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Scritture sulla musica. Voci novecentesche · "però allestito soltanto nel 1924 a New York. Il...

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Scritture sulla musica. Voci novecentesche Modulo di c.d.l. Magistrale: Lineamenti di letteratura italiana contemporanea Prof. Tommaso Pomilio A.A. 2016-2017
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Scritture sulla musica. Voci novecentesche

Modulo di c.d.l. Magistrale:Lineamenti di

letteratura italiana contemporanea

Prof. Tommaso PomilioA.A. 2016-2017

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ALBERTO SAVINIO

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Itinerario musicale di Savinio

L ’avvertimento ad una rilettura dell’opera letteraria di Al­berto Savinio coinvolge la costante presenza della musica o meglio del linguaggio musicale come sottofondo «psicologi­co» di tutta la sua attività creativa, compresa quella pittorica che è anch’essa strettamente legata alla vocazione musicale. Per questo le riflessioni «critiche» sulle musiche ascoltate, vissute e rivissute nella memoria, che Savinio ci dà negli anni trenta e quaranta, hanno un fondamentale senso autobiogra­fico, rispecchiano un itinerario percorso, sin dalla gioventù, alla ricerca di un insondabile segreto che la musica cela in sé, ma che mai rivela nella sua totalità.

« L ’essenza della musica — scriverà Savinio in tempi recen­ti — sfugge talmente a qualunque possibilità di conoscenza, che l ’uomo tenta spiegarsela mediante spiegazioni immagina­rie... A che voler spiegare l ’inesplicabile? la sola definizione che si addica alla musica è laJM.on Mai Conoscibile. E non senza ragione. La non conoscibilità della musica è la ragione della sua forza, il segreto del suo fascino... Cedere alla musi­ca è un atto di soggezione a quello che non si conosce, e per questo attira... Musicista, io mi sono allontanato nel 19 15 , all’età di ventiquattro anni, dalla musica, per paura» '.

Vocazione musicale precoce la sua, se si pensa che a dodici anni ottiene il diploma di pianoforte e di composizione al Conservatorio di Atene e due anni dopo (1905) scrive un Re­quiem per la morte del padre; a quindici anni un’opera in tre atti, su libretto proprio, Carmela (1906), nella scia del teatro musicale verista, talché l ’opera interessò Mascagni che la pro-

1 Musica, estranea cosa, in Appendice, pp. 7-8.

Luigi Rognoni

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xvm Luigi Rognoni

pose a Ricordi per la pubblicazione. Ma non se ne fece nulla. Savinio stesso, in breve tempo, avvertì che bisognava imboc­care altre strade; e lo avverti nel 1 9 io, quando giunse a Pa­rigi, dopo aver approfondito lo studio dell’armonia e del con­trappunto con Max Reger a Monaco. Vi giunge come compo­sitore e pianista e richiama presto l ’attenzione di Djagilev e Strawinsky, di Max Jacob e Guillaume Apollinaire.

Nel 1912 inizia la composizione di un’opera in tre atti, Le trésor de Rampsénit, su testo di M. D. Calvacoressi, letterato e critico musicale di punta; e nel 19 13 , l ’anno del Sacre du printemps di Strawinsky, che suscita un memorabile scanda­lo, a pochi mesi di distanza, Savinio scrive un balletto, Per­sie, su soggetto e coreografia di Michael Fokine, che verrà

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una svolta brusca nel linguaggio musicale saviniano; e ciò che sbalordisce è l ’assoluta indipendenza dalle influenze domi­nanti in quel periodo nel crogiolo parigino: non v ’è traccia né di Debussy, né di Ravel e neppure di Strawinsky, se non in rari brandelli che vengono assunti come materiali di rot­tura, come risulta da una nutrita serie di pezzi per voce e pia­noforte, tutti su testi propri, emblematici, che già rivelano quell’ironia invereconda precorrente il dadaismo (1916) e persino con sorprendenti anticipazioni oniriche che verran­no assunte dal surrealismo (1924).

Alcuni titoli di queste composizioni (Mes poumons argen­tés, La passion des rotules, Matinée alphabétique, Le géné­ral et la Sidonie, Les viscères œuîllées, Je me sens mourir de néant, Il cuore di Giuseppe Verdi...) possono far pensare a Erik Satie, che proprio in quegli anni scrive le sue pièces ter­ribles come antidoto ai narcotici del wagnerismo e dell’im­pressionismo.

Ma la musica del giovane Savinio non ha alcun rapporto con la musique de tapisserie e con l ’intellettualismo formali­stico che da essa scaturirà, nell’immediato primo dopoguer­ra, col Groupe des Six e 1’«estetica» dissacrante di Jean Coc­teau. Avverso all’Art pour l ’Art, il progetto musicale di Sa- vinio mira al teatro, ad un teatro «metafisico» dove il rap­porto tra musica e dramma venga inteso non più come « illu­strazione» del dramma attraverso la musica, ma come rap-

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porto paritetico che garantisca, nello stesso tempo, unità e autonomia all’«azione drammatica» e all’«azione musicale»; giacché «la musique est un art exceptionnel qui ne tolère point la façon, et qui exige d’être employé tel qu’il est... Ainsi donc, ayant à présenter, dans l ’ensemble d’une œuvre, l’élément musical de concert avec l ’élément dramatique... on ne devra voir dans cette association qu’un rapprochement complètement désintéressé, car l ’élément musical ne dépen­drait guère de l ’élément dramatique, ni même celui-ci du premier» '.

Il progetto si realizza nei Chants de la Mi-Mort, definiti «scènes dramatiques d’après des épisodes du Risorgimento» e per i quali Savinio scrive la musica e dipinge i bozzetti dëT- le scene e dei costumi, questi ultimi andati perduti. In quello stesso febbrile 19 14 che vede nascere i Chants de la Mi-Mort, un altro progetto nasce nel sodalizio con Apollinaire: A quel­le heure un train partira-t-il pour Paris?, «une "pantomime” de Guillaume Apollinaire - Musique d’Alberto Savinio — Dé­cors et mise en scène de Francis Picabia et Marius de Zayas», ideata per essere rappresentata negli Usa, e dove i personaggi («Le musicien sans yeux et sans oreilles», « L ’homme sans bouche», che doveva tuttavia suonare il flauto, ecc.) appaio­no strettamente imparentati con quelli dei Chants de la Mi- Mort («L’homme-chauve», « L ’homme-jaune», «Les hom- mes-cibles») e mostrano quella tendenza saviniana ad una spersonalizzazione metafisica che in pittura verrà subito rac­colta dal fratello De Chirico e più tardi, su un altro versante, dai surrealisti \ La musica per Savinio doveva dunque muo­versi su questo piano, realizzare in sé e per sé questa nuova visione della realtà: «La musique est l’émanation d’une mé­taphysique réelle», proclamerà nel 19 15 3.

Intanto in un concerto tenuto il 24 maggio 19 14 nei lo­cali della rivista di Apollinaire «Les soirées de Paris», Savi­nio presenta alcuni estratti da suoi lavori teatrali (le danze da Le trésor de Rampsénit e da tre balletti, Deux amours dans

1 he drame et la m usique, in Appendice, p. 426.2 In un articolo sul Poeta assassinato («La Voce», 3 1 dicembre 1916), Savinio

ricorda come nelle «canicole del ’ t4 » , durante lunghe serate nel «paccobotto edili­zio» di Apollinaire, dove tutto suggeriva il teatro, nacque e svani questo progetto di una pièce newyorkese.

3 Dammi l'anatema, cosa lasciva, in Appendice, p. 433.

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la nuit, Persée e Niobé) in proprie trascrizioni per pianofor­te; inoltre, fuori programma, una suite di sei pezzi da Les Chants de la Mi-Mort, che è tutto quanto è rimasto della par­titura musicale di queste «scènes dramatiques». Nelle note illustrative al programma di sala (scritte dallo stesso compo­sitore) si precisa che nelle opere nate per il teatro (soprattut­to in Niobé) «la musique n’intervient plus dans le drame que comme un élément parfaitement indépendant»; e quanto al­le caratteristiche del linguaggio musicale, esse sono fondate sull’« absence complète de toute polyphonie, ainsi que l’in­souciance la plus grande pour toute recherche armonique. La musique de M. Savinio n’étant point harmonieuse, ni même harmonisée, est, pour ainsi dire, une musique désharmonisée. La structure se base essentiellement sur le dessin. Chacun de ces dessins — pour la plupart tous très corrects — se répète deux, trois et même quatre fois, selon le besoin naturel de l ’oreille; et, après une pause d’un seul temps, un dessin diffé­rent intervient aussitôt. C ’est ainsi une musique point façon­née et nullement pétrie, mais dessinée et hdrizontale» '.

In queste secche e lucide dichiarazioni non è difficile scor­gere le più avanzate anticipazioni di quelle tendenze ridutti­ve del linguaggio musicale che, attraverso l ’atonalità (l’assen­za e la negazione di ogni struttura armonica tonale), sfocie- ranno nelle nuove proposte strutturali delle neoavanguardie. Leggendo oggi questa suite per Les Chants de la Mi-Mort, es­senzialmente fondata su rapporti intervallari dissonanti (se­conde minori in posizione stretta e lata, settime, brusche com­mistioni di diatonismo, esatonalismo e cromatismo), spesso fusi in aggressivi blocchi ritmici, ci si trova sorprendentemen­te in presenza di un modus operandi e di una tecnica pianisti­ca, sia pure ancora allo stato sperimentale e memore di remi­niscenze persino lisztiane, che precorrono analogicamente i procedimenti dei Klavierstücke di uno Stockhausen o di un Boulez.

La guerra interrompe l’attività creativa del giovane musi­cista. Nel 19 15 , rientrato in Italia, Savinio viene arruolato e assegnatcfaFservizio militare a Ferrara, dove incontra Car-

1 Nota al programma di un concerto, in A ppendice( p. 428.

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rà, De Pisis, Morandi, Soffici; da questo momento i suoi in­teressi si spostano verso la pittura e la letteratura o meglio vengono assunti come integrazione a quel « manque de tota­lité» della musica che egli aveva lamentato; e questo spiega la rinuncia di Savinio alla musica puramente strumentale e il suo crescente interesse per il teatro musicale. Anche se non compone, la sua attenzione ai destini della musica è sempre viva e tagliente: «La musique contemporaine n’est qu’un va­gue bourdonnement. Une musique véritable atteint l ’éclat d’une détonation spirituelle. Par l’intermittence rendre à la musique toute sa vivacité; la liberer de la formule d’égalisa­tion où elle git, retenue par effet de sa moralisation», così scrive in una serie di «aforismi» che egli invia a Picabia, emi­grato a New Y ork1.

Ma nell’immediato dopoguerra riprende improvvisamen­te l ’attività musicale con due balletti che vengono messi in scena nel 1925: La morte di Niobe, «tragedia mimica» (Ro­ma, Teatro dell’Arte) e Ballata delle stagioni (Venezia, Tea­tro La Fenice). Poi il decisivo passo verso la pittura nel 1926- 1927, quando ritorna a Parigi ed entra in rapporti con An­dré Breton e i surrealisti, unico tra gli italiani che verrà inclu­so nell 'Anthologie de l ’umour noir ( 19 3 s)2.

Forse avverte che col pennello può spaziare in un poli­morfismo più «concreto» che coinvolge direttamente la real­tà fisica e metafisica delle cose e della figura umana; «realtà» anche come ironia che era già presente e centrale nella sua ricerca musicale e drammatico-letteraria. Cosi nei Chants de la Mi-Mort e così in Hermaphrodito (19 18), definito «con­certo», dove il carattere stilistico del linguaggio saviniano Ha le stesse cadenze degli irrompenti pezzi musicali del 19 14 , e si può in parte ricondurre anche alla «visione interiore» de­gli espressionisti, ma con una sostanziale differenza: che'que- sta «visiono è sempre sostenuta da una sotterranea ludicità intellettuale, retta dall’ironia che è una delle forme della ra­tio. Savinio stesso definisce la «tecnica» linguistica di Her­maphrodito come «gusto dell’assurdo, deformazione della

1 Dammi l ’anatema, cosa lasciva, in Appendice, p. 432.2 Breton incluse né\\’ Anthologie un brano da Introduzione a una vita d i Mercu­

rio (trad. it. Antologia dello humour nero, a cura di M. Rossetti e I . Simonis, Tori­no 19 7 1 2, pp. 303-8).

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realtà, inversione dei valori, umorismo nero, magismo, sur­realismo, tutto il diabolico gioco che riempie il mondo della metaphisica naturalis » '.

Cosi la collisione tra fantasma e sofisma, il prolungamen­to dalla coscienza all’inconscio si proiettano anche nelle sue «riflessioni» sulla musica, dove il retaggio della memoria, la reminiscenza, la digressione poetica s’innestano, anzi vengo­no sollecitati dal resoconto critico, sempre lucido e puntuale.

Una analoga scrittura «critica» traspare nelle partiture che nascono di getto nel secondo dopoguerra, dal 1949 al 19 5 1 (Agenzia Fix, Orfeo vedovo, Cristoforo Colombo, Vi­ta dell’uomo). Savinio usa i materiali più eterogenei, rinun­ciando alle tendenze radicali d’un tempo, ma non ai principi enunciati nel 19 14 : i materiali sonori, talvolta assunti come collage, vengono strutturati in un sottile procedere di dimen­sioni prospettiche (armoniche ora, oltreché melodiche) nel rapporto tra percezione auditiva e percezione visiva, dove la «métaphysique réelle» si realizza come sintesi. L ’opera che meglio riflette questa sintesi è Orfeo vedovò (1950), un at­to, recentemente riproposto alla Piccola Scala di Milano (di­cembre 1974), dove Orfeo è vedovo, «vedovo momentaneo, della Poesia. Ed è in questo momentaneo vedovo della Poe­sia, e dunque momentaneamente minorato, che Orfeo cade momentaneamente nello sciocchismo degli uomini e della vi­ta. Quanto alle pallottole che la sua rivoltella spara, esse non lui, Orfeo, uccidono, ma, intorno a lui, lo sciocchismo degli uomini e della vita. A lui anzi, Orfeo, consentono di ritrova re 1’ " altra” Euridice, la vera Euridice: la Poesia. Più esatta­mente, il complemento di se stesso. Stavo per dire il com­plimento»2.

L ’ironia di Savinio si è fatta amara, emblematica; e la sua musica la riflette con sferzante spregiudicatezza vocale e stru­mentale: armonie allocche contro dissonanze e boutades tim­briche degli strumenti, uno sciorinare ritmico del tanto con­tro intrusioni di acre belcantismo... Ed è evidente che 1’«al­legoria » mira anche a denunciare la crescente formalizzazio­ne dei linguaggi artistici delle neoavanguardie degli anni cin­

1 In Piccola guida alla mia opera prima, Milano 1947. Hermaphrodito è stato ristampato di recente (1974) in questa stessa collezione.

2 Parlo d i «Or/eo vedovo», in Appendice, p. 446.

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quanta, che, fatta tabula rasa dell’arte del primo Novecento, minacciano di insterilire nel gesto puramente materico, nel suono massa, che rifiuta la comunicazione, aliena il messag­gio, per porsi come rottura e provocazione, ma che finiscono con l ’essere neutralizzate e inglobate nei mass media dell’in­dustria culturale. Questa situazione Savinio la avvertì sino all’ultimo, anche se non la denunciò apertamente, tuttavia lasciandola trasparire nelle sue mordaci critiche «d’ascolto»; e, sino all’ultimo, affermò la musica, romanticamente se si vuole (ma non aveva parlato, sin dal 1914, di un second ro­mantisme o di romantisme complet?) come linguaggio del­l ’assoluto, messaggio metafisico dì ciò che la parola non può esprimere, «elemento essenziale dell’educazione. Non può esservi civiltà senza musica. La musica insegna a stare: a sta­re in compagnia e a stare soli... La musica ci mette in comu­nicazione col moto dell’universo e col nostro proprio movi­mento interno. La musica insegna a vivere, nel senso più pro­fondo e metafisico della parola. E quella sola civiltà sarebbe perfetta ove tutto quanto, uomini e cose, si movesse a suon di musica » 1

La sua attività di critico musicale «militante» tra le due guerre e nel secondo dopoguerra, si esplica soprattutto a Roma e a Milano dove egli frequenta concerti e opera. Ogni suo resoconto trascende l ’informazione o la pura descrizione delle musiche ascoltate, e riconduce sempre l ’ascolto ad un orientamento di scelte che si rapportano alla «crisi» e alla problematica della musica moderna e contemporanea. Il suo dichiarato antidealismo, in anni nei quali il crocianesimo si prolungava con caparbia tenacia negli schemi della critica musicale italiana, non mancò di richiamare l ’attenzione di Fausto Torrefranca, musicologo «positivista», uno dei pochi che dall’idealismo dei crociani si era tenuto lontano. E fu Torrefranca che volle curare la raccolta postuma di Scatola sonora (Milano 1955) e presentarla, mettendo in rilievo la singolarità e la concreta validità critica (e non solo letteraria) degli articoli e saggi che Savinio aveva disseminato su quoti­diani e riviste.

1 C fr. ep igrafe p . i .

(introduzione alla seconda edizione di "Scatola sonora", Torino 1977)

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Savinio è un uomo tutto esigenze interiori alle quali è necessario che la sua intelligenza, il suo raziocinio, per primi obbediscano. Ma non già alla tedesca, tanto ne era aborrente o, per, lo meno, aberrante: e basta ricordare dove parla di Goethe come primo dilettante del suo tempo, anzi come il più oppressivo dei dilettanti (p. 2 1 1 ).

È persino banalmente letterario affermare che egli sente il dovere di costruirsi il suo mondo, un mondo «alla sua misura» perché l ’uo­mo è, alla greca, misura di tutte le cose ed egli, nato in Grecia, lo sen­tiva per primo obbligo. Questo è anzi il suo primo bisogno e obbligo; e obbligo e bisogno si fondono insieme con tanta pienezza e univocità da diventare passione, passione di giovane puledro; benché le redini le tenga sempre nel pugno, che non gli si adombri.

E per questo non vi sono quasi invettive, nelle sue critiche demoli­trici, né tanto meno acredini: il suo è sempre un esercizio dell’intelli­genza : di un giudizio che sa foggiarsi un cuneo dirompi tore e con po­chi colpi ben dati apre le fibre del più duro ciocco o, più facilmente ancora, sfalda gli scisti delle vecchie rocce che egli vuol demolire. Ta­lora è anche soltanto una insidiosa radice di fico d’india nella dura lava, che la dirompe per creare Vhumus futuro; e la sua origine familia­re siciliana glielo insegnava quasi d ’istinto.

Ma in fondo, sentiamo nelle sue critiche come un diario suggerito giorno per giorno dalle musiche ascoltate; e vogliamo dire, un po’ più tardi, di che natura sia questo diario.

Ne cogliamo qua e là confessioni molto laterali e, appunto per ciò, assai intime: dipendono dalla sua complessa natura ed esperienza di scrittore, musicista e pittore.

Dice, a proposito di Mozart: «per l ’uomo che altra forma di poesia non ha, non è sola poesia l ’amore?» e benché egli fosse pieno di poe­sia, dell’amore, tra lui e la sua donna, si leggono accenni squisiti, in pa­recchi spunti di confessioni. L ’uomo era in lui il primo motore, prima ancora del critico: questo è un modo intimo e raro di essere originale, anzi un modo cattolico. E oltre all’amata, il padre, la madre, i figli sen­tono il diritto di entrare nella sua prosa: come di persone che si sanno tanto amate e perciò, paghe di affacciarsi sulla soglia e di sorridere, non passano via: rispettando, e quasi covando, il lavoro che seguono e caldeggiano.

Fausto Torrefranca

POETICA DI SAVINIO CRITICO MUSICALE

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Perché, egli musicista — ma di musica vocale o di ballo e non di mu­sica senza gesti o senza parole — notiamolo perché è un dato essenzia­le in lui, letterato - sa pure che il musicista, alla maniera sua, è « il me­no creativo, il più ricettivo, il più femminile degli artisti« (p. 39) e le figure familiari non gli possono dare noia neppure se dipinge per­ché «in pittura, arte maschile per eccellenza, l ’ispirazione non esiste» (ibid.).

Perché sorprendersi, dunque, che le sue critiche non siano varia­zioni di temi — antichi o moderni, che essi possano essere - ma rondò, e di sostanza vocale per eccellenza, i cui temi, anzi le melodie iniziali, ritornano immutati o quasi: dopo «intermezzi» o piuttosto «diverti­menti», nel significato schietto della parola.

Persino le capestrerie cabalistiche diventano umorosi temi di ron­dò, «ritorni» che bucano la forma o possono bucarla; ma la bucano e, nello stesso tempo, lo riempiono, come per La sagra della primavera, con l ’insistente ritorno del 28 (2 + 8 - 1 0 ) che egli si crea nel ricordo delle due audizioni: la prima a Parigi e l ’altra a Roma perché, tolto al 10 « l’insignificante zero, dà 1, ossia il numero che significa l ’origine» ossia «un principio nuovo»... « il che del resto si sapeva, anche senza l ’aiuto della cabala»; sebbene spieghi dopo, intelligente umorista, che «era un primitivismo da grand hôtel» (p. 178). Ma badava a non sci­volare nel surrealismo critico.

Savinio era un vero critico della musica, vero e vivo. Ma per lui bi­sogna dire che faceva il critico della musica: lo faceva perché gli ser­viva e non come può servire un lavoro che è anche un impegno pratico. Egli cercava anche di trovare, e di servire, la sua verità e questo gli riscattava il lavoro come non lo riscatta, può dirsi, quasi a nessun altro critico quotidiano.

La sua era una verità ciclica e non soltanto perché egli era, oltre che musicista, anche pittore e scrittore. Ma anche perché non si ritrae­va dall’attività plastica concreta — della scultura e dell’architettura — e tuttavia non era totale. E, in un piano superiore, correva il rischio di non riuscire interamente umana per non dire umanistica (basta che ri­pensiamo a Leonardo).

Certo, di fronte a Leonardo, gli manca il senso completo della mec­canica, della scienza, della matematica, proprio quelle che oggi vorreb­bero riempire tutta l ’atmosfera della vita; ed è naturale: perché oggi, rispetto all’età di Leonardo, le scienze e la tecnica dobbiamo subirle, più che accettarle con gioia e viverle. y

Ogni epoca a parametro umano, di'vita vissuta, ha le sue limitazio­ni, mentre la mera vita di Leonardo ebbe, da sola, il valore di un avve­nire vissuto in mente: di una profezia vissuta in potenza e, sino ad un certo punto, in atto.

Savinio, come pochissimi dei contemporanei, si cercò invece la sua verità e, artista troppo diretto e troppo concreto, rinunziò a raggiun­gerla per le vie e con i metodi dell’estetica: di quell’estetica che, da cinquant’anni, tutti si sono industriati a prodigarsi, come necessario prolegomeno di ogni studio critico e di ogni presentazione storica. E

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Poetica di Savinio critico musicale 453

la critica nostrana, in verità, è di scarso fondo — si parla, s’intende, sempre della musica - e la storia di assai debole conoscenza, proprio nella sua essenzialità sonora e nella vitalità produttrice.

Egli difatti si cercò i fondamenti critici - quali facevano per lui, ar­tista di più di un’arte - e se li trovò creandosi una poetica della musi­ca: un belvedere che non porta nel cielo empireo (o imperiale?!) del pensiero, ma ci lascia ancora a contatto con la terra, vista sotto la luce della poesia; e ce la mostra con l ’aspetto nuovo che l ’artista vuole: an­che e soprattutto quando il critico non è tale per necessità interiore, ma pratica (ciò che in Savinio non è).

Non poteva essere, il suo, s’intende, lo scolasticismo estetico, né quello degli altri italiani, né quello degli stranieri - di oggi o di ieri - neppure pro tempore o come trampolino per salti in alto: siano fatti per necessità tecnica o di capriccio. « Io penso, scrive, che i mali che affliggono l ’umanità vengono in gran parte dalla convivenza di uomini di generazioni diverse... come mettere assieme un prestissimo ed un andante, un allegretto e un largo» (vedi il Ritorno di Ulisse in patria, inedito). « D ’altra parte, - egli confessava {ibid.), di fronte ad una ve­getariana, - io... non riesco ad avere principi, e per chi non può inten­dere da sé avverto che questa è una lode che io mi faccio».

Per questo egli ce l ’aveva col «ritorno all’erudizione» con «le pie riesumazioni» col «devoto dispotismo» che «rivelano un indeboli­mento dell’energia creatoria, una sfiducia nelle proprie facoltà poeti­che e col "reverente amore per l ’antichità” in cui, secondo lui, c ’è in­dubbiamente del dilettantismo»; ma quell’indubbiamente è la scon­trosità di chi ha, in fondo, dei dubbi. Ed io so, per avere più volte con­versato con lui, che egli non sarebbe stato lontano dal mio ideale; e magari avessimo letto insieme almeno alcuni pacchi di quei quintali di musica antica che io da decenni conservo per me perché l ’Italia non sa che farsene, mentre apre il cuore alle musiche straniere di oggi, di ieri e dell’altro ieri ancor più che ai foresti non dica la nuova Siena musi­cale, con la sua nuova porta parlante.

Saremmo andati d ’accordo.Difatti, codesti suoi pensieri sono agitati dal tormento dialettico:

« L ’avviamento dei musicofili, egli dice altrove, verso la musica antica è un altro aspetto del progredire della civiltà; un liberarsi dal grasso, dal duro, dal preciso del dramma quotidiano. Passare da Verdi a N i­cola Porpora, da Beethoven agli Scarlatti, è un avviarsi verso la libera­zione dei sensi, una parafrasi del costante desiderio che l ’uomo ha d ’in­diarsi, o almeno di spegnere in sé il "troppo umano” » (p. 43).

Ma più che il critico — e lo storico che era soltanto in potenza, ed esserlo in potenza era già un prodigio, per un cosi intenso creatore — era veramente l ’artista che si lasciava sfuggire di bocca: «io questo at­teggiamento di umiltà e ammirazione davanti agli "antichi” non lo ho mai sentito, non lo ho mai capito, ... mi ha sempre irritato: in tutti: anche in Francesco Petrarca» (p. 15). Sebbene poi il suo pensiero su Antonio Vivaldi dimostri sino a qual punto l ’artista sentisse il dura­turo di codesti grandi creatori del passato, in cui partta rei.

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454 Fausto Torrefranca

Egli, del resto, era vicino a stringere nella sua mente una conclu­sione, almeno provvisoria. In linea astratta, meglio che teorica, sapeva bene che «fiochi uomini... sono destinati a conoscere la verità; perché un’idea sola può dare la fede, ma a farci intravvedere la verità alme­no due idee sono necessarie — e che (apparentemente) si contraddica­no» (p. 107).

Queste apparenti incertezze egli avrebbe presto risolte perché ave­va fermato il suo pensiero su un’idea che sentiva, se non fondamenta­le, almeno centrale: quella che divideva tutte le musiche in due perio­di: il tolemaico e il copernicano.

Avrebbe sentito presto come un Vivaldi o un Sanmartini - e gli altri contemporanei italiani che ho studiato1 — fossero già, come egli sentiva, dei musicisti copernicani; e, miracolo sorprendente, pur nel­l ’ambito di forme brevi: dove non si agitavano né attiranti soli né im­mense luminose galassie. Dico le forme in iscorcio o sintetiche; e, in­somma, le piti ardue.

Contro i tolemaici egli fu a ragione feroce, ma per dovere e senza crudeltà né astio «in questo mondo razionalista in cui i musici stessi hanno acquistato aspetto e comportamento da ragionieri, e si esercita­no a musiche squisitamente tolemaiche, cioè a dire gelide e architet­tate» (p. 4). Ma anche i musici di altri tempi erano tolemaici: come G . S. Bach che «era sordo e dentro e fuori» mentre «Beethoven... in­ternamente era sconvolto dalle voci di una audizione straordinaria» (P- 2 4 )-

Bach, anzi, «si nascondeva dietro la sua propria musica come die­tro un riparo sicuro» che «il suo tessuto rende altrettanto impermea­bile quanto il fondo oro che circonda le Madonne di Cimabue, quanto il cielo di Tolomeo» (pp. 25 e 51): «un infinito cristallizzato, un infi­nito "sterile” ai fini nostri e al bisogno d’infinito della nostra anima» (p. 51 ). «La sua mente non ha nulla di quel secolo che conobbe gran­di aperture scientifiche e filosofiche» ma rimane ermeticamente tole­maica.

Savinio si accorge di certe difficoltà e dà la colpa non a Bach per­sona ma alla musica che è « arte ritardataria [è un’idea nietzschiana] e il suo progredire è strettamente legato al progresso meccanico degli strumenti musicali».

Poco conta che questo sia un pretesto storico: perché quello che importa a Savinio è che si possa riconoscere e definire, nella musica di Johann Sebastian Bach, la tolemaicità dell’v t e musicale « fino a Han­del e Haydn inclusi» (p. 32); e «bisogna arrivare a Beethoven, il pri­mo musico copernicano» {ibid) «per trovare anche nella musica lo spi­rito del Rinnovamento cbe spezza la forma teologica, che apre la via al destino individuale, e libero dell’uomo, e alle nostre avventure soli-

1 Molti sono gli scopritori di Vivaldi, in Italia e fuori. Basterà che io dica che, nel 1923-24, ho tenuto a Roma, quale libero (liberissimo, anzi) docente dell’Univer- sità, un corso sui Concerti inediti del Prete rosso: rosso di dispetto e di confusione perché nessuno ne parlava; e in particolare sui Concerti di Dresda che oggi, forse, io solo posseggo. Ma Vivaldi era l'asintoto della mia iperbole.

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tarie, alle nostre disperate conquiste, al nostro infinito senza premio». E le pagine che seguono (33 e 34), eloquenti e di sofferta poesia («vi­viamo nel sentimento della pietà») ci attraggono ma non ci fanno di­menticare quanto Galuppi, Sanmartini, Giovanni Benedetto Piatti, V i­valdi, Boccherini - e lo stesso Cambini, a gran torto espulso dalle co­siddette Enciclopedie musicali straniere, - hanno arricchito di stelle cadenti, di nuovi pianetini, di stelle doppie e di intense nebulose il cie­lo: fatto copernicano in una nuova primavera celeste che aveva già pro­dotto, su questa terra, le gemme verdi del madrigalismo (le villote) e, anche prima, della Ars Nova del Trecento.

Ed è dubbio, secondo me, a questo proposito, che i madrigali di Claudio Monteverdi « non richiedano il sentimento di un libero desti­no umano». Ma ciò che conta si è che copernicano e tolemaico sono epiteti bellissimi e convincenti; e delineano due modi di concepire l ’ar­te che possiamo dire superiori — almeno nella musica — a quelli di ro­manticismo e classicismo: sono di sostanza vivente: in realtà, due idee poetiche che possiamo accogliere quali fondamenti duraturi di una nuova «poetica della musica»; e questa crea una prospettiva quasi sen­za limiti, quasi senza linea di fondo.

Che l ’infinito di Bach sia «un infinito metafisico, un infinito "aral­dico” , un infinito a "uso interno” ... cristallizzato... "sterile” ai fini no­stri e al bisogno d’infinito della nostra anima» (p. 51) è vero; eppure un infinito fecondo si ebbe altre volte, ab initio nel jubilus che sant’A- gostino — e della stessa idea era san Girolamo — diceva la sola musica senza parole che si innalzasse sino a Dio.

Altrettanto ricca di essenzialità è la definizione del tolemaico mo­zartiano dove, l ’universo... «decade dalla sua maestà e si riduce ad una elegante ornamentazione» (p. 52) e la dimostrazione del perché «Bach... rappresentante dell’universo tolemaico, e Mozart, o come dire il rappresentante di un mondo neutro, sono i due musici preferiti del nostro tempo» proprio perché « l’uomo è morto» - l ’uomo, si inten­de, dell’umanesimo - e vengono indicati gli « aspetti di una più vasta realtà» che «hanno cominciato a riflettersi prima di tutto nelle arti» {ibid.).

E non possiamo davvero voltar le spalle alle conseguenze surreali­ste e, sino ad un certo punto, politiche che il Savinio ne trae {ibid.).

La sua vista interiore giunge, com’è naturale, più lontano della v i­sta parametrale. Essa vede «l ’uomo-isola» di oggi — e «a questo sto­nante infelice la sola consolazione rimane della donna toccata dall’a­more» — e riconosce che «è merito della donna se il poeta può vivere nella poesia» (p. 36). Ma dobbiamo tenere anche conto dell’apparente contraddizione interna del pensiero di Savinio che «il sesso ammazza la poesia» dove sesso si intenda per sessualità o, tutt’al più, per im­pulso di pubertà: il che, detto di Mozart, è perfettamente ragionevole (P- 43 )-

La musica che Savinio amava e faceva la sappiamo perché egli stes­so ne parla ben presto, a p. 7: «il ritmo è per noi la "garanzia” della

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musica: la garanzia che la musica è doma e addomesticata e che ormai possiamo considerarla "cosa nostra” ...» O ancora: «la sola musica che la mia mente e i miei nervi sopportano è la musica fortemente ritmata, ossia la musica che ha una qualche organizzazione umana e che in fon­do somiglia a noi. Perché il ritmo è l ’elemento umano della musica, la garanzia della sua storia quaggiù e del suo ritorno, la confortante ri­sposta a quella idea del ritorno che è la più umana delle idee ».

Non crediate che, con questo, egli voglia addormentare la musica in quella « narcosi della danza » che ho definito di recente e che pochi ancora avvertono, o forse nessuno - e che domina, soprattutto, nella storia e nella spiritualità della musica nordica - perché il suo istinto vigile l ’avverte che «nella musica... il ritmo è un elemento estraneo, un elemento imposto, un elemento che la musica sopporta a stento e dal quale tende a liberarsi; e per questo la musica meno ritmica (De­bussy) è la più "musicale”, ma anche la più inumana» (p. 7); e gliene diamo ragione.

E poi, egli stesso ci dà una conferma altrettanto inattesa quanto umana: che il ritmo è «il galateo della musica» (p. 390).

E bisogna leggere il resto dove egli giunge alla conclusione che «la sola definizione che si addica alla musica, è la Non Mai Conoscibile».

Soltanto chi è stato preso dalla poetica della musica, che Savinio vive e ci fa vivere, può leggere e capire, in seguito, i Nostri rapporti con la pazza (pp. 8-10) dove si conclude che « l’uomo ama sentirsi schiavo: sottomesso ad una schiavitù fisica e assieme ad una schiavitù metafisica, quale la musica eccellentemente dà» (p. 9).

Il fascino dei ragionamenti di Savinio è che non sono architettati secondo logica, sebbene una coerenza interiore ci sia sempre, ma sono degli intrattenimenti, degli entertenimientos, come egli stesso dichia­ra quale suo metodo di scrittura o piuttosto quale suo stile di pensiero, in un volume di prose '. Questo stile io lo assimilo, musicalmente, al ricercare: al ricercare e, insieme, alla fantasia: orditure fluide ma in­trecciate, tutte diverticoli, come un delta. Difatti Savinio dice che il li­bro che intrattiene è un libro discorsivo, ma nel senso che « non è un libro minore, ma al contrario un libro maggiore: un libro massimo». Nel suo copernicanismo, in fondo, lo si vede, c ’è del tolemaico e vice­versa: c ’è, dunque, una poesia della musica integrale. E questa è la sua bellezza.

Io sono giunto ad idee diverse, ma della stessa natura e indipen­dentemente da lui, pur avendo parlato così poco con lui, pur avendolo letto di rado e dov’era più quotidiano: anche*se quotidiano nel senso della profonda verità che sta, come sedimento, al fondo della vita vissuta.

Non cerchiamo, dunque, in Savinio la coerenza filosofica, ma al con­trario l’estrema mobilità del pensiero, anzi della volontà di pensiero, che sta ancora nella ganga dell’intuizione e, appunto per ciò, vibra in­torno a certi perni oscillanti dai quali non si libererà; ed è bene che non si liberi.

1 A . s a v i n i o , Ascolto il tuo cuore, città, Milano 19442, p . 3.

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Così è proprio quando egli ci confida che «spesso, troppo spesso, il passo della musica di Vivaldi è l ’imitazione del passetto a ricamo stretto, del passo pettegolo, del passo da sensale e propalatore di pic­cole notizie femminesche di uno che va per Merceria, e si caccia di sghembo tra la calca delle donnette, e si ferma a spettegolare agli usci delle botteghe da caffè» (pp. 18-19).

Questo è soltanto, in verità, uno degli aspetti di Vivaldi: quello che gli si presenta raramente: in ispecie quando si domanda «se V i­valdi pensasse alla morte» o no; ma c ’è un altro Vivaldi, il Vivaldi copernicano del Concerto doppio per oboe e violino concertanti che ho, per miracolo, pubblicato e al quale ben pochi musici di oggi si fan­no vicini, talmente è viva la sorpresa di un nuovo mondo - se voglia­mo dirlo con Savinio, copernicano - che il compositore vi ha schizzato dentro e impastato con l ’impeto e la larghezza di un Tiepolo; e che veramente può dirsi « tutto un ampio camminare » che possiamo anche accettare: «al passo solenne del Bucintoro» (p. 19): non soltanto per mare ma anche, di riflesso, nel cielo.

Certo, si direbbe che la musica che egli preferisce è la vocale e non sorprende sentirlo dire: «La musica è per sua natura squisitamente invernale. Vogliamo dire la musica grave e con nobili materiali costrui­ta: la musica che piace a noi: la musica come organizzazione e gioco mentale, la musica strumentale e polifonica»-, e sentirlo definire «il contrappunto ciò che la dialettica è in filosofia» e che «solo alla fine del medioevo... comincia a rivelare la sua organizzazione radicale e ra­mosa» (p. 20). E i due aggettivi danno la più speculare definizione del contrappunto: vorrei anzi chiamarla l ’impronta geologica, l ’impronta fossile del contrappunto.

Ma egli corregge presto questa impronta perché non è soltanto ra­dicale e ramosa, dato che «è più profondità, nel senso preciso della parola... nel canto solitario dello scolio di Sicilo che per tutta la colos­sale opera di Bach» (p. 22). E così arriva al parallelo con Beethoven del quale abbiamo già fatto cenno (p. 24).

Siamo, con Bach, sullo stesso piano dell’espressionismo dove «quel­lo che piace soprattutto è l ’umiliazione dell’uomo e, sotto a questa, l ’il­lusione che vi si nasconde che in questa libera rappresentazione della bruttezza umana... si [maschera] la verità»: un avvilimento che ha già subito nella pittura di Cézanne « attraverso la deformazione, la decor­ticazione degli aspetti e il grigismo» (p. 26). E sebbene queste citazio­ni formino appena un graffito, neppure una sinopia, si capisce che solo un pittore come Savinio poteva proporre di tradurre lo Stabat Mater, latino e cattolico, di Rossini in una Deposizione del Domenichino e il sesto Concerto brandeburghese in una pittura astratta che rappresenti «il concetto arabogotico del mondo» (p. 27); il che ci convince perfet­tamente.

Sono tutte cose dette « all’infuori del valore in sé dell’opera d’arte di cui non si può parlare, se non quando si è perfettamente sicuri che si è tra gente abituata a considerare l ’arte di là dalle piccole "verità passeggere” ».

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È la forza di Savinio, questa di essere altrettanto pittore quanto musicista e altrettanto arguto quanto libero.

Q ui non c ’è il solito rivoluzionario e riformatore-distruttore che si presenta, tanto facilmente, tra gli artisti (e assai ovviamente tra gli ar­tisti che non riescono a creare la loro presunta rivoluzione). Con ardi­tezza, anzi, parla del concetto cattolico della vita che è in Bach e che può dare «questa calma, questa sicurezza, questa mancanza di dubbi e d ’inquietudini» la stessa che può dare «l’organismo militare» riba­dendo che «mai mi son sentito cosi "sorretto” nella vita come nel pe­riodo 1915-19 che fui particella dell’Esercito» (p. 30). E possiamo ag­giungere che gli venivano anche dalla vita coniugale, di cui parla con accenti pudichi e caldi che sono un altro dei più sinceri conformismi di quest’uomo così singolarmente autodisciplinato e autoconfessato e, nello stesso tempo, guidato da convinzioni superiori e aperto verso tutte le strade generose. Egli sa, come si accennò, che «il sesso ammaz­za la poesia» (p. 43): dunque egli sa come difendersi.

In una sola cosa egli segue la tendenza di quasi tutti i compositori d ’oggi perché l ’infrenabile impeto al movimento e all’azione gli crea e gli addita una porta che sta troppo oltre: sino a fargli dire che «la mo­da della musica antica è una manifestazione collettiva di codardia». Ma sono sicuro che intendeva parlare dei trascrittori e degli elaborato­ri: i «ridipintori» della musica storica. Invece riconosceva, come ne­cessità, il parafrasismo (p. 184), ad esempio di Strawinsky.

