ti important i . Man m a n o che la Cina ot t iene nuovi successi mi-litari, il Giappone comincia nervosamente a orientarsi a suo fa-vore, modi f icando la propr ia posizione da una neutrali tà for-male a u n a neutrali tà filocinese e infine cedendo alle richieste cinesi e p r e n d e n d o par te al conflitto. Le forze giapponesi oc-cupano le restanti basi amer icane in Giappone e gli Stati Uniti evacuano in fret ta e furia le propr ie t ruppe . L'America attua u n blocco militare del Giappone , con le flotte amer icana e giapponese impegnate in sporadiche schermaglie nel Pacifico. All'inizio della guer ra la Cina aveva proposto un patto di reci-proca sicurezza alla Russia (una vaga reminescenza del pat to Hider-Stalin). I successi cinesi, tuttavia, sortiscono sui russi l'ef-fetto esat tamente opposto di quello avuto sul Giappone: la pro-spettiva di una vittoria cinese e del suo totale dominio dell'Asia orientale terrorizza Mosca. La Russia si muove in direzione an-ticinese e comincia a r inforzare le propr ie t ruppe in Siberia,

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ma i numerosi coloni cinesi residenti in Siberia interfer iscono con tali movimenti. A questo p u n t o la Cina interviene militar-men te per proteggere i propr i compatrioti e occupa Vladivo-stok, la valle del fiume Amur e altre importanti aree della Sibe-ria centrale. Con l'allargarsi del conflitto fra t ruppe russe e ci-nesi in Asia centrale, scoppiano insurrezioni in Mongolia, pre-ceden temente posta sotto «protettorato» cinese.

L'accesso e il controllo del petrolio è un fat tore di impor-tanza fondamenta le per tutti i paesi belligeranti. Nonostante i grossi investimenti sull 'energia nucleare, il Giappone d ipende ancora fo r temente dalle importazioni di petrolio e ciò rafforza la propr ia inclinazione a schierarsi con la Cina per assicurarsi così un costante flusso di petrolio dal Golfo Persico, dall ' Indo-nesia e dal Mar Cinese Meridionale. Nel corso della guerra , gli stati arabi finiscono sotto il control lo dei militanti islamici. L 'Occidente vede ridursi il flusso di petrolio proveniente dal Golfo Persico e diventa perciò sempre più d ipenden te dalle ri-sorse petrolifere russe, caucasiche e centroasiatiche. Intensifica d u n q u e gli sforzi per attirare la Russia dalla propr ia par te e ap-poggia in tal senso il tentativo di Mosca di es tendere il propr io controllo sui paesi musulmani ricchi di petrolio situati lungo i propr i confini meridionali .

Nel f ra t tempo, gli Stati Uniti cercano febbr i lmente di mobi-litare il p ieno sostegno degli alleati europei , i quali, da par te lo-ro, pu r intensificando il p ropr io appoggio diplomatico ed eco-nomico, sono riluttanti a farsi coinvolgere mili tarmente. Cina e Iran, tuttavia, t emono che i paesi occidentali finiranno con lo schierarsi a fianco degli Stati Uniti così come finirono col fare con Francia e Gran Bretagna nelle due ultime guer re mondia-li. Per evitare che ciò accada, dispiegano segretamente dei mis-sili nucleari a raggio in te rmedio in Bosnia e Algeria e quindi ammoniscono le potenze eu ropee a restare fuor i dal conflitto. Come sempre era accaduto (eccezion fatta per il Giappone) con i tentativi cinesi di int imorire altri paesi, l 'azione sortisce l 'effet to esat tamente opposto a quello desiderato. I servizi se-greti americani intercet tano e riferiscono la notizia del dispie-gamen to di missili, e il Consiglio Nato ne reclama l ' immediata r imozione. Prima che la Nato possa agire, tuttavia, la Serbia, desiderosa di rivendicare il propr io ruolo storico di difensore del Cristianesimo contro i turchi, invade la Bosnia, subito imi-

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tata dalla Croazia. I due paesi si spartiscono la Bosnia, si im-possessano dei missili e p rocedono al comple tamento della pu-lizia etnica che erano stati costretti a in te r rompere quindici an-ni prima. Albania e Turchia cercano di venire in aiuto dei bo-sniaci; Grecia e Bulgaria invadono la Turchia europea e il pa-nico si d i f fonde a Istanbul con i turchi che fuggono al di là del Bosforo. Nel f ra t tempo, un missile a testata nucleare lanciato dall'Algeria esplode alla periferia di Marsiglia; la Nato r isponde con devastanti raid aerei cont ro obiettivi nordafr icani .

Stati Uniti, Europa, Russia e India si sono d u n q u e ritrovate coinvolte in una guer ra planetaria cont ro Cina, Giappone e gran par te del m o n d o islamico. Come finirebbe u n a guer ra si-mile? Ent rambe le parti d ispongono di un potenziale nucleare tale che l'utilizzo anche di una sua minima parte por terebbe al-la sostanziale distruzione di en t rambi gli schieramenti . Se la de te r renza sortisse i suoi effetti, la reciproca esaustione po-trebbe condur re a un armistizio negoziato. Ciò tuttavia n o n ri-solverebbe la quest ione fondamenta le del l 'egemonia cinese in Asia orientale. In alternativa, l 'Occidente pot rebbe tentare di sconfiggere la Cina r icor rendo alla forza militare convenziona-le. L 'al l ineamento del Giappone alla Cina, tuttavia, of f re a que-st 'ultima la protezione di un cordon sanilaire insulare che impe-disce agli Stati Uniti di utilizzare il propr io potenziale navale contro le città e le industrie cinesi dislocate lungo la costa. L'al-ternativa sarebbe avvicinarsi alla Cina da ovest. Lo scontro tra Russia e Cina porta la Nato ad accettare la Russia tra le sue fila e a cooperare con essa per con tenere le incursioni cinesi in Serbia, man tenere il controllo russo sui paesi centroasiatici mu-sulmani ricchi di gas e petrolio, p romuovere insurrezioni con-tro il governo cinese tra i tibetani, uiguri e mongoli , e mobili-tare e dispiegare gradualmente in Siberia forze russe e occi-dentali per l'assalto finale, attraverso la Grande Muraglia, a Pe-chino, in Manciuria e al cuore del terri torio han.

Qua lunque possa essere il risultato immediato di tale con-flitto planetario tra civiltà - reciproca devastazione nucleare, una fine negoziata risultato di u n a reciproca esaustione, o l'in-gresso delle forze russe e occidentali in Piazza T ienanmen - la conseguenza più generale e di lungo per iodo sarebbe presso-ché inevitabile: il drastico declino economico, demograf ico e militare di tutti i suoi principali protagonisti . Perciò, il potere

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globale che nel corso dei secoli era passato da Est a Ovest e sta-va quindi nuovamente ripassando da Ovest a Est, passerebbe ora da Nord a Sud. I grandi beneficiari della guerra di civiltà sa-rebbero le società che se ne sono tenute fuori . Con l 'Occiden-te, la Russia, la Cina e il Giappone in varie misure devastati, l ' India si vedrebbe la strada aper ta - ove mai fosse riuscita a sfuggire alla devastazione pur avendo partecipato al conflit to -per tentare di riforgiare il m o n d o secondo canoni induisti. Am-pi segmenti de l l 'op in ione pubblica americana contes tano il for te indebol imento degli Stati Uniti dovuto al miope orienta-m e n t o filoccidentale delle élite WASP (bianche e di origine an-glosassone) , e i leader ispanici salgono al potere sospinti dalla promessa di un aiuto di tipo Piano Marshall da par te dei fio-renti paesi lat inoamericani restati fuor i dal conflitto. L'Africa, da par te sua, ha ben poco da offr ire alla ricostruzione dell 'Eu-ropa, riversandole viceversa addosso orde di popoli socialmen-te mobili pront i a saccheggiarne le rovine. Con Cina, Giappo-ne e Corea devastate, anche in Asia il potere si sposta verso sud, con l ' Indonesia, rimasta neutrale nel conflitto, che diven-ta lo stato dominan te e determina , guidata dai propr i consi-glieri australiani, il corso degli avvenimenti dalla Nuova Zelan-da a est, alla Birmania e allo Sri Lanka a ovest, al Vietnam a nord . Ciò lascia presagire fu tur i conflitti con l ' India e una re-diviva Cina. In tutti i casi, il centro della ribalta politica mon-diale si sposterebbe a sud.

Se un simile scenario appare al lettore f rut to di pura e sem-plice fantasia, tanto meglio. E auspicabile che nessun altro sce-nario di guerra planetaria tra civiltà possa sembrare più realisti-co. L 'e lemento più plausibile e perciò più inquietante, tuttavia, è la causa scatenante della guerra: l ' intervento di u n o stato gui-da di una civiltà (gli Stati Unid) in una disputa tra lo stato guida di un 'a l t ra civiltà (Cina) e u n o stato m e m b r o di quella stessa ci-viltà (Vietnam). Per gli Stati Uniti quell ' intervento sarebbe ne-cessario per di fendere il diritto internazionale, repr imere l'ag-gressione, proteggere la libertà dei mari, preservare il propr io accesso al petrolio del Mar Cinese Meridionale e prevenire il dominio del Sud-Est asiatico da parte di un singolo paese. Agli occhi dei cinesi l ' intervento americano appar i rebbe come un inaccettabile ma dpico, arrogante tentativo da par te del princi-pale stato occidentale di umiliare e tiranneggiare la Cina, sobil-

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lare l 'opposizione nella legittima sfera di influenza cinese e ne-garle il ruolo che merita in campo internazionale.

In fu turo , dunque , per evitare lo scoppio di conflitti tra ci-viltà su scala mondiale è necessario che gli stati guida si asten-gano dall ' intervenire in conflitti interni ad altre civiltà. E que-sta u n a lezione che alcuni stati, in particolare gli Stati Uniti, fa-r anno indubbiamente fatica a imparare. La regola dell'astensione, secondo la quale gli stati guida si as tengono dall ' intervenire in conflitti interni ad altre civiltà, è la pr ima condizione essenzia-le per il man ten imen to della pace in un m o n d o mult ipolare e composto da più civiltà. La seconda condizione è la regola della mediazione congiunta, secondo cui gli stati guida negoziano gli uni con gli altri al f ine di con tenere o po r re f ine alle guer re di comuni tà tra stati o g ruppi appar tenent i alle rispettive civiltà.