Ed alcune discussioni che ebbi con lui, appunto perché furono po­che e saltuarie e riposate, mi dimostrarono che egli già era un conver­tito, non verso la moda della musica antica, ma verso l ’esperienza della musica antica: che vale a creare, nei generosi, una nuova libertà; e mol­ti spunti delle sue critiche bastano a dimostrarlo.

Egli è un romantico e lo sa; anzi non si perita dal confessare: «io non desidero viaggiare. Sempre più strettamente mi vado implicando in me; sempre più profondamente mi vado calando nel mio essere; e il mio anelito di romantico insaziato e insaziabile sempre maggiori sod­disfacimenti trova nei miei orizzonti interni, nelle mie foreste, nelle mie pianure, nelle mie montagne, nei miei cieli» (p. 44).

Ma egli sa i pericoli che corre il romantico. Quando Brahms lo fa pensare a Conrad, egli ne trae una semplice ma efficace terapia: « l’ar­te purtroppo e gli artisti sono dei ricettacoli di isterismo, ma se d ’altra parte si vuole trovare cosa che sia monda di ogni traccia d ’isterismo, bisogna ascoltare l ’opera di Brahms, leggere l ’opera di Conrad» (p. 133). Mentre poi Verdi gli fa pensare — benché egli lo ammiri — «che una musica ridotta a far piangere e amare (il motto di D ’Annunzio: pianse ed amò per tutti) a noi fa la medesima pena di sciupata grandez­za della forza elettrica ridotta a far girare lo spazzolino da denti auto­matico»; e qui si ricorda della scena dei Tempi moderni di Chaplin (p. 148), ed è un altro aspetto del suo umore risolutivo.

D ’altra parte egli sente che cosa non ci sia sino all’Otello di Verdi: «fino all’0 /e//o le opere di Verdi ci procurano godimenti singolari e altissimi, ma parziali. Manca quell’elemento morale che ci è stato rive­

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lato da Socrate, e che tanto presente invece è in Bach, in Beethoven, e, sebbene più pudico e velato di eleganza greca, in Chopin: quel calore deH’anima, quel conforto e giustificazione della vita, quel suggerimen­to ineffabile che il nostro destino non è isolato, ma associato al destino altrui e indissolubilmente legato ai segreti più profondi, più preziosi, più sacri dell’universo» (p. 154). «E se Verdi ha voluto rappresentarsi in Otello, poeta della gelosia, è perché la gelosia è il sentimento più alto e generoso, il grido supremo dell’amore, l ’amore del genio che ama se stesso in tutti e in tutto. "Anim a mia, ti maledico” , dice Otello a Desdemona, alla fine del terzo atto; e queste parole sono il patto su­premo che l ’amore propone: vivere o morire» (p. 156).

È interessante che Savinio si serva, ancora una volta, delle sue qua­lità di pittore per fare critica musicale e anche delle sue conoscenze tecniche di pittura: che gli fanno giuoco, nel raffronto tonale tra il Par­sifal e il Falstaff (p. 158). Ed ecco il sagace confrontare le ultime pen­nellate di Renoir «le più fluide, le più leggere» con gli accenti più cor­diali e più felici del Falstaff.

Ma queste vive delizie sono tuttavia sensuali; e ancor più ci sor­prende che Savinio sia arrivato a sentire, col suo sensibile stetoscopio, nel cuore di Alice, un segreto «pudico e nostalgico, perché in fondo non Ford essa ama, ma il grasso Falstaff, ed è per questo che, sedato il falso riso, essa senza speranza ormai ma con infinito rammarico ri­pete: "E il viso tuo su me risplenderà...” » (p. 160).

Egli va altrettanto addentro nel segreto di Verdi artista dicendoci tre ragioni della difficoltà di interpretare la sua musica, ad esempio: «che Verdi esprimeva per mezzo della musica voci del suo cuore, ma senza quella intima musicalità che ha un Bach per esempio o uno Stra­winsky, la quale rende "naturale” la musica e facile il suo passaggio dall’autore all’interprete» (p. 163). Questa è una finezza del musicista e del critico: l ’intima musicalità, non è davvero tutta la musicalità e neppure fa per intero l ’umanità della musica. (Egli ha una rètina ca­pace di scoprire il più velato e sottile cangiante del colore musicale).

Ma vi sono altre finezze da sottolineare: «Quello che Beethoven pensa della Pastorale non lo sapremo mai, perché in questa sinfonia Beethoven, diversamente dal solito, non pensa ma si contenta di guar­dare» (p. 66). Ed egli si serve, di nuovo, della pittura per consigliarci così: «Del paesaggio sonoramente dipinto nella Pastorale, diremo che è un paesaggio panoramico, come usavano dipingerne i Breughel, Dü­rer giovinetto all’acquerello, e, più vicino a noi, Hans von Thoma. Questi anzi poneva nel primo piano dei suoi paesaggi panoramici un personaggio che contempla il paesaggio e invita lo spettatore a fare altrettanto...»

«11 suo paesaggio "gira” » e Savinio, nella sua memoria, sa ritro­vare un paesaggio altrettanto girante «al naturale, nelle prealpi vero­nesi»; e appena gli viene in mente, gli serve di esempio (p. 67).

Come si è detto, l ’entertenimiento è sempre il suo modo ideale di comunicare, di interessare, di aprire la sua fantasia e di aprirla al let­tore. Questa è la grazia più sottile e più leggera di una critica, la prova

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più raccolta, più pacata e, nello stesso tempo, più libera della propria autonomia mentale e della libertà che, senza che appaia, egli offre al lettore. Si intende che il lettore, in fondo, non è libero del tutto, ma pur gli sembra di esserlo e gli fa piacere.

C ’è anche una ragione, dirò quasi privata, e Savinio la dice con pa­role sue e partendo dalla domanda: «perché soltanto in musica alligna­no i fanciulli prodigio?» - «Perché, risponde, il musicista è il meno creativo, il più ricettivo, il più femminile degli artisti». Perché - e que­sta è un’altra delle sue parole poetiche non già dei suoi «paragrafi» estetici — «nel musicista l ’ispirazione opera più che nelle altre arti (in pittura, arte maschile per eccellenza, l ’ispirazione non esiste) ossia il fenomeno di una volontà esteriore che colpisce il musico e lo satura di sé» (p. 39). E leggetevi il resto, che è, meglio che suggestivo, una ve­rità trovata proprio nell’occhio del musicista: opaco e come velato da una membrana inutile e che ci fa sentire «una impossibilità di comu­nicare».

Ed è proprio il segreto di Mozart, questo dell’occhio opaco, e, per questa atonia dello sguardo, di essere rimasto fanciullo; e per quali vie e con quale tristezza è una delle verità che Savinio ha meglio intuito.

Questo segreto di Mozart è, in uno, il «rivolto» della tristezza e, secondo me, in questo soltanto - forse, così dobbiamo dire: «soltan­to» - si allontana dalla vera, giocosa e limpida tradizione italiana.

E possiamo anche farlo chiosare da Savinio perché « la musica ita­liana, come la più semplice delle spose italiane, esiste per la sua inno­cenza e cessa di essere non appena fa tanto di buttare un occhio nei se­greti del bene e del male» (p. 206). E bene lo sapeva la prudenza (qua­le prudenza e [di più] quale fiuto! ) dei musicisti italiani del settecen­to: la prudenza del periodo che io chiamo virile: la prudenza della prima metà del settecento. « Il giorno che i musici italiani vollero dare ascolto alla voce del male, la musica italiana cominciò a precipitare» (p. 206).

Forse perché il male è una delle cose essenziali del mondo, Savinio sa perché mai l ’idea di Petrarca, «questo grandissimo poeta, non gli riesca... di dissociarla interamente da quella di un grandissimo dilet­tante (... dilettante è colui che si dedica a cose molto importanti, mol­to gravi, molto belle, ma non essenziali)» (p. 15). E in quale rapporto sia questa idea col problema del male si vede anche dal seguito di pagi­na 15 e dal giudizio che «il nostro tempo sia men vivo e duraturo nella riesumazione dei musici antichi, che nella ̂ creazione di qualche melo­dramma verista».

Si vede chiaramente che Savinio non era, non poteva essere, né uno scolastico esteta, né un filosofo estetico puro, né tanto meno uno sto­rico della musica. Ma un moralista, un uomo religioso, benché a suo modo, e un poeta.

Ma un musicista, veramente si: perché soltanto chi sa che cosa sia fare musica sente che «nell’allegro... si capisce se un musicista è intel­ligente o no» (p. 218) (ed io mi sento spinto a dire non soltanto un mu­sicista: anche un poeta e un danzatore; e forse anche più un architetto

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[ma non di oggi né di ieri, al modo di Sacconi] o un decoratore a stuc­co come i Bossi). E consento anche nella sua critica che «Gluck si sta chiuso nel grave come in una fortezza sicura» (p. 218). Chiuso nel gra­ve, penso, è il piti incisivo profilo disegnato, in tre parole, da un ascol­tatore di colui che « come tutti gli artisti poco intelligenti, credeva che l ’arte è solo rappresentazione del sublime» (pp. 217-18).

Ma anche se codesta è una sciabolata, un traversone del pensiero, e tirato di scatto, a tutta forza, sentiamo che è proprio vero che « l ’in­telligenza è per l ’artista quello che il binario è per il treno» perché solo il binario gli offre di lasciarsi andare, con fiducia, alla velocità più continua e, semmai occorra, alla più spinta (p. 240). Per dirla con pa­role mie, Gluck di rado sente l ’Anarsi liberatrice: la Catarsi lo avvince e lo chiude.

E come mot de la fin possiamo anche rifarci alla brutale puntata: «Credi all’ispirazione, lettore? Ricrediti. L ’ispirazione ogni artista se la fabbrica da sé giorno per giorno» (p. 239). Ma, vi aggiungiamo - e, lo sentiamo, col tacito consenso dell’autore - beninteso se egli può, e soprattutto se l ’Anarsi lo guida, col suo filo.

Anzi, possiamo ribadire questo chiodo con un martello pneumatico e rapido: «Non ho stima se non dell’intelligenza e dell’ingegno crea­tivo, per meglio dire dell’ingegno creativo associato all’intelligenza, per dire meglio ancora dell’ingegno creativo "generato” dall’intelligen­za» (p. 238, su Pietro Mascagni); e, in questo punto, il riconoscimento del «"moto naturale” dell’ingegno creativo» di Cavalleria e del Rat­cliff apre la visione di un «buco nero» che finirà per divorare «anche quel tanto di ingegno creativo che aveva brillato in principio» (p. 239).

Certo, è un peccato che l ’autore non abbia potuto rivedere da sé, e per intero, il manoscritto: avrebbe potuto sopprimere alcuni ritorni di brevi idee o di curiosità, secondarie e di scarsa prospettiva, piallare, qua e là, o togliere le poche sprezzature e alcune contraddizioni. Ma egli, come tutti gli spiriti profondi, lottava sempre col pensiero: ora facilissimo, ora troppo complesso; e la contraddittorietà è la grande tentazione del pensiero.

E poi, egli vi era stato trascinato da una tendenza sua intima, che talvolta idoleggiava più del dovuto: quella che egli esprime con la for­mula arditissima: «anche i valori cosmici si possono superare e arri­vare alla divina frivolezza; ma in quanti siamo ad aver diritto a que­sto supremo gioco? In quanti siamo a poter non essere profondi? » (p. 123).

Comunque si voglia giudicare l ’opera di pensiero di Savinio, non si può non riconoscere che essa costituisce un’attività singolare ed un’esperienza preziosa e degna di essere presa ad esempio. Un fonda­mento di poetica musicale, se anche non appare solido come quello di una estetica, riesce molto più stimolante e fecondo e chiede che vi si costruisca sopra, ma non a modo dei giuristi (benché senta di aver so­lide connessioni, a guisa di tessuto: connessioni che valgono, nel pen­siero, talvolta più delle fondamenta).

Tutto questo è molto importante perché se un difetto, una manche­

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volezza, avvertiamo nella critica musicale italiana - e non soltanto nel­la musicale — essa è, salvo qualche rara eccezione, quella della nostra tradizionale mentalità di giuristi e di applicatori di articoli, di codici e di regolamenti. E poi naturalmente, come avviene nel giure e appun­to perché .siamo nella «patria del giure», non ci sentiamo, per questo, sollecitati all’osservanza del diritto tradizionale e conclamato; tut- t’altro.

Noi riteniamo, per questo e per molte altre considerazioni facil­mente associabili, che soltanto nelle zone di trasfusione, ossia intuizio­ne e concetto, fra gusto e giudizio, possiamo sperare di radicare qual­che verità utile al nostro avvenire critico.

Quanto alla critica musicale, è anche una necessità essenziale quel­la di crearsi, anzi di vivere, un’idea della musica, un’idea nuova non soltanto di ordine estetico o poetico, ma anche di ordine storico, solle­vando il proprio mondo alla piena luce della coscienza: appunto per attingere un «oltre la realtà musicale», un sopramondo, ma che resti radicato nel mondo.

Un critico, ad esempio, della poesia trova nell’opera d’arte, volta per volta, nella sostanza letteraria chiamato a giudicare e valutare, per lo meno degli appigli e anche un modo di disegnare in iscorci concreti e di attingere una superiore verità, anche se non segue o non può se­guire una precisa estetica. Il miglior modo di orientarsi, per il critico musicale, è invece quello di creare, per la musica in genere, ma nei ter­mini più caldi, e insieme piti umani possibili, una poetica della musica elastica, anzi versatile.

Essa soltanto può condurre il critico a cogliere un’idea personale - e nello stesso tempo universale — di una grande opera, o anche soltanto di un grande autore. Qui i valori di ordine estetico e quelli di ordine morale si fondono in un valore che appartiene alla sfera che possiamo chiamare ascensionale; e i soli valori che contano, nell’arte - e nella critica - sono proprio gli ascensionali.

Savinio l ’ha fatto d ’istinto ed è forse da rimpiangere che egli non abbia avuto il tempo di allargare, nei particolari, questa geniale «poe­tica della musica» e di fame, sia pure, una poetica dell’arte tutta, egli che tanta esperienza aveva di arti musiche e di arti plastiche. Ma ci ha dato un grande esempio.

E, in realtà, era poi necessario che lavorasse, sino alle ultime conse­guenze, questa poetica?

Sarebbe stato, anzi, pericoloso: come ïutto ciò che spinge a siste­mare qualche cosa di assoluto e di definitivo. Sistemare vuol dire, so­vente, condannare alla decapitazione un pensiero dopo averne fatto un grande feudatario o, più ancora, un tiranno o, alla moderna, un dit­tatore.

Quando egli ci ha detto che la storia della musica moderna si di­stingue in due periodi, animati da valori e da orientamenti di segno diverso e quasi opposto, il tolemaico e il copernicano, e il primo può anche dirlo presocratico (pp. 31-32) e affermare che esclude il senti­mento dell’infinito a quel modo che una casa ben costruita esclude

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Poetica di Savinio critico musicale 463

l ’aria di fuori, può proseguire di chiosa in chiosa, nel suo coerente en- tertenimiento suggestivo; e cosi ci propone una visione piti alta e piti costruttiva di quella che potrebbero suggerirci o una valutazione di ordine ritmico o armonico o una distinzione di sostanze contrappunti­stiche o di,tessiture o anche soltanto di orditure: dove si resta ancora nel mondo della tecnica e nei limiti, sempre alquanto pedanteschi, dei modus operandi.

Questo mondo secondo tecnica non potrebbe formare quelle sin­tesi che egli ha costruito a guisa di cale o di baie, di riposo e di medi­tazione, intorno ai nomi, ad esempio, di Chopin - al quale rimandiamo il lettore - o di Mozart o di G . S. Bach e di Beethoven; ed egli alla tec­nica si è rivolto soltanto per concludere, alla enarmonica - ciò che, per una cadenza, è doppiamente paradossale — che, «la Messa solenne di Beethoven è un capolavoro: ma il capolavoro di "un altro” » (p. 76).

Egli ha visto bene, quantunque non l ’abbia detto esplicitamente, che l ’arte è un espandersi, che essa è costituita di valori per eccellen­za fluidi, appunto perché sono i valori eterni.

Tutta questa istintiva sapienza gli permette di stringere, in pochi segni, la tragedia di Mozart. «Di quale malattia mori?... Lo sforzo... la impossibilità di adattarsi, lui fanciullo perenne, alla vita dell’adul­to... un errore della natura... [che] si manifesta nel ritratto che di lui dipinse il suo cognato Giuseppe Lange» nel quale «appare come un fanciullo rimasto nelle proporzioni del fanciullo, ma "gonfiato” di vita adulta, e triste, malato di questa immissione estranea che gli mette in faccia come un eczema, come una tumefazione di scarlattina... Ed è [il ritratto] incompiuto. Ma è difetto o eccesso di fedeltà? Mozart stesso era incompiuto» (pp. 37-28). In lui, lo si vede, l ’espandersi s’era arre­stato; e proprio nel senso più vitale.

Qui, e più oltre, l ’esperienza del musicista e del pittore si assom­mano a creare la verità, senza contare la genialità sintetica di principi che vengono dal profondo come questo che « l’infanzia non è una con­dizione naturale: è un’opera d’arte» (p. 47) (cioè è anch’essa di natura prettamente espansiva) o l ’altro, di indole musicale, benché avulso dalla storia e dedotto soltanto dalla mediocre esperienza dei cantanti d ’oggi (apprendisti di un bel canto che si limita al modesto artigianato del solfeggio, privo di lume interiore) che «nel trillo, in questo riso senza gioia, in questo riso senza speranza, è tutta l ’anima di Mozart; anima senza gioia, anima senza speranza; perché nel trillo è tutto l ’uo­mo Mozart, che ha perduto il Dio esterno seduto sul vertice d ’oro della piramide, e non ha acquistato ancora il Dio interno. L ’universo di Mo­zart è un universo "neutro” » (p. 52).

In questo universo paradossale l ’espansione si è fermata con la gio­vinezza di Mozart.

Ma il nostro Tosi, l ’immenso Tosi, Dio del buon gusto nel sette­cento, ma per il suo secolo e per i secoli seguenti, esigeva il trillo sol­tanto nelle cadenze e Mozart non era tanto italiano da seguirlo, sen­z’altro, in questa massima pacificante. La cadenza infatti è la pace ma, se vogliamo dirla in termini saviniani, la pace tolemaica (p. 33).

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464 Fausto Torrefranca

Per chi vuol capire, come merita, Savinio - ma capirlo non «col buon senso» col quale «per nostra fortuna, non abbiamo mai avuto nulla da spartire» (p. 284) - bisogna invece raffigurarselo nella costan­te aspirazione alla « qualità degli dei greci, quella di uomini che hanno superato la tragedia; che hanno raggiunto quella condizione di "dilet­tantismo” che è la condizione più alta e felice della vita; ... quella con­dizione cui io profondamente aspiro e cui qualunque uomo - credete a me - può aspirare e raggiungere, basta che lo voglia e sappia render­sene degno» (p. 191).

In questa condizione, finalmente raggiunta, è giusto che egli si ri­belli, domandando: «Chi ha detto che la sola funzione della critica è di criticare?» e rispondendo: «La critica ha una funzione molto più importante, che è di inventare» (p. 301). E la sua mente era consa­pevole di una fertilità inventiva, anche - e forse soprattutto - nella critica.

Ma la sua pittura non era, molte volte, d ’ordine critico-inventivo? E i suoi libri non erano entertenimientosì

Le aperture sono spesso più importanti, o almeno più anartiche, dei conseguimenti prossimi.

F A U S T O TORREFRANCA

scritto introduttivo alla prima edizione di "Scatola sonora" di Savinio (Milano 1955)

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A.S.

i testi sono tratti da: Scatola sonora

(Milano, Ricordi, 1955;Torino, Einaudi, 1977)

1. Musica estranea cosa

Ho visto un direttore d’orchestra cadere dal podio. La cosa andò cosi. Stavonella sala dell’Adriano, seduto nella mia solita poltrona, fila nove, numero nove. Lamia poltrona è collocata immediatamente dietro quella del mio amico Gabriele. Latesta ai Gabriele è perfettamente aerodinamica e consente a questo eminentepsichiatra dì raggiungere nella corsa a piedi velocità molto alte. La conformazionecranica del mio amico Gabriele esercita su me un cosi invincibile fascino, che tuttele domeniche, durante il concerto sinfonico, e per trascinante che sia la musica, lamia attenzione non cessa di passare con alternanza oscillatoria dalle spalle deldirettore al cranio del mio amico Gabriele, e viceversa. Quella domenica però i polid’attrazione non erano due ma uno solo. Il fascino della aerodinamica testa avevaceduto a quello ben maggiore del giovane direttore che io vedevo per la prima voltasul podio dell’Adriano. Costui era alto e magrissimo, di quella magrezza ossuaria ecombusta che fa pensare al monachismo, all’ascetismo, al diabolismo, al magismoe alla morte. Era stretto in una velada attillata, guaina nera di quel pugnale umano,chiuso il collo lungo dentro un solino lucido e bianco come un tubo di porcellana.Medusea la testa nel senso che i capelli nerissimi e lunghi gli brulicavano intornoal cranio, gli si agitavano come serpi davanti agli occhi. I suoi movimenti eranospasmodici, e simili a quelli di una rana galvanizzata, di un burattino mosso daviolente strappate dei fili. Soffrivo per simpatia agli squassi di quella testaanguicrinita, la pensavo in ispecie di uovo nella mano di una massaia enorme einvisibile che se lo provasse all’orecchio per sentire se è guasto. Temevo che pereffetto di quegli scotimenti il cervello avesse a staccarsi dalle pareti craniche ecominciare a sbattere come appunto il tuorlo di un uovo guasto. Personaggiohoffmanniano, un sopravissuto della Kreisleriana sperduto in questo mondorazionalista in cui i musici stessi hanno acquistato aspetto e comportamento daragionieri, e si esercitano a musiche squisitamente tolemaiche, cioè a dire gelide earchitettate. Dirigeva costui senza bacchetta, quasi la bacchetta dovesse essere unimpaccio, un ostacolo, una soluzione di continuità, e le dita nude invece di quellemani magrissime e agitate come nel vento due grandi foglie secche svelte dal ramo,si continuassero in invisibili fili e si attorcessero alle varie famiglie degli strumenti,come le corde di budello intorno al gambo del bischero. Il primo numero delprogramma era un concerto di Vivaldi, ma io arrivai tardi e non potei entrare insala. Questo ritardo anzi mi procurò uno strano incidente. Gl’ingressi alla saladell’Adriano (la mia macchina aveva scritto «ingrassi»: la sacra freddura parladunque anche per bocca delle macchine da scrivere?) sono chiusi da porte asventola, dietro le quali è calata una tenda che scorre su anelli di metallo. Arrivato

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all’Adriano durante l’esecuzione del concerto di Vivai-di e tirato un battente dellaporta con intenzione d’introdurmi di soppiatto nella sala, mi trovai nel buio tra laporta che si era richiusa dietro a me e la tenda essa pure chiusa, e attraverso laquale la maschera di guardia alla porta cercava di contrastare la mia avanzata. Lamia situazione era amletica e quella lotta attraverso la tenda mi rammentòl’uccisione di Polonio. Potevo vincere ma rinunciai alla vittoria, perché la miaavversaria non avesse a credere che io approfittavo della lotta per palpeggiarlaattraverso la tenda. Il pudore una volta ancora mi fu nemico. Seguiva la QuartaSinfonia di Brahms, musico grave e affettuoso insieme, come un padre. Qualepresentimento era in me? Alle spalle del direttore avevano tirato un grossocordone fra due enormi birilli di legno verniciato, il che dava al podio un aspetto dimobile chiesastico, quasi a impedire che il direttore crollasse nell’iposcenio.Attraverso il primo tempo della sinfonia e ai suoi sviluppi cordialissimi, io pensavoalla posizione più sicura del direttore d’orchestra di teatro, che solo con la testaemerge e le spalle dalla fossa mistica, come una testuggine dal carapace; pensavoai direttori che dirigevano seduti come professori in cattedra e come io dipingo;pensavo al tempo che direttore non c’era nel senso che intendiamo noi, mal’orchestra era affidata al primo violino che un po’ sonava, un po’ accennava iltempo con l’archetto, un po’ dava le entrate ai cantanti; pensavo all’orchestra«senza direttore» che per alcuni anni funzionò in Russia, quale esercito senzagenerale.. Pensavo soprattutto a musiche che lasciano dormire i nervi, nonsvegliano le passioni, non travolgono con l’onda dei suoni, e poiché dopo lasinfonia di Brahms il programma annunciava la Morte d'Isotta, il Don Giovanni diStrauss e altre musiche ardenti e torrentizie, per reazione io immaginavo unprogramma bianco composto unicamente di minuetti, rondò, pavane. Perchéesporsi cosi temerariamente all’inferno musicale? Il primo tempo arrivò in portosenza incidenti, e dalla sala si levò un respiro più di sollievo che di soddisfazione: ilrespiro della bestia che dalla tensione passa al rilassamento. Indi a poco ildirettore attaccò il secondo tempo, ma io ero meno in ansia perché il caratterestesso di quell’«andante moderato» mi dava impressione di minor pericolo. Aquale precisa battuta fu? D’un tratto io non vidi più il direttore, ma un groviglio aipiedi del podio e udivo l’enorme clamore della sala che di colpo si era levata inpiedi, come un campo di grano venuto su per una miracolosa eruzione vegetale.Avevo io veduto il direttore cadere? Non ricordo. Ho la vaghissima impressione diuna forma meno di uomo che di una enorme stilografica nera, che si piega e rigidacade in avanti. Fidando nell’«andante moderato», la mia attenzione si erarallentata. Lo portarono fuori a braccia, tra i leggii rovesciati e gli strumentisti chefacevano largo, e il clamore continuava come un gran vento nel teatro. Il mioamico Gabriele si voltò e mi disse: «Forma epilettica non mi pare». Lo sapevobene. Dell’epilessia io ho una conoscenza «pratica». Nell’autunno del 1917 fuiricoverato all’Ospedale Militare 108 di Salonicco, e poiché gli altri reparti eranopieni, mi misero provvisoriamente nel reparto degli epilettici. Passavo le notti inuna sala illuminata a giorno, sotto lo sguardo vigile di atletici infermieri. Portaronouna sera alcuni militari che al fronte erano stati colpiti da choc nervoso. A unodovettero mettergli la camicia di forza; e quegli ripeteva un suo grido a ritmo,acutissimo, «femminile». Una notte mi svegliai di soprassalto, e nella luce biancavidi sul bianco del mio letto il bianco compagno del letto accanto che, lordo labocca di bava, si dibatteva come un tonno nella rete. «E allora?» Gabriele rispose:«Direi piuttosto una lipotimia». Io so abbastanza di greco da sapere che lipotimiasignifica semplicemente svenimento, ed è vocabolo del linguaggio segreto deimedici. Ma non lo dissi. E non dissi neppure quello che io solo sapevo, quello cheio solo avevo veduto, ossia la Musica apparsa sul podio come un’ombra lunga, cheafferra con le mani adunche il giovane direttore al collo e lo butta giù dal podio.

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Dopo di che la Vampira se ne andò invisibile in mezzo all’orchestra in tumulto,tirandosi giù le maniche della vestaglia.

La musica è una straniera nel nostro mondo, un’intrusa. Le sue condizionidi vita sono cosi diverse dalle nostre, che ogni «naturale» convivenza con lamusica riesce impossibile; meno per una completa rinuncia di noi stessi, per unaresa incondizionata. Pure con la musica noi conviviamo. Sì. Ma è veramente con la«musica» che conviviamo? E quali le condizioni di vita della musica? Non losappiamo. Troppo diverse dalle nostre, le nostre facoltà intuitive non bastano afarcele conoscere. L’essenza della musica ci sfugge. E sempre ci sfuggirà. Cisfuggirà sempre perché la musica «non è cosa nostra». La musica non fa partedelle cose che compongono l’assieme degl’«interessi umani». E l’organismo dellaconoscenza non funziona se non per le cose che in qualche modo rientrano negliinteressi umani. Ci sono cose che noi conosciamo e altre che non conosciamo.Tutte le cose che noi conosciamo rientrano negli interessi umani, altrimenti non leavremmo conosciute. Tra le cose che non conosciamo alcune riguardanogl’interessi umani, altre no: quelle che riguardano gli interessi umani noi prima odopo le conosceremo: è il lento accumularsi della conoscenza, la causa delprogresso; le altre, che non riguardano gli interessi umani, noi «non leconosceremo mai». Tra queste è la musica. È per questo che l’essenza della musicarimarrà per noi eternamente ignota. Che è questa misteriosa cosa che vive soltantonel tempo? Come possiamo noi stringere rapporti con una cosa che vive soltantonel tempo e farne una cosa nostra - un’arte? Noi crediamo possedere la musica, einvece è la musica che possiede noi. L’uomo, per fare «anche» della musicaun’arte, ossia uno strumento maneggevole, ha dovuto addomesticarla, ridurla,mutilarla. Ha dovuto rendere terrestre una cosa non terrestre, fermare una cosaessenziale, sfuggente, formare una cosa per sua natura informe. E l’uomo perprima cosa ha dovuto dare alla musica — a questa misteriosa cosa che viveunicamente nel tempo - anche un’apparenza di vita nello spazio; e le ha dato ilritmo; come si mette il morso a un cavallo selvatico; come si mette il busto a unadonna grassa. Questa l’immensa importanza che il ritmo ha nella musica. Perché ilritmo colloca o finge di collocare la musica nello spazio, con che le dà carattereumano e diritto di cittadinanza sulla terra. Il ritmo è per noi la «garanzia» dellamusica: la garanzia che la musica è doma e addomesticata e che ormai possiamoconsiderarla «cosa nostra». Ma è assoluta questa garanzia? Musica senza ritmoper me è inaudibile. La sola musica che la mia mente e i miei nervi sopportano è lamusica fortemente ritmata, ossia la musica che ha una qualche organizzazioneumana e che in fondo somiglia a noi. Perché il ritmo è l’elemento «umano» dellamusica, la garanzia della sua stasi quaggiù e del suo ritorno, la confortante rispostaa quella idea del ritorno che è la più umana delle idee. Ma nella musica tuttavia ilritmo è un elemento estraneo, un elemento imposto, un elemento che la musicasopporta a stento e dal quale tende a liberarsi; e per questo la musica meno ritmica(Debussy) è la più «musicale», ma anche la più inumana.

L’essenza della musica sfugge talmente a qualunque possibilità diconoscenza, che l’uomo tenta spiegarsela mediante spiegazioni immaginarie; sia,come Pitagora, assimilandola ai numeri («toi arithmoi de ta pant’epeoiken»); sia,come Goethe, presentandola come una «architettura fluida» (ma qui veramenteGoethe parla della musica «artefatta», ossia già chiusa e organizzata come arte);sia, come Schopenhauer, facendo di lei l’immagine della volontà pura. Ma a chetentar conoscere l’inconoscibile? A che voler spiegare l’inesplicabile? la soladefinizione che si addica alla musica, è la Non Mai Conoscibile. E non senzaragione. La non conoscibilità della musica è la ragione della sua forza, il segreto delfascino; e se l’uomo cede con tanto piacere alla musica, è soprattutto per il«diverso», per 1’«ignoto» che è in essa, e c’è analogia tra l’uomo che cede alla

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musica perché nella musica sente il «contrario» di se stesso, e il meridionale scurodi pelle e crespo di capelli che cede al fascino della scandinava bianchissima dicarnagione e bionda di capelli, nella quale egli vede quello che egli stesso non è«ma sogna di essere». Cedere alla musica è un atto di soggezione a quello che nonsi conosce, e per questo attira.

Nostri rapporti con la pazza.

Io nego che si possa dare una soluzione filosofica al problema della musica,salvo a dargli come soluzione la sua stessa insolubilità. Resta a studiare ilproblema della musica come «cosa psicologica». Non si combatte controun’ombra. I nostri rapporti con la musica vanno regolati da un apposito galateo. Inquanti siamo che sappiamo comportarci nei riguardi della musica? Il pericolo chela musica costituisce per l’uomo, richiede da parte dell’uomo alcune cognizioniprofilattiche che l’uomo non mostra di possedere. Io ignoro se in sé la musicaobbedisca a una sua ragione, ma in confronto al concetto che noi abbiamo dellaragione, la musica è un’arte pazza, e abbandonarsi alla musica con tantaimprudenza come le si abbandonano i musici e amatori di musica, è atto da pazzi.È la pazzia della musica che rende necessaria una cosi complicata e rigorosastruttura teorica o tecnica, una gabbia enorme per imprigionare la fenice chetuttavia sfugge. Questo incauto abbandonarsi alla musica genera alcune forme dipazzia di cui non solo non si tiene il debito conto, ma le si considera ammirevoliforme di entusiasmo, di rapimento, d’ispirazione. Come abbandonarsi a un’arteche per prima cosa preclude le idee e vieta di pensare? Musicista, io mi sonoallontanato nel 1915 all’età di ventiquattro anni dalla musica, per «paura». Per nonsoggiacere al fascino della musica. Per non cedere totalmente alla volontà dellamusica. Perché avevo sperimentato su me stesso gli effetti deprimenti dellamusica. Perché da ogni crisi musicale io sorgevo come da un sogno senza sogni.Perché la musica stupisce e istupidisce. Perché la musica rende l’uomo schiavo; ela ragione principale del suo grandissimo successo è probabilmente questa, perchédiversamente da quanto credevano gli enciclopedisti che sognarono la libertà perl’uomo, l’uomo ama sentirsi schiavo: sottomesso a una schiavitù fisica e assieme auna schiavitù metafisica, quale la musica eccellentemente dà.

Tutto l’uomo può sognare, tutto può «stolidamente» sognare. Come difabbricare statue con l’elettricità. Come di comporre poemi sonori imprigionandoil vento entro appositi tubi. Resta a stabilire quello che si può fare e quello che sideve e quello che non si deve fare, secondo quel «Galateo delle Arti» di cui ancoraio non veggo traccia intorno, ma del quale sento l’urgente bisogno. Domandaronoa Jean Moréas il quale dei Greci vanta la polytechnia, perché i Greci non avesseroinventato anche la macchina da volo, e al che Moréas rispose che «non lo avevanoritenuto necessario». E invero la macchina da volo accorcia le distanze ma nonallunga l’intelligenza, semmai il contrario. E c’è affinità tra macchina da volo emusica. Per mascherare la musica come malattia, per mascherarla come peccato,per mascherarla come cosa estranea a noi e pericolosa alla nostra salute —intendendo per salute la totale conquista e la totale padronanza di noi stessi, si ètentato, e si tenta, e sempre si tenterà di scambiare la musica per un’altra cosa.Che so? Per un «edificio matematico».

Dove va la musica? Dove vanno i suoni che passano su noi come nembi intempesta? Non lo domandate ai musici: non ve lo diranno, non ve lo saprannodire. E perché non ve lo sapranno dire lo leggerete nei loro torbidi occhi, velatidalle cateratte che la musica su essi ha calato.

Anche i suoni seguono forse un loro destino, ma diverso dal nostro: dal

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nostro che finché siamo in vita, vuol essere rigorosamente circolare e «ritornante»,cosi da circondare noi e le nostre cose, e alimentare la nostra fiducia nella terrestreeternità. Perché mischiarci con cose dissimili da noi e con esse giocare? Viene lavolta che la Cosa Estranea si vendica.

Viene la volta che la cosa estranea spezza il morso e ritrova la sua selvaggialibertà. Illuminiamo di sera le nostre case con la luce elettrica, ma una sera ilfratello di Lorenzo Viani girò l’interruttore per illuminare la sua camera, e cadde aterra fulminato: era la vendetta dell’Elettricità.

Migliaia e migliaia di uomini «giocano» con la musica sia colandola nellevarie forme della composizione, sia facendo cantare le sue voci prigioniere, siaascoltandola e abbandonandosi al suo canto di bestia doma; e un giorno la Musicaappare simile a un’ombra lunga accanto al giovane direttore, lo afferra per il collo,lo butta giù dal podio. È la vendetta della Estranea Cosa.

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2. Musica telegrafica

Sono stato all’ultimo concerto di «Musica Viva». Trascrivo testualmente ilprogramma: quindici liriche scritte da Arnold Schonberg su altrettante poesietratte dal Libro dei giardini pensili di Stefan George; una lirica di Alfredo Casella,La sera fiesolana, su poesia di Gabriele D’Annunzio; due liriche di Luigi Cortesesu sonetti di Petrarca; due liriche di Guido Turchi su poesie di SalvatoreQuasimodo, e infine le Histoires naturelles di Ravel. Esecuzione affidata aSusanna Danco e ad Alfredo Casella, e dunque perfetta. Onde con stupore io midomandavo quale potesse mai essere la ragione della noia che a poco a pocom’intorbidava, me così paziente ascoltatore che mi sono ascoltato una volta senzabatter ciglio l’intera Arte della fuga, e un’altra volta per due sere di seguito ITroiani di Berlioz. Tanto più che la mia noia non aveva un carattere generico, mastranamente somigliava allo speciale torpore che ci viene quando ci troviamo in untreno accelerato, fermi da lungo tempo in una stazioncella di campagna, nel cuoredell’estate e nell’ora più calda della giornata, e l’immobilità e il silenzio intorno anoi sono picchiettati dai colpetti ripetuti, insistenti, infiniti del telegrafo Morse.

A tutta prima imputai la mia noia al soporifico influsso della sala nella qualeeravamo raccolti; perché l’ultimo concerto di «Musica Viva» non si è svolto come iprecedenti in quella ariosa e amena sala all'ultimo piano di Palazzo Barberini,onde attraverso le ampie finestre si scoprono i tetti, le cupole e gli aggruppamentivegetali dei giardini di Roma, ma nella sala dei concerti della Casa Madre deiMutilati; e questa sala, romanamente chiamata Auditorium, è la più cupa easfissiante sala che io mi conosca, una tomba per uomini non ancora incadaveriti,cieca di finestre, chiusa lateralmente da alte e pesanti porte carcerarie, coperchiatada una cupola graticolata che sembra voler vietare anche verticalmente quellaevasione che orizzontalmente vietano le porte di ferro, decorata sulle pareti daaffreschi che illustrano la vita delle quadrate legioni e da elmate e mascellute testedi guerrieri che trucemente emergono dai muri: una sala insomma che forse conmeditata intenzione di chi la edificò, vuol dare il senso della mutilazione anche achi mutilato non è. Ma questa spiegazione non mi convinceva, perché non chiarival’analogia tra lo speciale carattere della mia noia, e l’insistente picchiettio deltelegrafo Morse... Finalmente capii: capii che la specialissima noia che io sentivonella sala della Casa Madre dei Mutilati durante il concerto di «Musica Viva» nonera ispirata dall’ambiente, sì dalla musica stessa che io ascoltavo. Perché?

La musica è, al pari dell’elettricità, qualcosa d’ineffabile che circolanell’atmosfera del nostro universo, ma la cui natura nessuno, e non lo stessoSchopenhauer, è riuscito finora a determinare con esattezza, e probabilmentenessuno ci riuscirà mai nemmeno in avvenire. Il musico quanto a sé è un uomofornito del singolare potere di captare nell’aria questa misteriosa cosa che noichiamiamo Musica, che poi in un secondo tempo egli associa al nostro destinotemporale chiudendola dentro la rete del ritmo, e di cui fissa il valore fonico e ilmovimento per mezzo delle note variamente disposte nel pentagramma, ossiadella scrittura musicale. Risulta da quanto abbiamo detto che una composizionemusicale è una specie di miracolo, e che l’audizione di una musica sgorgatadirettamente dalle sorgenti genuine della musica, dà la sorpresa dell’inaspettato el’impressione che d’improvviso noi siamo trasportati in un mondo diverso. Cosi sispiega quella «luminosa sorpresa» che si accende all’attacco di certe musichedirettamente e fortemente ispirate, come l’accordo di quinta minore («enigma del

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destino») all’inizio del Crepuscolo degli dèi, o l’accordo di do minore all’iniziodella Patetica, oppure il disegno mi sol, do si che apre l’Apollo musagete comel’improvvisa apparizione di un raggio di luce. (Del resto elemento fondamentaledell’Apollo musagete è il raggio di luce (aktin) né io conosco musica più«raggiante» di questa, quasi Strawinsky in questa che è la sua opera più altamenteispirata, abbia inteso fare un omaggio di luce al dio stesso della luce).