L'accettazione di tali regole e di un m o n d o contraddist into da u n a maggiore uguaglianza tra le varie civiltà non sarà facile per l 'Occidente o per quelle civiltà che po t rebbero aspirare ad affiancarsi o a sostituirsi ad esso nel suo ruolo dominante . In un m o n d o siffatto, ad esempio, gli stati guida po t rebbero con-siderare il possesso di armi nucleari u n a loro prerogativa e ne-gare tale diritto ad altri membr i della propr ia civiltà. Nel ricor-dare gli sforzi compiuti dal Pakistan per raggiungere u n a «pie-na capacità nucleare», Zulfikar Ali Bhut to li giustificò così: «Sappiamo che Israele e Sud Africa h a n n o una piena capacità nucleare. Anche la civiltà cristiana, quella ebraica e quella indù h a n n o tale capacità. Solo la civiltà islamica ne è priva, ma que-sto stato di cose sta per cambiare».2" Anche la competizione per la leadership al l ' in terno di civiltà prive di u n o stato guida po-trebbe stimolare la corsa alle armi nucleari. Pur m a n t e n e n d o rappor t i di strettissima cooperazione con il Pakistan, l ' I ran av-verte al tret tanto chiaramente dei pakistani la necessità di do-tarsi di armi nucleari. Dal canto loro, viceversa, Brasile e Ar-gent ina h a n n o accantonato i loro piani in proposi to e il Sud Africa ha distrutto il propr io arsenale nucleare, ma po t rebbe essere tentato di ricostituirlo ove la Nigeria se ne costruisse u n o a sua volta. Se da un lato la proliferazione nucleare implica ov-

20 Z. A. Bhutto, If I Am Assassinateti, New Delhi, Vikas Publishing House , 1979, pp. 137-8, cit. in Louis Delvoie, «The Islamization of Pakistan's Foreign Policy», in «InternationalJournal», n. 51 (Inverno 1995-96), p. 133.

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viamente dei rischi, come Scott Sagan e altri h a n n o sottolinea-to, dall 'al tro un m o n d o in cui soltanto u n o o due stati guida fossero dotati di armi nucleari po t rebbe risultare un m o n d o ragionevolmente stabile.

Molti dei principali organismi internazionali risalgono al pe-r iodo immedia tamente successivo alla Seconda guer ra mon-diale e sono strutturati in m o d o da riflettere gli interessi, i va-lori e i costumi occidentali. Via via che il potere del l 'Occidente si r iduce in rappor to a quello di altre civiltà, a u m e n t e r a n n o le pressioni per una ristrutturazione di quegli organismi in fun-zione di u n a maggiore sensibilità agli interessi di quelle civiltà. Il n o d o più ovvio, più impor tante e probabi lmente più contro-verso r iguarda la composizione del g ruppo di membr i perma-nent i nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Questo nucleo è costituito dalle maggiori potenze vincitrici della Se-conda guer ra mondiale e riflette sempre m e n o i rappor t i di forza in atto nel m o n d o con temporaneo . Nel lungo per iodo, o ver ranno appor ta te modif iche alla sua composizione oppure è probabile che si sviluppino altre p rocedure m e n o formali per la risoluzione dei problemi legati al tema della sicurezza, così come le r iunioni dei paesi del G-7 h a n n o aff ronta to temi eco-nomici di carattere globale. In un m o n d o composto da più ci-viltà, la soluzione ideale sarebbe che ciascuna delle maggiori ci-viltà avesse a lmeno un seggio pe rmanen te presso il Consiglio di sicurezza. Ciò at tualmente accade solo per tre di esse. Il Brasile ha suggerito la nomina di c inque nuovi membr i pe rmanen t i , pu r senza diritto di veto: Germania , Giappone, India, Nigeria e lo stesso Brasile. Resterebbe tuttavia ancora senza rappresen-tanza il miliardo di musulmani che abi tano il pianeta, a m e n o che il ruolo non venga assolto dalla Nigeria. Da un p u n t o di vi-sta della suddivisione in civiltà, Giappone e India dovrebbero chiaramente essere membr i permanent i , men t re Africa, Ame-rica latina e m o n d o musu lmano pot rebbero avere un seggio p e r m a n e n t e occupato a t u rno dai principali stati delle rispetti-ve civiltà scelti ad esempio dall 'Organizzazione della Confe-renza Islamica, l 'Organizzazione del l 'Unità Africana e l 'Orga-nizzazione degli Stati Americani (con l 'astensione degli Stati Uniti) . Sarebbe inoltre auspicabile far confluire i seggi britan-nico e francese in un unico seggio del l 'Unione europea , il cui rappresen tan te po t rebbe essere eletto a t u r n o dalla stessa

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Unione europea . In tal modo, sette civiltà avrebbero un seggio p e r m a n e n t e ciascuna e l 'Occidente ne avrebbe due, una solu-zione ben rappresentativa della distribuzione della popolazio-ne, della ricchezza e del potere oggi esistente al mondo .

Le comunanze della civiltà

Alcuni americani h a n n o p ropugna to il pluralismo culturale in patria; altri h a n n o promosso l 'universalismo su scala mon-diale; altri ancora h a n n o promosso en t rambe le cose. Il plura-lismo culturale in te rno minaccia gli Stati Uniti e l 'Occidente; l 'universalismo su scala mondia le minaccia l 'Occidente e il mondo . Entrambi negano il carattere peculiare della cultura occidentale. I fautori del monoli t ismo culturale a livello plane-tario vogliono rendere il m o n d o uguale all 'America. I fautori del monoli t ismo culturale domestico vogliono rendere l'Ame-rica uguale al mondo . Un 'America multiculturale non esiste perché un 'America non occidentale non sarebbe americana. Un m o n d o multiculturale è inevitabile perché l ' impero plane-tario è qualcosa di inconcepibile. La preservazione degli Stati Uniti e del l 'Occidente richiede u n a rinascita dell ' identità occi-dentale. La sicurezza del m o n d o r ichiede l 'accettazione del pluralismo culturale su scala mondiale .

La vacuità dell 'universalismo occidentale e il dato di fatto della diversità culturale globale conducono inevitabilmente e irrevocabilmente al relativismo morale e culturale? Se l'univer-salismo legittima l ' imperialismo, il relativismo legittima la re-pressione? Ancora una volta, la risposta è sì e no. Le culture so-no qualcosa di relativo, la moralità è qualcosa di assoluto. Le culture, come ha osservato Michael Walzer, sono f e n o m e n i «forti», r ichiedono istituzioni e modelli di compor t amen to che guidino l 'umani tà sulla strada giusta per u n a part icolare so-cietà. Al di sopra, al di là e al di fuor i di tale moralità massima-lista, tuttavia, esiste una morale minimalista «debole» che in-carna «i caratteri reiterati di particolari moralità massimaliste o forti». I precetti morali minimalisti della verità e della giustizia si trovano in tutte le moralità forti e non possono esserne di-sgiunti. Esistono inoltre delle «morali minimaliste di segno ne-gativo, quasi sempre regole contro l 'omicidio, la f rode, la tor-

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tura, l 'oppressione e la tirannia». Ciò che i popoli h a n n o in co-m u n e è «più il senso di un nemico [o di un male] c o m u n e che l 'adesione ad una cultura comune». La società u m a n a è «uni-versale perché è umana, ed è particolare perché è u n a società». A volte procediamo al f ianco di qualcuno, il più delle volte pro-cediamo da soli.21 Esiste tuttavia una moralità minimalista «de-bole» derivante dalla c o m u n e condizione umana, ed è possibi-le rinvenire «attitudini universali» in tutte le culture.22 Anziché p romuovere le caratteristiche appa ren t emen te universali di u n a civiltà, gli imperativi di u n a coesistenza culturale richiedo-no la ricerca di quanto c'è di comune alla gran par te delle ci-viltà. In un m o n d o a più civiltà, l 'unica strada costruttiva è ri-nunciare all 'universalismo, accettare la diversità e cercare le comunanze .

Un impor tante tentativo in tal senso in un ' a rea molto circo-scritta è stato compiuto a Singapore agli inizi degli anni No-vanta. La popolazione di Singapore è composta grosso m o d o per il 76 per cento da cinesi, per il 15 per cento da malesi e mu-sulmani e per il 6 per cento da indù e da sikh indiani. In passa-to il governo aveva tentato u n ' o p e r a di diffusione dei «valori confuciani» tra il popolo, ma aveva anche insistito che tutti im-parassero bene l'inglese. Nel gennaio del 1989, nel suo discor-so di inaugurazione del nuovo Par lamento il presidente Wee Kim Wee accennò all 'estrema vulnerabilità dei 2,7 milioni di singaporesi alle influenze culturali occidentali, le quali li «ave-vano messi a stretto contat to con nuove idee e tecnologie este-re», ma li aveva «anche esposti» «a modi di vita e valori estranei alla loro tradizione». «I tradizionali ideali asiatici di moralità, dovere e società che ci h a n n o sostenuto in passato s tanno ce-d e n d o il passo a u n o stile di vita più occidentalizzato, indivi-dualistico ed egoistico». E necessario, ammonì , identificare i valori di f ondo che le diverse comuni tà etniche e religiose di Singapore h a n n o in c o m u n e e che «racchiudono l 'essenza del-l 'essere singaporese».

Il presidente Wee indicò quattro valori: «la società al di sopra

21 Michael Walzer, Th.ick and Thiri: Alami Argumenl al Home and Abroad, Notre Dame, University of Notre Dame Press, 1994, pp. 1-11. 22 James Q. Wilson, The Aloral Sense, New York, Free Press, 1993, p. 225 (trad. it. fi senso morale, Milano, Edizioni di Comunità, 1995).

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di tutto; la famiglia quale fondamen to della società; risoluzione dei grandi problemi attraverso il consenso anziché il confron-to; coltivazione della tolleranza e a rmonia razziale e religiosa». Il suo discorso suscitò un intenso dibattito sui valori imperant i di Singapore, e por tò due anni dopo alla pubblicazione di un «Libro bianco» contenente la posizione del governo sull 'argo-mento . Il documen to conteneva tutti e quat tro i valori suggeri-ti dal presidente, ma ne aggiungeva un quinto sull ' importanza dell ' individuo, scaturito in gran par te dalla necessità di mette-re in rilievo la priorità, nella società di Singapore, dei meriti del singolo in contrapposizione ai valori confuciani della gerarchia e della famiglia, che avrebbero potu to sfociare nel nepotismo. Il Libro bianco definiva i «valori comuni» dei singaporesi nel m o d o seguente:

La nazione prima della comunità [emica] e la società al di sopra di tutto. La famiglia quale unità di base della società. Rispetto e sostegno della comunità nei riguardi dell'individuo. Consenso anziché confronto. Armonia razziale e religiosa.