Ma nel periodo di scolasticismo musicale che stiamo traversando, e che delresto è pieno di un suo speciale interesse, il «miracolo» non avviene; mancal’inaspettata «esplosione» musicale, manca quella espressione di repentina«nascita» della musica che tanto somiglia all’improvvisa apparizione del mare, o diun lago, o di un fiume, e comunque di un brillare e di un fremere d’acque. Il chevuol dire che il musico oggi non è colui che secondato da un singolare potere captanell’aria la misteriosa cosa, ma scrive: scrive semplicemente: scrive«orizzontalmente». E la musica diventa grafia. (Anche a me, quasi quarant’annisono, il mio professore Max Reger insegnava a «scrivere» musica, e a disprezzarechi «inventa» musica).

E cosi, sottomessa all’umana volontà, e schiava dell’uomo, da padrona e deadell’uomo qual essa era, la musica non «nasce» tra le mani del musico, macomincia «come se continuasse», nastro lungo e ininterrotto; e termina perchél’uomo a un certo punto taglia il nastro sonoro, ma potrebbe anche continuare; ese ha da metter in suoni le parole di una poesia, segue fedelmente le parole come latraduzione interlineare segue le parole del testo originale; e a udirla dà meno lasorpresa e il rapimento della musica «inventata», che il senso di monotono infinitoche dà l’insistente picchiettio del telegrafo Morse, in un afoso pomeriggio d’estate,nella lunga fermata di un accelerato in una stazioncella di campagna...

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3. [da] Condizione della musica(nota sul contrappunto)

Il contrappunto è nella musica ciò che la dialettica è in filosofia. È ladimostrazione del principio che «da cosa nasce cosa». E l’analogia in musica dellosviluppo cellulare nella vita organica. Prima della scoperta del contrappunto, lamusica, al pari della filosofia presocratica, era ristretta ad alcune idee isolate, chebrillavano a grande distanza una dall’altra, come stelle solitarie in un cielo nero.Nella musica drammatica, si perpetua l’eroica solitudine del pensiero di Eraclito. Èstrano a dire, ma alcuni melodrammi di Verdi, i più frusti, i meno «fatti», come IITrovatore, e la stessa Cavalleria rusticana sono più vicini al pensiero oscuro edelementare del filosofo di Efeso, che le composizioni a doppio coro di quelGiovanni Gabrieli, veneziano, che attraverso l’insegnamento da lui impartito aHeinrich Schütz, preparò l’avvento delle «cattedrali sonore» di Johann SebastianBach.

Il contrappunto è il moto «interno» della musica. Prima del grandecontrappuntismo la musica sembra mancare di corpo e di vita, più esattamentesembra mancare di organi interni. All’apparire del contrappunto, comincia lamoltiplicazione cellulare della musica, e la musica, si badi bene, diventa una cosafacile.

Il contrappunto — questo intenso movimento cellulare della musica, questocontinuo rinnovamento cellulare della musica — non solo dà vita alla musica —una vita astratta, artefatta (intendi: fatta con arte), aerea — ma le dà anche salute,perpetua freschezza. La scoperta del contrappunto, questo elemento della musicapiù seria, più dotta, più alta, in verità è la scoperta del sistema di conservare lamusica in condizioni di perfetta freschezza.

È per questo che Bach è sempre giovane. È per questo che oggi si vascoprendo con «borghese» maraviglia, come se si scoprissero balene del Pliocenesotto i ghiacci della Siberia, la giovinezza dei precursori di Bach, di Frescobaldi, deidue Gabrieli, ecc. È per questo che quando un musicista (Strawinsky) comincia adavvertire i pericoli della marcescenza e della cancrena, chiede consiglio aicontrappuntisti ed entra egli pure nella grande disinfezione, nella grande curapreserva trice del contrappunto. È per questo che Bach, e prima di lui il nostrogrande Vivaldi, questo più «camminante» dei musici, e poi gli Scarlatti, possonoscrivere composizioni-monumentali, composizioni-piramidi, composizioni-cattedrali, composizioni – torri di Babele (la celebrazione scarlattiana avvenutal’anno passato a Siena per opera dell’Accademia Chigiana, ci ha rivelato nelloStabat Mater di Domenico Scarlatti un’opera nella quale come mai prima, ediversamente da come fanno credere le altre opere di Domenico Scarlatti, la Madredi Dio è stata esaltata con tanto eroico polifonismo, con tanta «berniniana»maestà) e farle vive in tutte le loro parti.

Ma è per questo pure che la musica drammatica italiana, preclusa per suanatura, per suo carattere, per sue esigenze compositive alla grande salute, allagrande disinfezione, alla grande « sicurezza » del contrappunto, è cosi soggetta altempo e alla corruzione che ne deriva, ha tante parti inerti in sé, che ogni pocobisogna tagliare e buttar via. Ma è forse meno eroica per questo, meno alta, menoprofonda? Guardiamola con attenzione e di là dall’abitudine: malgrado glientusiasmi delle platee, malgrado le richieste di bis, malgrado i fiori allaprimadonna, la musica drammatica italiana è meno atta a recare quel piaceretranquillo, quell’« astratto » piacere, quell’« anaestetico» piacere che dà la musicadei grandi contrappuntisti, perché essa richiama con ogni sua nota il dramma della

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vita, la caducità dell’uomo, e l’idea della morte.La musica del melodramma italiano è amara e spoglia d’illusioni. Questa la

ragione perché essa affascina il popolo e l’uomo di mente alta, ma respinge d’altraparte il borghese il quale, ora che del melodramma è stata scoperta la «verità»,preferisce immergersi nella illusione di una cantata di Alessandro Scarlatti, di unatoccata di Frescobaldi, di una fuga di Bach.

È per questo che Verdi, sentendo la necrosi che minaccia la musicadrammatica e a una sola voce, fa egli pure la sua brava cura di contrappunto escrive il Falstaff.

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4. Bach e il contrappunto.

L’estate, che libera la natura e scatena l’uomo alla lotta e all’amore, tarpaper converso le ali alla musica, e la costringe nelle lucide scatolette della radio.

La musica è per sua natura squisitamente invernale. Vogliamo dire lamusica grave e con nobili materiali costruita: la musica che piace a noi: la musicacome organizzazione e gioco mentale: la musica strumentale e polifonica. L’estateper parte sua è favorevole alle cicale e alla melodia: alla stupida e svarionamelodia. E se il tetto a terrazza invita il tenore a cantare «E lucean le stelle», sicapisce d’altra parte che un uomo come Johann Sebastian Bach, questo Patriarcadell’Armonia, questo architetto della polifonia e del contrappunto, sia nato sottoun alto tetto a punta, atto a sopportare un grave peso di neve.

Due violinisti e l’orchestra attaccarono il Concerto in re minore di Bach conpasso gagliardo e spedito, come se volessero sbrigare alla svelta quella faccenda, earrivare alla stretta finale prima della cessazione d’orario dei tassi. Ma avevanofatto i conti senza il contrappunto, i disgraziati.

Il contrappunto è nella musica ciò che la dialettica è in filosofia. È ladimostrazione del principio che «da cosa nasce cosa». È l’analogia in musica dellosviluppo cellulare nella vita organica.

Benché vita stessa della musica, il contrappunto rimase ignorato per moltotempo ai musicisti stessi, come appunto la vita cellulare ai fisiologi, e malgradoalcuni accenni di contrappunto presso gli antichi, è solo alla fine del medioevo cheil contrappunto comincia a rivelare la sua organizzazione radicale e ramosa, trovala propria enunciazione in Scoto Eriugena, poi la sua dottrina nell'Arscontrapuncti di Philippe de Vitry, infine diventa quella complicata architettura disuoni, che porta cosi in alto le composizioni di Bach.

Prima della scoperta del contrappunto la musica, al pari della filosofiapresocratica, era ristretta ad alcune idee isolate che brillavano a grande distanzauna dall’altra, come stelle solitarie in un cielo nero.Per chiudere l’analogia tra musica e filosofia diremo che anche la musica è fisicaprima del contrappunto, e metafisica dopo.

Il contrappunto ha qualcosa di miracoloso, di «meccanicamente»miracoloso. Cade il tema della fuga, ed è come se un magico seme cadesse su unatesta pelata, e la trasformasse di colpo in una foresta di capelli.

Il contrappunto è il moto «interno» della musica, siccome il ritmo è il motoche muove la musica nel tempo. Prima di Bach – e diciamo prima di Bach percomodo e convenzione, e per non rifare qui la storia della nascita delcontrappunto, per merito di Schütz prima che per merito di Bach, e per merito diFrescobaldi e dei grandi polifonisti italiani prima che per merito di Schütz – lamusica sembra non aver corpo e non avere vita: più esattamente, sembra mancaredi organi interni.

All’apparire del contrappunto, s’inizia il fenomeno della moltiplicazionecellulare della musica. Anche la musica si fa all’immagine della vita, e dà ragione aEraclito che panta rei. Annunciato il tema, la composizione – tra contrappuntodoppio, triplo e quadruplo, tra contrappunto legato, contrappunto ostinato econtrappunto saltato, tra imitazioni, canoni e fughe, tra temi e controtemi, risposteed esposizioni, episodi e divertimenti, riprese modulate e strette – la composizionepuò crescere, gonfiarsi ed elevarsi all’infinito, e solo i limiti dell’umana fatica e il

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senso della misura, consigliano di arrivare alla stretta finale e al pedale.Il contrappunto – questo intenso movimento cellulare della musica, questo

continuo rinnovamento cellulare della musica – non solo dà vita alla musica, ma ledà anche salute e perpetua freschezza.

È per questo che Bach è «sempre giovane». È per questo che Bach è laginnastica svedese dei musicisti. É per questo che quando un musicista(Strawinsky) comincia ad avvertire i pericoli della marcescenza e della cancrena,chiede consiglio a Bach e torna al contrappunto.

È per questo che Bach può scrivere delle composizioni monumentali,composizioni-piramidi, composizioni-cattedrali, composizioni-torri di Babele efarle vive in tutte le loro parti.

È per questo che la musica italiana, incline purtroppo al drammatico epreclusa pertanto alla grande salute, alla grande «disinfezione» del contrappunto,ha tante parti inerti in sé, che di tanto in tanto bisogna tagliare e buttar via.

È per questo che Verdi, sentendo la necrosi che minaccia la musicadrammatica e a una sola voce, scrive alla fine il Falstaff e fa egli pure la sua bravacura di contrappunto.

È per questo...Non bisogna illudersi però. Il contrappunto, e cosi la dialettica, vanno a

scapito della profondità. C’è più profondità, nel senso preciso della parola, in unpensiero di Eraclito, che in tutta L’evoluzione creatrice di Bergson. C’è piùprofondità, nel senso preciso della parola, nel canto solitario dello scolio di Sicilo,che per tutta la colossale opera di Bach. Ed è appunto questa mancanza diprofondità di Bach, questa sua ingenua serietà, questo suo «non costituirepericolo», che fanno il suo fascino e giustificano l’attrazione ch’egli esercita ormaisulla borghesia.

E soprattutto la sua organizzazione da uomo metodico, tranquillo e fedelealla moglie.

Perché quanto a organizzazione, nelle grandi composizioni di Bach c’è già ilcarro armato e la Panzerdivisión.

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5. Musica e ritmo

La primavera ha spalancato le finestre delle case. I suoni che altre volteaccompagnavano la gentil stagione in cui natura si rinnova, erano gli stornelli dellefanciulle innamorate e il gorgheggiare delle gabbie fiorite di lattuga. Ma il regno siè impiantato della civiltà meccanica e ben altra voce erompe oggi dalle finestrespalancate: quella imperiosa di mille e mille radio.

Sugli effetti che la musica meccanizzata esercita su quei pochissimi uominiche vivono più col cervello che con le altre parti del corpo, qui non farò parola. Lemie recriminazioni in proposito, io le feci altre volte, ma con risultati tali da nonincoraggiarmi a continuare.

Il rumore è elemento necessario alla vita dell’uomo. Parlare a getto continuocome capita a certe donne che io conosco e anche a molti uomini, e soprattuttoparlare per non dir niente è meno inutile di quanto si crede: è un’attivitàfisiologica, è un’attività di vita e per gli animi gentili è un adornarsi di suono; ed èforse anche un modo di convincersi che si vive, che non si è morti, perchéinconsapevolmente l’uomo frivolo, l’uomo vano, l’uomo stupido è tormentato daldubbio di non essere vivo, di essere morto.

Solo una intensa vita interiore consente di sopportare il silenzio, il qualealtrimenti riesce insopportabile e spaventoso. Ma la vita interiore è di una parteinfima dell’umanità. In tutti gli altri casi suoni e rumori intervengono moltoopportunamente a colmare questa lacuna. Che tale sia la ragione metafisica delgran favore incontrato dalla musica trasmessa, nessuno me lo può negare.

Ben venga dunque il regno della musica trasmessa. Che le nostre gioie e inostri dolori, che i nostri amori e i nostri odi, che la nostra vita insomma si debbasvolgere ormai sopra uno sfondo musicale, è una di quelle condizioni fatali sullequali nulla può la nostra volontà. Anche l’azione dei film e il loro stesso dialogo sisvolgono su uno sfondo musicale: per la stessa ragione, e all’insaputa dello stessoregista: per colmare il vuoto del film e soprattutto il vuoto del dialogo.

Ma noi siamo un popolo di propria e alta civiltà. La civiltà italiana hacaratteri precisi: la linea e il ritmo. Se la vita dunque noi la dobbiamo consumared’ora in avanti a suon di musica, sia almeno musica che non contrasta e nonoffende, ma sposa lo stile della nostra civiltà: la linea e il ritmo.

Il ritmo è il «galateo» della musica. Musica senza ritmo e musicascreanzata. Il ritmo è la base della musica italiana. Il suo lirismo è un lirismoritmico: un lirismo «che cammina». Questa la ragione perché la musica italiana èdi tutte la più viva, la più umana, la più civile.

Queste considerazioni si formano a dir vero alla morte di, Giuseppe Verdi.Cominciò di poi l’infelice avventura del melodramma verista e linea, ritmo, stilefurono distrutti in nome della verità.

Anche la musica, come le altre attività dello spirito umano, non la si puòconsiderare unicamente in sé e astraendola dalle necessità fisiologiche della vita.Bisogna individuare nella musica l’elemento che più di tutti la mette in relazionediretta con la vita, e dare a questo elemento il posto d’onore.

Questo elemento è il ritmo. Il ritmo della musica è il riflesso sonoro delritmo stesso della vita: del palpito del nostro cuore del palpito del nostro cervello(chi è abituato a pensare sa che anche il pensiero ha un suo ritmo). Una musicaritmata è una musica vivificante e umana. Una musica senza ritmo è una musicacatalettica e inumana. Non per nulla la sinfonia della Gazza ladra o le Stagioni diVivaldi sono musiche ben più vive e attuali che le aritmiche divagazioni sonore di

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Claude Debussy.Se le innumerevoli radio che mi circondano ripetessero all’infinito le

sinfonie della Gazza ladra o altre musiche ugualmente ritmate, la mia vita e il miolavoro, e cosi la vita e il lavoro di tutti non ne sarebbero turbati e ostacolati, maallietati al contrario e vivificati. In queste musiche cosi fortemente ritmate elogiche e umane, noi troveremmo un incitamento e una giustificazione. E mentreci affatichiamo nella ricerca della ragione e del ritmo ideale della nostra vita, cisembrerebbe che questa stessa ragione e questo ritmo si continuano fuori di noi esi espandono sonoramente per gli spazi infiniti.

Ma ben altre musiche ci sono propinate di solito. E quando non è l’ansimaredelle musiche sincopate, sono i belati caprini, i sentimentalismi bolsi, lepassionalità bestiali, i «rubati», gli «affrettando», i «rallentando», le corone, gli«ad libitum», i do di petto, gli urli, i singulti, le sghignazzate, tutto lo smanceroso eidiota condimento di quel melodramma verista che da cinquantanni a questa partespande un’ombra sul fulgore della musica italiana.

Pare incredibile, ma Verdi è ancora considerato, e proprio qui, da noi, comeun operista grandissimo, ma un musico da non si dover prendere molto sul serio.

Per capire il profondo valore della musica di Verdi, bisogna considerarlaanzitutto come una musica eccellentemente ritmica. Le sue stesse qualitàsentimentali, drammatiche, poetiche sono costrette e disciplinate dal ritmo. Chel’ideale supremo di Verdi fosse il ritmo, lo testimonia non il solo Falstaff (che percerti riguardi costituisce una «diminuzione» di fronte ad altri suoi melodrammipiù corposi e ispirati, ma tuttavia risolve la massima aspirazione del suo autore: ilmoto perpetuo), ma lo testimoniano pure i suoi melodrammi più fantasiosi, piùestrosi, più sconvolti dalla melodrammatica foga, come il Rigoletto o Un ballo inmaschera.

Non ho mai trovato ancora una interpretazione delle opere di Verdi cherispettasse la rigorosa armatura ritmica che le informa. Triste a dire, le òpere diVerdi servono oggi ancora di sfogo all’arbitrio dei cantanti, alle licenze deidirettori. La musica di Verdi va eseguita presto e sopprimendo tutte quelle fratturedel ritmo che sono determinate da «stupide» ragioni di patos. (Taluni continuanoa scrivere «pathos», «Pantheon», «Lydia»: esempi di estetismo arcaicizzante).

Che il ritmo sia la base della musica italiana, lo dimostra anche il metododei nostri direttori d’orchestra. Il direttore italiano «batte il tempo» con labacchetta: il direttore tedesco «accompagna» con la bacchetta i vari movimentidella musica. Il metodo italiano (per meglio dire «quello che era» il metodoitaliano) sottintende una ossatura ferma e immutabile, un granito sul quale poggiala struttura musicale: il metodo tedesco sottintende un’ossatura ritmica che siadatta allo svolgersi e al mutare dei sentimenti e dunque un’ossatura morbida emutabile: un avviamento al dislogamento dell’anatomia musicale eall’«impressionismo».

La musica italiana è ritmica, la musica settentrionale aritmica. L’ideale dellamusica settentrionale è la «Sonata quasi una Fantasia». Sia inteso però chel’aritmicità della musica settentrionale (riflesso sonoro dell’aritmicità della stessamente settentrionale, del suo divagare per i campi della metafisica, dello specialecarattere della sua «poesia») non ha nulla che vedere con l’aritmicità del non maitroppo deplorato melodramma verista. Qui non è neppur quistione di aritmicità,ma di suoni claudicanti, di ruote quadre, di corse sui trampoli.

Una rinascita della musica italiana non può avvenire se non sotto il segnodel ritmo.

In ogni città, dalla torre della casa del Comune, un enorme metronomo,attivo giorno e notte, dovrebbe regolare il ritmo della nuova musica italiana.

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6. Bach e l’estetismo.

Il mio professore di composizione mi faceva analizzare per studio lemusiche di Johann Sebastian Bach. Dovevo indicare nelle fughe l’ingresso dellevarie voci che propongono il tema ora a diritto e ora a rovescio, seguire il temaattraverso il labirinto del contrappunto, indicare il secondo tema se c’era,analizzare le modulazioni e arrivare cosi notomizzando alla stretta finale ove levoci si stringono in un aggruppamento supremo come i superstiti di un naufragiosu uno scoglio, e alla cadenza che chiude la porta sul compiuto edificio sonoro. Mail mio professore di composizione, che a sua volta era stato allievo del grandeReisenauer per il pianoforte e per la composizione del non meno grande MaxReger soprannominato «il secondo Bach», non si contentava dell’analisi tecnicadelle fughe, voleva soprattutto che mi avventurassi nella loro analisi estetica, epoiché le mie risposte in questo campo lo lasciavano insoddisfatto, egli finiva perfare l’analisi da sé, con un entusiasmo e una cosi completa assenza di dubbi che milasciavano perplesso. Il mio professore di composizione era un esteta, perché iltempo dei miei studi musicali, avvenuti nella prima decade del secolo, coincidevacon l’epoca d’oro dell’estetismo, e dell’esteta egli si era fatto l’acconciatura dellatesta, portando barba e chioma alla nazarena, atteggiando l’occhio a un languore disogno e il labbro al gusto di sapori squisiti, e vestiva dell’esteta anche l’uniforme,consistente in ampie giacche di velluto, cravatte svolazzanti punteggiate dipasticche rosse o verdi, e panciotti fantasia sui quali brillavano due file di bottonilucidi come occhi di gatto e altrettanto fascinatori. Ho indicato i primi anni delsecolo come l’epoca d’oro dell’estetismo, ma non bisognerebbe inferire da questoche oggi l’estetismo non alligni più. L’estetismo purtroppo è un male cronico e chenon dà speranza di guarigione, solo che allora l’estetismo era manifesto eorgoglioso di sé, oggi è più cauto e silenzioso, ma non meno dannoso per questo némeno tenace. Tra le varie forme di diabete c’è il diabete cosiddetto «insipido» che,se non vado errato, è anche il più grave.

Mi domandava il mio professore di composizione quali immaginim’ispirasse la Fuga n. 1 a quattro voci del primo volume del Clavicembalo bentemperato, e poiché io rimanevo muto malgrado gli sforzi di volontà che migonfiavano le mascelle e m’incantavano la pupilla destra in un temporaneostrabismo, egli mi spiegava che la Fuga n. 1 evoca un ameno paesaggio dellaTuringia allietato dal gaio scampanio di un armento al pascolo e dal fruscio di unruscelletto tra l’erba, e come a documentare il carattere bucolico di questa fugaaggiungeva che lo stesso nome Bach significa ruscello. Poi mi descriveva ilPreludio e fuga n. 8 dello stesso volume come delle immagini dipinte sulle vetratedi una cattedrale gotica, e nel Preludio n. 7 mi mostrava un gruppo di vecchierelleraccolte a chiacchierare davanti al portale di una chiesa, le quali all’andante dellabattuta 10 tacciono di colpo perché il portale si è aperto e lascia espandersi gliaccordi dell’organo, poi al primo tempo della battuta 26 riprendono a poco a pocoa chiacchierare sulle note gravi della liturgia.

Chi di noi sfugge all’estetismo? Io stesso, nel dare più sopra una descrizionesommaria della fuga, mi sono abbandonato a paragonare le voci della fuga raccoltenella stretta a un gruppo di naufraghi su uno scoglio e la cadenza alla porta di unedificio, cioè a dire sono incorso in peccato di estetismo. Perché l’estetismo, che èpiù o meno acuto e di migliore o peggiore qualità, si esprime attraverso l’immagineossia scambia una cosa per un’altra cosa. Nel caso estremo di estetismo l’estetaarriva alla vergogna della realtà, che è quanto dire la vergogna di se stesso, e si crea

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un repertorio di «belle immagini» dietro le quali si nasconde, e l’amore a modo diesempio diventa una «fiamma purissima», le operazioni più semplici e naturalidiventano dei «riti», la vita intera si ricopre di una pelle scintillante ma falsa.

Chi meno di tutti si presta a questa traduzione per immagini, è JohannSebastian Bach. La musica di Bach è perfettamente astratta, negata a qualunquecomparazione, e tanto meno a qualunque approssimazione, del tutto indifferentealle voci umane o terrestri. Beethoven ricanta il canto cupo dei giganti, ascolta isospiri profondi delle montagne, si spinge ai confini estremi della vita, ma dellavita rimane pur sempre implicato dentro il fangoso plasma; mentre Bach non haocchi per guardare la vita, non orecchi per ascoltarla. Gli stessi ritratti di JohannSebastian confermano questa sua perfetta cecità, questa sua sordità totale. Sordodicevano Beethoven, il quale internamente era sconvolto dalle voci di unaaudizione straordinaria. Bach invece era sordo e dentro e fuori. Come a meglioproteggere questa sua immobilità di sentimenti, a meglio custodire questa suaatarassia di passioni, Bach si nascondeva dietro la sua propria musica come dietroun riparo sicuro; perché non un desiderio, non una speranza, non l’idea più magrariesce a traversare la musica di Bach, che il suo tessuto rende altrettantoimpermeabile quanto il fondo oro che circonda le Madonne di Cimabue, quanto ilcielo di Tolomeo.

Al tempo in cui il mio professore di composizione m’insegnava nei preludidi Bach i ruscelletti che corrono, le vecchierelle che chiacchierano e le immaginiche brillano nelle vetrate delle cattedrali, la borghesia musicale considerava lamusica di Bach una pura esercitazione scolastica e non pensava affatto a farseneuno strumento di gaudio.

Oggi invece la borghesia musicale ascolta L’arte della fuga come alloraascoltava La Traviata. Che segno è questo? È segno che gli amici della musicahanno preso una indigestione di umana passionalità, e oggi hanno bisogno diquesto riposo del cuore, di questo gioco di là dai sentimenti, di questo austerointorbidimento del cervello che dà la musica di Johann Sebastian Bach.

Del resto tutta la musica naviga verso i mari tranquilli dell’astrazione, ove inervi degli ineroici musici d’oggi possono trovare riposo.

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7. La «Pastorale» *

La Sesta Sinfonia di Beethoven, detta Pastorale, è un sistema a giostra e auso degli amatori di bei paesaggi; un’anticipazione dell’otto volante.

I viaggiatori stanno seduti per benino a coppie nelle vetturette a barca: gliuomini in gibus peloso, scopettoni a zampa di lepre, cravatta girata più volteintorno al collo; le signore vestite da copriteiera.

Sotto l’abito a copriteiera, le parti vive della donna risultano infinitamentepiù preziose, e quale rischiosa, quale eccitante avventura a ogni uomo sentirsiColombo, scoprire un’America di dolcezze!

Le vetturette sono decorate esternamente di angiolini che reggonoghirlande di fiori, di sirene che vanno in velocipede sulla propria coda, di maialottivestiti da onesti cittadini, alcuni che ballano con le loro maialotte, altri chesuonano violini e trombette.

Le signore reggono l’ombrellino a riparo del sole, le frange piangono a salicesui loro capelli da falconiere.

* S'intende che queste righe, preludio a una considerazione della sesta sinfonia di Beethoven, sonoda leggere alla luce della pagina sull'estetismo (qui da noi anteposta), di cui paiono costituire unaillustrazione nel segno patente del paradosso e dell'eccesso, metafisico-umoristico (eprobabilmente, surreale).

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8. Tre note intorno a Strawinsky

«Apollo musagete».

Strawinsky non è creatore. Le corde del suo arco sono la parafrasi,l’interpretazione, l’imitazione. Ogni sua musica è un «visto da».

Il creatore vive solitario. Non ha relazioni col mondo. È nemico delprossimo. Se appena una anche minima voce del mondo cade nell’opera delcreatore, nasce uno scandalo. Scandalo il richiamo del cuculo nella Pastorale,scandalo il tema russo nel finale della Settima.

Per meglio capire questi esempi, il lettore deve uscire dall’abitudine:dimenticare. Soltanto allora i citati passi della Pastorale e della Settima gliappariranno nella loro luce vera e «oscena». Lo stesso Beethoven, il graveBeethoven, gli apparirà in ispecie di vecchio lascivo, che d’un tratto butta via ipanni, si cinge i reni con un tutù, si mette a saltabeccare.

In Strawinsky invece tutto preesiste, tutto è noto, tutto previsto. Diciamomeglio: previsto ma capovolto. Tutto è «rovescio della medaglia».

Intendiamoci, però: questa imitazione riplasmata non è una forma«minore», a petto alla originalità, alla primordialità del creatore, di «certi»creatori.

Il parafrasismo di Strawinsky è meno un male del nostro tempo, che una«necessità» del nostro tempo. Lo si ritrova eguale in Picasso, il quale parafrasa orai disegni di Ingres, ora le pitture pompeiane, ora la statuaria negra.

Spieghiamo questa «necessità del nostro tempo». Creatori del tempoimmediatamente anteriore a questo di Picasso e di Strawinsky, per meglio direartisti «atteggiati» a creatori, erano Franz von Stuck, Gabriele D’Annunzio,Richard Strauss, lo stesso Bistolfi...

È l’ostilità al tipo «creatore», che determina l’antiwagnerismo diStrawinsky: l’ostilità al demiurgo biblico.

Era necessario reagire all’atteggiamento del creatore. Era necessariobuttarsi alla parafrasi. Parafrasare o morire. Per riallacciare il filo della cultura,rotto dai sedicenti creatori.

Picasso, Strawinsky, sono due esempi di dichiarata rinascita della cultura.Nel contorno di Bistolfi, di Strauss, di D’Annunzio, si respira aria d’incoltura,malgrado i persistenti richiami ai modelli classici; e forse a cagione di questi. È unbuio più che di barbarie: un buio di morte. Peggio: un buio di stupidità. ConStrawinsky, con Picasso, riappare la luce dorata della rinascita. Che di piùpetrarchesco di questo Apollo musagete?

Di là da un’epoca di tenebre, Igor Strawinsky, come a suo tempo Petrarca,scopre le chiavi della luce; apre le luminose sorgenti e se ne illumina tutto, come cisi abbevera a una fonte. Nella Rinascita c’è la scoperta della pietà filiale, l’amore aun padre ritrovato. È il «dolce» sentimento della Rinascita, dopo il lungo tempodell’amore nascosto.

La Rinascita si può anche chiamare Risveglio dell’Intelligenza. Al tempobuio e roccioso dei Creatori, dei demiurghi ottusi, subentra un’epoca rischiarata daun lungo, un obliquo sguardo divino.

Non fossero state le condizioni storiche qui sopra ricordate, Strawinsky,

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Picasso, sarebbero forse stati a loro volta dei creatori, anziché quei parafrasatori,quei manieristi che sono stati costretti a diventare. Di là da certi limiti, non c’è piùobbligo di obbedire al temperamento: non c’è più temperamento, ma piena libertàdi scelta.

Nell'Apollo musagete, il manierismo di Strawinsky è anche più manifestoche nelle altre opere, il parafrasismo anche più scoperto. È un risveglio di dolciricordi, un ridestarsi di memorie bellissime e fino allora sopite. Ritrovandole, ci sidomanda come, nella lor dimenticanza, vivere fosse possibile.

Nell'Apollo musagete, il «rinascimento» è più accentuato che nelle altreopere di Strawinsky, più chiaramente determinata la ricostruzione del filoculturale. E se in questa sua operetta Strawinsky ha ristretto l’orchestra ai soliarchi, è perché, attraverso le lenti da miope, le nere ed enormi pupille del musicohanno guardato l’Apollo di Raffaello, seduto sulla vetta del Parnaso, la destrasull’archetto, la ganascia sul violino.

Nell’Apollo musagete, la musica tocca l’imo della dolcezza.Come illustrare la più alta qualità di questa musica?È una musica «silenziosa».Quello che soprattutto si paga negli alberghi di lusso, è il silenzio.Quello che soprattutto allieta gli dèi, è l’altissimo silenzio dell’Olimpo,

questo «palace des palaces».Nell'Apollo musagete, Strawinsky ha messo in musica il silenzio

dell’Olimpo.Grande nel paradiso cattolico, il rumore. Salteri, organi idraulici, tiorbe,

angeli che impallonano le gote sul becco delle trombe, e osanna osanna osannasenza fine.

Nella sede degli dèi pagani, tutto è silenzio, tatto, decoro.E malinconia.Perché consolazione di morte sull’Olimpo non c’è, ma l’infinita tristezza,

invece, di non poter morire. E come sopportare l’immortalità, se non nel chiuso delsilenzio?

L’immensa malinconia dell’Olimpo, Strawinsky la esprime soprattutto allafine della partitura, quando Apollo risale verso la sua eccelsa sede, e di lui nonrimane se non il lamento insistente e appena stridulo del violino.

Il punto più sorprendente dell'Apollo musagete, è il tema di Apollo, permeglio dire il tema che rappresenta Apollo.

Non conosco esempio, che esprima con altrettanta chiarezza, con altrettantametafisica precisione, l’apparizione della luce come «apertura». I movimenti diApollo sono angolosi e meccanici, come si addice a un dio rappresentato. I raggi sispiccano da lui, rapidi, diritti, scattanti.

Buttare luce, in Apollo è un tic nervoso. Spade di luce partono dalla testametallica del dio, fulminee come la lingua del camaleonte. Non traversanol’universo, ma trafiggono appena l’ambito del dio, perché la luce di Apollo, la lucegreca non è, al pari dei raggi massicci, dei plumbei raggi di Geova, buona per tutti,ma solo a una ristretta cerchia di gente, a un petit comité, perché l’olimpicità diquesto Apollo musagete è rigorosamente limitata, nettamente conchiusa, hal’intimo di una musica di Chopin, e fa salotto. In ultimo, nell’Apoteosi (apoteosi infamiglia) Apollo se ne va tirandosi dietro i suoi raggi, come un bimbo un baloccoper un cordino; e i raggi di Apollo, mentre Apollo si allontana, appaiono un po’zoppicanti, un po’ irranciditi, un po’ malridotti, un po’ stracci.

Confronta il finale dell'Apollo musagete, col finale dell’Orfeo. Orfeo siallontana a un segnale di tromba: un segnale da caserma. La qualità che cosinettamente distingue Strawinsky dagli altri musici, è lo spirito.

Musica dell'Apollo musagete: la più radiante che io conosca. Raggi lancia

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questa musica. Ma la parola «raggi» non basta. Bisogna prendere la parola greca:aktin.

« Oedipus rex».

Questa qualità Strawinsky ha in comune con Jules Verne, di un profondofiuto geografico, di conoscere anche i paesi che non ha mai veduto. La Grecia,Strawinsky forse l’ha visitata da turista. Non so. Ma visitare da turista cheimporta? La Grecia Jules Verne non l’aveva visitata mai, e, nell’Arcipelago infuoco, egli ha fatto vivere nella maniera più vera, più naturale, la Greciapalicaresca del primo Ottocento.

Strawinsky, nell’Oedipus rex, fa rivivere in maniera altrettanto vera,altrettanto naturale, la Grecia; non la Grecia strettamente edipica, né tanto menol’edipica Grecia parafrasata dai filologi, ma la Grecia di Edipo e di sempre; cosiprofonda identità è tra la Grecia di Edipo, di Giocasta, di Creonte, e la Grecia delgenerale Plastiras.

Solo chi, come me, ha avuto l’onore di nascere in Grecia, può sentire lequalità «razziali» dell’Edipo di Strawinsky.

Nei primi canti di Edipo (gorgheggi di uccello più che canti d’uomo) c’èl'insouciance, c’è la leventia degli dèi giovani: Mercurio, Apollo.

Nell’accorato canto di Giocasta, c’è il dolore grasso, contenuto e insiemesbracato, della magna-, la donna greca tanto del tempo di Edipo, quanto deltempo di oggi; la donna che ha figliato, che cammina pesante e come legata perinvisibili radici al suolo, che sente tutti gli uomini come suoi propri figli, e la qualealtro modo non ha di opporsi ai grandi dolori che il cielo manda, se non diafferrarsi con ambo le mani la testa posta in obliquo.

Tra l’ispanismo di Debussy (Iberia), l’ellenismo di Strauss (Elettra) e ilgrecismo cosi radicale di Strawinsky (Edipo), fate il raffronto.

Anche per ragioni geografiche, si può essere musicisti migliori.

Quello che resta di Edipo.

Antonio Ghiringhelli, commissario della Scala, e Mario Labroca, direttoreartistico, mi commisero alcuni mesi sono lo scenario, i costumi e la regiadell’Oedipus rex di Strawinsky; del che io li ringrazio. Lo spettacolo è andato inscena il 24 aprile scorso [1948].

Lasciate che vi faccia una confessione: io vivo in una perpetua condizione difelicità. E vivo cosi perché non do presa alla noia. E non do presa alla noia, perchépasso di continuo da poesia a poesia, da arte ad arte, da tecnica a tecnica. E i giornimi si svolgono come in un perpetuo viaggio nel paese delle novità. Sono come coluiche non ha mai visto Venezia, e un giorno si affaccia all’improvviso su Piazza SanMarco. Sono come colui che non ha mai veduto il mare, e un giorno da una vettadella Liguria scopre all’improvviso la distesa azzurra del Tirreno. Sono come coluiche non ha mai veduto l’aurora, e una mattina da una riva d’Abruzzo vedeall’improvviso il sole sorgere dall’orizzonte adriatico e scalare il cielo nella suaruota di raggi.

La noia è la nostra peggiore nemica. Ausiliatrice della Morte. La Mortecommette alla Noia di prepararci a lei, facendoci morti in parte mentre siamoancora in vita. È la maschera della Morte quella pelle muta e incolore che io vedosulla faccia dei passanti in istrada, dei viaggiatori sui treni e sui tramvai, degliimpiegati negli uffici, degli operai nelle fabbriche, dei pittori negli studi, dei

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letterati allo scrittoio, dei dirigenti ai posti di comando. In quella riformascolastica cosi urgente e alla quale nessuno pensa, i piccoli uomini sarannoaddestrati a non vivere la vita se non in istato di freschezza. Ve la immaginate unaalimentazione composta tutta quanta di cibi avanzati? Tale tuttavia è questa vitacomposta tutta quanta di vita avanzata... Noia. Fa gli uomini stupidi e malvagi.Noia. Li porta alla brutalità. È per noia che gli uomini fanno la guerra. È pertimore di un nuovo insabbiamento nella noia, che gli uomini si preparano a nuoveguerre. Se tutti gli uomini fossero tutti distratti come me e divertiti (due participipassati che hanno entrambi un comune significato di «lontano dal presente»), sefossero contenti di sé, se fossero «pieni» di sé, puri dell’orrenda e nefasta voglia diessere diversi da come sono, di possedere cose diverse da quelle che posseggono,sarebbe possibile la guerra?

Il mio ultimo divertimento è stato questo allestimento scenico dell'Oedipusrex. (Ma già sono passato ad altri divertimenti). In istato di divertimento, non sibada a spese. Solo una parte dunque dell’allestimento scenico progettato da me èandato in attuazione. Lasciate prima che io dimentichi del tutto questodivertimento, che vi parli delle sue parti inattuate.

La tragedia di Edipo è la tragedia della trasformazione. Edipo, da come eglisa, è figlio di un pastore. Le cose invece gli vanno come a uomo che vuole e può.Incontra un tale che gli sbarra la strada: egli lo uccide e passa oltre. S’imbatte nellaSfinge che gli propone un indovinello mortale: egli scioglie l’indovinello e rendemortale l’indovinello alla Sfinge stessa. Si presenta a Tebe e Tebe lo proclama re egli dà in isposa la regina. Che può desiderare di più? Sono soluzioni da sogno. Infondo i successi di Edipo sono le soluzioni sognate da tutti noi, e più schiettamentenel tempo dell’infanzia, a cominciare da quel modo sbrigativo di aprirsi la strada –e non mi si venga a parlare, qui, di ostacoli morali, queste scappatoie inventatedall’uomo per giustificare a se stesso i propri insuccessi.

I successi rendon Edipo vano. È perciò che nella prima parte della tragedia,io lo rappresento in ispecie di uomo piumato, che ricopre di una superficieiridescente la propria vacuità interiore. Poi, quando Edipo viene a sapere su qualiabissi di orrore i ponti dei suoi facili successi lo hanno fatto passare, il piumaggiogli crolla di dosso e la sua grande miseria interiore viene allo scoperto.

Edipo non è soltanto il simbolo di quei profondi e oscuri impulsi che Freudha raccolto nella denominazione di «complesso di Edipo», è anche il simbolo dellaprofonda e tragica trasformazione che nel tragico e profondo tempo presente vacompiendo l’uomo, il quale dalla condizione tutta comoda e sicura cui lo avevaabituato il concetto di corpo e anima, e che la parte vulnerabile e mortale di sé eracompensata da una parte invulnerabile e immortale, ora passa, corpo e psiche, auna condizione tutta vulnerabile, tutta transito, tutta miseria. Si parla diesistenzialismo oggi e il volgo ne ride, compresi nel volgo tutti coloro che hannoocchi e non vedono, hanno cervello e non pensano; ed esistenzialismo non è se nonla condizione dell’uomo che ha perduto il piumaggio di illusione che nullagiustifica più, e deve rispondere in tutto e per tutto di sé.

Intorno alla trasformazione di Edipo, tutto dovrebbe trasformarsi. Avevoprogettato dunque che anche lo scenario si trasformasse; che i cittadini di Teberappresentati dal Coro passassero dal bianco al nero e viceversa; che le colonne deltempio e i capitelli girassero su se stessi e diventassero neri da bianchi, bianchi daneri; ma lo spirito scolastico, che paralizza la vita in generale e in particolare quelladel teatro, non consenti allo scenario di moversi.

C’è anche una ragione più profonda perché lo scenario rompa finalmente lasua incolore immobilità. Lo scenario rappresenta la natura, e la natura, che per inaturisti del tempo di Goethe era esemplare immobile, noi, educati da una fisicamolto diversa, abbiamo il dovere di vederla nel suo naturale e continuo

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movimento.Scenario in movimento. Segnalo la mia intenzione di portare, mediante la

personalizzazione e il movimento, anche le varie parti dello scenario alla vita edignità del personaggio. Oggi l’attore opera in un ambiente morto: domani opereràin un ambiente vivo, e la vita dell’ambiente non sarà espressa soltanto dalle luci,queste troppo fedeli ancelle del pompierismo.

Mobile doveva essere anche l’Occhio dentro il timpano del tempio.(Parafrasi dell’occhio di Dio nel triangolo). E doveva spiare le tragiche vicendedegli uomini, sotto, e frugarle, e ora tremolare di sorriso, ora spegnersi di noia, orafissarsi in una gelida e spietata indifferenza.

Il tempio è la casa degli dèi. Il tempio dunque non è vuoto come sembra, maabitato dei suoi inquilini. Nel mio progetto di sceneggiatura, gli uomini vivonotragicamente, nella città, gli dèi vivono intragicamente nel loro tempio. Il Quale laprecisa qualità degli dèi greci? Quella di uomini che hanno superato la tragedia;che hanno raggiunto quella condizione di «dilettantismo» che è la condizione piùalta e felice della vita; quella condizione che, se la vita ha un fine, è il fine dellavita; quella condizione cui io profondamente aspiro e cui qualunque uomo –credete a me – può aspirare e raggiungere, basta che lo voglia e sappia rendersenedegno.

E mentre Edipo, Giocasta, Creonte, il Coro vivono giù la loro tragedia, glidèi, in bassa tenuta, vivono lassù la loro vita monda di tragedia; escono dal tempioe vi rientrano; si appoggiano a riposo alle colonne e siedono sui gradini; guardanole nuvole e gli uccelli che passano; seguono di tanto in tanto le vicende degliuomini; si «divertono» ai guai che loro stessi hanno combinato... Finché la grandepietà degli uomini muove gli stessi dèi a pietà. E allorché Tebe scaccia Edipo,Giove, Mercurio e Venere scendono dal tempio – scendono dal loro«dilettantismo»; vogliono seguire Edipo e confortarlo; ma certe manifestazioni,noblesse oblige, agli dèi non sono consentite; e i tre dèi, l’occhio per la prima voltaappannato dal dolore, guardano Edipo solo e cieco che se ne va.

Nel mio bozzetto di scenario, il blocco intero della città, racchiusa tra iltempio e la casa del re, è posato su un dado. Questo particolare «greco» vuolesprimere quel che di oggettivo, di maneggevole, di portatile i Greci davano sia allecose che costruivano con le mani, sia alle cose che costruivano col cervello, e cheera un effetto del loro profondo sentimento atomico. Atomisti, i Greci mettevanoogni loro studio a non lasciarsi sommergere dall’atomismo; da cui l’«oggettivaimmortalità» delle cose greche. Poi viene il cristianesimo che apre l’atomismocome sentimento, e c’invita tutti a immergerci dentro.

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9. Testi per proprie composizioni 1914*

I. Les Chants de la mi-mort, suite pour piano:7. Abdication (Tempo di marcia – Assai lento – Lento)

Chant (femme) Il se rua sur la table d'acier, revolveré à les flacons émaciès. Ah!... Ah!... Ah!... Ah!...

Chant (homme) Je m'appele Julie, je suis homme et fille.

Chant (femme) Il revint après sa morte, ah, ah, ah, ah, on l'avait livréau sort! Ah, ah, ah, ah. Oui!

Chant (homme) Pauvre roi! Pauvre roi!Chant (femme) Ah... Ah!... Ah!... Ah!...Chant (homme) Dammi questo fucile, per Dio !Chant (femme) Dammi questo fucile, per Dio !

Ah, ah, ah, ahAh! Eteignez ce phare, si vous ne voulez pas me voir mourir, cet homme, non , qui passe...

Chant (femme) Ah, ah, ah, ah.Chant (homme) Ah, ah, ah, ah.

Je lui donnai l'amour gisant, élué. Chant (femme) Ah, ah, ah, ah.

II. Album 1914, pour voix et pianoavec une pièce finale pour voix, basson et célesta

1. Il cuore di Giuseppe Verdi:

Uomo Preti! Preti!Donna Un passo ancor e scopro il suo cuor!

* Guillaume Apollinaire scrive del Savinio musicista ed esecutore: “egli non è affatto come lamaggior parte dei musicisti che, al di là della loro musica, non posseggono più alcun valore[…] Non possiamo passare sotto silenzio il modo in cui Savinio suona: esecutore di una abilitàe forza incomparabili, questo compositore sta davanti allo strumento in maniche di camicia,ed è uno spettacolo vederlo agitarsi all'estremo, urlare, fracassare i pedali, descrivere mulinellivertiginosi, picchiare pugni nel tumulto di passione, gioia, disperazione. E al termine di ognibrano, si asciuga il sangue che ha macchiato i tasti". I testi si trascrivono qui dal booklet del cddi Les chants de la mi-mort – Album 1914, eseguito da B.Canino et al., Stradivarius 1992.

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Ritagliato in carta rossa, con le piume palpitanti gonfio di voce, ah!...

Uomo Preti!...

2. Le général et la Sidonie:Chant (femme) Ah, ah, ah, ah, ah.

Voici la Sidonie de fer qui etrangla le général... Ah, ah, ah, ah.

3. Je me sens mourir de néant:Basse Je me sens mourir de néant

le blond est endormi. Baryton Ah!... Donna Ah! Ah! Basse Je m'en vais mourir de néant. Baryton Pourquoi ? Pourquoi? Donna Ah!..

4. Bellovées fatales n.12 (La passion des rotules):Chant (femme) Ah! Il m'a touché de sa jambe

de caout-chou! Mama! Mama! Mama! Chant (homme) Tutto sa di rosa, Maria, per te... Chant (femme) Mama!

5. Matinée alphabétique:Chant (femme) Ah!Voix A.. BI... CI... DI...Chant (femme) A... BI... CI... DI...

Ah, tu me regardes, pâle nombril...Rendez moi mes viscèresque je viens de vomir dans l' aiolé!Ah, tu me regardes, pâle nombril.

6. Le fanal d'épiderme:Chant (femme) Danse oiseau, danse oiseau.

Mes poumons argentés.

7. La mort de M. Sacerdote:Chant (femme) Voici la maison où est mort

mon professeur Monsieur Sacerdote. Imbecilli! Imbecilli!

8. Le doux fantôme:Chant (baryton) Et si tu crois mourir dans la...

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Chant (basse) Prends ton livre des chants et la bague d'argent, car la mort doit revenir... Vise au front!

Chant (femme) Ah ! Ah! Ah! Ah! Chant (basse) Il a mis la collerette de fer blanc, à l'enfant... Chant (baryton) Et si tu crois mourir... Chant (femme) Ah! Ah! Ah! Ah!

9. Amitié - Tragédie:Chant (femme) Mamma mia! Mamma mia!

10. Mes poumons argentés:Chant (femme) Mes poumons argentés!

Mon coeur est captif dans le filet de mes veines rouges et bleues. Mes poumons argentés!

11. Les helmes dorées - Offrande:Chant (femme) Ha-hé-hou-ha-hi-a!

Pour toi je meurs, mon roi! Ha-hé-hou-ha-hi-a!

12. Tirésias est mortChant (femme) Ah...Ah...Ah...Ah...Chant (homme) Ah...Ah...Ah...Ah...Chant (femme) Tirésias est mort!

Ah...Ah...Ah...Ah...

13. Chant sans parolesChant (femme) Ah...Ah...Ah...Ah...

14. La solitude (Couplet)Chant (homme) Pauvre chèvre, on t' atendue... Ah...

Mon navire est un poison d'argent. Mère et toi mon frère et vous amis, adieu! adieu!

Voix In fondo tu sei sempre stato solo...e allora? che cambiamento c'è?

Chant (homme) J' avais un petit jou-jou mais hier je l' ai cassé.

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10. Savinio parla di sue opere

Parlo di “Orfeo vedovo” *

La parola del poeta è propriamente la voce della sua anima. Poche voltequesta voce grezza, questa voce-madre, si presenta non accomodata al viverecivile. Di rado la voce del poeta parla direttamente; quasi sempre attraverso il filtrodel giudizio, della logica, dei principi morali, del pudore. La mia voce, finora, quasisempre ha parlato attraverso il filtro del pudore. Esigentissimo filtro.Esigentissimo in me. Strumento d’igiene, ma anche strumento deformante.Attraverso il filtro del pudore la voce dell’anima si vela d’ironia. Chi l’ascolta e vuolcapirla, deve guardare dietro il velo. Pochi sanno guardare dietro il velo. Pochisanno che, in certi casi, bisogna guardare dietro il velo. E stanno, davanti alle cosemie, sordi, ciechi.

Mai la voce della mia anima aveva parlato cosi direttamente come in Orfeovedovo. Poche volte aveva parlato cosi fuori del filtro. Dico il filtro del pudore,perché gli altri filtri, a cominciar da quello dei principi morali, io li ignoro. Nuda,ingenua. Non dico coraggiosa, perché coraggio ignaro di sé, non è coraggio. Se miarrischio a questa confessione, è perché voi mi ascoltate ma non mi vedete, io viparlo e non vi vedo. Basta a giustificare la radio, questo tranello teso al pudore.Preciso: direttamente, la voce della mia anima parla nel solo monologo di Orfeo: esoltanto li.

Perché?Alle cose che io faccio, non premetto significati. Le faccio «senza pensiero».

Finirò per credere all’assistenza di una musa — di più muse. Ma una grandesoddisfazione mi aspetta. Parlo per esperienza lunga. Nell’opera compiuta, e fattacosi alla cieca, io scopro di poi un organismo rigorosamente logico, raccoltointorno a un significato, a più significati; chiarissimi, imponenti. Pensavo, dunque,e non sapevo di pensare. Questa la cosiddetta ispirazione? Questo il cosiddettostato di grazia?

Cosi è avvenuto anche in questo Orfeo vedovo, composto di getto, parole emusica, in meno di due mesi, nell’estate scorsa.

Orfeo è l’uomo. L’uomo superiore. L’uomo completo: il poeta. Indovinate?Orphée c’est moi. E Orfeo non può fingere, non può velarsi.

La sua parola, formulata come parola, ampliata e prolungata nel canto, èdirettamente collegata alla radice. Troppo «pesante di profondità» da tollerareveli.

Ecco l’argomento. Orfeo, uomo completo, «tutto poeta», viene a trovarsiimplicato suo malgrado nel vario sciocchismo degli uomini, della vita. Implicatonello sciocchismo di un piazzista che crede di poter restituire a Orfeo, per virtùmeccanica quello che a Orfeo è venuto «momentaneamente» a mancare. Implicatonello sciocchismo di Euridice, che sa di essere la moglie di Orfeo, ma di esseranche la sua anima non sa.

Nello stesso aggettivo «vedovo», collocato nel titolo accanto al nome diOrfeo, ho scoperto, a posteriori, una intenzione precisa. Vedovo Orfeo non è di

* Conversazione tenuta alla RAI, Roma, il 9 novembre 1950.

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moglie: di quella Euridice che lo spettatore vede sulla scena; quella Euridice che sirivolge e parla a un Orfeo che lei sola vede; quella Euridice che flirta coldattilografo di Orfeo: vedovo è Orfeo, vedovo momentaneo, della Poesia. Ed è inquanto momentaneo vedovo della Poesia, e dunque momentaneamente minorato,che Orfeo cade momentaneamente nello sciocchismo degli uomini e della vita.Quanto alle pallottole che la sua rivoltella spara, esse non lui, Orfeo, uccidono, ma,intorno a lui, lo sciocchismo degli uomini e della vita. A lui anzi, Orfeo, consentonodi ritrovare l’«altra» Euridice, la vera Euridice: la Poesia. Più esattamente, ilcomplemento di se stesso. Stavo per dire il complimento.

Nota scenica a “Vita dell’uomo” (1951), tragicommedia mimata e danzata

Sipario chiuso.Un sol dei contrabbassi, annuncia che « qualcosa » ha inizio.Breve introduzione del pianoforte (schumanniana). L’introduzione rimane

sospesa sulla dominante.Sipario.Preludietto dell’orchestra.Meno il Protagonista (l’Uomo) che ancora non è nato, i personaggi sono

tutti in scena. Immobili. Disposti a semicerchio in fondo alla scena. Divisi in tantigruppi quanti sono gli episodi della Vita dell’uomo: i Personaggi dell’infanzia, ilPedagogo, i Personaggi della vita militare, la Donna coniugale, gli Uomini d’affari,ecc.

Sul fondale, a trofeo, gli oggetti implicati in qualche modo nella vitadell’Uomo: un vecchio orologio di famiglia, fotografie, una nave che salpa, ecc.

In mezzo alla scena, le sàgome del Padre e della Madre. Più grandi del vero.In bianco e nero.

I personaggi reali sono colorati: sono il presente. I Genitori sono il passato,e il passato perde di colore. I genitori fanno corpo con la poltrona nella quale sonoseduti; sono quei personaggi che l’Autore, dipingendoli tante volte o scrivendone,chiama Poltromamma e Poltrobabbo. Portano in fronte un occhio solo: enorme,centrato da una pupilla nera. Il basso della gonna della Madre (frangia dellapoltrona) è praticabile (termine teatrale).

Terminato il preludietto, ruota la pupilla nell’occhio della Madre.Accorre, dalla sezione A, la Levatrice-Nutrice. S’inchina alla Madre. Ne

prende gli ordini. Ritorna alla propria sezione. Munita degli strumenti del mestiere(forbice, asciugamano, ecc.) L-N entra, attraverso la gonna-frangia, nel corpo dellaMadre.

Travaglio del parto.Quantunque immobili, i Personaggi volgono, ciascuno dalla propria sezione,

una commossa attenzione alla Madre.Su una doppia scala del pianoforte e sullo squittire del tamburo basco, esce

l’Uomo da entro il corpo della madre. Saluto alla voce dei Personaggi immobili.L’Uomo è chiuso dentro il porte-enfant. Il porte-enfant è ornato di nastri turchini:colore dei maschietti.

Emergono dal porte-enfant soltanto il capino e i piedini. Danza delNeonato.

Il Neonato ha male al pancino e frigna. La Nutrice gli fa il clistere. Il

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Neonato si calma al suono di un valzerino da giostra.La Nutrice toglie all'Uomo il porte-enfant, l’Uomo appare vestito da

marinaretto. Finisce il Primo Episodio, comincia il Secondo Episodio: Infanzia.Si staccano dalla propria sezione i Personaggi del Secondo Episodio: una

vecchia signora, un pensionato, il guardiano del giardino pubblico. Vengono alproscenio, prendono parte alla vita del ragazzino; ora furiosi, ora giocosi e piùragazzini di lui.

La Nutrice toglie al ragazzino la casacca da marinaretto, gli fa indossare unagiubba da collegiale. Il ragazzino diventa adolescente.

I Personaggi che hanno preso parte all’Infanzia dell’Uomo, ritornano allapropria sezione. E cosi, via via, faranno i Personaggi degli episodi seguenti.

Si stacca dalla sezione C il Pedagogo e viene al proscenio.Il Pedagogo è vestito da alfabeto greco e da simboli algebrici.Inizia l’Adolescente allo scibile.L’Adolescente impara la lezione a memoria: un po’ leggendo in quel libro

vivente che è lo stiffelius del Pedagogo, un po’ ripetendo a voce alta e col naso inaria.

Si stacca dalla stessa sezione C una fanciulla che ha la magrezza e lascorrevolezza della macchina da cucire. Vederla e innamorarsene, perl’Adolescente è tutt’uno. Nelle sue giravolte agili e veloci, la Fanciulla se la dice colPedagogo, ma dell’Adolescente non s’accorge neppure.

Cala la palpebra sull’occhio dei Genitori: i Genitori sono morti.Danza funebre, venata di lamenti.Le sàgome del Padre e della Madre salgono in cielo.Il dolore matura: l’Adolescente diventa Uomo. Entra nella vita militare. Poi

nella vita borghese.Prima partenza-sbagliata. Risate. Nei momenti «difficili», l’Uomo ripensa

alla Fanciulla: suo primo amore.Adulto, incontra la Donna coniugale.Costei è vistosamente vestita, ha una testa d’oca, ma, davanti alla testa,

manovra abilmente un piccolo schermo a guisa di ventaglio, sul quale è dipintauna faccia da donna fatale (jipo Greta Garbo). Sotto il fascino della donna fatale,l’Uomo, che tutto sommato è fatto a pezzi di ricambio, si stacca dal petto il cuore,si stacca l’anima (in forma di colomba), e li dona alla Donna coniugale. Le dàanche gli occhi (occhiali da automobilista). Cieco, la sposa.

Vita coniugale, soffice e noiosa. L’Uomo, ora, è come Ercole da Onfale.La moglie si addormenta.Si staccano dalla propria sezione gli Uomini d’affari. Uno con testa di volpe,

l’altro con testa di porco. Spogliano l’Uomo e se ne ritornano alla propria sezione.Si sveglia la Moglie, vede il marito nudo, gli fa una scenata e se ne ritorna

alla propria sezione, sbattendo la porta (immaginaria).In questo momento difficile, l’Uomo ripensa alla Fanciulla, suo primo

amore.Lampo.Muta la luce. Muta «tutto». Mondo ideale. Non più il mondo com’è, ma

come desideriamo che sia. Doglia: neanche nel mondo ideale si entra senza doglie.I Personaggi, convocati dalla Nutrice, circondano l’Uomo. Diversissimi. La

Donna coniugale non ha più una testa d’oca, ma umana e bellissima.Disinteressatamente amorosa.

Il Pedagogo è desideroso di «imparare».Gli Uomini d’affari hanno facce buone, oneste.Offrono all’Uomo portafogli rigonfi.La musica perde il ritmo precipitoso, si adagia in movimenti molli.

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Ma il mondo ideale è un sogno.Lampo.Muta la luce. Ritorna il mondo com’è.I Personaggi ritrovano la loro vera natura. Si mettono in colonna e, al suono

di un’acida marcetta, escono di scena.Meno la Nutrice.Costei veste l’Uomo da vecchio: gli caccia una calvizie in testa, gli lega una

barba bianca sotto il mento, gli mette un bastone in mano.Solo e vecchio, l’Uomo è smarrito.Ma ecco ritorna la Fanciulla sospirata.Il Vecchio e la Fanciulla danzano assieme un valzer con variazioni.Il Vecchio s’accorge che la Fanciulla è la Morte.

Terrore.La Morte dice parole dolci e suadenti. Si faranno compagnia.Il Vecchio si calma.Andrà assieme con la Fanciulla, ma, prima, vuol salutare la Nutrice che,

sola, l’ha accompagnato per tutta la vita.Il Vecchio usa alla Nutrice, quelle medesime cure che la Nutrice usò a lui,

bambino. Ritornano in orchestra i temini dell’infanzia.La Nutrice si addormenta.Il Vecchio e la Morte s’incamminano.Si fondono in un personaggio solo.Scende dal cielo la sagoma della Madre.L’Uomo traversa la gonna-frangia: rientra nel grembo della Madre.Tace l’orchestra.Il pianoforte ripete, leggermente variata, l’introduzione schumanniana, e,

questa volta, si adagia sulla tonica.Ottavino e contrabbasso conchiudono: questo su un sol basso, quello su un

sol acuto.Cosi l’Uomo nacque, visse, mori.Perché?L’Autore di Vita dell’uomo, da un pezzo ci ha abituati a non domandare il

perché delle cose.

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Enigma della superficie

«Se la musica non fosse quel nulla che è…», se non fosse «una pazza», una cosa «inconoscibile», una «ma-lattia», un «peccato», forse si potrebbe scrivere, a pro-posito della musica, un libro ragionato, argomentato, pieno di misurazioni, equivalenze, «spirito del Tempo» e «direzione della Storia». Ma con la musica è da teme-rari: ci si può provare, nella misura in cui si rinuncia a considerarla quell’animale composito e mitico che nes-sun proietto attraversa.

Alberto Savinio si è «allontanato» dalla musica nel 1915, per «paura». Strano gioco verbale: Savinio ab-bandona la musica, che resta con lui. Per tutta la sua vita «senza noia», confortata dalle gioie, dalle allegrie di molte tecniche – musica, letteratura, pittura, teatro – i suoni continuarono ad inseguirlo. Non ho detto la mu-sica, ma appunto i suoni: certo, suoni di pianoforti, di detestabili organi, anche plateali suoni di ruscelli e vo-latili policromi; ma ancor più suoni informi, purissimi, scoccanti. Egli viaggia attraverso la sua polimaterica esistenza ragionando a voce alta, e discorrendo di quel che gli accadeva di vedere, di sentire, di sapere e dimen-ticare. Per chi viaggia molto e dappertutto, dimenticare è importante. Savinio non era coerente. Che significa la coerenza di un viaggiatore? Può essere, forse, uno spe-

Giorgio MANGANELLI

(titolo originale:(titolo originale: "Che bello insolentire Wagner", in "Corriere dellaSera", 2 ottobre 1977; ora in "Una profonda invidia per la musica",Roma, L'orma, 2014)

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cialista in tramonti, in locande di campagna, in Famosi Campi di Battaglia? Gli articoli che Savinio scrisse e che vennero poi raccolti in questa Scatola sonora sono appunti di viaggio tra i suoni: hanno dell’autobiogra-fico – un’autobiografia senza “io” –; suppongo che do-vrebbero appartenere alla storia della critica musicale, ma con tutto il cuore mi auguro che non sia vero, che questo libro falotico, fantastico, raccontato, svagato, sia un esempio di genere letterario di cui non conosciamo il nome. Gli inglesi da music fiction potrebbero formare musiction, che potremmo tradurre musigrafia.

Perché Savinio ama, a mio avviso in modo primario, i suoni, meglio ancora che la musica? Perché un suo-no, come un colore, non ha spessore; non lo si può scavare per trovare sotto la pelle lucida e irresponsabile dell’esatto rintocco un brandello di “idee”. Sotto un la si trova lo stesso la all’infinito, che ripete se stesso, senza dare spiegazioni. Vi sono musicisti che Savinio detesta: Savinio sembra parente di tutti i musicanti e avere quindi un certo diritto di insolentirli. Savinio è specialmente insolente con Wagner e Debussy.

Wagner era convinto che sotto le note non ci fossero note, ma grandi simboli, grandi passioni, grandi idee. Era profondo: e Savinio detesta la profondità, incom-patibile con l’arte. Vuole leggerezza, la letizia della su-perficie, vagheggia un mondo pensato come infinite sfere concentriche, tutte fatte di sole superfici, una pel-licola minima come il suono e il colore. La profondità, nota Savinio, con la sua selvatica, solitaria lucidità, è rassicurante. Inquietante è il gioco, è la pura superfi-cie, è il «non dire niente». La superficie di Savinio è lo spazio dell’enigma. L’indovinello è un gioco: ma la Sfinge ne morì, e nacque la psicanalisi. Savinio detesta

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Debussy, il Magister Umidus, perché costui è convinto che i suoni siano poetici. L’oleografia di un salice pian-gente, con arpe cromatiche, a pedale, eolie e birmane. Tutt’e due sono «mistici» che, in musica, è pura «pro-fondità». Verdi lo imbarazza: ma quando incontra, a Milano, in piazza Carlo Erba, un organetto che suona La traviata, ne prova una struggente rivelazione: «La Traviata mi rivelò il suo carattere periferico e strada-le». «Borghese è il Tristano» ma non la «magra e plebea Traviata, destinata ad echeggiare nelle periferie delle grandi città industriali…». Ma per il Falstaff, il gioco estremo di Verdi convocato alla morte, Savinio ha una casta e furente devozione.

«Sul tavolino da letto di Mascagni due libri posavano: uno di Guido Milanesi, l’altro di Sabatino Lopez»: Savi-nio non dimentica di essere uomo di lettere e che sa che due titoli, due libri possono dire tutto in proposito di un musicista. «Mascagni è forse il punto infimo della mu-sica, un punto che sembrava riservato alla letteratura.»

La pervasività dei suoni, la loro bidimensionale fa-tuità fa sì che essi siano presenti, distratti testimoni, a tutta la vita. E Savinio parla della maestà notturna del matrimonio (Pizzetti), del Dio barbuto enorme e carnoso (Musorgskij), delle astuzie per simularsi adul-to (Mozart). Parla dell’infanzia: opera d’arte, tragedia da cui fuggire, età sperduta in una città ignota. Parla anche della Morte: ma poco, credo che la tenga in so-spetto di profondità.

(1977)

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BRUNO BARILLI

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Eugenio Montale«Il paese del melodramma» di Bruno Barilli (1931)

Vecchio amatore della nostra opera ottocentesca (e tanto meglio seeseguita in teatri di provincia, da buoni cani nostrani, senza decoro e senzaemicrania, lontani le mille miglia dai golfi mistici e dai matadori dell’orchestra);vecchio innamorato di questo torrente limaccioso disceso una volta per sempread allagare la nostra storica e civilissima pianura musicale, non posso checompiacermi di veder segnalato da un premio un libro di Barilli, anzi il libro chesolo Barilli poteva darci: si chiami esso Delirama o Il sorcio nel violino o Ilpaese del melodramma.

Con precedenti di questo genere è naturale che il mio primo incontroletterario con Barilli sia già piuttosto lontano. Ho recensito Delirama sei o setteanni or sono; e sono poi ritornato sull’argomento a proposito del Sorcio. Che miresta a dire del Paese del melodramma? Poco di nuovo; ma quel poco in unaluce più giusta. La sorpresa che i mortaretti e i fuochi di Bengala di Barillipotevano recarci al tempo della «Ronda», quello ch’essi potevano esprimere perragione di contrasto (accanto ai Pesci rossi di Cecchi) in quel paesaggio severo,nobile, ma non perfettamente geniale, è passato col tempo. La sua polemicacontro i filistei e i mangiatori di ipofosfiti, la sua antipatia per le rarefazioni e iborborigmi di una musica che non ci riguarda hanno ancora un significato, main questo senso sfondano una porta che s e poi aperta da sé. Quello che resta piùvivo non sono né le girandole né le opinioni di Barilli; è l’arte di Barilli e ilsignificato di quest’arte.

Musicista per proposito e scrittore per vocazione, Barilli non è uomo cheabbia imbroccata tardi e quasi per caso la propria via. Il suo barocco non è stato,come press’a poco tutti i secentismi letterari italiani, un’alzata d’ingegno o unespediente a vuoto; è riuscito uno stato d’animo e perciò uno stile. E nel suo stileBarilli ha travasato, ha addirittura rovesciato quell’empito musicale che nonaveva trovato strada aperta (dicono) nelle composizioni operistiche della suagioventù. Certo nessuno (tra coloro che hanno rispettato le regole dell’arte) èanelato più avanti di lui nel giuoco delle metafore e delle analogie, nel labirintodegli accostamenti inaspettati e dei fuochi d’artifizio. Con tutto questo, Barillinon è riuscito dilettante né secentista. Partito dall’italianismo di Verdi e delnostro Ottocento musicale, quest’uomo condannato per anni e anni adaddormentarsi sulle poltrone dell’Augusteo nei pomeriggi dedicati alla musicaseria, ha continuato, su quella spinta, a musicare tra sé e sé il motivo unico chepoteva interessarlo: la sua avventura di italiano, nato sotto un cielo determinato,tardo invitato a banchetti che parevano consumati da tempo, figlio di un popolotipico, visionario e positivo, erede di destini che sembravano esauriti. Attorno asé non vedeva che il monumento a Vittorio Emanuele, la pittura delle Biennali ela musica di Zandonai. Della musica più recente era meglio non occuparsi.Quella che giungeva d’oltre monte piaceva troppo agli abbonati delle poltronevicine: quando piaceva anche a lui doveva esserci un equivoco. Che fare? Daiprimi pretesti musicali doveva prendere la via la poesia di Barilli. Ascoltare lenostre vecchie opere di repertorio, e più su anche Puccini e Mascagni dovevalgono meglio, con l’anima di un selvaggio che trova esotismo e magia dovealtri non avverte che luoghi comuni e oleografia, è stata la sua fortuna. Così daiprimi profili di direttori d’orchestra e di cantanti, dai primi resoconti veri epropri, nei quali il filo della critica correva ancora senza troppi intoppi, egli è

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passato senza inconvenienti alle trasfigurazioni più arrischiate, alle sarabandelirico-critiche più imprevedute. Nelle ultime composizioni il pretesto critico èquasi invisibile; nel Paese del melodramma, che si risolve in unlungo «omaggio a Verdi» nella forma di una successione di poemetti in prosa, ilcielo e la terra, il campanile e le stagioni, il padreterno e il suggeritore sonochiamati a tessere una splendida corona intorno al miracolo del Trovatore.Un’unità, naturalmente, c’è in questa suite; ma è tutta nel temperamento diBarilli. Se ci divertissimo, con la colla e le forbici, ad alterare l’ordine deiframmenti credo che non sarebbe gran male e che l’autore stesso non se neaccorgerebbe. I suoi frammenti si attraggono per virtù propria e trovano la lorocoesione nell’anima stessa del lettore; della musica partecipano ancora inquesto, che appena scatenati vivono per conto proprio e sulla pagina nonlasciano che un fastidioso e fin troppo materiale arruffio di segni neri. Scrittoredi pagine il Barilli non è; scrittore di accordi profondi sì. In questo senso le sueprose più italiane di spirito e di intenzioni, quelle nelle quali la materia è più insecco, ridotta quasi solo a una certa idea del «sentimento» italiano, sono bendiverse da certe pagine del Sole a picco di Cardarelli, affini nella materia, matutte disegnate, tutte scritte, tutte visive nella loro stessa trama musicale. Ilpregio di Barilli è in altra direzione: nella mutevolezza della sua onda, della suarisonanza; in quel suo caricarsi e scaricarsi come una sveglia a carillon delvecchio tempo; in quel suo promettere poco e mantenere sempre più di quelpoco; come se a tratti si scoprisse sotto la mezza tuba del saltimbanco l’allorosempiterno del giovane Apollo.

Quanto a musicalità di espressione non bisogna chiederne più che tanta aBarilli, come si chiederebbe, che so, a una prosa di Campana o di un altro poetache s’appoggiasse su dati meno visibili; benché la preoccupazione di Barilli nonsia di tradurre in parole, in assonanze, in ritmi, una musica strumentalepreesistente, ma piuttosto di dedurne un complesso di reazioni sentimentali,giovandosi di ogni sorta di effetti cromatici, di suggestioni visive e auditive. E ilpunto d’arrivo non è forse la lirica, nel senso di una esperienza del mondo cheunifichi strettamente un sistema di rapporti intellettuali e morali (per quantopochi surrealisti stranieri abbiano le risorse di Barilli), ma l’autobiografia distesasul piano dell’intelligenza, il ritratto. Se fosse in giuoco solo l’intelligenza, èchiaro, arte non si avrebbe ancora. Ma è singolare che il sigillo su questo mondocaotico, irritabile e indefinibile sia posto chiaramente dall’intelligenza. Bisognatener conto di questo fatto per stabilire l’eccellenza di Barilli in un genere chetrattato con minore consapevolezza avrebbe tratto senza scampo lo scrittore nellimbo senza avvenire di una prosa lirica raziocinante, troppo diffusa e inconsciadei propri limiti per poter aspirare a un notevole significato nel mondo dellapoesia contemporanea. Barilli non ha temuto di andar dritto ad una meta che adaltri sarebbe parsa modesta o sconveniente; e ci ha dato quei suoi profili dicantanti nei quali il prosatore gareggia in «corone» e in picchiettati con le golepiù inverosimili. Poi è andato più in là: e abbiamo avuto i ritratti di Cimarosa edi Bottesini, di Verdi e di Puccini; e in fondo a tutto, su tutto, quello chec’interessa di più: il ritratto profondamente italiano di Barilli, erede di unascapigliatura passionale e musicale alla quale non è mancata in ogni tempoonore e fortuna, e che è suo vanto aver richiamato alla luce con l’autorità di unavita e di un esempio che ha saputo alzarsi contro il dilagante spleen intellettualecon la foga e la convinzione di una vecchia cabaletta di repertorio.

(in Il secondo mestiere – Arte musica società, a c. diG.Zampa, Milano, Mondadori, 1996)

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B.B.

da:Delirama (1924)

Bottesini

Fu uno dei più geniali fra gli artisti del secolo verdiano, e fra i virtuosi ilpiù fantastico. Egli riuscì a spiritualizzare la grottesca meccanica del suostrumento, soffiando su tutti gli ostacoli col fiato di un mistificatore prodigioso.

All’apogeo, questo artista sommo traduceva vivamente Paganini sulcontrabasso.

Figlio d’un’epoca nella quale i padroni della terra non erano degliingegneri, ma dei signori magnifici che una gerarchia intellettuale innalzava eilluminava, incontro a lui si mosse graziosamente il favore di quel tempogeneroso e romantico.

Fino all’ultimo giorno egli mangiò il pane della gloria, poi fu dimenticato.Con Giovanni Bottesini scomparve l’ultimo esemplare del contrabassista

virtuoso. Non lasciò eredi. La sua superba arte ¡strumentale gli mori a lato comeuna sposa che non vuol sopravvivere.

Là dove egli era giunto, per un colpo mancino del genio e con la piùstravagante complicità della natura, nessuno potrà arrivare mai più, né farsi dapresso per capirne e spiegarne il miracolo.

Il suo posto solitario sta distrattamente al di là di ogni limite.Ai suoi tempi il Gusto aveva una funzione, il Genio un carattere e l’Arte

una tradizione. La politica, questa scienza divenuta flagello, taceva subordinatae sottomessa. I grossi affari di Stato lasciavano appena un’ombra di fastidio sulvolto dei ministri e qualche granulosa traccia di tabacco sui loro panciotti. Delresto, le palle di cannone si contavano sulle dita, ed erano cosi pigre che,contrariate da un vento forte, cambiavano direzione e finivano qualche volta pertornare indietro.In quel mondo spiritoso e volubile come la fiamma aggressiva e vacillante delgaz, l’astrazione esatta non era preveduta: il baratro spettrale della luce elettricanon s’era ancora spalancato dinanzi agli uomini.

In teatro si leggeva il libretto al fumo di una candela e, sulla scena, la pecegreca poteva rappresentare, senza opposizione, la collera degli elementi.

Anche la matematica soffriva allora l’umidità; e la meccanica, che vivevain buona lega con il legname, scricchiolava faticosamente e si schiantava aiprimi geli" rimanendo ostruita e ferma sotto le stagioni.

Allora eran permesse soltanto le invenzioni buffe; le burle che facevancrepare dal ridere eran di moda; c’era per la musica e per la danza del fanatismoe del furore; l’Italia da Venezia a Napoli era un solo carnevale, del tuttoinnocente.

Dunque, non per caso, un bel giorno il nostro pubblico si trovò fra i piedianche Giovanni Bottesini con il suo' contrabasso.

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Quest’uomo che viaggiò il mondo tutta la vita e lasciò dovunque tracceprofonde di costernazione e di stupore, era grande di statura e aveva un aspettolunare e corroso, sciupato e assonnato, insomma un artista dal sangue guasto edalle abitudini dissolute.

Entrava in fretta all’ultimo minuto sul palcoscenico fradicio e semibuiodel teatro ducale, sbirciando, col collo torto, di tra le coulisses, il loggione stipatodi gente, mentre il servo di scena gli levava l’immensa pelliccia. Allorquando,dinoccolato, si presentava tirandosi dietro, bonariamente, quell’enorme topaia,tutti, del pubblico, ridevano e lui con tutti, a crepapelle.

Faceva volentieri della parodia; cominciavano prima i grugniti delcontrabasso; dopo si passava nel regno dei calabroni e ti pareva che tutta l’aria ela luce brulicassero di pungiglioni. Allora quasi intontito tra il ronzare, neltorpore e nell’afa sovraccarica di idrofobia, egli, il suonatore, rotolava, a poco apoco addormentato, giù per la tastiera attaccandosi per miracolo, alla quartacorda. Oh, quel russare profondo, voluminoso, inaccessibile, sembravaconfondersi con i trasalimenti assonnati dell’asse terrestre o con il lamentoso eartritico scricchiolio di una stiva tappata e troppo carica!

Adagio, adagio, pigliava poi via, serpeggiando, con un tramestio obliquo,cieco e dilungato, come rettile mostruoso che s’inselva.

Fin che si buttava, piegato in due, a suonare con voglia, sferzandol’istrumento come per rompere una crosta dura. Dal credenzone spiritatouscivano, allora, i suoni pili volubili, scivolando via stretti in successioni diaccordi e in glissandi veloci, leggeri e lucenti come i raggi che trafiggono le nubi.

Gli arpeggi, le corde doppie e i pizzicati azzeccati saltavano all’aria in unaprodigiosa mescolanza, formando una grandiosa e barocca architettura checrollava precipitosamente, circondata e distrutta con furia da una sequela ditonfi mistificatori.

Il suo era un cantare tutto invaghito e pieno di spasimo che somigliava,sulla prima corda, a quello del violoncello, solo che il suono intonato era reso unpo’ enigmatico quasi da una maschera fosca che non desse di riconoscerlo.

La sua arcata dolce, interminabile, tenace, pacifica e distesa, e il suo stilenobile, pieno di sentimento e di santità tant’opra facevano da persuadere eindurre il trappolone puntiglioso e refrattario a parlare con voce ammansita,soave, incalorita, fremente; e a sciogliere nel velluto d’un pianissimo, una peruna, le note sospirate e perplesse della più adorabile malinconia.Niente lo accontentava. Istrione, disseppellitore di effetti sempre più rari epericolosi, egli si rifaceva sotto, mettendo, di nuovo, tutto a soqquadro perstanare, scuotere e risvegliare il mostro sedentario.

Superando le difficoltà, cosi, a scalinate; sfasciando piramidi di ottave;sollevando, in burrasca, il suo lento pachiderma sino alle stelle; con unoscrollare avventato, astioso e gigantesco egli frullava l’arco tozzo e formidabile,come una tramontana tempestosa, fra il groviglio dei cordami.

Echeggiava allora, fuggendo, sull’intrico temporalesco, un debole elontano scampanio di bronzi, insistente e ferale, e a quello ecco rispondere,d’acchito, strangolata e vicina, l’anima sprangata e sordida del contrabasso.

Muovente dai silenzi stagionati, una voce gobba e sepolta di ventriloquosi affacciava domesticamente fra le corde canterellando con una insolenzaironica delle variazioni grottesche sul motivo del carnevale di Venezia-, lamodulazione oscena s’alzava audacemente di tono, poi ricadeva in mollezzeveneree dondolandosi, al fondo, sull’arco del contrabasso.

Quel che succedeva a questo punto in teatro è indescrivibile. Il pubblicoaristocratico deUa corte si torceva sulle poltrone in preda ad una ilarità stridula.

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Gli applausi e le richieste di bis scoppiavano lungo le file scomposte, ad ognibattuta. Le dame seminude e portentose, che facevan corona nelle logge deinobili, tirate in ballo senza preamboli s’ingegnavano di salvare il pudore,ridendo inorridite dietro i ventagli.

Bottesini, appoggiato al suo carcassone di legno, s’inchinava, intanto, datrionfatore.

*

Un cantante

Nazzareno De Angelis, la cui voce tempestosa e tonante sembra un afflatovoluminoso che esca dalle fauci di un mascherone greco, col suo primo entrarenon ha più riposo e non può quasi contenere l’ardore del suo superbo e cruentotemperamento: simile a un lussurioso il suo proprio sangue lo tormenta; eglifreme e sussulta repentino, leone che si sferza i fianchi con la coda, e dai suoigrandi polmoni di bronzo lancia su le platee, con un colpo di spalla, note sunote, roulantes, massiccie e luminose come bolidi incandescenti. Il pubblicoinvestito da tanta violenza d’arte gli risponde come anticamente la follaimperiale delle arene romane.

*

Elvira de Hidalgo

Nel quadro spagnolesco del Barbiere di Siviglia (questa opera cherimescola il sangue giovanilmente, lieta e inebriante come un vino raro,quest’opera indemoniata da crescendi orchestrali, che fanno una fulmineapropaganda di follia) tutto è imbroccato con una genialità leggera e favolosa.Questo capolavoro, stravagante e superbuffo, è pieno d’un’ilarità musicale cheturba la ragione e suscita un pandemonio e un delirio parodistico. Rossini ciappare là, nero, secco, grottesco eppure brillante, luminoso, colorito, tenero,trasparente, spirituale e ammantato di fantasia e di romanzo come unpersonaggio di Goya.