Pur menz ionando l 'adesione di Singapore alla democrazia par lamentare ai principi del buon governo, la dichiarazione dei «valori comuni» escludeva esplicitamente dal propr io oriz-zonte i valori politici. Il governo sottolineava come Singapore fosse «sotto molti e basilari aspetti u n a società asiatica» e tale dovesse restare. «I singaporesi non sono americani o anglosas-soni, anche se possono parlare inglese e indossare vestiti occi-dentali. Se nel lungo per iodo i singaporesi non si potessero più distinguere dagli americani, dai britannici o dagli australiani, o peggio ancora divenissero una loro scialba imitazione (vale a dire un paese in bilico), noi p e r d e r e m m o rispetto a quelle so-cietà occidentali il vantaggio che ci consente di reggere a livel-lo internazionale».23

Il proget to di Singapore era un ambizioso e i l luminato ten-tativo di definire un ' ident i tà culturale singaporese che fosse condivisa dalle proprie comuni tà etiche e religiose e che la di-

23 Government of Singapore, Shared Values, Singapore, Cmd. n. 1 del 1991, 2 gennaio 1991, pp. 2-10.

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stinguesse dall 'Occidente. Cer tamente u n a dichiarazione di va-lori occidentali e americani in pardcolare avrebbe dato un pe-so molto maggiore ai diritti dell ' individuo rispetto a quelli del-la comunità , alla libertà di espressione e alla verità come f ru t to del conf ron to di idee, alla partecipazione e competizione poli-tica e allo stato di diritto di cont ro al dominio di governanti esperti, saggi e responsabili. Anche così, tuttavia, pu r integran-doli e r iducendone l ' importanza, ben pochi occidentali giudi-cherebbero indegni simili valori. Q u a n t o m e n o a un livello mi-n imo di moralità «debole», qualche comunanza tra Asia e Oc-cidente esiste. Inoltre, come molti h a n n o sostenuto, a prescin-dere dalle divisioni che h a n n o provocato, le maggiori religioni del m o n d o - cristianesimo, ortodossia, induismo, buddismo, islamismo, confucianesimo, taoismo, ebraismo - h a n n o anche degli importantissimi valori in comune . Se l ' uomo riuscirà mai a sviluppare u n a civiltà universale, questa emergerà gradual-men te median te l 'esplorazione e l 'espansione di questi valori comuni . E dunque , in aggiunta alla regola dell 'astensione e a quella della mediazione congiunta, la terza regola per il man-ten imento della pace in un m o n d o di civiltà composite è la re-gola delle comunanze, i popoli di tutte le civiltà dovrebbero cer-care di trasmettere i valori, le istituzioni e le usanze condivise da popoli di altre civiltà.

Un simile sforzo contr ibuirebbe non solo a f renare lo scon-tro di civiltà, ma anche a rafforzare la Civiltà intesa al singolare (e scritta in maiuscolo per maggior chiarezza). La Civiltà al sin-golare fa presumibi lmente r i fer imento a un complesso di livel-li superiori di moralità, religione, cultura, arte, filosofia, tecno-logia, benessere materiale e altro ancora. Tutti questi valori non cambiano ovviamente al l 'unisono, e tuttavia gli studiosi possono facilmente identificare i nadir e gli zenit nel livello di Civiltà inerente alle storie delle civiltà. La d o m a n d a quindi è: come possiamo tracciare gli alti e bassi dello sviluppo della Ci-viltà umana? Esiste una tendenza generale, secolare, che tra-scenda le singole civiltà, verso livelli superiori di Civiltà? Se esi-ste, è un prodot to dei processi di modernizzazione che accre-scono il controllo degli uomini sul loro ambiente e quindi ge-ne rano livelli sempre più alti di tecnologia e di benessere ma-teriale? Nell 'epoca contemporanea , un più alto livello di mo-derni tà è d u n q u e un prerequisi to per giungere a un più alto li-

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vello di Civiltà? O p p u r e il livello di Civiltà varia soprat tut to al-l ' in terno della storia delle singole civiltà?

E questo, un altro aspetto del dibattito sulla na tura lineare o ciclica della storia. Presumibilmente, la modernizzazione e lo sviluppo morale de l l 'uomo prodot to da una maggiore istruzio-ne, consapevolezza e comprens ione della società u m a n a e del suo ambiente naturale p r o d u c o n o un costante movimento ver-so livelli sempre maggiori di Civiltà. In alternativa, i livelli di Ci-viltà possono semplicemente riflettere distinte fasi di evoluzio-ne delle civiltà. Q u a n d o nasce u n a nuova civiltà, i popoli che ne f a n n o par te sono soli tamente vigorosi, dinamici, crudeli , mobili ed espansionisti. Sono relativamente non civilizzati. Evolvendosi, la civiltà si stabilizza e sviluppa le tecniche e le ca-pacità che la r e n d o n o più civile. Via via che la competizione tra i suoi e lementi costitutivi si r iduce ed emerge u n o stato univer-sale, la civiltà raggiunge il suo livello più alto di Civiltà, la sua «età dell 'oro», con un 'eff lorescenza di moralità, arte, letteratu-ra, filosofia, tecnologia e capacità militare, economica e politi-ca. Via via che la civiltà entra nella fase di decadenza, il suo li-vello di Civiltà declina par iment i fino a scomparire sotto i colpi di un 'a l t ra civiltà emergente caratterizzata anch'essa da un bas-so livello di Civiltà.

La modernizzazione ha genera lmente accresciuto il livello materiale della Civiltà in lutto il mondo . Ma ha accresciuto an-che la sua dimensione morale e culturale? Sotto alcuni aspetti, sembrerebbe di sì. Schiavitù, tortura, mal t ra t tamento dell ' indi-viduo sono diventati f e n o m e n i sempre m e n o accettabili nel m o n d o con temporaneo . E questo, tuttavia, semplicemente il risultato dell ' impatto della cultura occidentale su altre culture? Un declino del potere del l 'Occidente provocherà quindi un ' in-versione di rotta della morale comune? Gli anni Novanta offro-no moltissimi esempi che sembrerebbero convalidare il model-lo del «caos totale» in campo internazionale: un crollo genera-lizzato della legge e del l 'ordine, stati ridotti allo sfascio, anar-chia crescente in molte parti del mondo , un ' onda t a generaliz-zata di criminalità, mafie internazionali e cartelli della droga, il dilagare della droga in molte società, un generale indeboli-men to dell 'istituzione della famiglia, un declino nella fiducia e nella solidarietà sociale in molti paesi, violenza etnica, religiosa e culturale e il prevalere della legge del più forte in gran parte

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del mondo . Città dopo città - Mosca, Rio de Janeiro , Bangkok, Shanghai , Londra , Roma, Varsavia, Tokyo, Johannesburg , Delhi, Caracas, Il Cairo, Bogotà, Washington - la criminalità appare in vertiginoso aumen to e gli elementi basilari della Ci-viltà sembrano scomparire. Si sente parlare di u n a generale cri-si di valori. All'avvento delle multinazionali produttr ici di mer-ci si è accompagnato l 'avvento di multinazionali mafiose e cri-minali, di cartelli della droga e di bande di terroristi lanciate al-l'assalto violento della Civiltà. Legge e ordine sono i principali prerequisiti della civiltà, ma in gran parte del m o n d o - Africa, America latina, ex Unione Sovietica, Asia meridionale, Medio Or ien te - essi sembravano svanire, e sono oggetto di furiosi as-salti anche in Cina, Giappone e Occidente. In tutto il mondo , la Civiltà sembra sotto molti aspetti cedere alla barbarie, dare vita ad un f e n o m e n o senza precedent i , l 'avvento di un Me-dioevo barbarico su tutta l 'umanità .

Negli anni Cinquanta Lester Pearson ammoni che l ' uomo stava avviandosi a «un 'età nella quale le diverse civiltà dovran-no imparare a convivere in un pacifico interscambio, imparan-do le u n e dalle altre, s tudiando la storia, gli ideali, l 'arte e la cultura delle altre civiltà, arr icchendosi reciprocamente . L'al-ternativa, in questo piccolo e sovraffollato m o n d o , è incom-prensione, tensione, conflittualità e catastrofe.24 II fu turo , della pace come della Civiltà, d ipende dalla comprens ione e coope-razione tra i leader politici, spirituali e intellettuali delle mag-giori civiltà del mondo . Nello scontro di civiltà in atto, Europa e America sono destinate a restare uni te o a perire. Nel più ge-nerale scontro - il «vero scontro» planetario - tra Civiltà e bar-barie, le maggiori civiltà del mondo , con tutte le loro grandi conquiste conseguite nel campo della religione, dell 'arte, della letteratura, della filosofia, della scienza, della tecnologia, della moralità e pietà umana , sono anch'esse destinate a restare uni-te o a perire. Nell 'epoca che ci apprest iamo a vivere, gli scontri di civiltà rappresentano la più grave minaccia alla pace mon-diale, e un ordine internazionale basato sulle civiltà è la mi-gliore protezione dal pericolo di u n a guer ra mondiale .

24 Lester Pearson, Democracy in World Politics, Princeton, Princeton University Press, 1955, pp. 83-84.

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CARTINE, FIGURE E TABELLE

Cartina 1.1 L'Occidente e gli altri: 1920 18-19 © H a m m o n d Incorporateci, Maplewood, New Jersey

Cartina 1.2 II mondo all'epoca della Guerra fredda: 1960-1970 20-21 © H a m m o n d Incorporated, Maplewood, New Jersey

Cartina 1.3 II mondo delle civiltà: dopo il 1990 22-23 © H a m m o n d Incorporated, Maplewood, New Jersey

Figura 2.1 Le civiltà dell'emisfero orientale 58 Ripresa per genti le concess ione di S imon & Schuster da The Evolution of Creation: An Introduction to Historical Analysis di Carroll Quingley. Copyright © 1961 by Carroll Quingley; copyright renewed by Lillian F. Quingley

Tabella 2.1 Utilizzo dei termini «Mondo libero» e «Occidente» 66 Tabella 3.1 Percentuale della popolazione mondiale

che pratica le principali lingue 76 Tabella 3.2 Numero e percentuale della popolazione mondiale

che pratica le principali lingue cinesi e occidentali 76 Tabella 3.3 Percentuale della popolazione mondiale che aderisce

alle maggiori tradizioni religiose 83 Figura 3.1. Risposte alternative all'impatto dell'Occidente 100 Figura 3.2. Modernizzazione e rinascita culturale 102 Tabella 4.1 Territorio sotto il controllo politico

delle varie civiltà, 1900-1993 114 Tabella 4.2 Popolazione dei paesi appartenenti

alle maggiori civiltà della terra, 1993 114 Tabella 4.3 Percentuali della popolazione mondiale

sotto il controllo politico delle civiltà, 1900-2025 116 Tabella 4.4 Suddivisione della produzione manifatturiera

mondiale per civiltà o paese, 1750-1980 118 Tabella 4.5 Suddivisione per civiltà dell'attività economica

mondiale, 1950-1992 119 Tabella 4.6 Suddivisione per civiltà del personale militare

nel mondo 121 Figura 5.1 La sfida economica: l'Asia e l'Occidente 146 Figura 5.2 La sfida demografica: Islam, Russia e Occidente 169 Tabella 5.1 Punte massime della fascia di giovani

nei paesi musulmani 170 Figura 5.3 Punte massime della fascia di giovani musulmani

per regione 171

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Cartina 7.11 confini orientali della civiltà occidentale 229 Cartina 7.2 Ucraina: un paese diviso 240

© 1994 T h e Economist Newspaper Group, Inc. Reprinted with Permission. Further reproduct ion prohibited.

Tabella 8.1 Trasferimenti di armi cinesi, 1980-1991 275 Tabella 8.2 Olimpiadi del 2000. Esito delle votazioni

dei quattro ballottaggi 288 Tabella 8.3 Popolazione degli Stati Uniti per razza ed etnia 300 Cartina 8.1 Stati Uniti: un paese diviso? 301

Rodger Doyle © 1995 for «U. S. News & World Report» Figura 9.1 I rapporti politici tra le civiltà: schieramenti emergenti 363 Tabella 10.1 Confilitti etnof olitici, 1993-1994 382

Da Gary Fuller, «The Demographic Backdrop to Ethnic Conflict: A Geographic Overview», in Central Intel l igence Agency, The Challenge of Ethnic Conflict to National and International Order in the 1990's: Geographic Perspectives, Washington, D. C., C.I.A., 1995

Tabella 10.2 Conflitti etnici, 1993 382 Tabella 10.3 Militarismo dei paesi musulmani e cristiani 383 Figura 10.1 Sri Lanka: punte massime delle fasce

di giovani singalesi e tamil 386 Tabella 10.4 Possìbili cause della propensione

alla violenza dei musulmani 391 Figura 11.1 La struttura di una guerra di faglia complessa 407

Le fonti del le illustrazioni n o n specificate in queste pagine sono riportate in didascalia.

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INDICE ANALITICO

Abdullah, principe ereditario del-l'Arabia Saudita 170

Afghanistan 159, 190, 244, 257, 307, 314, 364-365, 369-370, 380, 403, 407, 410, 429

A h m e d , Akbar 393 Ajami, Fouad 163 al-Assad, Hafiz 368 Albania 133, 178, 387-388 Alessandro il, zar di Russia 201 alfabetizzazione 88, 115-116, 165,

171 Algeria 122, 129, 140, 160-161, 163,

170-171, 178, 257, 269, 273, 285, 289, 294, 314-315, 371, 407, 429

al-Hawali, Safar 369-370 Ali, Ben 371 Alijev, Gaider 418 Ali, M u h a m m a d 98 al-Turabi, Hassan 135, 140, 157,

257 Angola 381 Apter, David 103 Arabia Saudita 9, 13, 17, 104, 133,

160-161, 163, 166, 168, 1 8 0 , 2 1 1 , 254, 256-257, 259, 267, 273, 289, 307, 314, 317, 355, 365, 367-369, 371, 373, 393, 406, 419, 427, 429-433, 438

Arbatov, Georgi 266 Area centroeuropea di l ibero scam-

bio (Visegrad) 186, 191 Argentina 9, 53, 190-191, 194, 356,

437 Armenia 40, 81, 179, 206, 236-237,

360, 379, 405, 414-419, 439, 444 armi nucleari 35, 39-40, 122, 241-

242, 270-280

Asia 39-40, 51, 59-60, 80, 133-134, 139, 143, 153, 180, 183, 185-189, 191-192, 205, 211, 214, 226, 259-260, 278-279, 281, 321, 333-337

- capacità militare 122-123, 272-274, 324

- e g e m o n i a c inese 243-253, 337-352

- f o r z a crescente 15, 111 - immigrazione dalla 172, 291, 295-

296, 300 - p o p o l a z i o n e 115-116, 167 - rapporti con l'Australia 198, 218-

222 - rapporti con l 'Occ idente 72, 145,

320, 324 - scontri intestini 17, 322-323 - superiorità rivendicata 96, 127,

143, 145 - sv i luppo economico 17, 24, 31 ,110,

118, 131, 143-145, 150-154, 167, 172-174, 189, 219, 319-320, 330

- valori culturali perseguit i 126-128, 145, 150-154, 330

- vedi anche i singoli paesi e Giappo-ne; civiltà g iapponese; civiltà si-nica

Aspin, Les 271, 276 Assemblea mondia le della gioventù

musulmana 429 Associazione dei croati negli Stati

Uniti 422 Associazione dell'Asia meridionale

per la cooperaz ione regionale 186

Associazione del le nazioni del Sud-Est asiatico (Asean) 152, 181, 186, 187-188, 191, 283, 322, 348

Page 484: SamuelPHuntington-Loscontrodelleciviltàeilnuovoordinemondiale

Associazione degli stati caraibici 190

Associazione per i rapporti sullo Stretto di Formosa 250

assolutismo 93 Ataturk, Mustafa Remai 98, 198,

206-207, 212-214, 216, 234, 260-261

Australia 53, 113, 187, 189, 198, 218-223, 2 9 1 , 3 4 7

Austria 16, 178, 227, 230-231, 293-2 9 4 , 4 1 9 , 4 2 1 , 4 2 9

autoritarismo 85, 147, 162, 197, 280-281,320-321,368, 440

Ayodya 184 Azerbaigian 40, 82, 179, 197, 210-

211, 214, 355, 398, 405, 414-419, 439

Bagby, Philip 43, 48, 51 Bairoch, Paul 117 Baker, James 281 Banca mondiale 139, 144, 304 Bangladesh 165, 167, 367, 380, 427 Bashir, Tahsin 254 Baum, Rainer 101 Behar, Pierre 230 Belgio 9, 183, 227, 293 Bielorussia 179, 205, 228, 233, 236-

237, 439 Bhutto, Benazir 353, 368 Bhutto, Zulfikar, Ali 473 Birmania 56, 188, 283-285, 323,

361, 380 Bisanzio 59-60, 130, 200, 231, 307 Bolivia 53, 421 Bosnia 17, 24, 40, 82, 178-179, 183,

197, 214, 226, 257, 260, 267, 286, 376, 379, 388, 390, 397, 399-401, 405-407, 419-435, 439-446, 461

- accordi di Dayton 429, 432, 436, 439, 442, 445

Boutros-Ghali, Boutros 225, 428 Bozeman, Adda 43, 49, 101 Brasile 118, 137, 190-191, 193-194,

356, 474 Braudel, Fernand 42-43, 45-46, 51,

55, 68, 89, 105

Brzezinski, Zbignew 35 Buddismo 55-56, 58, 102, 132, 137-

138, 143 Bulgaria 178-179, 227, 230-234,

236, 424 Bull, Hedley 66, 71, 111-112 Buthan 56 Buzan, Barry 112, 311

Cadaeev, Pétr Y. 202 Cambogia 56 Canada 33, 88, 178, 180, 187, 196,

223, 291 caos totale, model lo del 35-37 capacità militari 119-124 - mutamenti nei rapporti di forza

110-111 - non-proliferazione delle 276-277 - nucleare 270-280, 473 Carter, Jimmy 438 Caterina il, imperatrice di Russia 201 cattolicesimo 91, 137-138, 217, 280 Cecenia 180, 183, 254-255, 257,

360, 376, 379, 386, 396, 398, 402, 406-407,411-414, 438

Cecoslovacchia 39, 196 Chesnais, Jean-Claude 298 chiamata a raccolta dei paesi affini

15, 404-435 - vedi anche conflitti di faglia Chirac, Jacques 294, 403 Chmelnickij, Bogdan 239-240 Christopher, Warren 40, 273, 428 Cile 53, 153, 194, 421, 437 Ciller, Tansu 208, 213, 215, 416 Cina, Repubblica popolare (Rpc)

9, 17, 28, 30, 39-41, 48, 50-52, 56, 58-59, 61, 63-64, 66, 80, 83, 89, 92-93, 96, 98, 102, 104, 110, 124, 130, 138-139, 144, 146-147, 150, 178, 185, 187-188, 191, 197, 205, 215, 224-225, 243-253, 259, 269, 315, 320-321, 323, 327-330, 335-355, 357, 359-361, 373, 467

- capacità militari 122-123, 269, 271-276, 324

- diritti umani 267, 283-289 - e c o n o m i a 117-119, 174, 245 ,247-

250, 252, 338-343

Page 485: SamuelPHuntington-Loscontrodelleciviltàeilnuovoordinemondiale

- identità culturali 148-149, 183, 243-253, 346

- indigenizzazione in 127 - rapporti con l 'Occidente 72, 111,

267, 305, 324, 340 - sfera di coprosperità 243-253 - vedi anche Asia; civiltà sinica Cina, Repubblica di vedi Taiwan Cipro 179, 232, 235-236, 379 civiltà: - equilibrio di poteri tra le civiltà 7,

181, 224, 465 - civiltà al singolare e civiltà al plu-

rale 7, 44-45, 70-71, 89, 105, 478 - come «totalità» 47 - comunanze delle 475-480 - decl ino delle 4 5 0 4 5 3 - grandi 51-56 - epoca d'oro delle 452, 479 - paesi isolati come civiltà universa-

li vedi civiltà universali civiltà africana 32, 51, 55, 60-61, 81,

83, 139, 181, 193-194, 226-227, 260, 281, 285, 355-356

- identità culturali e valori 143 - modernizzazione 100, 103 - popolazione 115-116 civiltà araba, vedi civiltà islamica civiltà centroamericana 43 civiltà classica 43, 91, 234 civiltà ebraica, ebraismo 132, 273 civiltà egizia 43 civiltà greca, classica 46-47, 59, 62,