Il genio creativo ha un’incalcolabile forza trascendente. Il limite voluto eraggiunto viene superato mille volte dall’impeto che ha generato l’atto; untravaglio ulteriore che opera sempre più profondo e attivo dà all’idea un profilosoggiogante; il personaggio diventa tipo, e il tipo a sua volta sorge dal simbolovivo e scoppia perfetto, come una rosa sbocciata, al sole crudo della realtà.Allora la creatura nata singolarmente spicca tra la folla che la sfiora e trae secodall’origine, nella sua carne e nel suo spirito inconsapevole, i caratteri di unostraordinario privilegio.

Come il Dio volante di Michelangelo crea, con un gesto lieve che sfiora, il

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primo uomo sulla terra, cosi papà Rossini, questo mqptro di pigrizia e di genio,nell’eccelso e onnipossente attimo della verve, con un soffio amoroso spintoentro il tessuto impalpabile di una visione, dà lo sguardo, la voce e il sanguemiracoloso a Rosina, oggi, allo stato civile, Elvira de Hidalgo.

Elvira de Hidalgo è pur la figlia del grande pesarese. Lo dice quelventaglio che ella muove con destrezza gentile a nascondere il proprio volto,quel ventaglio tremulo e vivo come l’ala duna farfalla, lo dice quella sua raramoue d’un comico antico da théatre des bouffes, e la melanconia, lo dice, dellasua voce all’ultima scena notturna, allorquando, deposta li in terra, accesa, lalanterna delle avventure galanti, splende l’amaranto della sua crinolina dibroccato ed ella esprime in tono di languore l’incantevole sospiro d’esser presa eprotetta nell’ombra calorosa di un epilogo matrimoniale.

Al suono innocente della sua voce che ha un timbro pallido e tenero comel’argento, ricadono stroncate le mani minaccianti della critica e si spianano ivolti più sconvolti: note umili e ridenti spiccano il volo dalla sua gola e si libranoin giri per la sala come colombe bianche che rechino nel becco il ramo d’ulivo.Un imbarazzo dolce conquista anche i più burberi controllori. Ella gorgheggia esmorza il suono nel silenzio con una gemebonda malinconia che pare un’ecodella meraviglia o la fine di un colloquio infantile tenuto con la luna. Il gestodelle sue dita di zucchero è pieno di candore e di moina e nel suo canto c’è lamansuetudine, il pudore, il capriccio e l’inquietudine della più casta e volubilebambina.

Allora le falangi della claque che serpeggiano per le gradinate circolari siriposano con fiducia e tacciono con galanteria mentre giù scoppiano comefolgori le acclamazioni di mille spasimanti; e dietro le coulisses, simulacrispezzati di stagioni dipinte, sotto i riverberi crudi e frantumati del gaz, nelfumoso incantesimo giallo della pece greca che arde, il pompiere di servizio,guardia assonnata dei lumi, preso di mano in mano nel sortilegio canoro, finisceper piombare boccheggiando ai piedi della corista, idolo nuziale, bianca di gessoe tinta di carminio come un confetto da tre soldi l’etto, vomitando a pacchettiinfiammati di Bengala le litanie accese della sua grande passione estemporanea .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Fra la babilonia sempiterna del cartone dipinto, in una stroppiaturaferoce della realtà, sotto l’azzurro disperato dei cieli, fra i lampi del magnesioche fanno trasecolare i volti imbiancati e anneriscono gli occhi come oliveardenti, si desta di soprassalto l’oro rimoto delle attrezzature e risplendono ilaghi nei regni bruciacchiati e secolari di Solimano. Là regna, come un principio,la Spagnola con la sua vena strana di delirio canoro, intorno a lei nella gran lucee nel vuoto piove la polvere di un mondo in consunzione.

Dalla fabbriceria degli ori armonici sale un ronzio sonoro di violiniappisolati; uno zufolo flebile e un fiatare roco di legni musicali, i violoncellivanno gorgogliando giù fino al fondo delle iridescenze, il fagotto borbotta fral’afa smaniando e gli ottoni accaldati sembrano digerire, sopra una nota lunga,un sonnifero denso, nella gran siesta cocente del fossato orchestrale: laSpagnola attacca con la voce indolenzita una boutade lunatica appresa alsillabario puerile d’un usignolo, che sente molto il genere «crepuscolo», e la suavoce sempre più esitante scompare in un indistinto naufragio di malinconia.

(in: Il sorcio nel violino, a c. di L.Avellini e A.Cristiani,intr. di M.Lavagetto, Torino, Einaudi, 1982)

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Roma sonora (1932)

La buona acustica non è che il corollario, la limpida conferma della bellaarchitettura. Sono le stesse leggi di trasmissione, di ritmo, di equilibrio ed’elasticità: tutto parte, rimbalza, si moltiplica, si accorda, ritorna; così anche ilsuono, come l’acqua, corre vivo, come la luce, echeggia sui marmi monumentali.

Per questa ragione Roma è la città più sonora del Mediterraneo. Tutte levoci del mondo si concentrano là. E una conchiglia. Il suono non muore mai,non si cheta, scroscia nei suoi meandri: fragore ascoso, perpetuo. Un segretodetto presto o tardi vien fuori; venature, cavità, orifizi lo riconducono all’aria.

Sotto i tuoi piedi c’è il dedalo: catacombe, cripte, labirinti – canalievacuati dalla storia – Roma è costruita sul vuoto.

Innocuo e decrepito, laggiù, fra i pilastri di tufo, s’aggira un terremotorullando sul suo tamburo con una solerzia commemorativa degna di far paura,ma non spaventa nessuno.

A mezzodì il colpo di cannone si ripercuote e sfiata nell’azzurro, e i settecolli si dànno la voce.

Poi tre timbri, tre note fondamentali riprendono il discorso di prima: lapietra, il bronzo, e l’acqua.

Più tardi il sole picchia sulla cupola delle basiliche come il martellosull’incudine.

A Roma le ore del giorno sono altrettanti capitoli di un romanzo:temporali, fontane, tumulti di campane riempiono le piazze d’un’armonia varia,trasparente e profonda. I palazzi son dei veri « stradivari ». Le arcane facciatefanno una curva corale intorno agli obelischi. I portoni son tante bocche chevociano.

Clamorosa città che non dà tregua ai timpani, dove piazza Navona èl’accordo perfetto.

Acustica fenomenale. Giuochi stupendi e liquidi; la gran piazza agonale èun serbatoio immenso. Provati a sussurrare contro il muro una parola, se corripresto puoi raccoglierla nell’orecchio cento metri più in là.

Anche le chiese contro le quali si frange lo strepito stradale sonodistillerie – gli esterni rumori là dentro diventano oro, oro rutilante sotto lenavate. E a piè dei tabernacoli trabocca mormorando, dalla spaccaturadell’obolo, e cola come il miele, l’«osanna» secolare dei credenti – musica anticae sommersa che spiccia adagio adagio dal travertino.

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D’estate la luce vibra a vampate: fra il crepitare dei lauri e il gemere deipini, lontano, il grido strano dei pavoni. Sonnecchiano le fontane nei cortili, poid’un tratto nel sogno ride il getto come una sonagliera.

Il cielo di Roma è una cassa armonica. Quando è terso e scottante, se loscuoti rimbomba. Ricordate i boati, i petardi, il fragore che lo colmano nei giornidi feste aviatorie?

La mattinata è bella e senza vento. L’idrovolante ad altissima quotasembra attaccato al firmamento come una mosca allo specchio; eppure fila,lavora, incide sul sereno. L’odi stridere lassù come un diamante sul vetro. Ma uncolpo di vento che lo fa ballare mette il cielo e la terra sottosopra – e comincianoi loopings, le scivolate e le mugghianti riprese del motore. Si strappano icortinaggi del cielo; e per la strada la gente volta la testa in su. L’atmosferalacerata fa un rumore compatto. L’elica si vede, e sembra spargere il semedell’aria intorno a sé. Ma l’aviatore s’abbassa ancora, vien giù, a bella posta,sulla casa della sua fidanzata: agita il braccio fuori della carlinga per salutare, emette in subbuglio la biancheria distesa sulla terrazza.

Nel pomeriggio festivo una vociferazione accaldata e continua traboccadalla galleria, dal tunnel, e si lancia a traverso il polverìo lucente e serale dellacittà.

Il pacifico e sterminato quartiere dei Prati è tutto invaso da quellainvidiabile cittadinanza bonacciona e sportiva che ha l’occhio fatto almacchinismo pesante dei balli coreografici e ai portentosi giuochi del circoequestre. Là si vuole il cocomero a grossissime fette, e lo spettacolo lungo,grandioso, e popolare. Allora gli applausi scrosciano maestosi, alla romana, nelvasto anfiteatro color sangue di bue. E dopo lo spettacolo, quando si esceall’aperto, l’occhio spazia più riposato fra le cime dei palazzi sui quali il soffiocaldo del tramonto s’è spento a poco a poco.

Tramonto lungo, sonoro. L’urbe immensa vacilla sulle sue radici eterne,si dilata, s’irradia come se avesse bevuto tutta la luce del mondo: cantano lecampane. La gente corre in disordine, tentenna incerta sulla via da pigliare,sotto il terrore delle tenebre che stanno per calare.

E l’ultimo aviatore rimasto nel cielo guarda dall’alto la leggendaria cittàimpallidire in una lontananza liliale e sfaldarsi come un mucchio di ossabruciate.

Gradatamente l’abitato si copre d’ombra e di veli. È il momento degli echimorenti, e degli spettri fiochi. Fra una conflagrazione di luci crepuscolari tisembra di udire, là dietro le millenarie mura, i colpi di spada battere lenti sulloscudo dei gladiatori. Poi tre note, tre timbri fondamentali riprendono nel buio ildiscorso di prima: la pietra, il bronzo e l’acqua.

In questo multanime istrumento solo il Tevere è tardo, silenzioso, torbido– e scava nella campagna i suoi ghirigori che somigliano all’«esse» di un violino.

(in: Lo stivale, Roma, Casini, 1952)

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Mario Lavagetto Introduzionea: Bruno Barilli, Il sorcio nel violino, Torino, Einaudi, 1982

« je suis l ’homme qui ne croit pas à la mort... d ’Emiral».

« Insonnia, delirio, fame,Vizio, furore, vecchiaia.La morte mi tiene alla golaIo tengo alla gola la morte» (CV, 102) *

«La fine s’avvicina a gran passi, più veloce, più precipitosa che l ’inverno boreale» (CV, 78)

«Sono un pennuto, senza penne — magro sguarnito come una gabbia — e ora vicino a me si sente in trasparenza un certo stanco odor di uccelliera» (CV, 80)

«... non posso più vedere la faccia della mia faccia...» (CV,87)

«Uh... uh... le nefande proposte... fra l ’infimo mormorio... e per di più, i segreti codicilli, di uno spaurito bruno barilli - che malamente ancora respira... e sopravvive appena» (US, 310)

« Sangue, sangue, sangue — grida Otello -Sono otto anni che questo grido mi scoppia dentro e mi

rompe le vene, i vasi biliari, il cuore, e anche le ossa me le man­da in pezzi e brucia i miei capelli, e mi saltano le unghie, dalla rabbia, nel furore insorgente...» (T, l x v i i , 140).

La registrazione potrebbe essere protratta e attingere an­cora dai Capricci di vegliardo e dai Taccuini inediti, senza mai alterare il timbro di una voce profondamente mutata da quan­do — sulle colonne della «Concordia» o del «Tempo», del

* Per le abbreviazioni si rimanda a p. xxxvu.Nel citare gli inediti di Barilli ho ridotto al minimo i miei interventi

lasciando a errori di grafia e asintattismi il compito di documentare, sia pure in modo approssimativo, lo stato dei Taccuini e dei dattiloscritti. Dato il modo in cui lavorava Barilli, molto spesso le singole citazioni presuppongono fonti plurime: mi sono limitato a un solo rimando per non appesantire inutilmente questa introduzione.

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«Tevere» o del «Carlino» - si innalzava in stile fiammeggian­te e vertiginoso accumulando aggettivi, metafore, similitudini, analogie prevaricanti e afïabulatorie. Quello stile inconfondi­bile e contagioso, che pareva a Cecchi « grandine e spruzzaglia di rubini e di diamanti» e che induceva il trentenne Debene­detti (proprio nel momento in cui prendeva le distanze in no­me della «critica-critica») a inseguire Barilli sul suo terreno, a denunciare la fragilità delle sue analogie per mezzo di ana­logie, quello stile - dunque - appare nelle pagine della vec­chiaia solo come una memoria attenuata: è più parca l ’agget­tivazione, più lineare e secca la frase, meno frastornata la lin­gua dal «continuo protendersi verso l ’ipotiposi». Tanto che qualcuno, ancora coinvolto mimeticamente nel gioco-Barilli, ha parlato di «atmosfera da pianeta spento». La rottura è net­ta. Ma se ignorarla è impossibile e richiederebbe una specie di sordità premeditata, sarebbe poi fallimentare limitarsi a pren­derne atto e abbandonare la ricerca delle permanenze, dei trat­ti costitutivi di una fisionomia che né gli anni né le metamor­fosi hanno avuto il potere di cancellare: «fra il primo e il se­condo Barilli - ha osservato in un saggio fondamentale Fedele D ’Amico - la continuità non ha soluzioni, ossia [...] il secondo non smentisce, ma chiarisce definitivamente la natura del pri­mo [...] La coerenza col suo passato è assoluta; talmente asso­luta che le sue ultime pagine sembrano contenere tutto di lui, il succo di ogni suo significato». «Gli artisti vecchi - scrive­rà lo stesso Barilli - costituiscono très souvent une revelation retrospective» (T, l x i i i , 33). E altrove: «Non c’è giuoco più stimolante che l ’ultima partita [...] La flamme quand elle s’é- teigne prend tous les couleurs» (T, l x v i , 19). Intanto i temi, che sono gli stessi e vengono riproposti con insistenza, per quanto su registri fortemente modificati; poi - anche qui, e sia pure in modo più asciutto e perfino reticente - il bisogno, quasi fisiologico, di pensare per immagini, di costringere ogni «idea» a passare attraverso spessori concreti e a comportarsi secondo il codice che ai poeti aveva prescritto, in anni lontani, John Keats: razza di camaleonti, diceva, capaci di assumere il colore delle foglie in mezzo a cui si trovano a passare. Tenia­mocelo per detto.

Sul mimetismo di Barilli bisognerà tornare ancora, ma da subito vale la pena di sottolineare che l ’oggetto primo di quel mimetismo è una specie di personaggio di se stesso, che Barilli si è confezionato quasi subito e a cui è rimasto intrepidamente fedele: «... io, nocchiuto "Ecce Omo” davvero: gli stracci in­

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INTRODUZIONE VII

torno, senza bastone, senza cappello, senza denti, senza fissa dimora, e un fiore all’occhiello. Io terribile vagabondo» (CV, 42). Non mancherà qualcuno per avvertire, e con legittime motivazioni, nel tratto troppo marcato ed esplicito di questo ritratto il rischio di slittare nella maschera di maniera e di so­vrapporre all’ironia, pure rimarchevole e scopertamente inten­zionale, quanto è con essa meno conciliabile: e cioè una sorta di narcisismo in sottotono, da cui può rispuntare quello che a Gadda appariva «il più impennacchiato dei pronomi di perso­na». Ma quanto conta, di quella controfigura o di quella ma­schera che Barilli ha escogitato, è poi la strategia, è poi il pun­to di vista che essa consente. Se è vero che il romanziere dà sempre forma, insieme ai suoi personaggi, anche a un suo nar­ratore che pagina dopo pagina, parola dopo parola finisce con l ’acquistare una identità definita senza che nessuna premedi­tata connotazione lo abbia investito, un critico come Barilli finisce, anche lui, per crearsi un simile doppio, un delegato che è la sua voce, il suo stile, il suo stato anagrafico, la sua rico­noscibilità, la sua funzione, il suo contratto con la struttura di attesa che egli stesso ha contribuito ad edificare. Voglio dire, a scanso di equivoci, che quel personaggio è la prima, fonda- mentale e straordinaria invenzione di Barilli da cui conseguo­no, da cui vengono rigorosamente dedotte e a cui sono rigo­rosamente riconducibili tutte le altre: le scelte linguistiche, il taglio del reportage o della recensione, la particolare struttura dei motti di spirito, le rime obbligate, il moltiplicarsi degli ag­gettivi che sembrano nascere dalla ripetuta scomposizione di un organismo monocellulare. «Barilli - ha detto con una for­mula felice Siciliano — scrive Barilli»: lo scrive negli articoli di viaggio, nelle cronache musicali, nei taccuini. Invecchiato, quel personaggio «non ha più la stessa voce»: gli si è fatta più debole, più incrinata, non gli consente acuti e fiorettature; è - tranne qualche cedimento - un sorvegliatissimo ed emozio­nante falsetto. Il timbro, ha ragione D ’Amico, è rimasto il me­desimo. Se mai, negli ultimi anni, con l ’invecchiare di questo sosia, con il suo progressivo abbandono del teatro e con il con­seguente affievolirsi delle sue funzioni, assistiamo a una specie di fenomeno di riappropriazione per cui le «parti» tornano ad avvicinarsi e, almeno parzialmente, a collimare quando, al cen­tro dell’obiettivo, resta - come abbiamo visto - «bruno ba­rilli».

«Come ha potuto succedere una cosa simile: che "noi” era­vamo qui tutti e due insieme: io, e me stesso, senza il tempo

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di fiatare, e non ci siamo quasi nemmeno seduti - e che l ’uno di noi due sia già scomparso? Di chi la colpa? - Il più grande confusionario del momento: io, o me?

Quale danno incalcolabile! la mirabolante psicologia degli specchi, su cui noi scivoliamo smarriti e ciechi in due: io, e un altro me stesso» (US, 308).

Potrà anche sembrare che Barilli - nella vecchiaia - si eman­cipi da quel personaggio e che lo specchio finisca pian piano col restaurare una identità o, se si preferisce, una confusione, quando si modificano i rapporti e quando la mano è colta da quella specie di «admirable tremblement du temps» di cui par­lava Chateaubriand. E tuttavia non si potrà disconoscere l ’esi­stenza ancora immediata e suggestiva di quel fantasma funzio­nale, «io e me» che, se a tratti sembra allontanarsi, viene ripe­tuto e commemorato in ogni parola.

Un tempo, fedele all’immagine di una comunità «facinoro­sa» di cui aveva creato (con se stesso) il portavoce, Barilli ave­va dichiarato: «Il vero posto per fare il nostro mestiere sa­rebbe la galleria. A picco sull’orchestra ci vorremmo vedere. Aggrappati alla coffa dell’albero maestro si può scrutare il ma­re. Non qui dalle poltrone di platea» (Tv, 18 febbraio 1929). Una simile prospettiva dall’alto, come di un astronomo rove­sciato o di un eroe di Stendhal al declino, sembra essere privi­legiata anche negli scritti della vecchiaia, che investano il pas­sato oppure il presente. «Incastrata lassù, a trenta metri dal suolo, la mia camera rispondeva su una specie di abisso citta­dino, di canale stradale, sempre immerso nell’ombra» (CV, 19). Difficile non ricordare allora «l’atelier nudo con un gran­de tavolo coperto di appunti» al quale, secondo Gottfried Benn, l ’artista, nella sua vecchiaia, «continua a salire in elicot­teri verdi come il veleno». Quinto piano dell’«enorme palazzo Burroni» in vicolo San Nicolò da Tolentino, a pochi passi dal­la «luminosa e regale via Venti Settembre» (CV, 19). Barilli sfrutta 11 suo osservatorio, in modo geniale, per dare corpo e figura - con uno stile dove l ’espressionismo si è fatto più asciutto e quasi impercettibile - a una serie di folgoranti ve­dute dall’alto, di pozzi, di voragini, di giardini appiattiti, di tetti comignoli e terrazzini sottostanti, di intrecci stradali, di cortili dove i corazzieri appaiono come «nani tarchiati» (CV, 20) e poi, «grama e sontuosa», la «Roma dei Torlonia» (CV, 29). Le Convertite, la Mercede, le Fratte, i Due Macelli, il Tritone. «Ma in alto, che respiro! » (CV, 23) «Qui è il mio teatro, il mio mondo, il mio passato, la mia memoria, in giro

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INTRODUZIONE IX

tondo» (CV, 30). Oppure: «Il breve campanile di Sant’An- drea delle Fratte sorge in una magra rissosa luce di bordelli medioevali, di viuzze angolose e vecchissime - io lo vedo da qui, respirare - quasi a portata di mano - loggetta, o guardiola che spunta in rapimento, non del tutto fuori di eresia» (CV,30). La finestra è ormai quella dell’Albergo Torlonia, e la fine­stra, che - ha osservato Macchia - «era stata sempre il sim­bolo lucido della sua vita e della sua letteratura», gli offre la cornice entro cui si delineano alcuni quadri di una «bellezza nera»:

«Sotto la mia finestra: una voragine di verde, il giardino chiuso di nobili edere, con l ’alta palma, e gli aranci amari del­l ’albergo Colonna - e a picco sotto il mio naso: una tettoia di vetro dell’attigua tipografia, sulla quale saltano e ballano i topi e le croste di pane, fra qualche straccio e carta di giornali» (CV, 29).

«Vipere, fogne, canali di scarico - avrebbe commentato Benn - questo è il preludio alle sere della vita».

« Io ho vissuto non ricordo più dove in compagnia di un’a­vida moltitudine di grossi topi. Io davo loro la caccia e ne ero assalito sino agli occhi. C ’etait una lotta furiosa senza tregua ils me grimpaient fra i pantaloni e io sentivo i loro piedi rapidi e freddi scorrermi sulla pelle; come io li tempestavo di pugni essi mandavan quelle piccole grida da far rabbrividire ed affon­davano in morsi feroci nella mia carne i loro musi pelosi» (T, i, 20-21 ). Con queste parole inizia il racconto di un incubo che si può leggere nel primo dei sessantasette 'Taccuini autografi custoditi alla Biblioteca Nazionale di Roma: gli anni sono i primi del secolo e Barilli è a Monaco, dove è «scappato» a po­co più di vent’anni, nel 1902, dopo aver seguito studi irrego­lari a Parma: prima le scuole tecniche e poi il Conservatorio, cominciando «dallo studio del violoncello» (T, l x i v , 29). A Monaco, in quella città che - pressappoco negli stessi anni - appariva agli occhi di Wassily Kandinsky come «un Regno ad­dormentato reale, non fiabesco», Barilli frequentò i corsi di «armonia contrappunto fuga e composizione, e la scuola di direzione d’orchestra dove ebbe maestro Felix Motti» e dove «a ventiquattro anni ottenne il diploma di maestro» {ibid.).

Le notizie che abbiamo intorno a questo periodo sono pur­troppo scarsissime e affidate a rigalleggiamenti occasionali, re­gistrate in un taccuino o disperse nelle incidentali di un arti­colo. Difficile immaginare, tuttavia, che Bruno Barilli, con la

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sua instancabile voracità e il suo gusto della dissipazione, lui cosi avventuroso e nobilmente zingaresco potesse presentarsi con la freddezza velata di Adrian Leverkühn di fronte alla «ba­lorda e innocua atmosfera di vita, alla mentalità artistica sen­sualmente decorativa e carnevalesca di quella Capua sempre contenta», «in cui una popolazione allegra e baldanzosa ... fe­steggiava i suoi saturnali». Più probabile, viceversa, che «la bellezza e l ’aspetto paesano della città monumentale, attraver­sata dal fiume montano sotto il cielo alpino, azzurro per lo sci­rocco», non si limitassero a blandire i suoi occhi, ma lo faces­sero realmente loro, lo catturassero e lo imprigionassero fino a lasciare una traccia permanente nella sua esperienza. D ’al­tronde, se ricorriamo ai Taccuini e ne ricaviamo le poche «dia­positive» del periodo, ecco che - rimpicciolite dalla distanza e dalla rapidità dell’appunto - vediamo apparire, come in fon­do a un binocolo capovolto, le scene del Prinzregententheater e, in mezzo alle comparse del Don Giovanni, possiamo rico­noscere Bruno Barilli, divertito e nel contempo estasiato dalla grande direzione di coloro che si succedono sul podio, in par­ticolare di Felix Motti e Bruno Walter (cfr. T, l x i v , 27), men­tre più discutibili gli appaiono le prove di un suo compagno di studi, Wilhelm Furtwàngler, un direttore che non riuscirà mai ad amare (cfr. T, x l v i i , 68-69). P °i è lo stesso Bruno Ba­rilli a salire sul podio, per un breve periodo, nelle vesti di so­stituto di Felix Motti, di colui al quale, in anni molto più tar­di, dedicherà uno dei suoi articoli più affettuosi e commossi: «Fu il mio vero e solo maestro» (Tp.ill., 1939). A Monaco, continua in quell’occasione Barilli, «cominciai la mia carriera teatrale, come comparsa nei teatri di Stato, annaspando da un palcoscenico all’altro, vestito da torero o da brigante» {ibid.). Questa volta la ricostruzione è appena più insistita, dominata dal gesto stilistico e tuttavia (nella povertà dei documenti) non priva di un suo diffuso e suggestivo valore testimoniale. «A poso a poco i carnevali di Monaco, la birra, i pittori, il buon mercato, e le modelle, mi fecero dimenticare la musica, e quando finalmente a ventidue anni entrai nel Conservatorio di lassù, "Kònigliche Akademie der Tonkunst”, era soltanto pro forma, per tacitare mio padre. La musica non c’entrava già più, precipitavo, volavo, che so io; la mia giornata era una frit­tata e l ’esistenza un proiettile.

Le mie esperienze non mi stancavano mai, le mie stanchez­ze non mi disgustavano. Allora trascorsi quella vita a rovescio, piena di dispersioni e di disordine, che non riesco più a rica­

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INTRODUZIONE XI

pitolare» {ibid.). Il quadro potrebbe essere lievemente arric­chito attingendo a notizie indirette: consultando il registro di famiglia tenuto dal padre, Cecrope Barilli, si potrebbe, per esempio, desumere, grazie allo scrupolo e alla meticolosità di quel magistrale e a volte poetico pittore d’Accademia, quali somme venissero mensilmente destinate al mantenimento di Bruno. Si potrebbe, da lettere e appunti familiari, provare che Bruno venne raggiunto — per un periodo probabilmente assai breve - dal fratello Latino, più giovane di tre anni e an­che lui pittore dotatissimo che, dall’esperienza di Monaco, sem­bra essere stato segnato in modo decisivo, se — a partire dal suo ritorno - comincia a dipingere, accanto a paesaggi dove si distende la dolcezza del post-macchiaiolismo, anche una serie di quadri impressionanti e stralunati, che possono apparire co­me l ’equivalente pittorico di certe pagine di Bruno più pros­sime all’espressionismo e all’abbandono fantastico.

Soprattutto, da aggiungere, sarebbe l ’incontro con una al­lieva dei corsi di pianoforte, la principessa serba Danitza Pav- lovic che Barilli sposerà nel 1907, da cui avrà una figlia e da cui si staccherà molto presto, lasciando che nell’assenza il suo fantasma cresca e si dilati fino ad assediare l ’ultimo dei suoi taccuini, ombra inafferrabile ed enigmatica che può richiama­re alla memoria uno dei più diafani, inesauribili e inquietanti personaggi femminili di James.

Ma più di tutto preme ora sottolineare quella «vita a rove­scio, piena di dispersione e di disordine», che Barilli non rie­sce più a «ricapitolare»: perché è da quel groviglio, da quel gomitolo spugnoso e sfuggente di esperienze e di studi che na­sce lo scrittore Bruno Barilli. E nasce quasi di colpo, senza che alle sue spalle (a parte qualche collaborazione sporadica con «La lucciola» e la «Gazzetta di Parma») noi riusciamo a rico­struire una qualsiasi preistoria. I suoi anni di apprendistato restano cosi avvolti nella nebbia e dobbiamo accontentarci della breve luce che su di essi getta uno squillo di tromba, insieme spavaldo e commosso, com’è ormai nelle abitudini e nello stile del personaggio Bruno Barilli, solidamente piantato sul palcoscenico della critica militante. «Qui a Monaco — ave­va scritto inaugurando il primo dei suoi taccuini - non c’è nul­la di nuovo, se proprio non si vuol considerare che sono arri­vato io» (T, i, 1). E quasi quarant’anni dopo: «quando il mae­stro è Motti, e lo scolaro è imo come me, mi par chiaro che ne debba venir fuori qualche cosa di buono.

Difatti, quando ritornai in Italia, mi sentivo fortissimo.

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Ero, dai piedi ai capelli, quel che si dice un pezzo di musica, e mi buttai a scrivere di musica sui giornali» (Tp.ill., 1939).

La testimonianza è cronologicamente inesatta. Tornato in Italia Barilli per prima cosa sfoga la sua «forza» scrivendo un’opera, Medusa, che sarà rappresentata solo molti anni più tardi. « Il libretto di Schanzer », annoterà nei taccuini della vec­chiaia, «per me valeva un milione. Per me c’era l ’illusione sa­pete quel che voglio dire? - L ’illusione, me la dava — voglio dire che c’era già la mia musica - Esistesse o no questo libret­to — il miraggio c’era - e mi bastava» (T, l x , 79).

La sua prima prova come scrittore (la sua prima prova or­ganica e destinata ad avere un futuro) è del 1912, quando re­dige le sue corrispondenze sulla guerra balcanica a cui segui­ranno, due anni più tardi, quelle sulla guerra austro-serba. A rileggerle oggi, colpisce subito l ’immediata e altissima matu­rità stilistica; colpiscono la precisione e la fermezza con cui Barilli delinea figure e colline, campi, interni, paesi distrutti o abbandonati, le stazioni occupate dai feriti, gli ospedali da campo, gli animali, i fiumi, le strade fangose, la miseria feroce e implacabile che aggredisce le popolazioni. Chi arriverà a una simile lettura con l ’orecchio assuefatto alle cronache musicali, avrà la sensazione che qui lo stile — seppure non essenziale come nella vecchiaia - sia quasi raffreddato, quasi che le «cose viste» funzionino da valvola omeostatka tra l ’energia del lin- guaggio-Barilli e le pressanti richieste di quelle che Gadda chia­ma le realtà «intangibili», quelle, cioè, che segnano il «limite inferiore di pertinenza della attività elaboratrice». Cosi potrà accadere che la consapevolezza, qui molto acuta, dei limiti di pertinenza, alleandosi con matrici sintattiche più o meno in­tenzionalmente orientate verso l ’espressionismo, produca una specie di grottesco-tragico e possa allora evocare le grandi acquefprti che alla guerra Otto Dix dedicherà in anni più tar­di. «Un povero zingaro completamente macellato aveva le labbra asportate nette da un proiettile e tutti i suoi denti era­no scoperti fino alla mandibola» ( W , 141). Ma si tratta di esiti sporadici: quasi sempre l ’immagine è meno declamata e aggressiva. E, in ogni caso, Barilli è da subito - come ha visto molto lucidamente Macchia - uno che «gira il mondo contan­do solo sulle proprie forze». Vale a dire senza difendersi con «riferimenti culturali» o con «citazioni», senza frapporre tra sé e le cose nessuno schermo che non sia la sua ricettività pri­

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INTRODUZIONE XIII

vata e la sintonia con lo strumento linguistico che si è creato e con il quale ha finito per identificarsi. Allo stesso modo, con lo stesso tipo di mimetica premeditazione, Barilli si spingerà attraverso la Danimarca la Svezia e la Norvegia fino al circolo polare artico, soggiornerà a Parigi e a Londra, attraverserà lo «Stivale» e la Spagna; oppure, raggiunta Città del Capo, ri­salirà fino alla Somalia e all’Egitto. Sulle sue pagine resteran­no «lo stimolo epidermico, l ’esotico, il pittoresco» che, se­condo Walter Benjamin, «prendono solo lo straniero»: Ba­rilli è, in questo senso, uno straniero di elezione, ma è anche vero che nelle sue pagine di viaggio la «superficialità» è spesso illuminata interiormente dal genio di una lingua intemperan­te, e qui controllata. A chi ne voglia conferma, basterà ri­leggere Il sole in trappola, e vedere allora con quanta forza espressiva e quale smalto, con quale sicurezza lessicale e con quale fedeltà al «dato» i singoli frammenti siano uno per imo strutturati e incastrati lungo la «geodetica del racconto». Ba­sterà un solo esempio:

«Un deserto senza dune, senza palme, senza sfingi dal mu­so rotto, senza fogli di giornali inglesi sparsi in terra, senza piste, né ombra di cammelli, né segni di passaggio umano - vergine, intatto, fulvo, unico, solo - immerso in una quiete luminosa.

Tutto uguale, tutto nuovo. La sabbia, pulitissima, di un colore riposato e potente, non reca traccie di vento. Non è li­sciata né accumulata. Non ci son quelle striscie correnti e cri­stalline, quei veli superficiali, quelle serpentine che anche i più fugaci squilibrii meteorici lasciano dietro di sé.

L ’aria è limpida e ferma e brucia leggermente senza divam­pare» (ST, 133).

Quella improvvisa sequenza di aggettivi (e non solo quella, lo vedremo ancora) ha il perentorio potere di identificazione di una impronta digitale. Ma preme sottolineare che, in que­sta specie di diario, non c’è accumulazione, non metafora né similitudine, né figura retorica che non funzioni come, in fo­tografia, gli agenti rivelatori quando reagiscono sull’emulsio­ne e portano a galla l ’immagine latente. Il dispositivo di cui si serve Bruno Barilli appare, nello stesso tempo, artigianale e capace di una precisione millimetrica, tanto che viene da pensare a quale mirabile sussidio avrebbe potuto ricavarne una spedizione di ricerca, se è vero che l ’etnologia descrittiva richiede, accanto alla preparazione paleografica, storica e sta­tistica, anche precise doti di scrittura, le doti di «un roman-

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ziere - azzardava Marcel Mauss - capace di evocare la realtà viva di tutta una società».

Il viaggio in Africa di Barilli comincia nel dicembre 1931. Pochi mesi prima, il 19 maggio dello stesso anno, è iniziata la spedizione di Marcel Griault, di cui straordinaria testimonian­za è rimasta nel diario di Michel Leiris, L ’Afrique fantôme. I due itinerari non si incrociano perché mentre Barilli, sbar­cato a Città del Capo, risale verso nord fino alla costa dei Somali, Griault e Leiris attraversano l ’Africa lungo la linea dell’equatore, da Dakar a Gibuti. C ’è solo il Mar Rosso in comune: appena accennato da Leiris (che si sente ormai oltre la fine del viaggio), e descritto, viceversa, con stupefatta insi­stenza da Barilli. Ciò non toglie che L’Afrique fantôme possa- nella sua radicale diversità - consentire una ulteriore e più sottile definizione del lavoro di Barilli. Leiris è certo un viag­giatore più attrezzato e diffidente, più legato al contratto di una stenografia quasi quotidiana: «non conta solo sulle pro­prie forze» e sfugge sistematicamente l ’esotico e il pittoresco che, quando lo seducono, vengono poi sterilizzati dalla regi­strazione telegrafica e dalle maglie di una rigidissima paratas­si, a cui si affida una specie di retorica del viaggio. È più at­tento alle forme e alle articolazioni del tessuto sociale e agli incidenti di un itinerario meno codificato e prevedibile, ma- soprattutto - il suo diario è, come ha riconosciuto lo stesso Leiris, in una recentissima prefazione, «à double entrée»: è il resoconto di una spedizione, ma è anche, in maniera pro­gressivamente più marcata, pagina dopo pagina, il resoconto di uno sguardo particolare, battezzato, costruito e intorno a cui si organizza la fisionomia di un occidentale «mal dans sa peau, qui avait follement ésperé que ce long voyage dans des contrées alors plus ou moins retirées et, à travers l ’observa­tion scientifique, un contact vrai avec leurs habitants ferait de lui un autre homme, plus ouvert et guéri de ses obses­sions »* di un occidentale che, nel 1934, al tempo della pri­ma pubblicazione, enunciava lucidamente il suo programma: «décrire ce voyage tel quel je l ’ai vu, moi-même tel que je suis».

Barilli, al contrario, sembra avere edificato intenzionalmen­te il suo testo con un’unica entrata: le sue immagini e i suoi frammenti sono pressoché privi di specularità; il suo occhio resta impercettibile, mentre quello di Leiris occupa man mano il centro del «fantasma». Probabilmente un etnologo guarde­rebbe con giustificato sospetto un simile occultamento che

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INTRODUZIONE XV

rende in ogni caso più problematico il calcolo degli indici di deformazione, ma come non riconoscere - in una luce diver­sa - le premesse di un originale partito preso, di una calcolata e fruttuosa cancellazione di sé? Una cancellazione caratteri­stica di tutto il Barilli viaggiatore e tanto rigorosa - nel ri­spetto di una specifica professionalità - da accantonare le «ossessioni», che pure vivevano in lui, e da non concedere mai la parola a chi, in lui, si teneva «mal dans sa peau».

Per riconoscere questo Barilli dobbiamo tornare al 1915, quando compone la sua seconda, ultima e più amata opera Emiral, un atto unico di cui lo stesso Barilli scrive il libretto e che va in scena, con poco successo, nel 1924, dopo essere stata premiata, l ’anno prima, da una giuria presieduta da Gia­como Puccini. «Je ne prouve aucun embarras - griderà nella vecchiaia - à dire que mon opera Emiral est un chef d’euvre» (T, L X iii , 148): «un chef d’euvre nié [...] un petit chef d’eu­vre, nié sans documents, ou pieces d’identité, qui n’a pas l ’anzianità, comprenez-vous, un chef d’euvre petit, encore pe­tit, mais tout de meme sur la route de la immortalité» (T, LXiii, 135). Una simile profezia è — prima di tutto - patetico esorcismo e patetico scongiuro: né vale, a smentire una tale interpretazione, che Barilli dichiari sciolto «ogni vincolo» tra se stesso «e l ’autore e l ’opera» (T, l x i i i , 167-168). D ’altron­de l ’anzianità, che nel frattempo si è accumulata, non sembra avere giocato molto a favore di una partitura spavaldamente allineata, in un altro taccuino, con il Fidelio, il Trovatore e il Don Giovanni (cfr. T, l x v , 31 bis), se — in occasione della sua ripresa nel decimo anniversario della morte - un ascoltatore benevolo e intelligente come Fedele D ’Amico, dopo aver po­sto e lasciato in sospeso la domanda «Che vale il compositore Barilli? », se la cava aggregando, contro le convenzioni, Emiral alla scuola verista e riconoscendole (ma di sfuggita) «una sem­plicità, freschezza, candore che la tengono piacevolmente lon­tana dagli eccessi, dalle bravate sentimentali cosi frequenti in quella». Si può essere d’accordo con questo elogio in sordina e, lasciando ai musicologi il compito di un’eventuale (credo improbabile) correzione di tiro, varrà la pena di sottolineare come Barilli, fino all’ultimo, abbia visto in sé, con rabbia e di­sperazione, un compositore, un musicista misconosciuto e for­se anche tradito dal suo stesso talento letterario.

«Enfin, il passa critique». Avesse o no ragione Balzac, quando vedeva in una simile metamorfosi la prova incontra­

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XVI MARIO LAVAGETTO

stabile dell’impotenza creativa e della fallacia di oroscopi fa­vorevoli ma prematuri, è un fatto che la critica musicale di Bruno Barilli nasce e assume una fisionomia nei nove anni che intercorrono tra la composizione di Emiral e la sua prima rap­presentazione. Dal canto suo Barilli cercava di non recidere un legame, che doveva apparirgli vitale e che gli permetteva di scommettere sulle sue doti di musicista, e dichiarava, sotto specie di aforisma, che l ’arte e la critica «sono due passioni in gara - l ’una iniziale, l ’altra subordinata. Ben di rado la se­conda supera la prima - comunque l ’artista le possiede ambe­due» (Fase. i). Era un modo per non credere alla morte di Emiral e per mantenere aperta - almeno ai propri occhi — la possibilità di una resurrezione. Come certi animali marini che, per difendersi dal freddo e dalle acque dolci (dove talvolta si trovano a vivere), sviluppano capsule chetinose e resistenti, «gemme» o «uova invernali», al cui riparo l ’esistenza risulta garantita, Barilli trova nella critica - in una particolare, perso­nalissima, molto connotata specie di critica - un guscio che sembra assicurare una vita, per quanto grama e larvale, al com­positore che è in lui. È un fenomeno ben noto, e che spesso è documentato da taccuini segreti in cui, lontano dalle pagine ufficiali, si depositano «veleni» corrosivi, rivalse, epigrammi, giudizi sferzanti e non coperti da alcuna convenzione.

I Taccuini di Barilli pullulano di atrocità: «Respighi è co­me il pavone, apre la coda e non si vergogna di quel che scopre dietro di sé» (T, xxx, 33). «La musica del maestro Pizzetti non esiste, e se mi stuzzicate vi dirò in un orecchio che non esiste nemmeno il maestro Pizzetti» (T, xxvn, 23). «Ad ogni raffreddore Casella cambia stile e strada musicale. Quando egli annuncia al pubblico dei concerti "questa è la mia ottava maniera” vuol dire che la sua testa s’è per l ’ottava volta riem­pita d’acqua piovana» (T, xxxv, 78). Mascagni: «Dal giorno che nacque in poi la sua importanza non fece che diminuire continuamente» (T, ix, 5).

Ma con la sola eccezione di Mascagni, a cui vengono dedi­cati articoli deferenti e a proposito del quale Barilli, in un al­tro taccuino, dichiara di non dire volentieri quello che pensa (cfr. T, xxvii, 107), bisogna riconoscere che anche in pubblico i riguardi non sono molto pili alti. Così, quando riapre la sta­gione, Barilli estrae dal proprio talento di scrittore una simi­litudine programmatica: «Ecco venuta l ’epoca dei più strani uccelli di passo: esotici, zazzeruti, cerimoniosi emigranti bian­co-neri, dalle ali larghe che s’agitano lentamente come venta­

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INTRODUZIONE XVII

gli nel cielo di Novembre. È venuto il momento di drizzar le orecchie come fa il cane quando il padrone stacca il fucile dal muro» (RdC, 4 novembre 1927). E allora Boi to non sarà il «porco» dei Taccuini (T, l x v , 28 bis) o «il primo dei nemici del teatro italiano» (T, l x , 39), ma «se fa l ’atto di trattenere, di sospendere e di innalzare la musica, gli viene il fiato grosso, la vista gli si intorbida, e suda, l ’autore di "Mefistofele”, come un Polifemo costretto a scrivere in bella calligrafia» (Cor.it., 2-3 maggio 1924). «Pizzetti è un musicista tirato su con l ’in­cubatrice. Quando lo conobbi stava tra Pinco e Catalani. Poi Catalani scomparve. Pazienza!» (Tv, 6-7 febbraio 1929). O, per finire con una pagina più conosciuta, « Alfredo Casella, pia­nista europeo, il più stonato e il più placido dei nostri compo­sitori, l ’apostolo, per cosi dire, della nota falsa» (DI, 43).

La moltiplicazione degli esempi non serve solo a docu­mentare la capacità epigrammatica di Barilli o a mettere in guardia contro un critico che è, e si vuole, rissoso e passiona­le, che a volte è livido, quasi sempre settario, intransigente e, nello stesso tempo, preso da una specie di frenetico narcisi­smo linguistico. Quelle citazioni, se usate come indizi, posso­no aiutarci a capire la specificità del punto di vista scelto e privilegiato da Barilli, possono indirettamente illuminare i suoi interessi fondamentali, le sue idiosincrasie e le sue predi- lezioni che sono quelle — l’ho detto all’inizio — di un personag­gio critico ritagliato accuratamente come portavoce di un pub­blico facinoroso, di un pubblico di cui sarebbe certo difficile stabilire la probabilità storico-sociologica, ma che tuttavia esisteva nella immaginazione di Barilli; di uno che dichiara­va: «J’immagine, laissez-moi dire, sans imagination il n’y a pas de réalité savez-vous?» (T, xx, 16).

In piena coerenza con simili premesse Barilli, che ha scritto due opere sfortunate, è soprattutto un critico del melodram­ma, nel senso che li — in quella forma spuria e bastarda, guar­data per lungo tempo con diffidenza dalla cultura letteraria - si verifica in tutta la sua pienezza fisica, in tutta la sua inquie­tante alcatorietà il miracolo teatrale: un «fatto», un evento, una scena drammatica in cui sono coinvolti nello stesso tem­po l ’orchestra, i cantanti, gli scenografi, i costumisti, i tecnici della luce, il pubblico. Quello che preme sopra ogni altra cosa a Barilli è il teatro, il teatro lirico dove il dramma, disegnato sommariamente da parole che si consumano, è completamen­te affidato alla musica: il libretto, un buon libretto - non si stancherà di ripetere — deve essere «schematico e fiero» co­

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me quello del Trovatore o del Fidelio (T, l x , 33); «stecchito come un attaccapanni» (T, xxxi, 87), esclude i grandi poeti perché nell’opera c’è posto per una sola, superba e dispoti­ca personalità, e le parole debbono essere «come i sassi che non si vedono in fondo al torrente se l ’acqua è profonda» (T, xxviii, 25). «Le parole nella musica - dirà in un’altra occa­sione - s’adeguano alla misura del fiato, si gonfiano, s’allun­gano e si spappolano come il riso nella minestra. Anzi direi: le parole si aprono nella musica grandi, immense, e vengono giù col paracadute. Nel volo si perde il loro senso letterale - e ne aumenta a dismisura quello sonoro» (T, l x v i , 40). Manrico, Azucena, Violetta, Don Giovanni, Mimi appaiono cosi le luminose e drammatiche incarnazioni di ombre lettera­rie dimenticate e irrevocabili. Intorno ad esse il teatro lirico vive la sua esistenza totale: e per Barilli quel teatro dovrebbe essere piccolo, raccolto, saturabile - in ogni millimetro cubo del suo spazio - dal miracolo che si realizza, dalla fiaba che non conosce più confini di spazio e che occupa, ilare e persua­siva, ogni angolo e ogni anfratto. Tutto quanto appare come deformazione di quel miracolo, come variante arbitraria di quel codice fiabesco, che deve conservarsi ereditariamente ed essere infranto da una musica nel contempo memore e inno­vatrice (cfr. T, xxxv, 47), va combattuto ed estirpato. Barilli difende la sopravvivenza di una sua idea di teatro, di quel melodramma italiano che per il pubblico dell’Ottocento era stato una specie di «Macchina infernale» (Verdi, 33) e in cui, sopra tutto, lo affascinava il rischio di un’opera d ’arte « tutta speciale, costruita sul ciglio d’un abisso di ridicolo» e tenuta a galla, «a forza di genio», in prodigioso equilibrio {ibid.).

E in nome di quella idea Barilli compirà anche gli unici tentativi di intervento politico. Dopo aver ottenuto (ma per un breve periodo) «camicie bianchissime» dal fascismo (cfr. T, xviii, 9), chiederà anche - ma invano - una riforma dei teatri liriçi che «sono divenuti dei mattatoi verso i quali le opere del nostro repertorio si lasciano condurre senza riluttanza» («La Stirpe», settembre 1926). Non è il solo, tra gli intellet­tuali, che si illuda di trovare in Mussolini uno strumento per realizzare i propri progetti di settore, e non è il solo a doversi accorgere che non è l ’ora dei compositori e dei critici, dei poe­ti e degli scenografi: «è l ’ora di Starace» (T, xxvn, 130). Il teatro lirico resta nella decadenza ed è questa decadenza che agli occhi di Barilli spiega l ’insuccesso delle sue opere, il trion­fo della musica scolastica e imparaticcia, dei «tecnicismi», del­

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INTRODUZIONE XIX

le mode, delle «teorie astratte»: spesso - si dirà - è Barilli a non capire o a deformare i bersagli, ma se questo può essere un giudizio sul valore delle sue battaglie (a volte inutili, stre­pitose e donchisciottesche), nulla toglie al suo modo di eserci­tare la critica militante con il piglio aggressivo e spavaldo del paladino o del livellatore. E quando, nell’ultimo dei suoi tac­cuini, dichiara sornionamente di avere «nel posto del cuore [...] un teatro» (T, l x v i i , 71), ha certo ragione chi - conoscen­do queste parole - le legge come un «paradosso surrealista» (si potrebbe perfino pensare a una didascalia per Magritte), ma sarebbe un errore dimenticare che, oltre il surrealismo, quelle parole sono anche un rigoroso stemma biografico, il bla­sone di un’esistenza che ha trovato nel teatro, nel profumo delle quinte e dei praticabili, nei corridoi che circondano la sala, in platea o in alto, aggrappato « alla coffa dell’albero mae­stro», nelle gallerie, nei vestiboli dove arrivano attraverso «le porte velate le frasi dei cantanti, e gli scoppi dell’orchestra» (T, Lx, 6-7), che ha trovato in tutto questo l ’alimento della propria scrittura e della propria immaginazione. E allora biso­gna «essere più feroci d’una volpe legata in un sacco» (T, xiv, 24).

«Ciò che veramente lo affascina - ha scritto Fedele D ’Ami­co - è il rischio di un evento che si propone, per sua natura, in forme sempre rimesse in questione, e perciò è figura di quel caduco miracolo al quale soltanto egli riconosce realtà di vita». L ’irripetibile unicità dello spettacolo teatrale, sempre diverso, mai chiuso in uno stampo bloccato, funziona insomma per lo spirito avventuroso di Barilli come un «elisir del diavolo»: gli dà invenzione, grazia, immagini e sicurezza stilistica, gli dà ordine e tono, vitalità, leggerezza. G li consente anche di fis­sare la sua pratica di critico e di ascoltatore con ima similitu­dine abbagliante e decisiva: «C’è chi, a sentire la musica, bal­la: noi scriviamo. È un fatto macchinale; ascoltando con tanto d’orecchi scriviamo sotto dettatura. Lavoriamo in poltrona, nel buio del teatro o del concerto, ritiriamo poi la nostra lastra che non ha bisogno d’esser sviluppata in bagni acidi» (Tv, 20 maggio 1927). La conoscenza dei Taccuini impone, senza om­bra di dubbio, una certa cautela nel prendere alla lettera que­ste parole di Barilli: e tuttavia ne conferma il valore illumi­nante, conferma l’essenza di una critica che si vuole scritta sot­to dettatura, in perfetta sintonia con la musica. Sulle pagine del taccuino, nel buio, con una grafia disordinata e frettolosa, finiscono immagini discontinue, registrazioni telegrafiche che

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XX M ARIO LAVAGETTO

avranno poi bisogno di essere « sviluppate e organizzate in un tutto coerente». Ciò non toglie che sia quasi impossibile im­maginare Barilli al lavoro sulle partiture o nel chiuso di una stanza di fronte a un fonografo: le sue parole nascono in quel­l ’atmosfera febbrile, vibrante e surriscaldata. Non è certo uno di quei musicologi che «portano sempre un volume sotto il braccio» (T, x i i i , 4), non si cura delle teorie, non sa cosa far­sene, si schernisce: «Intellettuale io, per carità» (T, l x v , 26 bis): «naviga nei suoi succhi originali. Che viaggio d’incli­nazione! Il suo fluido rimane inalterato ed egli ritrova sempre il suo innocente tornaconto al totale. Natura e umori creano in lui gli accordi pieni e diversi d’una avventura profonda e senza fine» (Tv, 20 maggio 1927). Ci sediamo in poltrona per ascoltare la Tetralogia e partiamo «dal livello dei palombari», «siamo sotto le acque del Reno» (T, x l i v , 2); là, sulla scena, si consuma la tragedia del re Macbeth e «la musica nasce [...] alle radici stesse del dramma», lo strumentale - «fatto di ven­to, di cigolii e di misterioso abbandono» — sembra appena uscito «da un barattolo del laboratorio del dottor Mabuse» (T, x l i v , 67-72).

Lui, Barilli, che vedeva nel lavoro di composizione un viag­gio (cfr. T, LX , 2-3), uno «slancio», che difendeva 1’«ispira­zione» contro la «tecnica», che condannava gli «esperimenti scientifici» dei compositori moderni (cfr. T, x, 1) tra i quali era disposto a salvare, senza troppe riserve, il solo Strawinski, che faceva venir fuori «opere melodrammi tragedie» di Verdi «dalla noia di questo misantropo immalinconito» durante le giornate d’autunno a Sant’Agata (T, x l i v , 60), che appariva dotato di una apparecchiatura molto modesta o che, comun­que, si preoccupava di nascondere la propria apparecchiatura, non poteva, come critico, esimersi dal guardare con diffidenza le indicazioni dell’estetica, di ogni estetica, anche di quella cro­ciana davanti a cui molti dei suoi contemporanei (gli pareva) si fermavano come «davanti a un distributore di benzina» (T, l x v i , 22). Dal canto suo preferiva affidarsi all’intelligenza, cioè alla «percezione occasionale» di tutto quanto era nell’a­ria o a mezz’aria all’interno di un teatro (cfr. T, l x v i , 34), la­sciando poi che la ragione, la sua ragione, trovasse il modo di conciliarsi con verosimiglianza e verità (cfr. T, l x v , 18 bis).

Ma le idee! Dalle idee bisogna guardarsi! Possono certo procurare un’apertura di credito, una divisa, imporre una coe­renza del tutto esterna e formale, ma finiranno poi con il com­promettere e il guastare la personalità « come l ’amido nel latte

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INTRODUZIONE XXI

e il cartone nella suola delle scarpe» (Tv, 20 maggio 1927). Le idee sono inutili, sono il risultato di codificazioni a posteriori e destinate, comunque, ad essere deluse dall’irripetibile uni­cità dell’evento: in ogni caso conducono una loro esistenza separata. Sono «autonome», non ci appartengono. «Il faut les entretenir comme on entretient une femme. Et ce que nous leurs donnont sans treves pour les faire vivre, ça est vraiment a nous - ça est notre creation» (T, xxxi, 178-179). Le idee vengono dopo le opere d’arte che le hanno nutrite e le seguo­no «come animali». Barilli vuole che lo seguano, non gli im­porta di possederle.

Con questi presupposti sarebbe vano pretendere dalle re­censioni di Barilli qualsiasi struttura dimostrativa: procedono per definizioni e per immagini, per flash di lunghezza ineguale e che sono il frutto di successive rapine a mezz’aria, compiute da un’intelligenza mirabilmente prensile e tesa a scavare, all’in­terno della lingua, i propri cunicoli, ad alimentare una formi­dabile macchina fantastica e sintonizzata sui ritmi discontinui del singolo evento. Vanno avanti a zig-zag «come gli artisti, le farfalle, gli ubbriachi» (T, l x i i i , 37), rifuggono da qualsiasi geometria e da qualsiasi premeditazione, trovano nell’impre- vedibilità il proprio codice di onore. A null’altro si attengono. E se «le opere ispirate e felici hanno un’acustica interna loro propria che fa funzione di architettura, di luce, di carattere» (T, xxii, 12), anche gli articoli di Barilli sembrano inseguire una simile acustica, una specie di necessità biologica e che ga­rantisce, alla fine, l ’emergenza di organismi unitari.

In un «fascio» di appunti, aforismi, note, materiali vari nu­merati irregolarmente dall’ i al 335 e ritrovati tra le sue carte, Barilli ci ha lasciato una specie di parabola, ironicamente pa­radossale e lucidissima, sul suo modo di lavorare. «Non so ragionare, se vogliono delle spiegazioni butto la testa da un lato e guardo il mio interlocutore con uno stupido occhio di gallina - non so come si faccia a dimostrare qualche cosa [...] Io stesso circolo in un casamento sconosciuto e buio, impene­trabilmente buio, quando ho la penna in mano - le mani in avanti trovo delle ringhiere che mi salvano, delle rampe che mi aiutano a salire, e a discendere, delle porte che si aprono cigolando, traverso sulla sordità dei tappeti degli ambienti in­visibili dove c’è odore di chiuso e di vecchio, mi perdo coi piedi dentro delle sedie rovesciate e mi aggrappo al lampada­rio trascinandolo giù nella caduta; fuggo sempre più spaven­tato del danno e del chiasso e degli echi, e finisco per precipi­

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tare da un balcone sulle zolle molli di una aiuola fiorita e là faccio punto fermo, firmo, saluto chi mi legge, il mio pubblico, senza voltarmi indietro, senza chiedere una spazzola. E se il conto non torna, faccia, chi mi legge, l ’operazione al rove­scio, rilegga di sotto in su, e vedrà che il risultato è lo stesso» (Fase. i).

Una simile rappresentazione di sé e delle proprie figurate peripezie è, da un lato, molto insistita, dall’altro quasi prete­rintenzionale, non inedita, né priva di incrostazioni letterarie: questa specie di critico-Charlot - al quale, peraltro, Barilli di­chiarerà di assomigliare negli ultimi anni (cfr. T, l x i i i , 122) - ha parentele facilmente riconoscibili nella maniera novecente­sca, nei suoi ammiccamenti e nelle sue sommesse infrazioni. Forse proprio quelle incrostazioni (da cui Barilli dichiarava di rifuggire e da cui in effetti rifuggiva nei momenti di felicità) possono averlo indotto, nel Taccuino l u i (66), a cassare il bra­no dopo averlo ricopiato e a scrivere sul margine un vistoso e perentorio «no». Detto questo la parabola conserva quel tan­to di funzionalità che ci ha indotto a servircene e che ci spinge ora a osservare più da vicino i passi e gli espedienti e le tecni­che adottate da Barilli durante la sua avventura «in un casa­mento buio », nel buio - per lui antonomastico - dello spazio teatrale.

In un’occasione Barilli dice che l’esercizio della critica mu­sicale corrisponde a presentare «lo specchio a Narciso» (cfr. T, xxxi, 32). L ’affermazione di per sé è ambigua: nel caso di Ba­rilli non c’è dubbio, tuttavia, che in quello specchio potrà for­se riflettersi la singola opera, la sinfonia o il quartetto o la sonata, ma si rifletterà certamente anche lo stile inconfondi­bile, e a suo modo autoritario, del critico. «Il limite inferiore di pertinenza dell’attività elaboratrice» risulta, negli scritti musicali, notevolmente più basso che nelle pagine di viaggio: le fealtà intangibili sono come rattrappite e Barilli non esita (lo documenta ampiamente l ’appendice genetica di questa edi­zione) a compiere i trapianti meno compatibili con il rispetto del dato, a servirsi - per esempio - di pezzi di Koussevitzky per costruire, in totale libertà fantastica, il ritratto di Bot- tesini.

Decisiva, insomma, è la riuscita stilistica che viene insegui­ta sfruttando tutte le risorse del mezzo. «La lingua italiana - scrive Barilli in una pagina famosa - quando l ’hai tra le brac­cia, e non ti scappa, ti pare, fuor di senno, che palpiti offren­

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INTRODUZIONE XXIII

doti il fianco, invece si raffredda da capo, si distende e non si muove più. Ci vuole il potere magnetico, l ’energia d’un Ca­gliostro, perché la lingua italiana si levi, cammini, e ti segua » (Pa, 52).

Cagliostro dunque, e magari anche «la lingua della Sibilla che rifiuta di spiegarsi» {ibid.). Ma i maghi - alla cui costella­zione Barilli si aggrega volentieri - hanno tutti un repertorio di trucchi e di espedienti facilmente inventariabile. L ’inventa­rio dei trucchi di Barilli, almeno dei suoi fondamentali, non presenta grandi difficoltà proprio perché la sua cifra è molto netta, perché il suo stile, proteso dichiaratamente verso la va­rietà e la sorpresa, si appoggia poi su alcune soluzioni stan­dard. Quasi tutte le citazioni che ho lasciato alle mie spalle potrebbero, credo, recarne conferma, ma forse può valere la pena di aggiungerne qualcuna, in economia, e col solo intento di illustrare quelle che a me paiono le costanti di maggior ri­lievo in una scrittura cosi concitata e crepitante e tesa al colpo di scena da rischiare poi - nei momenti di routine - una sor­ta di paralisi o di movimento coatto.

Prima di tutto le figure dell’accumulazione e in particolare 1 'evidentia, l ’ipotiposi su cui già Debenedetti aveva richiamato la nostra attenzione:

« Si dimena ferocemente come un olmo squassato dall’ura­gano, ma, cadute che sono, in una pausa del vento, tutte le fo­glie ai suoi piedi, rimane lf pieno di brividi stringendo i denti e il lungo corpo desolato: vuole ormai un pianissimo, un sus­surro; vuole il ronzio d’un alveare; vuole, da quelle voci smor­te, gli scossoni e la tremarella della febbre terzana, e, ripiglian­do lena, vuole una selva tutta piena di storni, di allocchi, di gazze e di capinere; il cinguettio vuole, gli sghignazzi e lo schia­mazzare lungo e paradossale di un’uccelliera immensa che il buio della notte seppellisce man mano e addormenta» (SV, I7°)- . .

Ma in questo passo grondante di immagini e di predicati che «seppelliscono», accumulandosi gli uni sugli altri, il pri­mo e ormai lontano termine della similitudine (Lhuis Millet sul podio), emerge - accanto al lusso della accumulazione - un’altra delle costanti di Barilli; ed è proprio il ricorso sfre­nato, intemperante all’arsenale delle metafore e delle similitu­dini con il «veicolo» gonfiato ogni volta fino a scoppiare o a staccarsi dal piano del discorso per galleggiare poi in piena, aerea e magari felicissima autosufficienza.

«Finalmente, con un zig-zag fulmineo l ’arco famoso vien

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XXIV MARIO LAVAGETTO

giù, tocca la prima corda, e senti una nota che fischia come una vescica bucata da uno spillo - intorno si sparge tutto il vapore di una teiera in ebullizione, e in quel vapore lo scor­pione si snoda, ondeggia, prende volume, si solleva fuor di ogni proporzione, e scrolla dall’istrumento una grandine fitta » (Tv, 22 novembre 1930).

O ancora:« Armata di ferro e d’argento, con tutte le sue vele spiega­

te, sonante come una nave, quest’opera genovese rientrò son­tuosamente in servizio, dopo cinquantanni di inedia, che non la distrussero, né la accasciarono.

Non fu necessario tirarla a secco per le riparazioni d’uso. L ’opera non presentava avarie, o deterioramenti, né di fuori né di dentro - era intatta.

E più che nuova apparve rafforzata dalla stagionatura.Con un nuovo equipaggio valoroso e gagliardo, l ’altra sera

riprese il mare e passò in bilico perfetto, galleggiando, mae­stosa e chiara, dinanzi agli occhi stupiti del pubblico romano» (Tv, 5 marzo 1934).

A questo secondo esempio ha dedicato una lettura fin trop­po sottile Gabriele Baldini. Credo che l ’essenziale, in questi casi, non sia tanto una decifrazione (più o meno probabile) del­le intenzioni e dei sensi nascosti; non sia il chiedersi se parlare di una nave «armata di ferro e d’argento» corrisponda o meno a un giudizio sottilmente limitativo, perché poi - una decina d’anni più tardi - Barilli trasferisce la definizione dal Simon Boccanegra a tutto un gruppo di opere «bussetane e genovesi» (Verdi, 44). Credo piuttosto che sia opportuno accantonare alcuni pregiudizi, alcune «idee astratte» (avrebbe detto Ba­rilli). Spesso s’inceppa. E il carico delle iperboli è talvolta esor­bitante, come esorbitante è in genere, a ogni livello, chi di­chiarava ironicamente: «Forse esagero, e lo faccio volentieri» (Tf LX , 112).

Perché se poi simili rilievi non vengono tradotti in giudizio sulla base di un codice il più obsoleto e il più accademico, se il lettore non diventa perciò pregiudizialmente sordo e refrat­tario, sarà quasi impossibile non riconoscere, qui, l ’energia trattenuta e ironica di un Cagliostro che ha fatto «alzare» la lingua italiana e l ’ha indotta a seguirlo docilmente, insieme alle idee che Barilli dichiarava - lo abbiamo visto - di non vo­ler possedere. Né ci si difenderà allora dall’euforia che si dif­fonde da immagini cosi esplosive, eppure cosi controllate e

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INTRODUZIONE XXV

guidate nei loro effetti lungo binari di senso accuratamente predisposti: «Forse esagero, e lo faccio volentieri».

« Questo capolavoro, stravagante e superbuffo, è pieno d’u- n’ilarità musicale che turba la ragione e suscita un pandemo­nio e un delirio parodistico. Rossini ci appare là, nero, secco, grottesco eppure brillante, luminoso, colorito, tenero, traspa­rente, spirituale e ammantato di fantasia e di romanzo come un personaggio di Goya» (DI, 31).

Gli antichi precettori di retorica, quelli che avevano elabo­rato e definito la règle des trois adjectifs, avrebbero visto im­pazzire i loro strumenti di controllo, se avessero potuto appli­carli al testo di Barilli, dove l ’accumulazione degli epiteti non si limita a due né a tre né a quattro né a cinque, ma arriva a sette e a otto e a dieci senza remora alcuna. Non c’è pagina in cui il fenomeno non sia rilevabile e non si ripeta diverse vol­te: appena Barilli prende la parola gli aggettivi si moltiplicano come gramigna tra le sue mani, che li dispongono a collane a festoni, che li organizzano in reticolati e organizzano intorno ad essi la sintassi. «Quand même - dichiara in un’occasione - on trouve toujours des adolescents sensibles a l ’adjectiv. Vous maîtres du substantiv, vous êtes des propriétaires et nous dei nullatenenti» (Fase. i).

Ma a parte questo piacere autentico e beffardo della nulla- tenenza (contrapposta alla «proprietà» delle idee), c’è nell’uso dell’aggettivazione da parte di Barilli un altro particolare che merita di essere sottolineato, che risulta dagli esempi forniti in precedenza e che, d’altronde, è consono alla sua più radicale intenzione stilistica, alla ricerca dello straniamento e alla rot­tura sistematica delia prevedibilità. Lo straniamento Barilli lo cerca con tutti i mezzi, tanto con quelli evidenziati in più di un’occasione da Viktor Sklovskij, e cioè con l ’invenzione di una specie di occhio stralunato e intatto come quello di Khol- stomer o di Natasa Rostova che porta ad annullare tutte le convenzioni e a ribattezzare il mondo dalle origini, ma anche con quelli più sistematicamente previsti dalla retorica classica, fino a infrangere e a mandare in briciole la struttura di attesa dei suoi ascoltatori.

C ’è, a questo proposito, una nota dei Taccuini che mi sem­bra del tutto illuminante: «Poesia - on s’y attend à la nais­sance de l ’avorton prodigieuse» (T, xvu , 30). Ogni pagina di Barilli, ogni sua immagine, ogni sua riga sembra obbedire a questo principio e adoperarsi con tutte le forze per mettere alla luce l ’aborto prodigioso, per rompere le abitudini, per

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sorprendere l ’intelletto e le emozioni, per costringere il letto­re a interrompere una linea di consuetudini semantiche. Ros­sini «nero, secco, grottesco eppure brillante, luminoso, colo­rito, tenero, trasparente, spirituale e ammantato di fantasia e di romanzo come un personaggio di Goya»; Verdi: «Allor­ché si presenta la sua faccia ardente e corrugata, e risuona la sua musica litigiosa e violenta, teatrale e spaziosa ...» (PdM,31); Debussy con «le sue povere mani fredde, passive, ema­ciate e gialle come due vecchi guanti» (DI, 82). Anche qui gli esempi potrebbero essere infiniti: determinante sarebbe, in tutti i casi, l ’emergere improvviso di uno o più aggettivi tali da rompere il campo associativo e da capovolgere compieta- mente la gerarchia dei rapporti preferenziali che in quel cam­po sembrano imporsi per forza «naturale». Ma oltre che con Bally - di cui abbiamo chiesto il sussidio come prima avevamo preso da Lotman la nozione di struttura di attesa - possiamo tradurre in altre parole la teoria dell’aborto prodigioso. La bellezza delle frasi - ci suggerirebbe Proust se volessimo pa­rafrasarlo - «è imprevedibile». Chiunque potrebbe dire che delle mani sono «fredde emaciate e gialle», ma quale legge poi, o quale «determinismo» potrebbe suggerire il quarto pre­dicato: «passive»? «La vrai varieté est dans cette plénitude d’éléments réels et inattendus, dans le rameau chargé de fleurs bleues qui s’élance, contre toute attente, de la haie printa­nière qui semblait déjà comble».

C ’è (e lo vedremo più avanti) una specie di sotterranea ra­gione e di involontaria ironia nel chiedere a Proust - all’auto­re dell’opera più complessa e monumentale della letteratura moderna - le parole e le indicazioni per definire lo stile di un autore di pochi, esili e ripetuti libretti. Il primo dei quali ve­de la luce nel 1924, è intitolato Delirama e comprende tre­dici prose, quasi tutte di argomento musicale e le cui origini (coinè si potrà rilevare dall’appendice genetica di questo vo­lume) derivano in vario modo, e con varie articolazioni, dal­l ’attività pubblicistica che Barilli svolge a partire dal 1916; quasi tutte, inoltre, hanno trovato una forma pressoché defi­nitiva sulle pagine della «Ronda», di cui Barilli è redattore con Cardarelli, Cecchi, Baldini, Spadini, Montano, Bacchelli e Saffi. « Sarebbe stato difficile - riconoscerà in anni più tardi Emilio Cecchi - trovare e mettere insieme scrittori di tenden­ze più indipendenti». Chiedersi allora quanto Barilli debba alla «Ronda» è certamente legittimo, a patto di non soprav­

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INTRODUZIONE XXVII

valutare il problema: in prima approssimazione si potrebbe sostenere che nella poetica del rondismo Barilli trovò, non diversamente da come gli accadde con altri movimenti del No­vecento, una specie di legittimazione a coltivare le sue perso­nali propensioni. E in ogni caso è da sottolineare che anche le prose comparse sulla «Ronda», per quanto rigorosamente spogliate da ogni occasionalità giornalistica, conservano tutte - in maniera più o meno esplicita — memoria dell’evento da cui sono nate: raccontano un fatto, uno spettacolo, magari fondendo insieme e rielaborando fatti e spettacoli diversi da cui Barilli ha ricavato a suo tempo le proprie «lastre». Né d’altronde, di fronte a simili fotomontaggi e alla ricerca lin­guistica molto elaborata che essi comportano, si può dimen­ticare che Barilli trova in Verdi e nella poetica degli alti e bas­si che lo stesso Verdi viene chiamato ad enunciare nel Paese del melodramma, la propria stella fissa: quanto di più lontano insomma dal frammentismo e dalla prosa d’arte sia dato im­maginare, quanto di più alieno dalla ricerca della «sinfonia» pura degli strumenti e quanto, viceversa, di più impuro, di più implicato, di più compromesso con gli «ostacoli» che Ba­rilli sia riuscito a escogitare nelle sue ricognizioni. Verdi è per lui, secondo una pagina dei Taccuini, come «la luce [che] deve trovare degli ostacoli lungo la sua strada [...] bucare i corpi, forare le superfici, piegare contro i duri massi che le ostruisco­no il cammino [...] lottare tra la massa del fogliame e rompere dentro lacerante o stanca velata» (T, xvm , 77). Barilli è tutto meno che uno scrittore della prudenza, il suo lessico - lo ab­biamo detto - può specchiarsi in se stesso, non è sempre sor­vegliato ed è soggetto a lasciare che il significato cada in tran­sitorie ipnosi davanti alla «musica» dei significanti, tanto che la sua attendibilità critica non è da misurarsi mai per episodi, ma sulle sue grandi scoperte, là dove opera, come ha detto Baldini, «una vera e propria rivoluzione [...] nei miti e nei feticci della critica verdiana». Se mai alla «Ronda» e al clima di cui la rivista reca testimonianza, Barilli deve la possibi­lità di pensare ad un libro esile e premeditatamente disconti­nuo come Delirama-, o meglio: di vedere in tredici prose, unite da sottili legami tematici e da una costante stilistica molto marcata, un «libro».

Una simile fiducia non sembra avere accompagnato in ma­niera costante Barilli, anche se II sorcio nel violino nel 1926 e la seconda edizione di Delirama nel 1944 paiono basarsi sul­lo stesso criterio genericamente antologico. Ma basta scorrere

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gli indici di questi libri e poi anche quelli del Paese del melo­dramma e del Verdi (già in bozze nel 1946 e mai pubblicato) per rendersi conto che il problema è più complesso. Chi vorrà a questo punto rifarsi alle tabelle, approntate da Luisa Avel- lini e da Andrea Cristiani e pubblicate alle pp. 7 sg., 49 sg., 292 sgg., vedrà quanto fitto e intricato sia il passaggio dall’uno all’altro dei volumi di argomento musicale; e se poi cercherà di precisare (servendosi delle appendici genetiche) il modo in cui lavorava Barilli e seguirà l ’itinerario compiuto dai singoli nuclei che si aggregano gli uni con gli altri o si decantano o tor­nano nuovamente a disgregarsi e a produrre — intorno a sé — «corone» differenziate, potrà avere la sensazione di trovarsi di fronte a una specie di pioggia di frammenti, che vengono di volta in volta attratti o respinti da diversi campi magnetici.

Un simile modo di lavorare, una simile spregiudicata riu­tilizzazione di immagini, di frasi, di interi periodi, che ven­gono innestati su qualsiasi altro tronco, può apparire, soprat­tutto per quanto riguarda l ’attività giornalistica di Barilli, co­me un espediente di routine: se è vero che un articolo deve avere la capacità di rotolare su se stesso (cfr. T, l x v i i , 140), questo non pregiudica la possibilità di costruirlo con materiali di varia provenienza e di avviare il suo movimento di rota­zione con una o più spinte esterne. Che le cose stiano anche cosi non ci sono dubbi: Barilli, che teorizza la pigrizia come forma particolare dell’energia creativa (cfr. T, l x , 140), è pi­gro, specula su se stesso, cerca di estrarre il massimo profitto da ognuna delle sue invenzioni. Ma una simile interpretazione appare, nel momento stesso in cui la si enuncia, lacunosa e riduttiva soprattutto se riportata ai libri: qui i conti diven­gono immediatamente meno semplici. Si può pensare certo che Barilli utilizzi alcuni frammenti esemplari confidando poi nella loro potenziale vitalità, nella loro forza di produrre te­sto - ritratto o racconto o libro che sia - ma resta poi da spie- gar? quella specie di caparbio e misterioso accanimento ad uti­lizzare ripetutamente alcune carte fisse e, nello stesso tempo, a servirsi di un «mazzo» relativamente povero, se paragonato al complesso dell’attività critica di Barilli, tanto che si ha qua­si l ’impressione di assistere ai tentativi ripetuti di risolvere un gioco di pazienza, di cui non conosciamo le regole e che, pure, ad alcune regole sotterranee sembra attenersi, dal momento che le stesse figure vengono giocate e rigiocate e inserite, di volta in volta, in universi modificati.

Quella impressione si fa anche più netta, quando, leggendo

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INTRODUZIONE XXIX

i Taccuini, vediamo affiorare tutta una serie di indici proget­tuali, di libri ipotetici che Barilli edifica e poi lascia cadere, mettendo alla prova, nelle varie circostanze, il suo spirito di calcolo e di combinazione, come se fosse impegnato nella solu­zione di un enigma, nell’abbattimento di un ostacolo che gli si presenta davanti periodicamente e non si lascia aggirare. E se talvolta un titolo come Piombo e argento — che riaffiora in di­verse occasioni - può far pensare a una specie di accettazione pragmatica e astrutturale del doppio binario di scrittura, con il libro collocato al culmine di un processo lento e laborioso di raffinazione alchemica, altrove l ’intreccio sembra più com­plesso, la soluzione più sfuggente; il calcolo e il successo - più che a un passaggio stilistico o a una modificazione dei «regi­stri» - paiono allora affidati alla riuscita degli incastri, a un sofisticato sistema di corrispondenze interne, di simmetrie cercate o distrutte. Insomma, in una simile prospettiva, se­guendo Barilli tra i libri scritti e quelli soltanto pensati, si finisce col vedere crescere davanti a sé e prendere forma una fisionomia inquietante e delusa, quella di uno scrittore che cerca ripetutamente di scrivere lo stesso libro e che, ripetuta- mente, se lo vede sfuggire tra le mani perché non riesce a di­segnarne la pianta.

A qualcuno potrà sembrare che in questa luce Barilli finisca per assomigliare un po’ troppo a un personaggio fittizio, ma­gari a un personaggio di Borges, costruito senza troppi scru­poli e con illecite intenzionalità ermeneutiche. Ma, a parte il fatto che le nostre letture si svolgono sempre all’ombra di «fantasmi retroattivi» e che inutilmente cercheremmo di scol­lare quei fantasmi dalle pagine in cui finiscono per infiltrarsi, non c’è dubbio che a quel personaggio vada riconosciuto il ruolo di un analogon: costruito appunto, e fittizio, ma di cui bisognerà poi vedere - come ci ha suggerito Max Black — se ricade su se stesso o se, viceversa, ci consente di gettare una nuova luce sui problemi. E allora rimettiamoci alle sue spalle, alle spalle di questo «autore senza libro» e che pure tenta ri­petutamente di edificarne uno: risulterà subito evidente, con­sultando ancora le appendici genetiche, che «fare il libro» per Barilli sembra ridursi a una pura e semplice attività di montag­gio e di combinazione. Per il libro — senza lo stimolo dell’oc­casione immediata, dell’evento teatrale o della cosa vista - Barilli non riesce materialmente a scrivere; corregge magari, ma si tratta di correzioni di dettaglio: gli incastri vengono cer­cati a forza facendo ruotare gli stessi pezzi, spostandone la col­

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locazione, introducendo - al caso - piccoli tasselli. Ma basterà «rivoltare» il tessuto cosi composto, basterà leggere un indice diverso per scoprire le cuciture.

Una conferma viene - io credo, e clamorosa - anche dal li­bro più strutturato di Barilli, da quello in cui più intensa e percettibile si fa la sua volontà architettonica: Il paese del melodramma. Barilli, quando lo mette insieme, ha un’idea molto precisa: quella di disegnare una specie di mappa fanta­stica del melodramma italiano nell’Ottocento. Verdi sarà il perno intorno a cui dovranno disporsi tutte le altre regioni, anche quelle disegnate oltre i confini italiani; e Verdi ruoterà a sua volta intorno a quella che, per Barilli, è la sua opera più esemplare e rappresentativa, più bruciante, più moderna, tan­to da apparirgli in una nota (con il Wozzeck) una possibile pietra di paragone per il programma surrealista di André Bre­ton: Il Trovatore (cfr. T, l x , 115). E non basta: perché sullo sfondo, alle spalle di Verdi, potrà disporre Parma e la sua campagna, alleando cosi al suo mestiere di ascoltatore anche il suo talento autobiografico e l ’occhio che ha esercitato nei viaggi. Ma «ben altra, e più profonda - continuava Walter Benjamin quando ho smesso di citarlo - è l’ispirazione che porta a rappresentare una città nella prospettiva di un nativo. È l ’ispirazione che si sposta nel tempo e non nello spazio. Il libro di viaggi scritto dal nativo avrà sempre affinità col libro di memorie: non invano egli ha vissuto in quel luogo la sua infanzia». E altrove: «smarrirsi in una città, come ci si smar­risce in una foresta, è una cosa tutta da imparare». Chi legge la prima parte del Paese del melodramma ha nettissimo il sen­so di trovarsi davanti agli esiti e alle circonlocuzioni di un simile, geniale smarrimento: ci si muove tra ombre, imma­gini leggendarie, si procede senza meta, all’interno di un «la­birinto», che - come ha osservato Szondi commentando Be­njamin - è «nello spazio ciò che nel tempo è il ricordo». Poi, di cylpo, quella specie di atmosfera incantata si rompe e la struttura resta al di sotto del progetto: al disordine guidato e apparente tiene dietro una serie di quadri discontinui, ma­gari splendidi, ma che appaiono, nel loro insieme, come i resi­dui di quel progetto che avevamo intravisto o che è stato som­merso o che non è riuscito ad affiorare. Ma è allora che alle nostre impressioni di lettura giunge perentoria, e in parte sor­prendente, la garanzia delle fonti reperite (per il secondo vo­lume di questa edizione delle opere) da Luisa Viola: anche la prima parte del Paese del melodramma è nata sulle colonne dei

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INTRODUZIONE XXXI

giornali ed è stata ottenuta attraverso una serie di collages più o meno abili e mimetizzati; anche il Commiato, con cui Barilli cerca di chiudere il libro e di imporgli il sigillo di una struttura unitaria e risolta, non è che l ’iniziale e identico asterisco di due articoli comparsi nel 1927 (il primo sul «Tevere» e il secondo sulla «Nazione»). Il libro sfugge cosi ancora una volta tra le maglie che la sapienza combinatoria di Barilli ha tentato di in­tessere: resta perpetuamente «a venire», è l ’opera incompiuta iscritta nel destino di uno scrittore che la insegue con accani­mento e che pure, di fronte ad essa, appare paralizzato e come incapace di produrre scrittura e di ricavare da sé i materiali necessari alla costruzione.

Quando, nell’immediato dopoguerra, Barilli tenterà la car­ta Verdi, non farà che riproporre II paese del melodramma con alcune non trascurabili integrazioni. Ma allora sarà dile­guata anche l ’altra segreta possibilità di chiudere il proprio destino creativo in un organismo esemplare, possibilità che egli aveva continuato a nutrire dentro di sé e a cui aveva dedi­cato - lo sappiamo - i voti e le attese più fervide: la sua terza opera in musica.