67, 102, 305, 459 civiltà indù 32, 43, 48, 51-52, 61-62,

67, 86, 92, 116, 193 - entità culturali nella 128, 135,

143 - modernizzazione e 103 - rapporti con l 'Occidente 72, 267,

361 civiltà islamica 32, 43, 51-52, 55, 61,

67, 86, 91, 95, 102, 110, 116, 129-130, 139-141, 211, 226, 253-2 6 1 , 3 6 5

- autorità temporale e spirituale 92, 258

- capacità militari 269, 272-274 - chiamata a raccolta dei paesi fra-

telli da parte della 15, 404-435 - conflitti di faglia nella 258, 379-

384, 390-394 - crescita demografica 15, 84, 131,

143-144, 167-170, 172, 174, 394 - democrazia nella 25, 162-163,

281-282 - emigrazione dalla 172, 292-299 - identità e valori culturali nella

135, 143, 155-158, 207, 253-261 - indigenizzazione nella 128-129,

131, 160, 173, 213 - mobilizzazione sociale 143 - modernizzazione e 96-97, 99, 103-

104, 207 - punte massime della fascia di gio-

vani nella 144, 160, 168-170 - rapporti con la civiltà occidentale

59, 155, 173, 207, 267-268, 303, 306-319

- rapporti con la civiltà sinica 268 - superiorità rivendicata 143 - uso della l ingua nella 156, 207,

259 - violenza nella 382-384 civiltà latinoamericana 49, 51-53,

60, 92, 137-138, 180, 187, 191, 193-195, 285

- emigrazione dalla 291, 295-296 - identità culturali nella 53, 143 - popolazione della 115 - rapporti con l 'Occidente 267,

355-356 - sviluppo economico e politico 31,

280 civiltà occidentale: - agli inizi dell'era moderna 16 - avvento della 61 - capacità militari 61, 120-121, 126,

269-280 - caratteristiche della 54-55, 90, 95 - concezione dei diritti umani 280-

289 - futuro della 8, 111, 450-460 - guerre all'interno della 63-65 - imperialismo 55, 60, 85, 139, 193 - influenza decrescente della 15,

64, 80, 110-112, 118, 120, 124, 126, 128, 166, 222, 267, 286, 288

Page 486: SamuelPHuntington-Loscontrodelleciviltàeilnuovoordinemondiale

- l ingua franca della 77-80 - pretese universaliste 15, 85, 265-

267, 309 - prosperità e c o n o m i c a 117, 126 - rapporti con la civiltà indù 267,

361 - rapporti con la civiltà islamica 59,

173, 267, 303 - rapporti con la civiltà g iapponese

267 - rapporti con la civiltà latinoame-

ricana 267, 355-356 - rapporti con la civiltà russo-orto-

dossa 199, 202, 204, 267, 357-358 - rapporti con la civiltà sinica 267 - rinascita della 258, 450-460 - struttura politica 61 - superiorità tecnologica della 61,

74, 118-119, 123, 454 - territorio e popolaz ione 113, 115-

117, 124 - vedi anche i singoli paesi civiltà romana 125, 450, 459 civiltà russo-ortodossa 51, 61, 91-92,

116-117, 130, 139, 193, 200-201, 285

- identità e valori culturali nel la 135, 143

- rapporti con l 'Occ idente 199, 202, 204, 267, 357-358

- struttura politica della 126 - sviluppo e c o n o m i c o e pol i t ico

nella 25, 117-118, 126 - vedi anche Federazione russa civiltà sinica 32, 43, 51-52, 62, 67,

86, 193, 243 - buddismo nella 55-56, 58, 102 - identità e valori culturali nella

143 - modernizzazione e 96, 98, 103 - rapporti con l'Islam 268 - rapporti con l 'Occidente 267 - vedi anche Cina, Repubblica popo-

lare civiltà sumera 43 civiltà universale 7, 15, 45, 68, 75,

85, 88, 125, 478 - ades ione de l l 'Occ idente al con-

cetto di 72, 84

- def in iz ione 69-71 Clemenceau , Georges 124 collettivismo 94 Colombia 180, 191, 285 colonial ismo 55, 125, 307 Comitato per l ' economia estasiati-

ca 153, 188 c o m m e r c i o internazionale 62, 86 - regional ismo 185, 188, 191 comunicaz ioni 73-74, 85, 87, 136,

165, 183 - tecnologia del le 86 - vedi anche l ingua c o m u n i s m o 29, 63, 65-66, 83, 202-

203 - crollo del 16, 85, 133, 139, 162,

197, 204, 228, 235, 265, 309 - f a s c i n o del 126, 203 - vedi anche i singoli paesi e Guerra

fredda Comuni tà caraibica (Caricom)

186, 189 Comuni tà europea 123, 187, 191-

1 9 2 , 2 0 9 , 2 1 1 , 2 1 4 , 2 1 9 , 235 Comunità degli Stati Indipendent i

(Csi) 237-238, 360, 4 1 7 ^ 1 8 Confederaz ione dei popo l i del

Caucaso (KNK) 412 Conferenza popolare araba e isla-

mica (Paic), 257 Conferenza post-ministeriale

(Cpm) 187 Conferenza sulla sicurezza e la coo-

peraz ione in Europa (Osce) 232, 439

conflitti di faglia 8, 14, 24, 177, 182, 239, 303-306

- caratteristiche 374-378 - di transizione 364-374 - escalation dei 384-394, 405-406 - livelli di co involg imento nei 405-

434, 440-441, 467 - moderati nei 395-397, 436 - soluzioni possibili 435^146 - svi luppo demograf i co e 8, 385-

390 Confraternita musulmana 158, 163 confuc ianes imo 55-56, 103, 132,

138, 143, 152, 243, 346-347

Page 487: SamuelPHuntington-Loscontrodelleciviltàeilnuovoordinemondiale

- progresso stimolato dal 148 - vedi anche civiltà sinica Congresso mondia le m u s u l m a n o

256 Consigl io per la cooperaz ione nel

Golfo 374 Consigl io d'Europa 235, 322 Consigl io mondia le del le chiese

438 Consigl io panafricano del le Chiese

438 controriforma 91 contrapposiz ione 337-352 - vedi anche a l l ineamento Cooperaz ione regionale per lo svi-

luppo 185, 190 Corano 95 Corea del Nord 40-41, 180, 226,

243, 246, 269-270, 272, 282, 285, 317, 321-322, 348

- capacità militari 122, 272-276, 278

Corea del Sud 9, 52, 56, 83, 122, 134, 136, 138, 141, 144, 152, 180-181, 187, 188, 191, 278, 280-281, 296, 321-322, 324, 347, 351

Corte di giustizia europea 235 Costa d'Avorio 194 crescita demograf ica 84, 136, 167-

168, 2 9 1 , 2 9 9 Cresson, Edith 294 Crimea 197, 239, 241-242 cristianità, occ identa le 54-55, 59-

60, 83-84, 91, 96, 102, 126, 132, 137, 149, 230, 233-234, 306-310, 462

- di f fusione 455 - identità culturali e 231 - sviluppo e c o n o m i c o e polit ico e

25, 280-281 - vedi anche civiltà occidentale Croazia 40, 82, 179, 197, 226, 228,

232, 376, 389, 399-401, 405, 419-435, 443-446

Cuba 227, 2 8 1 , 2 8 5 , 2 9 6 , 3 1 7 cultura 34, 86, 304, 461 - civiltà def inite dalla 16-17, 24-25,

45-46, 224 - f a s c i n o della 125-126, 265

- potere e 7, 124-125, 171, 265, 310 - regional ismo e 185-186 Curkin, Vitalij 442

Danilevskij, Nikolaj Y. 202 Dawson, Christopher 43, 46, 55 Debray, Régis 140 decolonizzazione 31, 112, 290 de la Madrid, Miguel 216 Delors, Jacques 24 Demirel , Suleyman 208, 215 democrazia 29, 93, 162-163, 280-

289 - conflitti con il c o m u n i s m o vedi

Guerra fredda - diritti umani e 280-290 - fascino della 126 - liberale 28-29, 63-64, 85, 163, 184,

204, 306 - p a r a d o s s o della 129, 288 - presunto trionfo della 28-29, 85 demograf ia 289 - vedi anche immigrazione e crescita

demograf ica D e n g Xiaoping 124, 249, 327-329,

352 Denitch, Bogdan 390 Dessouki, Ali E. Hillal 156 Deutsch, Karl W. 93-94 diaspore 405-408, 413-414, 418-419,

422 Dibdin, Michael 14 Dichiarazione universale dei diritti

umani 282, 286 differenziazione, teoria della 87 diritti di proprietà 90, 92 diritti umani 9 2 , 1 2 6 , 151, 209, 280-

289, 335 diritto 92 - internazionale 62 - islamico 156, 165 D o m e n a c h , Jean Marie 292 Dorè, Ronald 74, 127, 141 Dudaev, Dzochar 396, 398 Durkheim, Emile 43, 46

Egitto 98, 100, 140, 158-159, 163, 171, 193, 257, 259, 279-280, 289, 314, 366-367, 369, 373, 393, 429

Page 488: SamuelPHuntington-Loscontrodelleciviltàeilnuovoordinemondiale

Eisenstadt, Shmuel 43, 57, 103 Elchibey, Abulfez 418 Eliot, T. S. 131 Elmandjra, Mahdi 364 Eltsin, Boris 41, 124, 129, 138, 205-

206, 236, 303, 398, 403-404, 424-425, 441-442, 444

Emirati Arabi Uniti 428 Engels, Friedrich 203 Eritrea 196, 438 Esposito, J o h n L. 155, 306 Estonia 81, 197, 228 Etiopia 55, 61, 194, 196, 380, 408,

438 Europa 17, 28, 32-34, 48, 52-54, 59-

60, 63-65, 67, 88, 93, 112, 123, 157, 162, 178, 185, 187, 192-193, 207, 210, 215, 217, 226-228, 234, 236, 272, 280, 286, 307, 309, 311, 315-316, 320-321,337, 342, 345-346, 459

- conf in i de l l 'Occ idente in 24, 227-230, 232

- identità culturali in 183, 459, 465 - immigrazione in 209, 291-302, 455 - orientale vedi Europa orientale - Rinascimento in 60, 459 - società internazionale in 63-64,

67, 202 - vedi anche i singoli paesi e civiltà oc-

cidentale Europa orientale: - conf in i della 228, 230 - sviluppo e c o n o m i c o e polit ico in

280 - vedi anche i singoli paesi Evans, Gareth 219, 222

fascismo 29, 63, 65 Federazione russa 9, 13, 17, 38-40,

63-64, 66, 93, 124, 133, 178-179, 185, 187-188, 197, 205, 226, 228, 231-233, 235-242, 261, 305, 321, 323, 338-339, 357, 359-360, 373, 379-380, 386, 396, 405, 410-414, 416-419, 423-427, 439-443, 461

- capacità militari 120, 122-123, 269, 271-272

- e lezioni nella 41, 206

- identità culturale della 183 - identità culturale lacerata del la

129, 198-199, 2 0 2 , 2 0 6 - rapporti c o n l 'Occidente 30, 199,

303, 357-358 Fil ippine 144, 197, 226, 245, 248,

257, 280-281, 291, 323, 339, 348, 376, 380, 393, 406-407

- confl itto con il Fronte Moro 376, 396, 408

Finlandia 178, 227-228, 231 Fishman, Joshua 78 fondamenta l i smo 30, 39, 82, 99,

129, 132, 135-136, 140, 144, 155, 161, 211, 213, 214, 255, 257, 260, 267-268, 315-316, 369

- vedi anche Rinascita islamica Fondaz ione per gli scambi sullo

Stretto F o n d o monetar io internazionale

(Fmi) 266, 304 Fondo nazionale per la democrazia

281 Francia 9, 16, 55, 61, 79, 89, 93,

109, 121-122, 183, 194-195, 213, 227, 236, 269, 307, 315-317, 338, 343, 439, 442

- chiamata araccolta dei paesi fra-telli da parte della immigrazio-n e in 87, 291-294, 298

Freedman, Lawrence 270 Friedberg, Aaron 110, 323, 352 Frobenius, Leo 101 Fukuyama, Francis 28-29 Fuller, Gary 385 Fuller, Graham 354

Gaddis ,John Lewis 26 Gandhi,Rajiv 124, 409 Gellner, Ernest 161 General Agreement o n Tariffs and

Trade (Gatt) 326 Georgia 81, 224, 236-239 Germania 9, 16, 41, 80, 109, 121-

122, 145, 178-179, 208-209, 226-227, 230, 236, 337-338

- identità culturale della 45, 183 - immigrazione in 290-293, 294 - nei conflitti di faglia 405, 419-422,

429, 439, 442-443

Page 489: SamuelPHuntington-Loscontrodelleciviltàeilnuovoordinemondiale

Gerusa lemme 184 Ghanoushi , sceicco 314 Gheddaf i , Mu'ammar 317, 354 Giappone , civiltà g iapponese 9, 17,

32, 39, 50-52, 55-56, 59, 61, 72, 80, 92, 95, 102, 109-110, 116-117, 120, 122, 130, 144-147, 152-153, 178, 181, 187, 189, 191-193, 223, 226, 278, 296, 321, 323-327, 329-337, 357, 463

- e g e m o n i a cinese e 243, 246, 249, 338-339, 343, 347, 349-351

- identità culturale 143, 149-150 - indigenizzazione in 127-129 - maggiore forza del 151, 269 - potere e c o n o m i c o 112, 117-118,

151, 332-333 - presenza militare Usa 325-326 - modernizzazione e 95-96, 98, 103-

104, 223 - rapporti con l 'Occidente 267 - status di paese isolato 189, 192,

195 Giordania 158, 163, 280, 365, 367,

369 Giochi ol impici 40, 287, 328 giovani 141 - mutament i indotti dai 159-160,

168 Giovanni Paolo n 162, 421, 437 Giscard d'Estaing, Valéry 294 Glenny, Misha 179, 403 globalizzazione, teoria della 88 Goldstein, Avery 345 Goldstone, Jack 168 Gorbacév, Michail 129, 201, 205,

416 Graciov, Pavel 359 Granada 195, 307 Gran Bretagna 9, 16, 55, 61, 79, 92,

96, 109, 121-122, 144, 178, 193, 218, 222, 227, 269, 287, 295, 305, 307, 317, 338, 343, 350, 425, 439, 442

Grecia 178-179, 181, 206, 208, 226-227, 234-236, 360, 419, 423-424

Greenway, H. D. S. 378 Gruppo di Minsk 439 Guerra fredda 13 ,16 , 26, 29-30, 34,

85, 110, 112, 119-120, 163, 178,

181, 192, 197, 208, 218, 224-228, 232, 234, 268, 310-311, 313, 318-320, 322, 344, 347, 357, 361, 364, 378-379, 404, 462

- armi nucleari nella 271, 277 - alleanze della 288, 303, 314 - d i f ferenze i d e o l o g i c h e del la 32,

63, 66, 177 - f i n e della 28-30, 36, 39, 42, 81, 86,

121, 129, 138-139, 180, 184, 189, 207, 213, 330, 336, 361, 389

- inizio della 41 - politica bipolare della 16, 42, 362 Guerra del Golfo 41, 163, 214, 257,

270, 313, 316-318, 364-374 Guerra de l l 'oppio 96 Guerra del P e l o p o n n e s o 305 Guerra sovietico-afghana 40, 257,

364-366 Gurr, T e d Robert 381-382

Haiti 60, 190, 195 Hashmi, Sohail H. 372 Hassan, re del Marocco 164, 368 Havel, Vaclav 24, 70 Hawke, Robert 222 Hekmatyar, Gulbuddin, 365 Hill, Fiona 414, 417 Hitler, Adolf 1 3 1 , 2 6 8 , 342 Hof fman, Stanley 292 Hofstader, Richard 457 H o n g Kong 80, 113, 134, 144, 148,

152, 180, 188, 191, 243-249, 252, 283, 2 8 7 , 3 2 1 , 3 4 0 , 352

Horowitz, Donald 88 Hosokawa, Morihiro 334, 336 Howard, Michael 230, 463 Hussein, Saddam 208, 257, 270,

366-369, 372-374, 398 Hussein, re di Giordania 164, 369

identità: - livello del le 397-404 - modernizzazione e 101-102, 134,

177 identità culturali: - cooperaz ione basata sulle 15,

192, 405 - crisi del le 101, 126, 134-135, 165,

177-178

Page 490: SamuelPHuntington-Loscontrodelleciviltàeilnuovoordinemondiale

- lacerate 184, 198 - molteplicità del le 14-15, 181-182 - paesi divisi e 195-197 - simboli del le 13-14 - strumenti per l ' identi f icazione

del le 182 ideologia 65 - divisioni basate sulla 63 - f a s c i n o della 125-126 immigrazione 289-302 - condizioni e c o n o m i c h e e ostilità

nei riguardi della 172 Impero austro-ungarico Impero o t t o m a n o 61, 63, 82, 93,

98, 130, 201, 258, 260, 428, 450 India 17, 24, 41, 47, 52, 56, 58-60,

79, 95, 102, 122, 129, 141, 144, 154, 178, 180-181, 196-197, 226-227, 246, 258, 259, 272, 279, 289, 305, 321, 338, 361-362, 375, 380, 405, 409

- alleati 284, 361 - identità culturali e valori in 128,

135 - sviluppo e c o n o m i c o e pol i t ico

110, 117-118, 174 - uso della l ingua 78, 81 - vedi anche civiltà indù indigenizzazione 7, 124, 127-131,

143, 165 individualismo 94, 152, 313 Indonesia 122, 130, 144, 157, 159,

161, 165, 167, 174, 197, 245, 248, 253, 258, 283, 285, 314, 321, 339, 347-348, 367, 380, 393

induismo 52, 55, 132, 141, 273 industrializzazione 88, 117, 140 intellettuali 131, 157, 159-160, 230 - indigenizzazione e 141 invarianza, ipotesi della 101 investimenti internazionali 62 Iran 17, 40-41, 104, 110, 116, 130,

133, 140, 153, 155, 158, 161-162, 169, 178, 180, 190, 194, 211, 256-257, 259, 267, 269, 280, 284-285, 289, 307, 314-315, 317, 328-329, 353-355, 360, 367, 369-370, 373-374, 393, 405-406, 414-416, 419, 427, 429-431, 433, 439, 444

- capacità militari 122, 273-276, 279 Iraq 39-41, 73, 122, 255, 257, 267,

269-270, 272-275, 280, 284-285, 314-315, 317, 355

- confl i t to con l 'Occ idente 123, 208, 214, 367-374

Irlanda 227 Islam 52, 55, 59-60, 66, 83-84, 92,

97, 99, 104, 128, 132, 140, 143, 154-156, 164, 166, 179, 193-194, 206, 211-212, 230, 253-261, 273, 306-310, 369, 402, 462

- vedi anche civiltà islamica e Rina-scita islamica

i so lamento totale, strategia dell' 96 Israele 94, 122, 163, 181, 190, 214,

226, 267, 273, 279, 317, 373, 380, 396, 405

istituzioni internazionali 34, 266, 3 2 1 , 4 7 4

istruzione 88, 116, 165, 206 - i s l a m i c a 156, 164, 212 Italia 48, 61, 157, 193, 227, 291,

2 9 3 - 2 9 4 , 3 0 7 , 3 1 6 , 4 2 1 , 4 3 9 Izetbegovic, Alija 397, 400-401

James, William 26 Jiang Zemin 327, 329, 355 Jinnah, Mohammed Ali 128 Jugoslavia 24, 39, 47, 178, 197, 459,

461 - conflitti di faglia in 379, 387-390,

399-401, 419-435 Juppé , Alain 227

Karadzic, Radovan 402, 444 Kashmir 17, 79, 180, 284-285, 361-

362, 375-376, 380, 386, 398-399, 403, 406-408, 445

Kazakistan 157, 190, 197, 210, 236, 354-355, 410

Keating, Paul 218, 221-222 Kelly, J o h n B. 166 kemal i smo 97-99, 103, 126, 146,

165, 198, 2 0 6 , 2 1 2 , 223 Kenya 196, 381, 438 Kepel, Gilles 131, 135 Khomeini , Ayatollah Ruhol lah 124,

157, 162, 317

Page 491: SamuelPHuntington-Loscontrodelleciviltàeilnuovoordinemondiale

Kirghizistan 82, 167, 210, 403, 410 Kissinger, Henry 17, 459 Koh, T o m m y 145 Kohl, H e l m u t 124, 295 Kosovo 184 Kozyrev, Andrej 403, 425, 442 Kravciuk, Leonid 41, 240 Kuchma, Leonid 240, 242 Kuhn, T h o m a s 26-27 Kurth, James 458 Kuwait 267, 270, 314, 367, 372

Laos 56, 188 Lapidus, Ira 253 Lawrence, Bruce B. 140 Lee Kuan Yew 128, 134, 140, 149,

151-152, 222, 246, 252-252, 287, 336, 340

Lee Teng-hui 149, 251 Lega anseatica 189 Lega araba 257, 366, 371, 407 Lega mondia le dei musulmani 256 Lel louche, Pierre 298 Lenin, V. I. 13, 64, 201, 261, 310 Lettonia 81, 197, 228 Lévy, Bernard-Henri 434 Lewis, Bernard 135, 307, 311 Lewis, Flora 420 Libano 47, 140, 166, 314, 367, 380,