A più riprese, negli ultimi Taccuini, Barilli indica il 1943 come una data cruciale, come l’inizio della sua parabola di­scendente: il motivo di una simile e ripetuta indicazione re­sta tuttavia enigmatico fino al Taccuino l x v i i , che copre l ’ul­timo anno della sua vita. È allora che, rivolgendosi a un ignoto interlocutore, Barilli racconta: «... nel 1913 ho scritto la mia seconda opera Emiral - E li mi sono fermato (c’era la guer­ra) - Adesso una pausa di 28 anni.

Nel 1943 decisi di liberarmi del giornalismo e della critica per dedicarmi esclusivamente alla composizione di una terza opera. Comprai un pianoforte nuovo, molta carta da partitura - affittai una stanza a Siena (Anche allora c’era la guerra).

La mia stanza si trovò incastrata fra i due eserciti, gli alleati e i tedeschi, in più le cascarono addosso i partigiani e i repub­blichini in conclusione scomparvero il pianoforte, la carta da partitura, e anche la stanza con tutte le mie robe. Cosi scom­parve ancora prima di nascere la mia terza opera. In quei gior­ni ero venuto [a] Roma per liquidare la mia posizione di cri­tico giornalista ecc. - ma prima che lo facessi io, me la fecero gli altri questa liquidazione a Roma - Degradazione depredato vilipeso messo al bando - spogliato cestinato e buttato nudo sulla pubblica strada - Era l ’inverno - mi domanderete "Ma

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XXXII MARIO LAVAGETTO

chi è stato?” Erano in tanti che non ho visto più nessuno. Quindi niente più composizione e musica nella mia ultima vita. Dopo la guerra, si spiegò su di me, scoppiando con la sua spregevole [illeggibile] conflagrazione la guerra civile che dura sino ad oggi» (T, l x v i i , i o - i i ).

Nella nostra prospettiva di lettori sarebbe senza dubbio un errore sopravvalutare questa data e drammatizzarla oltre mi­sura: la pubblicazione, anche parziale, dei Taccuini dimostre­rà, oltre ogni dubbio, che esiste, come ci aveva detto D ’Amico, una linea continua tra il primo e l ’ultimo Barilli. Si vedrà allo­ra che 1’«Orfeo in pantofole» è un «costume» di vecchia data e che appare già negli anni ’25-26; allo stesso modo si tro­veranno aforismi, note, riflessioni, epigrammi che più tardi verranno ricopiati alla lettera o con piccolissime varianti, tan­to che la fisionomia della vecchiaia potrà sembrare, in alcuni casi, come il risultato di una previsione «lunga».

Eppure quella data, ripetutamente e ossessivamente sotto- lineata da Barilli, è davvero fondamentale e apre l ’ultima sta­gione, quella che si deposita in forma di nebulosa negli ultimi otto Taccuini (dal l x al l x v i i ) e che si delinea poi come co­stellazione fermissima nei Capricci di vegliardo.

I quali ultimi, è il caso di dirlo, rappresentano certo un eccezionale e drammatico esercizio di stile, ma finiscono col- l ’apparire, a chi conosca l ’intero «continente della vecchiaia», come un esito dove la misura e l ’equilibrio sono stati ottenuti a scapito dell’intensità e dove è andata smarrita la nota più tragica e sconvolgente dei Taccuìni, e del loro corso farragi­noso, e cioè il passare del tempo scandito dai successivi com­pleanni e dal restringersi progressivo del campo visuale, dal fissarsi del diario intorno a pochi punti obbligati, a pochi temi battenti.

Dunque: 1943. Barilli cerca di spogliarsi di quel guscio che - lo abbiamo visto - si era costruito subito dopo Emiral. Vuote scrivere la sua terza opera, riportare alla luce il com­positore. Circostanze esterne — sostiene - glielo impediscono. Continua a scrivere sui Taccuini che assumono, a partire da questo momento, un ritmo temporale più definito, che conti­nuano a essere ricettacolo di tutto (appunti, conti della spesa, inventari della biancheria, giudizi critici, ecc. ecc.) ma che hanno un tono sempre più privato e accolgono querele, la­mentazioni, invettive, bilanci in rosso, recriminazioni. Orfeo in pantofole o Giobbe: sono queste le ultime parti di Barilli, quelle in cui torna più ripetutamente in scena, per parlare

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INTRODUZIONE XXXIII

sommesso e ironico oppure per declamare se stesso e la pro­pria miseria. Non c’è, in quanto dico, ombra di giudizio: è solo che anche qui, quando sfiora il diario intimo, Barilli ha bisogno di qualche mediazione tra sé e la sua voce, tra sé e la sua scrittura. Il ventaglio dei temi, lo dicevo, si chiude pro­gressivamente e tende a restringersi all’osservatorio stesso di cui parla Barilli.

«La chambre de Giobbe. Ma chambre. La misère. J’y ai fai les racines. La chambre de Proust - les papiers sur le plan- chit - les savates le desordre accumulé» (T, l x v i i , 180). In realtà più che alla camera foderata di sughero, in cui lenta­mente e instancabilmente viene edificata la Recherche, si può pensare a un rifugio ben più disertato e miserevole. Perché se Proust è senza dubbio presente all’immaginazione di Barilli e il suo nome è uno dei pochi a galleggiare in taccuini spogli di cultura letteraria, è altrettanto indubbio che le famiglie di appartenenza sono diverse: lontanissima quella di Barilli da ogni forma di dedizione esclusiva e invece precaria, invece dis­sipatrice e momentanea come quella che trova nel nipote di Rameau il suo prototipo: c’è in lui la stessa eccedenza di ta­lento e la stessa indisciplina; il suo genio - reale e vorace - vive alla giornata ed egli chiude la sua esistenza nella dispera­zione e nell’incuria, in mezzo ai topi e agli scarafaggi, nel feto­re del proprio corpo: «la sudiceria c’est un refuge, la protec­tion de ma pureté, de ma vieillesse refractaire dans mon odeur de carapace» (T, l x i v , 5). «Non ho più sicurezza, né autono­mia sperduto in un baratro, in una selva, in una gora di nera incertezza. Tutto il coraggio crolla» (T, l x v i i , 43).

E allora se il diario è, come ha detto Maurice Blanchot, un mezzo per sfuggire alla solitudine che aggredisce lo scrittore attraverso la sua opera, in questo diario - scritto oltre ogni opera possibile — esplode una tremenda e funebre solitudine esistenziale ed è forse qui, in queste pagine approssimative e necessariamente incompiute, in cui affiorano progetti, in cui si sommano i materiali più disparati — che alternano l ’indirizzo o il numero di telefono al grido ossessionante - è qui che Ba­rilli ha depositato la propria immagine più autentica e sinistra. Una volta pubblicato questo diario della vecchiaia apparirà, io credo, come una testimonianza conturbante e getterà una luce nuova, più intensa e più livida non solo sui Capricci, ma su tutto l ’itinerario che ho cercato sommariamente di ricostruire. La voce di Barilli è, in queste pagine, singolarmente spezzata. Come è sua consuetudine, nei Taccuini mescola l ’italiano e il

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francese, due lingue di cui - in anni lontani - aveva definito le caratteristiche: le mescola nella stessa pagina, ma anche nello stesso appunto, nella stessa frase dove di colpo lascia rigalleg­giare una parola «altra». E se a volte abbiamo la sensazione di trovarci di fronte a un ripiego, altre volte l ’intenzionalità è netta e sembra inseguire effetti minimi, ma significativi, di straniamento. Inoltre, in queste pagine della vecchiaia si as­siste al collaudo di una forma parzialmente inedita di regi­strazione: Barilli procede per istantanee rapidissime, riduce in briciole il testo e lo frantuma con una serie di lineette molto ravvicinate e martellanti che mettono la scrittura diaristica al riparo da ogni «chirurgia grammaticale» e che, in simile con­testo, rappresentano l ’equivalente funzionale dei puntini di so­spensione per la mimesi del linguaggio parlato.

«Vagabondo in se stesso» (T, l x v , 56), Barilli sembra non preoccuparsi di altro che di lasciare cadere alle proprie spalle una serie di parole, che costituiscono poi la sua «traccia» e il cui «disordine» diventa (anche con premeditazione) una spe­cie di contromarca dell’autenticità. E se l ’asintattismo, cosi frequente negli ultimi Taccuini, può derivare dalla stanchezza della mano, dall’opacità, dalla miseria e forse anche dall’uso di stupefacenti, è poi vero che Barilli finisce per trovarvi un sussidio: lo «razionalizza» in qualche modo, e se ne serve co­me di un espediente stilistico, anche se non sempre appare in grado di difenderne l ’efficienza. Certo è che tra frammenti im­possibili, lampi, frasi interrotte, ripetizioni il «tremolio del tempo» si rappresenta, a volte, in maniera meravigliosa e rap­presenta il passare degli anni e ravvicinarsi della morte, quasi «dietro la lingua», tra i rumori di fondo che spesso si sovrap­pongono alla registrazione. È allora che il passato (verso cui Barilli si è rivolto sporadicamente) riemerge sotto forma di schegge vertiginose e deliranti. « J’ai soif, une soif terrible d’é- couter le chant de mon opera» (T, l v i i , 46). Torna la figura di Danitza, la cui lontananza è ormai insopportabile (T, l x v i i , 70). «L’amore - scrive nell’anno della morte - è quello di dare tutto di sé e della propria vita e del proprio avvenire perdere tutto - e di cercare per liberarsi di questo impegno del cuore inutilmente durante quarant’anni, senza fine, fino alla morte - questo è amore - e odio insieme» (T, l x v i i , 64).

Torna anche, attraverso le ombre di una mente «che è co­me un vetro smerigliato» (T, l x v i , 57), la figura, in preceden­za solo accennata, del padre con cui Barilli si identifica e di cui (poco prima di morire) descrive la fine, facendone cosi una

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INTRODUZIONE XXXV

specie di Bergotte, il luogo di un oroscopo senza scampo: «Je suis, sur place, comme mon père jadis a mon age - Et comme etait-il? Ce n’etait plus lui - c’était un rien de lui même - pres­que sans bouger — presque sans tourner l ’œil [...] ne parlait plus. Il ne dressait pas son regard - pour ne pas voir - une casquette sur la tête - assis et courbé vers la terre - on aurait dit qu’il n’ecoutait plus - et ne regardait pas pour manque de vie [...] Au contraire c’était la luciditée atroce - et la revela­tion impitoiable de la veritée - ultime - splendide, comme dans l ’ipnose - de la veritée vraie - inébranlable - le fond réel brûlant dans tous les cas de sa vie - le figures - les voix - le long de son passé - avec une actualitée découverte (scoper­chiata)» ( T , LXVII, i i o - i i i ) .

M ARIO LAVAGETTO

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EUGENIO MONTALE

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Le parole e la musica (1949)

Le parole messe in musica, le parole cantate non piacciono ai piùraffinati cultori dell'arte dei suoni. Fra coloro che ancora le sopportano,molti preferiscono le forme corali, in cui la parola sparisce, altri amano chedalla voce giunga solo l'arabesco sonoro, senza che alcuna sillaba sidistingua, altri ancora (i meno) vorrebbero che la parola musicatagiungesse a noi sempre scandita, chiara, intellegibile. Sono i partitanti delcosì detto «recitar cantando», italianissimo precetto. Mi unirei volentieri aquesti ultimi se il gioco valesse come suol dirsi la candela, se fossi certo chela musica può in certi casi far sprizzare dalla poesia, che in se stessa è giàmusica, una musica di secondo grado degna, o non indegna, della prima.

So di sfiorare un problema sul quale esiste tutta una letteratura; chepurtroppo conosco solo in minima parte. È musicabile la poesia? E qualgenere di poesia? E fino a che punto? E in quale misura le parole dovrannoconservare la loro autonomia e lasciarsi intendere dall'ascoltatore? Ingenere la recente tradizione operistica ha ignorato il problema e haconsiderato la parola come il necessario pretesto a far sì che lo strumento«voce umana» possa entrare nel gioco degli altri strumenti e farsi valere.Ma esiste anche una scuola che va dai nostri grandi cinquecentisti fino aDebussy e magari fino allo Schönberg di Pierrot lunaire, e che pretende diavere un rispetto assoluto della parola, di creare ad essa il giustoprolungamento a alone sonoro, senza distruggerne l'individualità. Questiteorici, più o meno consapevoli, del canto recitato hanno però finito conl'ammettere che solo una «certa poesia» è musicabile le la scelta dei lorotesti rivela chiaramente ch'essi si sono quasi sempre posti sulla via delcompromesso. Musicavano una volta ballatette, poesiole d'Arcadia,strofette scritte apposta per la musica; affrontano oggi drammi di scarsovalore poetico (Pelléas et Mélisande) o liriche di una vacuità addiritturainconcepibile, come la suite del Pierrot lunaire, opera di un Albert Giraudche deve al musicista viennese il suo insperato repêchage. Il peggiorpartito fu quello preso dai musici che scrissero da sé i propri testi o libretti:incerti fra la doppia vocazione, poetica e musicale, essi si lasciaronoipnotizzare da parole orrende e solo si salvarono permettendo che le vociandassero sommerse nella selva del grande golfo mistico. Fa eccezione,parzialmente, Riccardo Wagner, ma ciò avviene per la superba natura delsuo genio, e non perché in lui non si avverta una soverchiante prepotenzasubìta dalla parola.

Se dal piano delle scuole e delle teorie ci spostiamo all'osservazionedei fatti, noi vediamo che almeno dall'Ottocento in poi un sapientecompromesso regola tutte le esecuzioni di musica vocale. Fatta eccezioneper moltissimi Lieder o romanze da camera, o per qualche recitativod'opera comica, o per alcuni superbi frammenti del Boris, la soluzionepratica del difficile problema è sempre la stessa; le parole ci sono e non cisono, si sentono e non si sentono, aiutano o danneggiano l'effetto, a

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seconda dei casi. Si è formata, anche in questo campo, una tradizione che imigliori interpreti rispettano quasi d'istinto. E doveroso far sentire leparole in certi miracolosi «attacchi» che anche poeticamente hanno unafreschezza primaticcia degna del nostro Duecento («Casta Diva cheinargenti...», «Là rivedrà nell'estasi – raggiante di pallore...») o all'iniziodi qualche incalzante proposta tematica («Fuggi fuggi, per l'orrida via –sento l'orma dei passi spietati...»). In altri casi tutto è affidato all'intuizionee alle possibilità dell'artista. I ghirigori acrobatici di Rosina non possonoessere pronunciati come le sillabe di un Lied di Schubert; è giusto cheVasco de Gama liberi dal vago tremolo orchestrale le suggestive parole «Oparadiso dall'onde uscito», ma è altrettanto lecito che il grande navigatoreci nasconda gli ulteriori sviluppi della sua sorpresa, specie quand'essirestano affidati alla sola forza di penetrazione del si naturale o del do soprale righe. L'invettiva di Rigoletto «Solo per me l'infamia» è un suono di gongpiù che un suono di sillabe umane: guai a pronunciare troppo, guai aturbare la piena rotondità di quel rombo da giorno del Giudizio. Viceversa,tutte le volte che un tema è annunciato in anticipo da uno o più strumenti,l'attacco delle prime parole deve riuscire nitidissimo. Quando il vecchio SirGiorgio, nei Puritani, incide a gran voce «Il rivale salvar tu puoi...» ilpubblico è felice di sentire incarnarsi in parole un disegno melodico a luigià noto: ma subito dopo le acque si intorbidano e il tema, ripreso da unavoce troppo uguale, quella di Sir Riccardo, non riesce a far corpo con leparole come «Fu voler del Parlamento» che fanno veramente cascarl'asino. Non che sia un verso peggiore di tanti altri; ma le parole troppoastratte o troppo tecniche o troppo specifiche sopportano male la musica;ed evidentemente questo quasi carducciano parlamento non fa eccezione.(E una delle tante meritate disgrazie dell'istituto parlamentare; malasciamo correre...) I problemi della parola in musica, del recitar cantandoo del cantare non recitando affatto restano dunque aperti e insolubili:Mussorgski, Debussy e alcuni autori di canti negri sembrano, fra i moderni,coloro che meglio sono riusciti a legare il suono alla parola, ma la loropersonalissima soluzione non può valere per tutti. Sono esistiti, e speriamone sorgano altri in avvenire, grandissimi musicisti del teatro che si servonodella parola scritta come d'un semplice punto d'appoggio: Mozart, Bellini eVerdi, per esempio. Il loro ideale non era quello di Strawinski, una linguamorta, un testo latino quasi indecifrabile al gran pubblico, ma un discorsochiaro e neutro al quale si potesse far violenza. Ciò resta vero anche seMozart amò i libretti dell'abate Da Ponte e Bellini quelli di Felice Romani.

E Verdi? Si è un poco esagerato sugli orrori delle parole da luimusicate. L'orma dei passi spietati, tristamente famosa, non riesce amuovermi a sdegno. Guai se leggessimo Shakespeare a questa stregua: nonvenitemi a dire, per carità!, che l'orma si vede a non si sente. D'altrondeanche i vecchi libretti, fatti apposta per essere musicati, confermano,quando toccano qualche espressione riuscita, che poesia e musicacamminano per conto proprio e che il loro incontro resta affidato a fortuneoccasionali. Peggio quando raggiungono involontariamente il clima delsurreale. Conoscevo un uomo (un uomo in tutto il resto normalissimo) cheprovava il bisogno di ripetere da cento a centocinquanta volte al giorno unverso che era diventato il suo intercalare favorito: «Stolto! ei corre allaNegroni!». Lo diceva anche al telefono, in conversazioni di caratterecommerciale. Quando gli rivelai che si trattava della Lucrezia Borgia egliimpallidì, geloso del suo segreto, e mi disse che mai avrebbe sentitoquell'opera per non provare la delusione di una musica soprammessa alle

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sue «divine parole». Scansato da tutti come un appestato, egli finì perstringere amicizia con un tale che ripeteva a intermittenza «La nostratomba è un'ara» (variante della foscoliana «vostra tomba») e con un terzomaniaco che aveva scelto il più lungo intercalare ch'io ricordi: «Speriamodi morire prima che le Pleiadi si colchino.» Doveva essere un classicista aspasso, un professore in pensione. I tre uomini, vistisi porre al bando per laloro incorreggibile, benché innocua ed epigrafica, ecolalia, finirono perincontrarsi clandestinamente in una camera d'affitto dove potevanoemettere a ripetizione il loro verso preferito; e dove poi (il fatto avvenneuna quindicina d'anni fa) furono arrestati, accusati di congiurare contro ilregime e proposti per il confino.

Dopo tale disavventura il trio si sciolse e oggi non saprei dire sequalcuno dei suoi componenti sopravviva. Inconsapevoli testimoni dellamagica autosufficienza della Parola, i tre sventurati sarebbero assaisorpresi di riconoscersi in uno scritto che sfiora, ma non pretende dirisolvere la vessata questione dei rapporti, coniugali ed extra-coniugali, trail Verbo e la Musica.

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Paradosso della cattiva musica(1946)

a Massimo Mila

Il primo teatro in cui io abbia ascoltato a lungo e col dovuto profittouna sufficiente quantità di cattiva musica non era un teatro ma uncapannone stile liberty provveduto di un piccolo palcoscenico: il caffèristorante del Lido d’Albaro, ai tempi della mia prima gioventù. Al tavolino,succhiando la cannuccia di una bibita, mentre lo sguardo correva sulleonde giallognole oltre le vetrate e seguiva il fumo dei piroscafi al largo, sipotevano tener d’occhio, s’intende con un occhio solo, gli allegri sberleffidella Mascotte o della Figlia di Madama Angot, abbandonarsi alladisperazione di Loris Ipanof o alle prestigiose contraffazioni musicali diLeopoldo Fregoli. L’ambiente era adatto, il pubblico rozzo, conciliante esincero, la natura che spaziava intorno e il grande viale che percorrevo nelviaggio di andata e ritorno (la passeggiata a mare della Marinetta), tuttoformava la cornice adatta a una buona (o meglio cattiva) educazionemusicale. La cattiva musica, infatti, a differenza della buona, non necessitadi ottimi interpreti ma richiede un concorso di circostanze favorevoli che avolte solo il caso mette insieme. Un esempio può bastare per tutti. Unasera, da Radio Amburgo, udii una voce profonda intonare un bellissimoLied che mi pareva di conoscere e non sapevo identificare. Ci pensai su alungo, poi di colpo scopersi l'incredibile verità. Si trattava nientedimenoche di Ponchielli, si trattava del canto del «feral marito» Alvise Badoero,eseguito in tedesco e in un tempo sbagliato, lontanissimo dalle indicazionidel metronomo. E l’effetto era irresistibile.

Potrei continuare a lungo, potrei insistere su certa musica scritta otrascritta per banda, o almeno su quella che soltanto in una veste e in unasede più proprie rivela pienamente la sua efficacia; ma forse i lettori hannogià capito dove voglio parare. È triste confessarlo, e tuttavia penso che siaun dovere verso i molti che la pensano come me e che non osanoesprimersi credendosi negati alla sensibilità dei suoni: amo la cattivamusica, la musica in cui il destino non batte alle porte e in cui i temiconduttori sono ripetuti trenta o quaranta volte, certo per una immotivatapresunzione della nostra sordità; amo la cattiva musica, o meglio la musicache la frateria non sempre disinteressata degli specialisti o dei musicanti diprofessione proclama pubblicamente tale.

Dico pubblicamente perché per i membri della gilda musicale, comeper i gesuiti e per i grandi politici, esistono due verità: una privata estrettamente confidenziale e un’altra per il grosso pubblico che si vuoleeducare al sublime e al quale soprattutto s’intende propinare sottol’etichetta dell’eterno e del classico ogni sorta di esperienze nate in odio alleMuse. I musicisti intelligenti (ce n’è) sanno benissimo che una parte dellacattiva musica di ieri, di quella ch’è rimasta in giro dopo l’energicastacciatura del tempo, non è affatto cattiva o trascurabile o priva disignificato; lo sanno, ma si guardano bene dal dirlo nei loro congressi etanto meno lo scrivono nelle loro riviste; lo dicono solo agli amici profani,in rari momenti di sincerità e dopo essersi guardati sospettosamente

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intorno, per paura che qualcuno stia ad ascoltarli. Amano anch’essi,gl’infelici!, la cattiva musica, ma la carriera, la professione, la stessaresistenza ch’essi trovano in sé, impedisce loro di proclamare questa verità.E finiscono così per negare l’evidenza che si impone alla felice ignoranzadei non iniziati: che in nessun’altra arte, come oggi in quella dei suoni, ildono, la natura, la scintilla che non si acquista con lo studio sono sacrificatialle ricerche della tecnica, alle trouvailles del mestiere e del laboratorio,alla parola d’ordine delle conventicole.

La buona musica e la cattiva hanno del resto caratteri assai diversiche finora non sono stati oggetto di attento studio. La musica buona oeletta ha bisogno di teatri, di auditori, di golfi mistici o di sale da concertoin cui i misteri dell’acustica non siano più tali; ha bisogno di interpretid’eccezione, possibilmente stranieri, meglio se tedeschi; ha bisogno diguide tematiche, libretti-programma, prefazioni e introduzioni dascodellarsi volta per volta; ha bisogno di abbonati, di clienti e di patiti; habisogno insomma di una straordinaria montatura culturale, ed ènaturalmente materia di mercato, merce che dà da vivere a tutto un mondoche effettivamente non potrebbe vivere in un’altra maniera. Soprattuttoessa ha bisogno di organizzazione e di ritualità. Ci si reca al concerto deldivo o all’operina d’avanguardia o alla salmodia per voce recitante tam-tame clarinetto come si va in chiesa, e anzi con costrizioni più rigide, perché inchiesa, la domenica, le messe si dicono ogni mezz’ora; si va insomma asentire la buona musica in condizioni d’animo tali che escludono a priori lasorpresa, l’imprevisto, il caso, che escludono, cioè, quella condizione dipassività ricettiva e gratuita che meglio permette di cogliere il segreto dellacreazione artistica. Un pezzo come la Primavera di Grieg sarebbe forseintollerabile in una sala da concerto, né io ricordo di avervelo mai sentitoeseguire. Ma fate ch’esso vi giunga dalla casa di faccia una mattinad’inverno, attraverso gl’incerti annaspamenti di un oscuro dilettante, e visentirete veramente sgelare il cuore, come avviene nel Pan di Hamsun ecome non avviene, oh no, nelle esibizioni dei più illustri concertisti.

Il vantaggio della cattiva musica è infatti ch’essa (piacendo a Dio) cisoccorre a tutte le ore del giorno e della notte. Si giova anch’essa di unambiente adatto e di un pubblico educato (in questo caso ineducato), ma ilsuo ambiente non è mai prevedibile né calcolabile, potendo essere il teatrodi provincia, il caffè, il baraccone, la nostra stessa stanza invasa dalle ondehertziane o dal canto notturno di un ubriaco. Inoltre la cattiva musica nonè soggetta a canoni interpretativi violando i quali si possa passare pergrandi restauratori e scopritori. Accetta, sollecita forse, tutti gli arbìtri, machi commette tali arbìtri non è portato in trionfo come accadde a quelgiovane direttore contemporaneo che «avendo scoperto Verdi» (sic) eavendolo eseguito assai peggio degli oscuri maestri... omissis omissis, hafatto versare fiumi d’inchiostro e ha profondamente commosso i nostricritici. Povero Verdi, tenuto in quarantena dagl’intellettuali fino a ventianni fa malgrado l’entusiasmo popolare che lo ha sempre accompagnato,promosso poi alla schiera dei musicisti tollerabili per l’opera sua piùeclettica, il Falstaff, sopportato anche in qualche spartito che come ilMacbeth ha avuto il battesimo del Festival di Glyndebourne; povero raucocigno bussetano messo prudentemente da parte, oggi, come musicista suigeneris, quasi che tale non fosse l’irriducibile situazione dei più grandiartisti! Mi dicono che il recente astro inglese Benjamin Britten abbia fattotanto di cappello alla Traviata; ma chi persuaderà certi amici che so io,convinti che stile, stilizzazione e noia siano altrettante equivalenze

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algebriche? Chi li convincerà che la musica dei concerti contribuisce inparte minima, quasi infima, all’educazione dell’uomo d’oggi – in confrontoall'«altra musica», alla musica dei boschi e del mare e della vita, alla qualeappartengono di buon diritto anche i più alti vertici di Gluck e Musorgskij,di Wagner, di Verdi e del migliore Debussy?

Mi accorgo che ho lasciato nella penna le cime maggiori (Bach,Mozart) e che ho parlato soprattutto di musica teatrale o impura, perché èquella di cui ho più diretta esperienza, quella che non può morire senzatrascinare con sé la musica pura, a lei legata da molti fili; ma ritengo chevolendo si potrebbe allargare il discorso, si potrebbe postulare l’esistenza diuna musica senza aggettivi che comprenderebbe tanto El relicario eStormy Weather quanto certi angosciosi frammenti di Schönberg cheRoman Vlad mi ha fatto sentire recentemente a Roma e che per essere piùpoesia che musica sono immediatamente accessibili a chi senza esseremusicista conosca i caratteri e le forme della lirica che va da Rimbaud aTralci. E forse non farei che contrapporre la musica geniale alla musica diapplicazione, Padilla a Respighi, la Chovanščina al Faust di Busoni, e difronte a questa lapalissiana verità mi si chiuderebbe la bocca, accusandomidi incompetenza, confusione di «generi», sensibilismo dilettantesco,antistorico, ecc.; salvo poi riconoscere tra loro, a porte chiuse, i cariprofessionisti, che nello scorso secolo pianismo da concerto e sinfonismoda grande orchestra hanno immiserito e soffocato la musica facendoneun’arte che si può imparare nei conservatori e che più tardi la reazione aquesto andazzo (piccoli complessi orchestrali, ricerche puramentetimbriche, falsarighe di testi letterari ipersquisiti) è stata condotta confreddezza polemica, da gente che per lo più era nata per seguire la vecchiastrada, sulla quale non si rassegnava all’epigonismo. E a questo puntol’onesto ignorante, l’amatore della «cattiva» musica, deve concludere chepura o impura, facile o difficile, la musica viva di domani sempre meno civerrà da musicisti di clan, da fanatici; così come non ci verrà la poesia didomani dai letterati che frequentano le «case della cultura» e i congressisulla ricostruzione spirituale dell’Europa.1

Sono convinto che anche Claude Debussy, grande musicistasoprattutto quando scoperse per conto suo il pianoforte, con unaprodigiosa immersione nella civiltà del suo paese, da Rameau-Couperinfino a Monet e a Renoir, amava quella che io chiamo la cattiva musica, lamusica che alcuni immemori della favola della volpe e dell’uva fingono ditrovare cattiva. Le pagine ch’egli ha dedicate a Massenet nel suo MonsieurCroche antidilettante sono intonate a ironica condiscendenza, comequalcuno ha creduto? In realtà Debussy sapeva benissimo che Manoneseguita come si deve eseguire, da cattivi interpreti francesi dell’OpéraComique, era ed è come il Faust di Gounod un’opera di stile; e sapeva chechi ha scritto la parte di Carlotta nel Werther ha capito il romanticismotedesco, e non solo quello musicale, assai meglio di tanti specialisti. A contifatti mi si potrà concedere che difficilmente Massenet si potrebbe iscriverefra i «cattivi musicisti»; e qualcuno ammetterà con me – come l’ammettevaFernando Liuzzi – che persino il povero Mascagni non ha infarcito soltantodi cose scadenti l’avveniristico (per i suoi tempi) zibaldone dell'Iris. Ma chevale? In questa materia io non amo convertire i dissenzienti, perché se essimi dessero ragione diventerei il più assiduo abbonato della Società delQuartetto. Amo, e lo dico molto semplicemente, quei musici in cui l'amor

1 Absit iniuria, caro Flora. Se l’invito non mi fosse giunto con un mese di ritardosarei venuto ad applaudirti anch’io.

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vitae non si fa uccidere dalla superstizione di un nuovo stile; li amo forseperché indicano la via che avrei voluto seguire nell’arte mia, se ne avessiuna e se la poesia fosse davvero un’arte come le altre: il che non è troppofacile a dimostrarsi...

E finirò con un aneddoto. Quando Giacomo Puccini (lirico talvoltaispirato, benché i suoi «pezzi» facciano regolarmente a pugni con la corniceche li accoglie) rivelò alla prova generale della Fanciulla del West che perottenere l’effetto di uno squadrone di cavalleria irrompente dietro le quinteoccorreva «agitare un sacco di noci di cocco», tutti rimasero stupefatti. (Aquel tempo non esistevano grandi registi e il teatro stava in piedi lo stesso.)Il maestro aveva scoperto il trucco molti anni prima, a Marsiglia,assistendo a un dramma del Grand Guignol, parlando col direttore dellacompagnia, supplicandolo e commovendolo alla rivelazione del suo nome.E del segreto s’era ricordato al momento opportuno. Anche col sacco dellenoci di cocco la Fanciulla non vivrà in eterno; ma l’episodio mi è rimasto inmente perché fa luce sulla psicologia di un uomo per cui il mondo esteriore,nella musica e fuori della musica è veramente esistito. Ho detto il mondoesteriore e dovevo dire la realtà compatta che ci presenta la vita; quella vitanella quale non si può distinguere un didentro e un difuori e che troppospesso i professionali del sublime mostrano di ignorare nelle loro opere;quella stessa che attende uno stile dagli artisti e che domanda, ma invano,di filtrare dai commerciali alambiccamenti di chi, pur facendo bottegadinanzi a un pubblico guasto e corrotto, osa sovente presentarsi nelle vestidi bigello del più puro disinteresse.

(in: Il secondo mestiere – Prose 1920-1979, a c. DiG.Zampa, Milano, Mondadori, 1996)

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Gilberto Lonardi

MONTALE, LA POESIA E IL MELODRAMMA

in “Chroniques italiennes” n. 57 (1/1999)

1. Assediato dalla musica.

Abitato e assediato dalla musica, anzi più precisamente da arie, storie,fantasmi del melodramma: Montale lo conosciamo anche cosi, aneddoticacompresa. A Genova studiava canto già da ragazzo, e poi, giovanotto, col miticomaestro Sivori. Gadda descrive lui e i suoi fratelli che cantano l'Aida su alpianerottolo ultimo della villa di villeggiatura di Monterosso. Uno di loro dirige,gli altri sono avvolti in lenzuola, accappatoi e altro da inscenamento domestico– da baraccone: e il Montale adulto, il recensore di ben altre rappresentazionialla Scala, dichiarerà sempre la sua nostalgia per un "fare teatro" più appunto"da baraccone". Cioè magari meno raffinato, ma più vicino all'aspetto storicodel melodramma ottocentesco: insomma più vicino al suo originario aspetto diteatro "di tutti". Lo stesso Montale non ne trovava un antecedente comparabilese non nel grande teatro elisabettiano cinqueseicentesco. Che era comeprivilegiarne l'aspetto di glorioso e di unico, in Italia, solido esempio diinterclassismo culturale.

Studiava, dicevo, canto: già prima di fare il soldato nella grande guerra, epoi, finita la guerra, negli anni '21-'23. Ernesto Sivori gli scoprì allora – raccontalo stesso Montale – l'assillo: cioè, diremmo noi, un misto di talento, di fervore,di mania platonica. Di fatto si sa che Montale aveva un vero istinto, perfinoistrionico, per il canto e il personaggio d'opera. E aveva una voce moltorispettabile. Una voce di basso. Il suo maestro, ex-baritono, voile scovarci escavarci una voce di baritono. Cosi lo preparò e lo iniziò a personaggi come ilLord Enrico della Lucia di Lammermoor. Come Alfonso XI di Castiglia, nellaFavorita, anch'essa, come Lucia, di Donizetti. O come il giovane Valentino,l'adolescente fratello di Margherita, altro baritono, quest'ultimo nel Faust diGounod. Ma nel '23 mori Sivori. E si spense, cosi, anche una comunqueimprobabile carriera del cantante Montale. Il quale ritrovò subito la sua voce"naturale [dice egli stesso] e psicologica" di basso. E restò comunque per sempreabitato, occupato, assediato dal melodramma.

2. Un esempio di scambio nel sistema, tra il melomane e il poeta.

È tale l'assedio, che a volte tra il Montale melomane e il Montale poeta c'èin atto uno scambio più o meno perfetto. Faccio un esempio. Tra il '63 e il '65due ombre, una neanche di un autore di teatro in musica ma semplicemente di

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un grande musicista contemporaneo, Poulenc, l'altra della poesia montaliana, lamoglie — la Mosca —, si scambiano tic e gesti in totale collaborazione. Mettiamoa fronte due "pezzi", il primo in morte del compositore francese Francis Poulenc— "Corriere d'Informazione", 1963 — il secondo negli Xenia (i madrigali inmorte della moglie, I, 10 [del 1965]):

Non ho mai capito che religion fosse la sua, ma certo Francis era un devoto diSant'Antonio, ch'egli invocava per lo smarrimento di un ombrello o per la faticosaricerca di un tassi; e sempre col dovuto successo.

"Pregava?" "Sì, pregava Sant'Antonio perché fa ritrovare

gli ombrelli smarriti e altri oggetti del guardaroba di Sant' Ermete".

Poi, s'intende, il madrigale per la moglie si completa di una cadenza gravenon concessa qui alla pagina giornalistica («"Per questo solo ?" "Anche per isuoi morti / e per me". / "È sufficiente, disse il prete"»).

3. Dal primo all'ultimo Montale.

Ma anche quando questo scambio non c'è o non è documentabile, il poetaMontale, o senza dircelo, o dicendolo — come fa l'ultimo Montale —direttamente, è "occupato", come pochissimi altri nostri poeti, da quellaparticolare "zona" della musica che è il canto melodrammatico. Bastino come rapida prova per il primo Montale tre "attacchi" dagli Ossi diseppia:

a) Tentava la vostra mano la tastiera, i vostri occhi leggevano sul foglio gl' impossibili segni...

Sembra una romanza. E ancora,

b) Mia vita, a te non chiedo lineamenti fissi, volti plausibili o possessi. Nel tuo giro inquieto ormai lo stesso sapore han miele e assenzio...

E qui allora si pensi a Tosca, di Puccini: «Mia vita — canta il tenoreMario Cavaradossi a Tosca — mia vita, amante inquieta...». Lo stesso pateticoinvocativo (mia vita) spetta al baritono nella parte che ho già nominata conneun "ruolo di iniziazione" del giovane Montale, il ruolo di Alfonso XI re diCastiglia: «Per te, mia vita, affronterei l'averno...» — una frase il cui slancio nonfinisce qui, nel primo Montale poeta («T'avrei raggiunta anche navigando / perle chiaviche, a un tuo comando», canta infatti Montale più avanti, nella Bufera).

Terzo e ultimo campione sempre dagli Ossi di seppia: ancora cerchiamociun avvio, quello dei Limoni:

c) Ascoltami, i poeti laureati si muovono soltanto fra le piante dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti.

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Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi fossi...

Questo dialogico Ascoltami ha molti padri possibili nel melodramma. Sitratta insomma di un tòpos. Difficile stabilire una discendenza unica. Credo chela precedenza debba spettare ai sunnominati "personaggi di formazione", tipo ilValentino del Faust, tipo l'Enrico della Lucia. Ascoltami, prorompe a un certopunto quest'ultimo, rivolto al suo nemico Edgardo. E «Or stammi ad ascoltare,Margherita», cosi avvia (naturalmente nella versione italiana) il suo ultimocanto il Valentino del Faust rivolto alla sorella, in una scena "testamentaria" —quella della sua uccisione e morte per mano di Mefistofele — che offre altresuggestioni al poeta degli Ossi e delle Occasioni. E anche nella Favoritacompare questa specie di poncif o luogo comune del melodramma. Ma è anchealla Bohème che occorre pensare:

Ascolta, ascolta.

—canta Mimì a Rodolfo —

Le poche robe aduna che lasciai sparse. Nel mio cassetto stan chiusi quel cerchietto d'oro...

Con quel che segue. È forse questa di tutte la scena più pre-montaliana,con quell'attenzione a minimi oggetti del femminile, intrisi di ricordo e disuggestione del "privato", che ritroveremo nella borsetta di Dora Markus eanche dopo, lino almeno al Piccolo testamento.

A sua volta c'era un altro riferimento, fuori-melodramma, per l'Ascoltamidei Limoni: non veniva dal melodramma, ma era anch'esso molto cantante ecanoro. Veniva, penso, dal D'Annunzio della Pioggia nel pineto. In quella poesiasi nascondeva – non credo che ci badino i critici dannunziani – un omaggio allaBohème diventata presto famosa tra fine ‘800 e primissimo ‘900:

Ascolta,

si legge nella Pioggia; e poi,

Ascolta, ascolta.

Proprio il doppio ascolta di Mimi. In un primo momento lo stesso Montale scrisse “Ascolta”. Poi, Ascoltami:

penso che la memoria assediata gli cantasse dentro qualche esempio di cantomelodrammatico, e che insieme gli si presentasse il ricordo dannunziano; fral'altro è certo D'Annunzio, o anzitutto D'Annunzio, il "poeta laureato" che inquesti stessi Limoni preferisce i «bossi ligustri e acanti», cui si opponeprogrammaticamente il poeta giovane e polemicamente "povero" e dunque incerca di fossi, ciuffi di canne, sparute anguille e alberi appunto di limoni.

Valga quest'ultimo esempio già ad illustrare un aspetto della complessamemoria dei poeti e di Montale in particolare. Quella di Montale è una memoriamolto stratificata, molto intrecciata, spesso tra alto e basso. Montale contamina,con lui il basso, il minimo possono caricarsi di valenze massime. È questo il suomodo – l'unico suo – di fare il rivoluzionario. E cosi nella sua poesia il ricordodel canto melodrammatico, e di certe sue parole non-illustri, può anche non

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presentarsi da solo, ma intrecciato a quello della poesia-poesia, quella illustre,quella alla e laureata, da Dante a D'Annunzio come minimo.

Ma dunque, il Montale d'esordio è un poeta molto cantante, spessointonato sul canto anche pieno. E l'ultimo Montale, tra il Diario (‘71-'72) e Altriversi ('81), insomma tra primi e ultimi anni ‘70 e primi ‘80? Anche nella poesiadel Vecchio torna il melodramma, vi tornano i suoi fantasmi, ma non più comecanto che si invena nel canto, bensì offrendo figure del melodramma rievocateespressamente, e oggetto di commossa e insieme ironica autoidentificazione.