385, 406 Libia 17, 39, 122, 254, 256, 269,

273, 280, 285, 314-315, 317-318, 367, 406, 419, 430

l ingua 75, 92, 98 - francese 74-75, 77, 79-81 - i n g l e s e 74-75, 77 -81 ,97 - latina 77-78, 91-92 - mandarina 340 - russa 75, 79-80 - potere e 79-82 Lingua di comunicaz ione generale

(Language of Wider Communi -cation, LWC) 77

Lituania 81, 228, 2 3 1 , 2 3 9 Lloyd George, David 124 Lord, Winston 334 Lussemburgo 227

Macao 247, 252 Macedonia 197, 235

Maghreb 167, 312, 371 Mahathir, M o h a m m a d 154, 188-

189, 2 2 0 - 2 2 1 , 4 6 0 Mahbubani, Kishore, 73, 144, 350 Malaysia 96, 122, 130, 144, 151-152,

165, 174, 196-197, 244-245, 248, 253, 280, 283, 285, 314, 321, 339, 347-348, 369, 375, 380, 393, 408, 427-428

Malta 232 Mao Tse-tung 64, 89, 147 Marocco 157, 161, 163, 171, 178,

256, 2 9 1 , 3 6 7 Marxismo-Leninismo 28, 34, 63-65,

139, 147-148, 156, 184, 197, 204, 255, 306

Mauritania 367 Mauss, Marcel 46 Mazrui, Ali 98, 100, 184, 273 McNeill , William H. 43, 51, 126,

136, 141 Mearsheimer, J o h n 38-39 mediaz ione congiunta, regola della

473 Medio Oriente 60, 72, 115, 124,

185, 193, 207, 214, 259-260, 278, 305, 318, 380, 391-392

Melko, Matthew 47, 49, 51, 450 Mercato c o m u n e centroamericano

180, 190 Mercosur 180, 186, 190-191, 356 Mernissi, Fatima 313, 369, 372 Messico 13-14, 39, 53, 153, 178,

180, 191, 194, 218, 223, 279, 356 - c o m e paese in bilico 198-199, 215 - identità culturale 216-218 - immigrazione dal 217, 295-300 Mintz, Sidney 195 Mitterrand, François 124, 294 Miyazawa, Kiichi 283 Mladic, Ratko 426 model l i 25-28, 36-38 - dei due mondi 30-32, 37 - del caos 35-37 - della Guerra fredda 26-27, 38 - del le civiltà 8, 38-39 - di un solo m o n d o 28-30, 37 - realista 32-34, 39, 268 - statalista 32-39

Page 492: SamuelPHuntington-Loscontrodelleciviltàeilnuovoordinemondiale

m o d e r n i s m o 140 modernizzaz ione 74, 84, 88, 95,

120, 125, 131, 165, 182, 198, 290, 479

- accettazione della 97-99 - crisi di identità e 101, 134, 139 - culture tradizionali e 89, 98, 103,

140 -142 ,223 - industrializzazione e 88 - occidental izzazione e 15, 54-55,

95-105, 200-201, 218 - rifiuto della 95-96 Moldova 179, 233, 236, 238 Mongolia 5 6 , 1 3 0 , 1 9 9 , 323, 240, 360 Moore, C lement Henry 162 Moro e governo filippino, confl i t to

tra Fronte 376, 396, 408 Morrison, J o h n 242 Mortimer, Edward 65 Moynihan, Daniel Patrick 35 Myrdal, Gunnar 457

Nagornyj-Karabach 197, 242, 375, 379, 405, 414, 416-417, 436, 439, 444

Naipaul, V. S. 36 Nanch ino , trattato di 338 Nasser, Gamal Abdel 257 Nato (North Atlantic Treaty Orga-

nization) 13, 40-41, 121-123, 178-179, 181, 185, 187, 207-208, 214-215, 232-236, 316, 322, 358, 459, 462-463

- appartenenza alla 228 - nei conflitti di comuni tà 424-426,

428, 432, 440, 442 nazional ismo 65, 139-140, 148-149,

206, 215-216 nazioni-stato 37, 63 - inf luenza decrescente del le 34-35 - interessi molteplici 32-34 - politica di contrapposiz ione o di

a l l ineamento da parte del le 337-352

- rapporti di anarchia tra 32 Nazioni Uni te 13, 29-30, 38, 40,

208, 225, 235, 273, 282, 284-286, 304, 357, 421-429, 432-433, 443, 445, 474

- sforzi volti al m a n t e n i m e n t o della pace da parte del le 225

Nixon , Richard 243, 284 Nord America 52-53, 65, 113, 185,

191, 223, 272 - rapporti con il Messico 216-217 - vedi anche Canada; Stati Uniti North American Free Trade Agree-

m e n t (Nafta) 180, 186, 189, 191-192,216-218, 2 2 3 , 3 5 6 , 461

Nuova Zelanda 53, 113 ,187,189, 223 Nigeria 24, 88, 157, 194, 196, 280,

381 Nye, Joseph 125

occidental izzazione 129, 147-148 - accettazione della 97-99 - modernizzazione e 15, 54-55, 95-

105, 200-201 - m o d e l l i di 95, 100-101 - paesi lacerati e 101, 198 - rifiuto della 95-96 Oksenberg, Michael 348 Organizzazione della conferenza

islamica (Oci) 256-257, 260, 407, 427-428, 474

Organizzazione dell 'unità africana 474

Organizzazione mondia le della sa-nità 336

Organizzazione mondia le per il c o m m e r c i o 328, 336

Organizzazione per la cooperazio-ne e c o n o m i c a (Oce) 190

Organizzazione per la l iberazione del la Palestina (Olp) 367, 396, 445

Organizzazione per la sicurezza e la cooperaz ione in Europa (Osce) 186, 322

oriental ismo 32 ortodossia 132-133, 138, 179, 230,

233, 235-236, 306, 358, 402, 462 Óza l .Turgut 208-211, 213-214, 260,

415

Paesi baltici 60 Paesi Bassi 55, 83, 227 paesi - d i v i s i 195-197

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- i s o l a t i 96, 194-195 - i n bi l icol98-199, 223 paesi musulmani vedi civiltà islami-

ca Pakistan 40, 81, 122, 128, 133, 159,

161, 165, 167, 180-181, 190, 226, 256, 259, 269, 272, 274-276, 279, 284-285, 312, 314, 328, 353-354, 361, 365, 367, 369-371

- nei conflitti di comunità 378, 380, 386, 393, 405-406, 408, 427-428

Palestina 257, 380, 406 Palmer, R. R. 63 Panama 195, 421 Partner for Peace (iniziativa Nato)

232, 425 Papandreou, Andreas 424 Parker, Geoffrey 61 Parlamento e u r o p e o 287 Pasqua, Charles 294 Patto andino 180, 186, 190-191, 356 Patto di Varsavia 120, 178, 227, 463 Payne, James 383 Paz, Octavio 215 Pearson, Lester 41-42, 480 Peres, Sh imon 190 Perry, Matthew Calbraith 96 Persiani 46-47, 59 Pietro il Grande, zar di Russia 198-

202, 207 Pipes, Daniel 96-97, 104 pluralismo 93 Polonia 41, 60, 162, 178, 191, 209,

227, 230, 232-233, 239, 421 Portogal lo 60, 94, 216, 227, 280,

316 potere: - a l l ineamento al 337-352 - centralizzazione del 201 - coercitivo contro persuasivo 125-

126, 154 - cultura e 7, 124-125, 265, 310 - dec l ino in occ idente 25, 110-112,

222, 286, 288, 466 - mutament i negli equilbri di 111,

145, 305, 334 - uso della l ingua e 79-82 Prima guerra mondia le 29, 63, 307,

360, 389

Proposit ion 187 13-14, 297, 300 protestantes imo 91, 137-138, 280,

355 Prussia 16 Putnam, Robert 440 Pye, Lucian 50, 345

Quaid-i-Azam 128 Quigley, Carroll 43, 49-50, 57, 451-

453

Rafsanjani, Akhbar Hashemi 273, 275, 353

Raspail, Jean 298 regioni 123, 185 - cooperaz ione e c o n o m i c a all'in-

terno del le 185-186 regola del l 'astensione 473 regola del le c o m u n a n z e 477 relativismo 475 relazioni internazionali , teoria del-

le 268 rel igione 65, 75, 82-85, 92, 101,

103, 131-132, 134-136, 139, 397 - autorità statale e 92, 258 - civiltà definite dalla 47, 55 - reviviscenza del la vedi anche i sin-

goli paesi e Rinascita islamica Repubblica Ceca 41, 178, 191, 209,

227, 230, 232-233, 439 Repubblica della Trans-Dniestr 238 Restaurazione Meiji 96, 146, 149 Rifkind, Malcom 459 riforma protestante 53, 91, 156-

157, 168, 173 Rinascita islamica 128, 131-133,

143, 154-158, 164-168, 173, 174, 212-213, 214, 255, 309, 312

- manifestazioni pol i t iche del la 159-161

- risorse petrolifere 166, 259 Rivoluzione bolscevica 63, 202-203,

238 Rivoluzione francese 63 Rivoluzione iraniana 160, 169, 316 Rodinson, Maxine 104 Romania 178-179, 227-228, 230-

234, 236, 238, 423-424 Roosevelt, Franklin D. 29, 368 Roosevelt, Kermit 116

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Roosevelt, T h e o d o r e 457 Roy, Oliver 161 Rubin, Barnett 411 R w a n d a 1 7

Sagan, Scott 474 Said, Edward 32 Sacharov, Andrej 204 Sahnas, Carlos 216-218, 336 Saposnikov, Evgenij 415 Savitskij, Peter Scandinavia 60 Schlesinger, Arthur M. 456, 465 Schwartz, Benjamin 57 Schweiler, Randall 342 secolarismo 97, 132, 165, 206, 213,

260, 313 - vedi anche rel igione Seconda conferenza mondia le de-

gli imprenditori cinesi 247 Seconda guerra mondia le 29, 117,

120, 147, 150, 203, 255, 272, 307, 327, 333, 389, 411

Septinac, Alojzieje 421 Serbia 17, 40, 73, 82, 179, 183, 197,

205, 226, 233-236, 360, 387-389, 399-401, 405, 419-435, 442, 444-446

Sevarnadze, Eduard A. 238 Sicilia 306 Sid-Ahmed, M o h a m m e d 312 Silajdzic, Haris 397, 401 Singapore 9, 104, 122, 130, 134,

138, 144, 149, 151-153, 180, 197, 243-245, 247-248, 250, 252-253, 282-283, 285, 321, 324, 347, 352, 476-477

s ionismo 273 Siria 171, 178, 269, 273-274, 280,

285, 314, 317, 367-369, 373 sistema internazionale , società in-

ternazionale 44, 62, 64, 67, 111 Sivard, Ruth Leger 382 Slavonia 424, 443 Slovacchia 41, 178, 191, 209, 227,

230, 232-233 Slovenia 197, 209, 228, 232-233,

420 socialismo 65, 139-140, 203

Solzenicyn, Aleksander 204-205 Somalia 17, 73 Spagna 9, 59-60, 157, 193, 216, 227,

280, 307, 316, 333, 434-435 Spengler , Oswald 43, 46, 51, 67-68,

101, 111 Sri Lanka 24, 56, 130, 193, 196-197,

226, 376, 379, 385, 409 Stalin, Josef 131, 201, 268 Stankevic, Sergej 205 Stati Uniti 9, 13-14, 16-17, 30, 33-

34, 38-41, 54, 60, 73, 88, 121-123, 144-145, 147, 151-152, 178-181, 185, 187, 189, 191-193, 216-219, 223, 225, 226, 232-233, 259, 266, 268, 271, 274, 277-283, 287, 305, 315, 317-319, 321, 324-338, 362, 364-365, 367-368, 373-374, 465-466

- alleati degli 208 - amministrazione Bush 121, 278,

2 8 1 , 3 2 5 , 3 3 7 , 3 6 9 , 461 - amministrazione Clinton 121,

233-234, 276, 278-279, 281-283, 297, 306, 316, 325-326, 334-335, 373, 432, 456, 461-462

- amministrazione Nixon 243 - amministrazione Reagan 124, 337 - dec l ino morale degli 454 - e g e m o n i a cinese e 243, 247, 249,

251, 342-344, 347-351 - futuro degli 110, 455-160 - identità occidentale degli 15, 456-

459 - immigrazione negli 217, 290-291,

295-302, 356, 455 - nei conflitti di comunità 419, 421-

425, 427, 432^134, 439-443, 461-462

- pluralismo culturale negl i 456-459, 475

- potere degli 109, 112, 118, 269-270

- rapporti commerciali 325-326, 332 Sud Africa 9, 55, 130, 178, 181, 194,

260, 299, 356 Sud America 216, 296 - vedi anche i singoli paesi e civiltà la-

t inoamericana

Page 495: SamuelPHuntington-Loscontrodelleciviltàeilnuovoordinemondiale

Sudan 24, 41, 161, 226, 254, 257, 285, 314, 317, 367, 369

- conflitti di comuni tà in 196, 376, 381, 393, 396, 406, 408, 429, 438

Suharto, generale 124, 164-165, 248, 368

Svezia 9, 178, 185, 227, 231, 284, 439

Svizzera 71, 290, 429 sviluppo e c o n o m i c o - associazioni regionali e 185 - inf luenze culturali sullo 17-18 - immigrazione e 172 - m o d e l l o est-asitico di 17, 24, 110,

118, 144-145, 153 - mutament i nel lo 111

Tagikistan 82, 167, 180, 360, 376, 380, 396, 398, 402-403, 406, 410-411, 439

Taiwan, Repubblica di Cina 9, 104, 122, 144, 149, 152, 180, 188-189, 191, 226, 243, 245-252, 281, 283, 287, 321-322, 324, 328, 335, 337, 339-340, 348, 351-352

Tanzania 196, 381 tecnologia 103-104, 118-119, 140,

290 - del le comunicazioni 86 teoria degli imprestiti 101 Ter-Petrossian, Levon 444 terrorismo 35, 272, 318 Terzo M o n d o 115, 122, 225, 243 - conflitti durante la Guerra fredda

16, 404 - conflitti post-Guerra fredda 28,

405 - vedi anche i singoli paesi Thailandia 56, 122, 134, 144, 226,

243-244, 246, 323, 347-348, 380, 393

T i e n a n m e n , Piazza 147-148, 247, 283

Tibet 56, 224, 243, 323, 328, 337, 340, 376

Timor orientale 197, 283, 323, 376, 380, 404

Toynbee , Arnold 43, 47-48, 50, 68, 97, 450

Trattato di non-prol i ferazione nu-cleare 279-280, 284

Truman, Henry 26 Tudjman, Franjo 420, 443, 445 Tunisia 140, 156, 164, 171, 178,

256-257, 2 9 1 , 3 1 4 , 367, 427 Turchia 13, 17, 39-40, 60, 98, 153,

156, 160-161, 163-164, 178-181, 185, 190, 206-216, 218, 220, 223, 226, 232, 234-235, 256, 260, 285, 289, 307, 314, 367, 371, 373, 379, 393, 405-406, 413-417, 419, 427-429, 431, 433, 439, 444

- identità culturale 183, 209 - c o m e paese in bil ico 98, 198-199,

214-215, 261 Turkmenistan 82, 167, 210

Ucraina 24, 38-39, 81, 120, 178-179, 197, 205, 233, 236-242, 271, 358, 424

Uganda 17, 408, 438 Umehara, Takeshi 458 Ungher ia 41, 60, 178-179, 191, 209,

227, 230, 232-233, 421 U n i o n e e u r o p e a 24, 66, 178-179,

186, 189, 192, 209-210, 227-228, 231-232, 234-236, 283, 322, 358, 420, 4 4 1 , 4 6 0 , 474

U n i o n e Sovietica 13, 16, 24, 28, 33-34, 39, 64, 80-81, 112, 123, 126, 139 ,147 , 150, 172, 197, 203, 207-208, 211, 215, 218, 223-224, 230, 233, 237, 244, 271, 277, 318-319, 337, 339, 344, 364-366, 461-462

- alleati della 243 - conflitti di faglia in 389-390, 408 - dissoluzione della 109, 162, 178,

210, 227, 235, 237-238, 281, 307, 417, 458

- potere ed aggress ione militare 120, 232

- vedi anche civiltà russo-ortodossa urbanizzazione 88, 116, 140, 165 Uzbekistan 82, 167, 190, 210, 403,

410

Vaticano 419, 421 Venezuela 180, 191, 194

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Vietnam 52, 56, 63-64, 133, 144, 187-188, 225, 227, 285, 296, 321, 323-324, 328

- e g e m o n i a c inese e 243, 248, 339, 347-348

Visegrad vedi Area centroeuropea di l ibero scambio

Vlahos, Michael 73 Wallerstein, Immanue l 43, 46 Walt, S tephen 341-342 Walzer, Michael 475 Weber, Max 43, 55, 148 Wee Kim Wee 476 Weidenbaum, Murray 248

Weigel , George 133 Weiner, Myron 290 West, Rebecca 433 Westfalia, Trattato di 35,62-63, 65 Wilson, Pete 297 Wilson, Woodrow 124

Xinjiang 340, 380

Yemen 285, 314, 367

Zaire 17 Zia ul-Haq, M o h a m m a d 165 Zirinovskij, Vladimir 129, 205, 237

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INDICE

Prefazione 7

I. UN MONDO DI CIVILTÀ

CAPITOLO PRIMO La nuova era della poliuca mondiale 13

Bandiere e identità culturale 13 Un mondo multipolare e a più civiltà 15 Altri mondi? 25

Mondi a confronto: realismo, norma, previsioni 36

CAPITOLO SECONDO Le civiltà nella storia e nel mondo contemporaneo 43

La natura delle civiltà 43 I rapporti tra le civiltà 56

CAPITOLO TERZO Una civiltà universale? Modernizzazione e occidentalizzazione 69

Civiltà universale: significati 69 Civiltà universale: argomentazioni 84 L'Occidente e la modernizzazione 88 Reazioni all'Occidente e alla modernizzazione 95

II. I MUTAMENTI IN ATTO NEGLI EQUILIBRI TRA LE CIVILTÀ

CAPITOLO QUARTO Il declino dell'Occidente: potere, cultura e indigenizzazione 109

Il potere occidentale: dominio e declino 109 Indigenizzazione: la rinascita delle culture non occidentali 124 La rivinicita di Dio 131

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CAPITOLO QUINTO Economia, demografia e civiltà antagoniste 143

L'affermazione asiatica 144 La Rinascita islamica 154 Nuove sfide 172

III. L'ORDINE EMERGENTE DELLA CIVILTÀ

CAPITOLO SESTO La ridefinizione culturale dello scenario politico mondiale 177

Alla ricerca del gruppo: la politica dell'identità 177 Cultura e cooperazione economica 185 La struttura delle civiltà 192 Paesi in bilico: il fallimento dei cambi di civiltà 199

CAPITOLO SETTIMO Stati guida, cerchi concentrici e l 'ordine delle civiltà 224

Le civiltà e l'ordine interazionale 224 I nuovi confini dell'Occidente 226 La Russia e i paesi dell'ex impero 236 La Grande Cina e la sua «sfera di coprosperità» 243 L'Islam: coscienza senza coesione 253

IV. SCONTRI DI CIVILTÀ

CAPITOLO OTTAVO L'Occidente e gli altri: rapporti tra le civiltà 265

L'Universalismo occidentale 265 La proliferazione degli armamenti 269 Diritti umani e democrazia 280 Immigrazione 289

CAPITOLO NONO Lo scenario politico del mondo delle civiltà 303

Conflitti tra stati guida e conflitti di faglia 303 L'Islam e l'Occidente 306 Asia, Cina e America 319 Civiltà e stati guida: schieramenti emergenti 353

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CAPITOLO DECIMO Dalle guerre di transizione alle guerre di faglia 364

Guerre di transizione: Afghanistan e Golfo 364 Caratteristiche delle guerre di faglia 374 Incidenza: i confini insaguinati dell'Islam 378 Cause: storia, demografia, politica 384

CAPITOLO UNDICESIMO La dinamica delle guerre di faglia 395

Identità: l'emergere di una coscienza di appartenenza 395 La chiamata a raccolta delle civiltà: paesi fratelli e diaspore 404 Guerre di faglia: soluzioni possibili 435

V. IL FUTURO DELLE CIVILTÀ

CAPITOLO DODICESIMO L'Occidente, le civiltà e la civiltà 449

La rinascita dell'Occidente? 449 L'Occidente nel mondo 460 Guerre di civiltà e ordine delle civiltà 466 Le comunanze della civiltà 4 74

Cartine, figure e tabelle 481

Indice analitico 483