Cosi in Annetta, ormai del 1972, può finalmente permettersi dinominarli, i personaggi del melodramma (già lo aveva fatto negli Xenia, anni‘60, ma trasversalmente, citando lo «Strana pietà» di Azucena, atto II delTrovatore). In Annetta ecco dunque chiamato in causa Des Grieux, il giovanetenore che ama la giovanissima Manon nel Marron di Massenet. Sono queste lemaschere melodrammatiche dell'io poetico giovane e del suo primo amore,Annetta o Arletta. E la stessa Manon verrà altrettanto espressamente non allusama ricordata («Manon in fuga [...] la voce di Manon») nei Nascondigli II, ormaidell'ultimo Montale. Intanto, in entrambe queste poesie, si evoca unriconoscibilissimo emblema della poesia moderna, il passero solitario. E dietroquell'emblema leopardiano si estende la piana perduta e perenne dellagiovinezza, la sua memoria inestinguibile.

4. Ma la tattica è quella del nascondere.

Stiamo però ancora a quello che all'ingrosso chiameremo il primoMontale, da Ossi di seppia alla Bufera, cioè dal ‘20 circa al ‘56. Questo Montale,che è poi quello che ricordiamo e amiamo di più, anzitutto nasconde. E pernascondere cambia contesto, cambia cornice e sposta. Vedi, per esempio,L'ombra della magnolia, nella Bufera:

Non è più il tempo dell'unisono vocale, Clizia, il tempo del nume illimitato [...] Spendersi era più facile, morireal primo batter d'ale, al primo incontro col nemico, un trastullo. Comincia ora la via più dura...

Guardate come viene rigiocato e decontestualizzato, qui, un ricordo delcanto di Butterfly, l'eroina giapponese di Puccini, che immagina il ritornodall'America e dall'oceano del suo marito americano:

Un bel di vedremo spuntare un fil di fumo...

e poi, dice e anzi canta, io non gli andrò subito incontro, mi nasconderòper un momento,

un po' per celia e un po' per non morire al primo incontro...

Montale conserva in cima di verso sia morire, sia primo incontro. Ma

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trasforma profondamente tutto. «Non morire» diventa il contrario, diventamorire. La scena di attesa e d'amore si trasforma appunto in un'altra cosa:tornano si alcune memorabili parole della scena pucciniana, ma oracontrassegnano la giovinezza («il tempo del nume illimitato») che non c'è più, eche sapeva morire come per gioco, per trastullo. Diciamo di più: niente restaqui del vero e proprio trauma musicale, dell'intervallo di quarta che investe, nelcanto di Butterfly, quel non morire: e che eclissa anzi nella nostra memoria quelche subito segue, al primo incontro. Che non si eclissa invece in Montale, maper essere spostato a tutt'altro rispetto alla "fonte".

In questo, Montale è ben diverso da un altro grande poeta come Saba. Viporto un solo esempio da quest'ultimo: sentite con quale trasparente confidenzaSaba trapianta il ricordo del Rigoletto, del Duca di Mantova che fa la corte aMaddalena: «bella figlia dell'amore...». E Saba, a Lina, in una poesia intitolataCarmen:

...amica, austera figlia d'amore, se la vita oggi n'esiglia, con la musica ancora vieni a me. Geloso sono non di don Josè, non d'Escamillo.

Qui Saba, in questa poesia-canzone molto cantata, non solo "salva"diversamente dal Montale che si è appena visto la cornice di provenienza – ilcanto d'amore resta un canto d'amore – e non solo colloca in cima di verso ilfiglia verdiano, ma espone e distende in un sensuale enjambement la «figlia /d'amore», lei pur cosi austera. E fa anzi di più: chiede alle rime e quasi-rime –esiglia : Escamillo; me : Josè – di onorare e prolungare quanto c'è di cantopieno nella tenorile citazione, che cosi è anche più esposta e trionfante chenell'originale. Il contrario di quanto fa in genere Montale poeta coi suoi ricordidi canto e di melodramma. Saba cita, Montale vocabolarizza. E questo perché inMontale prevale sempre o quasi l'aspetto del poeta "riflesso", e tale anchequando sfida il canto pieno di D'Annunzio – poeta non meno riflesso, s'intende– o dello stesso ben più diretto e "ingenuo" melodramma. A Saba riesce invecequella che potrei chiamare una confidenza molto vicina alla naturalezza. O allanatura stessa: c'è un'implicazione e accoglienza naturale, materna, nel propriocanto, del canto, cui Saba si accosta con maggiore immediatezza rispetto aMontale.

5. Montale dunque nasconde: ma non quando c'è di mezzo il calcoritmico.

Questa immediata confidenza non c'è dunque, di solito, in Montale, che èun po' più nel segno paterno, e insomma è più borghese e più riflesso rispetto aSaba. O meglio: non c'è, questa immediatezza, a livello di lessico, di ricordiverbali. C'è – perché allora è, penso, involontaria, e comunque è a livelloprofondo e dunque abbastanza nascosto allo stesso Montale – quando il poetagiovane, ancora quello degli Ossi, lascia un varco non aile parole, ma al ritmo. Aun calco ritmico-sintattico, e nel ritmo sta force l'essenza stessa del canto comedella poesia.

Ecco il più bell'esempio in proposito: il Montale di Corno inglese, 1923,canta cosi:

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(reami di lassù, d'alti Eldoradi malchiuse porte)...

E Alfonso XI, proprio al balzante e amoroso avvio del suo canto (unrecitativo) nella Favorita di Donizetti:

Giardini d'Alcazàr, de' mauri regi care delizie...

Non una sola voce lessicale arriva a questa "ricca" parentesi di Cornoinglese dal primo dispiegarsi del recitativo di Alfonso XI. Cosi Montale bada anon scoprirsi. Ma lo scopre chi badi al ritmo, al verso, alla sintassi, aile giunturedi questi due passi. Il recipiente ritmico-sintattico è proprio quello. Tornainsomma tale e quale dalla Favorita a Corno inglese. E questo endecasillabocon forte cesura, dettata dalla tronca in 6a sede – Alcazàr / lassù – rispunteràpoi altrove nel poeta degli Ossi di seppia. Qui basti notare che anche la densitàesoticheggiante e insieme sonora del recitativo di Alfonso è ricalcata da questoMontale. E allora non solo si risponde con l'Eldorado all'Alcazàr, ma abbondanole toniche in -à-: da Alcazàr a màuri, a càre in Donizetti, e da reàmi ad àlti aEldoràdi appunto nel Corno inglese montaliano.

6. L'uso "metafisico" del messaggio melodrammatico.

Questo peraltro è un esempio-limite. È al limite in quanto Montale,dicevo, preferisce rielaborare, re-impastare, camuffare. C'è – direi – unavigilanza del Padre, paterna, in questo: una vigilanza che agisce sul suo modo diaccostarsi alla fisica, corporea maternità del canto.

Da qui deriva non una sottovalutazione della memoria del cantomelodrammatico da parte di Montale (piuttosto la sottovalutazione è da parte diquasi tutta la critica montaliana). Ne deriva semmai un uso, diciamo, padronaledella parola del melodramma: nel che Montale si comporta proprio come unVerdi, è anche lui una specie di musicista impaziente e poco rispettoso neiconfronti dei suoi umili "parolieri", dei suoi modesti e incantevoli portatori diparole (Verdi, si sa, finché non arriva l'illustre Boito, è padre-padrone coi suoilibrettisti; e con loro neanche Puccini era tenero). In questo Montale èparadossalmente l'ultimo dei grandi "musicisti con parole", se cosi posso dire,della grande tradizione italiana.

Ma non posso fermarmi solo a questo aspetto. Certo Montale puòadoperare il melodramma anche come una cava di materiali non da citare inbella vista, ma da elaborare e reimpastare nel suo linguaggio dall'amplissima,dantesca escursione. Pere,, specialmente nella terza grande raccolta, nellaBufera, appare l'altro modo, solo in parte conflittuale con quello che ho appenaillustrato – l'aspetto, diciamo, d'uso –: quest'altro aspetto consiste nel "prenderesul serio" le implicazioni drammatiche e visionarie del melodramma, e anzinell'accentuare, nel verticalizzare, questo aspetto, fino a una valenza tragico-metafisica.

Ecco due esempi al riguardo, ed entrambi li ho trovati appunto nellaBufera.

a) Guardiamo ancora alla Tosca di Puccini. Il tenore, Mario Cavaradossi, èstato apparentemente graziato da Scarpia, il Capo della polizia romana. Questi

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ha fatto credere a Tosca (e a Mario) che l' esecuzione sarà una finta esecuzione.Noi sappiamo che non è cosi. Cavaradossi sarà di fatto ucciso. Anche se non losapessimo, è la musica ad avvertirci che il clima è solo apparentemente "dacommedia", di fatto è tragico. È dentro questa ambiguità a doppio registro chenell'ultimo atto il Carceriere pronuncia al Condannato una sola parola: L'ora; eil carcerato Cavaradossi risponde altrettanto brevemente: Son pronto.

Queste due minime cellule verbali sono ben rimaste nella memoria diMontale. Pensate al mirabile Piccolo testamento: arriverà, dice il poeta alla suadonna (Clizia? Volpe? o piuttosto un incrocio di entrambe?), un Messoinfernale, un Lucifero, si spegnerà ogni lampada, tu conserva memoria della miaesigua ma tenace testimonianza e fierezza, «conservane la cipria nellospecchietto» della borsetta,

quando spenta ogni lampada la sardana si farà infernale e un ombroso Lucifero scenderà su una prora del Tamigi, del Hudson, della Senna scuotendo l'ali di bitume semi- mozze dalla fatica, a dirti: è l’ora.

E prima, nella Ballata scritta in una clinica, "agiscono" anzi entrambe leminicellule del breve colloquio tra Carceriere e Carcerato, così:

Attendo un cenno, se è prossima l'ora del ratto finale: son pronto...

Il ratto finale non è meno che il ratto di Europa, un mito rivissuto connesegno di Fine di un mondo, Finis Europae, da un poeta borghese e umanistacome Montale, tra 1944 e ‘45. Dunque sia Piccolo testamento, sia, otto anniprima, questa Ballata, scavano e sprigionano dal ricordo della Tosca un'oltranzametafisica, un massimo di energia cupamente, tragicamente visionaria.

7. Col melodramma tra Dante e Shakespeare.

È poco, questa di questo Montale, una poesia italiana, se non si torni a unPadre altissimo spesso tradito, cioè al Dante della Commedia. E infatti Montaleci ha pensato, e ha collocato molto melodramma del nostro Ottocentoaddirittura tra Dante e Shakespeare. Come già ricordavo, ha scritto negli anni‘50: «...il nostro Ottocento operistico non ha altro riscontro nella storia dellaciviltà europea, che nella grande stagione elisabettiana». E un po' prima, nel ‘46:specialmente a Verdi «dobbiamo la sorprendente ricomparsa, in pienoOttocento, di alcune vampe del fuoco di Dante e di Shakespeare».

Ora, proprio queste vampe e questo fuoco possono, seguendo leintenzioni stesse di Montale, ricondurci, da Dante a Shakespeare, almelodramma ottocentesco e all'uso a volte intensamente tragico e visionario chene fa il Montale poeta. E cosi vi porto ora il secondo esempio dalla Bufera,sempre su questa linea tragica, onirica, visionaria, di traduzione e compimentodel messaggio melodrammatico.

b) Guardiamo alla poesia — Anniversario — che chiude di fatto la Bufera,perché le seguono solo le due Conclusioni provvisorie (Piccolo testamento, già

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assaggiato poco fa; e Il sogno del prigioniero). Leggiamo dunque questa poesia,ultima dei Madrigali privati e dedicata a Volpe:

Dal tempo della tua nascita sono in ginocchio, mia volpe. È da quel giorno che sento vinto il male, espiate le mie colpe. […l Arse a lungo una vampa; sul tuo tetto, sul mio, vidi l'orrore traboccare.

Resto in ginocchio: il dono che ho sognato non per me ma per tutti appartiene a me solo, Dio diviso dagli uomini, dal sangue raggrumato sui rami alti, sui frutti.

La vampa. L'ardere, l'orrore, il sangue. Le disillusioni. Solo la giovaneVolpe può vincere tanto male, e può fare dell'io poetico un Dio. Cosi peròMontale rinunciava all'idea che una Donna messaggera del Cristo — Clizia —potesse apparire in suo nome per salvarli tutti, gli uomini. Ci rinuncia quipurché cosi — per la via di un amore ben più terrestre, carnale, quello cheriguarda un io e un tu soltanto — si stabilisca una distanza. Una distanzarispetto a cosa?

La poesia è di qualche anno dopo la seconda guerra mondiale.Quell'amore divide (e protegge) l'io dal ricordo peraltro tenace che, a lungo, èstato un incubo, la guerra. Ebbene, per dare immagine a quel lungo incubo difuoco — «arse a lungo una vampa» — di orrore — «vidi l'orrore traboccare» —di sangue — che tuttora è raggrumato «sui rami alti, sui frutti», e dunqueminaccia tuttora lo svolgersi stesso della vita, i suoi frutti — a cosa ricorrequesto Montale?

Ricorre all'opera forse più vermiglia — come diceva Bruno Barilli — delnostro melodramma. Ricorre al Trovatore di Verdi. Che è come un lungo sognonotturno, intessuto di pulsioni, di passioni primarie: una lunga notte in cui siinscenano la guerra e le passioni più elementari nel segno del fuoco e delsangue. Un dramma onirico, tutto barbaramente percorso dal fantasma dellavampa e insieme dell'orrore e del sangue. E tutti questi segni fanno"costellazione" in un punto del Trovatore, che è poi quello suo più famoso: nellacabaletta "della pira", il tenore, Manrico:

Di quella pira l'orrendo foco tutte le fibre m'arse, avvampò. Empi spegnetela, o ch'io fra poco col sangue vostro la spegnerò...

In realtà qui Montale si ricorda del Trovatore "come se" fosse l'ultimaopera di Shakespeare. Di uno Shakespeare arrivato fino all'Ottocento — cheinfatti lo riscoperse e lo amò molto — e arrivato a compiersi e a bruciare nelcanto. Il canto come compimento, dunque, della tradizione poetica drammaticadell'Occidente. E come suo forse ultimo rogo. E infatti Montale lo ricanta, qui,questo luogo di condensazione massima del Trovatore, tra orrore, arsura,fuoco, vampa, sangue: e cosi ritrova anche lui, per il tramite del melodramma,«alcune vampe del fuoco di Dante e di Shakespeare».

Poi, dopo la Bufera, questo fuoco, queste vampe andranno spegnendosi.

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Se Montale rievocherà il melodramma sarà in altra prospettiva, in cerca diAnnetta, in cerca del primo aurore – e della sua fine, e della fine dellagiovinezza. Allora, come qui non posso dimostrare, accanto alle figure giovanidel melodramma – Manon anzitutto – tornerà a profilarsi Leopardi, il passerosolitario, Silvia. Che già occupavano anche, ma segretamente, tanto orizzontedel primo Montale.

Ma prima di slacciarsi pian piano dal Sublime, è addirittura nella scia enel segno di Dante e di Shakespeare che il Montale della Bufera colloca alcunifebbrili esemplari melodrammatici: un invito, fra l'altro, a fare con lui ilpercorso inverso, a re-incontrare con una maggiore disponibilità econsapevolezza, partendo dalla poesia montaliana e da Dante e da Shakespeare,il significato più ricco, più intenso e più "nostro" del melodramma italianodell'Ottocento.

in “Chroniques italiennes” n. 57 (1/1999).Un ampio sviluppo del tema, da parte dell'autore del presente saggio, è costituito dal volume:"Il fiore dell'addio: Leonora, Manrico e altri fantasmi del melodramma nella poesia di Montale",Bologna, Il Mulino, 2003

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Alessandro Martini

OCCASIONI MUSICALI NELLA POESIA DEL PRIMO MONTALE

Riconosci alla musica, in senso tecnico, importanza per la tua poesia?

Probabilmente sì. Credo che la mia poesia sia stata la più «musicale» del mio tempo (e di anche prima). Molto più di Pascoli e di Gabriele. Non pretendo con questo di aver fatto di più e di meglio. La musica è stata aggiunta, a D ’Annunzio, da Debussy (SP603)1.

Così rispondeva Montale a Giorgio Zampa nel 1975, con giusta fermezza nella rivendicazione di un incontestabile pri­mato nella tradizione del Novecento e con estrema cautela nell’affrontare rapporti tanto facili da supporre quanto sfug­genti all’analisi, come quelli fra poesia e musica. Non mi pare che la critica abbia dato un adeguato rilievo all’importanza della questione, per cui oso incrementare di qualche pagina la già sovrabbondante bibliografia montaliana con qualche nota iniziale su dati molto concreti quali i riferimenti alla musica vera e propria che costellano l’opera in versi del poeta.

Essi implicano, in un primo sommario e rozzo catalogo, realtà musicali numerose e disparate: strumenti musicali, for­mazioni in cui questi si dispongono, forme e scrittura musicali, citazioni di poesia per musica e addirittura di frasi musicali, personaggi del teatro musicale, rumori e silenzi. Per gli stru­menti: non solo i soliti romantici violini, flauti, corni e piano­forti, ma anche più rare celeste e vibrafoni, lungo un arco che va sintomaticamente dallo struggente canto del corno inglese che quasi apre gli Ossi all’oboe che stonicchia in versi del 1979 (O V 661). Per le formazioni: mai viene ricordata la grande orchestra sinfonica, ma più piccoli assiemi che vanno dal trio di moderni menestrelli da strada (O V 14) al «quartetto di can­nucce» («la sola musica che sopporto») diretto da una Musa che

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indossa i panni dello spaventacchio nel Diario del 7 1 (O V 429). Per le forme: non ci troviamo mai di fronte a generici suoni e canti (ovvie metafore di una poesia che aspira dannunziana­mente a un sovratono musicale) ma a generi ben individuati: per esempio un ben preciso lied di Beethoven, cantato e pestic­ciato dal piccolo Eugenio a quattro mani («forse a quattro piedi») con un barnabita in odore d’eresia, ricordato nel Diario del 72 (OV 464); oppure si tratta di un’operistica cabaletta del 1975 (O V 565), memore forse di quella coeva di Giorgio Caproni, l’altro grande genovese che cala spesso la sua teologia negativa in arguti versicoli arieggiami la poesia per musica. Una certa preziosità si avverte anche nell’impiego di altra ter­minologia tecnica: dall’intervallo di terza maggiore emesso da un cucco nella Bufera (O V 230) alla sigla ppp che sta fra gli ultimi versi a segnare «una fine dolcissima» quanto ironica (OV 570). Abbondanti devono essere le citazioni di poesia ope­ristica ed operettistica, del grande ma anche del più modesto repertorio, a giudicare dalle meno occulte, verdiane (O V 287, 471). È questo un territorio tutto da esplorare, tenendo conto anche delle esplicite dichiarazioni del poeta in Satura:

...Lei che amava solo Gesualdo Bach e Mozart e io l'orrido repertorio operistico con qualche preferenza per il peggiore (O V 391).

Ma altrettanto contano le vere e proprie frasi musicali, ben più difficilmente citabili perché sprovviste di semanticità, peti­tes phrases proprio in senso proustiano, dall’iniziale Debussy di Minstrels trasposto in poesia, ai mozartiani «angui d’inferno» nelle Occasioni (O V 178). Le più felici e proustiane intermit­tences du cœur sono per altro mediate da un più modesto Massenet (O V 490 e 684) e da un ancor più modesto Léo Delibes, nello straordinario mottetto Infuria sale o grandine, in cui l’assente è resa presente non tanto da un rintocco debus- siano, quanto dalla riproposta poetica del «trillo d’aria» di «Lakmé nell’Aria delle Campanelle» (O V 146), come ben sotto­lineato da Dante Isella nel suo esemplare commento2. Non trascurabili sono inoltre i personaggi che hanno un’esistenza

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solo musicale come Carmen (O V 427) e tanti altri meno celebri, come quelli d ’operetta fittamente elencati come occasioni man­cate in Keepsake (O V 114). E ci sono infine i rumori, estrema­mente insistenti sin dalla prima poesia degli Ossi: le «gazzarre degli uccelli», il «susurro dei rami» de I limoni; e sempre nei Limoni ci sono i silenzi, su cui torneremo: rumori e silenzi che quando appaiono in relazione al suono (come appunto nei Limoni) hanno un indubbio valore musicale nell’estetica roman­tica e moderna.

Sul piano biografico ogni profilo del poeta ricorda come a diciannove anni studiasse canto con il baritono Ernesto Sivori, realizzando un sogno eminentemente wagneriano e simbolista, come dichiara l'Intervista immaginaria del 1946: «L’esperienza, più che l’intuizione, della fondamentale unità delle varie arti dev’essere entrata in me anche da quella porta» (SP 562). È dunque con un notevole bagaglio tecnico che negli anni Cin­quanta e Sessanta Montale esercitò la professione di critico musicale per il «Corriere d ’informazione», con i risultati che oggi si possono apprezzare nella raccolta postuma Prime alla Scala3. È un titolo un po’ riduttivo, poiché sono pagine che vanno spesso al di là dell’occasionale esercizio giornalistico e mondano della prima, e poiché, oltre l’interesse prioritario per l’opera, vi si scoprono reazioni vivissime anche alla musica stru­mentale, non esclusa quella contemporanea. Anzi forse Mon­tale è più attento ai timbri strumentali e ai ritmi che alla melo­dia e al bel canto, non diversamente da quel che succede nella sua poesia.

Il vario e vasto materiale tematico offerto dalla musica alla poesia ha dunque, prima ancora di un’eventuale valenza meta­forica o simbolica, un preciso senso tecnico e cronachistico. È un materiale di cui l’ultimo Montale sottolinea la casualità, l’appartenenza a un privatissimo gusto, volutamente dimesso. Resta che nel primo Montale e nel Montale maggiore, quello dei primi tre libri, quei materiali assumono il ruolo centrale di vere e proprie occasioni, nel preciso significato che questo ter­mine ha nella sua poesia: fantasmi che salvano, ritorni di atti scancellati, maglie rotte nella rete che ci stringe.

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1. L ’attraversamento di WagnerRievocando proprio la genesi del suo primo libro nelYInter-

vista immaginaria Montale ci dice di aver ubbidito «a un biso­gno di espressione musicale», e prosegue: «All’eloquenza della nostra vecchia lingua aulica volevo torcere il collo, magari a rischio di una controeloquenza» (SP 565). Sono due chiare cita­zioni dell’o r / poétique di Verlaine: «de la musique avant toute chose»; «prends l’éloquence et tords-lui son cou»: quest’ultima presa sin troppo sul serio dai critici montaliani. Non così la prima che riguarda la musica e che attraverso Verlaine (un poeta colossale per il giovane M ontale4) rinvia così nettamente al clima simbolista francese a cavallo del secolo, al di sopra delle teste dei vociani e dei futuristi che, aggiunge subito Mon­tale nell’intervista, quelle esperienze avevano sì apprese, ma spesso fraintese. Nel primo Montale non troviamo dunque rumori futuristi e organetti crepuscolari, e neppure il ritorno all’antica musica italiana che proprio allora andava propo­nendo D ’Annunzio, ma credo di poter dire che siamo immessi nel cuore della più alta tradizione musicale del tempo: non uno Stravinskij probabilmente ancora ignorato o uno Schònberg che sarà poi coerentemente rifiutato, ma la premessa di quei due fenomeni: la più radicale rivoluzione ed evoluzione che va da Wagner a Debussy.

Debussy, che rappresentò per il poeta la scoperta della nuova musica (SP 563), è poeticamente rifatto, come dice il sot­totitolo, proprio in quei Minstrels già presenti nella prima edi­zione degli Ossi e poi tolti dalle successive come «cosetta» velleitaria, ma restaurata per volontà del poeta nella recente edizione critica di Contini e Bettarini (O V 14, 861 e 866-7). Wagner invece è nominalmente assente dall’opera in versi di Montale, ma cercherò di dimostrare come sia sottilmente pre­sente in Corno inglese, che nel testo definitivo precede di poco Minstrels, quasi a confermare un’indicazione di percorso fonda­mentale non solo per il poeta. È noto il suo perentorio giudizio su Gozzano, del 1951:

egli fu il primo dei poeti del Novecento che riuscisse (com’era necessario e come probabilmente lo fu anche dopo di lui) ad attra­versare D ’Annunzio per approdare a un territorio suo, così come, su scala maggiore, Baudelaire aveva attraversato Hugo per gettare le basi di una nuova poesia (SP 62).

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Occasioni musicali nella poesia del primo Montale 109

È chiaro: Montale parla qui più di se stesso che di Gozzano, e come egli stesso abbia attraversato D ’Annunzio ci è stato ampiamente mostrato da un memorabile intervento di Mengaldo5. Qui si vuole piuttosto sottolineare che in quel medesimo intervento su Gozzano precedono altre simili parole, pure ricordate da Mengaldo, ma che non pretendevano in quella sede un’analoga illustrazione critica:

Ridusse D’Annunzio come Debussy aveva ridotto Wagner, masenza mai giungere a risultati che possano dirsi debussiani (SP 57).

La riserva insinua altrettanto chiaramente che il Debussy della situazione fu appunto Montale, attraversando Wagner, non senza dimenticare quanto in Italia la figura di D’Annunzio fosse indissolubile da quelle di Wagner, di cui fu il maggiore corifeo e dei cui intenti musicali tentò una prima gonfia traspo­sizione letteraria. Senza dimenticare inoltre che il Martyre de saint Sébastien di D’Annunzio era stato musicato da Debussy nel non lontano 1911, e che le tragedie dell’imaginifico erano messe in musica dai compositori italiani più aperti alla nuova musica europea, come Pizzetti e Malipiero, negli anni in cui nascono appunto gli Ossi montaliani: il mostro sacro da attra­versare e ridurre, D ’Annunzio, era anche sul piano del nuovo gusto musicale e della sua divulgazione una personalità ben viva e operante.

La grande novità del linguaggio musicale wagneriano, deci­siva per le sorti della musica del Novecento, sia per l’impres­sionismo di Debussy che per l’espressionismo di Schònberg, consiste anzitutto nell’uso del cromatismo, uso che si fa domi­nante e sistematico (lo riconosce lo stesso Montale in SP 157) nell’opera sua più ricca di fermenti moderni (quella che per altro più scosse D ’Annunzio): il Tristano e Isotta. Qui più che altrove sono continuamente forzati Ì limiti della tonalità clas­sica, attraverso la profusione dei mezzi toni e l’eliminazione delle cadenze. L’orecchio educato alla musica tradizionale ritrova difficilmente i suoi punti di riferimento: la stabilità tonale appunto e le modulazioni che segnalano i passaggi da una tonalità all’altra. Non si tratta ancora di suoni in libertà, come nella musica dodecafonica, ma di suoni che tendono a sottrarsi al loro centro di attrazione, all’ordine gerarchico in cui

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solitamente si succedevano: se non suoni, frasi in libertà e soprattutto liberamente accostate, che trascorrono l’una nell’altra senza le consuete connessioni, nelPintento di ottenere un flusso musicale ininterrotto.

Beninteso il linguaggio poetico non conosce tonalità e mez- zitoni che le definiscono e ne permettano la differenziazione. Ma siccome il cromatismo incide proprio sulla sintassi musi­cale, è possibile ravvisare in certe audacie sintattiche e ritmiche del testo poetico un’analogia con la rivoluzione wagneriana, soprattutto quando il poeta abbia prestato un’estrema atten­zione a queste analogie. Si rilegga questa ouverture montaliana alla lettura degli Strumenti umani di Sereni (1965):

Per lunghi secoli tributaria della poesia, la musica prende la sua rivincita nel secondo Ottocento. In Francia, tra i primi fondatori della «Rivista Wagneriana» appaiono alcuni poeti simbolisti. A parte coloro che adottano il verso libero, gli altri, i migliori, ten­dono a immettere nelle forme tradizionali la lezione del croma­tismo musicale. Nelle loro poesie le forme architettoniche restano generalmente «chiuse» ma nell’interno di quegli argini i contenuti si polverizzano (Mallarmé) o si fanno ambigui (Valéry, considerato da qualche critico un poeta bergsoniano). Tuttavia resta ancora possibile versare vino nuovo nei vecchi otri (Yeats). Più tardi appa­riranno poeti che invidiano le conquiste tecniche della nuova musica. Abolita la dominante, escluso il tematismo (che privilegia certe note a vantaggio d’altre), ammesso il principio che in ogni composizione ogni nota sia sempre un principio e una fine e che il centro debba essere in ogni luogo e in nessuno, i musicisti danno lezione ai poeti; e questi accettano la lezione (SP 328-9).

2. Un «Corno inglese» wagnerianoLeggiamo ora Corno inglese con orecchio attento a queste

indicazioni, in particolare alla sintassi e alla metrica, cioè agli elementi che meglio credo permettono un’interpretazione cro­matica della poesia.

Il vento che stasera suona attento - ricorda un forte scotere di lame - gli strumenti dei fitti alberi e spazza l'orizzonte di rame

5 dove strisce di luce si protendono come aquiloni al cielo che rimbomba (Nuvole in viaggio, chiari reami di lassù! D ’alti Eldoradi malchiuse porte!)

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Occasioni musicali nella poesia del primo Montale 11110 e il mare che scaglia a scaglia,

livido, muta colore, lancia a terra una tromba di schiume intorte; il vento che nasce e muore

15 nell’ora che lenta s ’annera suonasse te pure stasera scordato strumento, cuore.

L’indubbio fascino del testo sta anzitutto nell’essere costi­tuito di un solo periodo ottativo: un unico vocativo sospeso lungo l’arco estremamente teso di 18 versi. Certo la sintassi è sempre complessa in Montale, ma qui lo è in modo eccezionale, tanto da arrischiare l’oscurità6. La coordinazione di orizzonte 4 e mare 10 è interrotta da ben cinque versi, occupati dalla descri­zione del cielo e dai vocativi alle nuvole, ai reami, agli Eldoradi, per quanto evidenziata dal fortissimo legame fonico dell’ana­gramma fra rame 4 e mare 10. C’è per altro una variante d’autore assai tarda, del ’78, non accolta a testo nell’edizione critica, che conferma la volontà di creare un blocco unico, una assoluta compattezza sintattica, interrotta solo dalla parentesi metafisica, poiché è variante che elimina anche quello che Mon­tale definisce 1’«insopportabile» inciso del secondo verso:

Il vento che stasera ha suonato con un suo forte scuotere di lame gli strumenti degli alberi e ha sconvolto uno sfondo di rame (OV 865).

Oltre la continuità sintattica si noterà la prosaicità del rifaci­mento, e, ciò che più importa ai fini della mia proposta, l’artifi­ciosa teatralità di quello sfondo per rapporto al primitivo oriz­zonte. Ora, parlando della prima scaligera dei Maestri cantori di Wagner nel ’62, Montale ha affermato:

nel passo lento del discorso [...] si trova ancora intatto il carattere della musica wagneriana, quel procedere per accumulazioni che è il segreto, imitato ma in realtà inimitabile, del suo stile (PS 369).

È un procedere per accumulazioni che definisce bene sia il cro­matismo del compositore, sia la particolare sintassi di questo solenne adagio che è Corno inglese.

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La sintassi credo permetta di segmentare il testo non in tre parti, come solitamente fanno i suoi lettori, ma in quattro, che dai loro temi dominanti denominerò: 1. del vento che suona lo strumento della natura (w . 1^4); 2. del cielo che rimbomba (w . 5-9); 3. del mare cangiante in tempesta (w . 10-13) e di nuovo 4. del vento che non può suonare lo scordato strumento uomo 14-18, con chiara ripresa antitetica del primo tema, evi­denziato dalla riesposizione di ben quattro parole: vento, suo­nare, stasera, strumento. È spazialmente un alternarsi di quattro blocchi d i 4 - 5 - 4 - 5 versi di varia lunghezza: presi a due a due nove versi per parte.

Evidente sul piano semantico il disaccordo tra natura sonora e atonia dell’uomo; ma mi importa sottolineare come il titolo musicale della poesia e il suo unico verbo reggente (suo­nasse 16) permettono senz’altro di interpretare questo disac­cordo come una dissonanza musicale: dissonanza che è la prima e più sensibile conseguenza, sul piano strettamente musicale, del cromatismo wagneriano. Il metaforico strumento è scordato anzitutto in senso tecnico e concreto: non accordato; e solo in seconda istanza, per quanto affascinante, scordato assume il senso di dimenticato, come nei Soleils couchants di Verlaine {Poèmes saturniens) il «cœur qui s’oublie» con tanta maggior dolcezza, pure al tramonto:

La mélancolie berce de doux chants mon cœur qui s'oublie aux soleils couchants.

Nella già ricca tessitura tematica del testo quel cuore che chiude così perentoriamente la lirica inserisce il tema ben montaliano della memoria, già preannunciato al v. 2. Altro obbligato rilievo semantico (altra dissonanza): questo «frammento di natura (in tempesta) che il cuore cerca invano di interiorizzare»7 è sempre sdoppiato, ambiguo: il vento suona e spazza (somma di meta­fora musicale e azione propria), il mare muta colore e lancia una tromba di schiume intorte, il vento nasce e muore (con ben radicale antitesi).

Ma torniamo alle più sottili dissonanze formali, in partico­lare metriche. I primi nove versi, che configurano i primi due blocchi tematici, sono di tipo tradizionale: endecasillabi inter­

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rotti da due settenari (w . 4 e 7) e chiusi da un quinario. Men­galdo ha parlato di una specie di stanza di canzone, dalle rime spesso difficili e raffinate, come la rima ipermetra attento 1: protendono 5, cui si aggiungono i fitti echi interni di vento 1, strumenti 3, orizzonte 48. Gli altri nove invece non sono per lo più della tradizione lirica. L’aspro mare espone i suoi disaccordi in due ottonari dagli accenti non canonici (w . 10-11), il vento canta in due nettissimi novenari pascoliani (w . 15-16), prece­duti e seguiti da altri due versi (14 e 17- 18) che si avviano sullo stesso ritmo, poi felicemente sincopato, a interrompere lo «scampanìo addormentante» e la «narcosi» pascoliana9. In quest’ultima fase di canto spiegato anche le rime si fanno facili ed esposte nella loro sede tradizionale. Internamente si risente invece, e non solo in grazia delle riprese semantiche, l’eco dei suoni iniziali. È tuttavia un canto spiegato solo per le sue forme ritmico-timbriche. In realtà è un canto che dichiara l’impossibi­lità di cantare, di «cangiare in inno l’elegia». È un’altra pro­fonda dissonanza, senza dimenticarci di quanto sia anche foni­camente aspro quello scordato strumento. Nei primi nove versi si può dunque ravvisare la ricchezza timbrica di un pieno orche­strale (gli strumenti 3) e nella ripresa finale il canto di uno stru­mento 17 solista: non quello del cuore, afono, ma la melopea del corno inglese che campeggia isolato nel titolo. Ovunque domina, a più livelli, la dissonanza, e quel procedere per accu­mulazioni che così bene possono corrispondere alla tecnica del cromatismo wagneriano.

3. L'inserimento di «Corno inglese» in due diverse serie: «Accordi» e «Movimenti»

Corno inglese è stato stampato la prima volta (e si tratta della prima pubblicazione in assoluto di Montale) su Primo Tempo nel 1922, assieme ad altre sei poesie che hanno come titolo il nome degli strumenti essenziali dell’orchestra tardo- romantica e moderna; se non tutti gli strumenti, tutte le loro famiglie vi sono ordinatamente rappresentate: Violini, Violon­celli, Contrabbasso; Flauti - Fagotti, Oboe e Corno inglese [oboe contralto]; Ottoni. Le sette poesie - numero altamente eufo­nico - (ora si vedano in O V 765-72) hanno il titolo comune di

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Accordi e il sottotitolo Sensi e fantasmi di una adolescente: il romanticismo della formazione musicale e del programma dei sensi e fantasmi è subito ironizzato e mascherato dall’invenzione di un personaggio femminile che parla in prima persona, per cui l’io poetico trova uno schermo efficace contro la sentimentalità dei possibili accordi fra voci strumentali e voci del cuore: che è già un modo di cantare in falsetto. La didascalia finale accentua il carattere ludico e teatrale dell’assieme, che non è da dimenti­care nella lettura del nostro Corno inglese: «Unissono fragoroso d’istrumenti. Comincia lo spettacolo della Vita.» Permettendo la ristampa della serie nel ’60 Montale ha precisato date, intenti e motivi del parziale rifiuto di questi iuvenilia:

con assoluta precisione non saprei dare una data a quelle poesie: sono certamente posteriori al primo vero e proprio osso («Merig­giare», del ’16), ma assai anteriori a «Riviere» (marzo 1920) Il Corno inglese era l’unica della serie che potesse staccarsi dal ciclo: del quale mi dispiaceva, e tuttora mi dispiace, il senso generale e anche l’ingenua pretesa di imitare gli strumenti musicali (a parte quel po’ di amido che vi si avverte qua e là). Debbo dunque conclu­dere che nel mio giovanile château d’eaux [...] accanto a una vena più torbida, o addirittura dentro quella vena, si facesse strada assai per tempo la venatura più magra ma più limpida degli Ossi. Tutta la sezione iniziale degli Ossi (escluso In limine [...]) [dunque il ciclo di Movimenti, salvo le aggiunte successive di Altri verri] appartiene dunque al protomontale: e in questo gruppo vanno inserite - ma anche entro questi limiti vennero poi da me rifiutate - le poesie di Accordi (O V 865).

A rovescio è dunque facile sostenere che i Movimenti nascono dagli Accordi e crescono su quelli, ne sono la versione miglio­rata e corretta. E sarebbe facile mostrare in che senso gli Accordi sono il serbatoio degli Ossi, ma più sul piano delle dichiarazioni e dell’effusione sentimentale che dell’espressione, per cui meglio si capisce il rifiuto del ciclo. Atteniamoci piut­tosto al tema musicale, all’«ingenua pretesa» di imitare gli stru­menti e vediamo come si realizza. I violini (1) sono i più corrivi e loquaci sulle troppo strade che si aprono alle pupille smarrite dell’adolescente, che in attesa di un prodigio non sa più ne volere né disvolere. Ma è ben difficile scoprire in che senso il timbro

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dei violini possa adattarsi ai messaggi trasmessi. I violoncelli (2) (voci suadenti) parlano direttamente all’adolescente:

Ascolta il nostro canto che ti va nelle vene e da queste nel cuore ti si accoglie,[...]e seguici nel gurge dell’Iddio che da sé ci disserra,echi della sua voce, timbri della sua gamma!

Prosperano i punti esclamativi (che in due casi saranno elimi­nati in Corno inglese). Amore, Iddio, Centro, Niente portano la maiuscola: sono elementi in cui possiamo ravvisare non poco di quell’amido rifiutato. Il contrabbasso (3) (voce severa) in anti­tesi ai violoncelli ammonisce: «non uscirai tu, viaggiatrice sper­sa, / dai limiti del <Brutto)...» I flauti e fagotti (4) non parlano direttamente all’adolescente ma sono evocati da un paesaggio notturno in cui si ode uno zufolo, un gracchiare di rane, uno svolìo di uccelli, lo scroscio e rantolo di una fontana un po’ malata: rumori facilmente assunti dai due strumenti del titolo. L’oboe (5) non parla e non trova facili corrispondenze in natura, ed è difatti, con il fratello maggiore e minore, il corno inglese, il pezzo più riuscito della serie. Evoca la fine di un atto, e sarebbe bello fosse un atto di melodramma, se il successivo corno inglese (6) può rifare, come dirò, il preludio di un preciso atto conclusivo:

Ci sono ore rareche ogni apparenza dintorno vacilla s ’umilia scompare,come le stintequinted’un boccascena, ad atto finito, tra il parapiglia.

I sensi sono intorpiditi, il minuto si piace di sé; e nasce nei nostri occhi un po’ stupiti un sorriso senza perché.

Anche l’oboe canta un’occasione e finisce per cantarla in nove­nari, solo un po’ meno solenni, che sorridono attraverso le rime tronche. Gli ottoni (7) esprimono in fanfara la letizia breve di un mattino: quella che ben più intensamente sarà espressa dall’ultimo movimento: Quasi una fantasia.

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L’imitazione consiste dunque per lo più nel prestare allo strumento una voce umana un po’ troppo chiacchierina, o vice­versa il timbro di uno strumento ai rumori della natura (fischio = ottavino, gracchiare di rane — fagotto): tentativi senz’altro ingenui sul fronte della traduzione del puro significante musi­cale in un significato verbale, e assolutamente scontati nella tra­duzione del suono artificiale in suono naturale.

Nulla di tutto questo in Corno inglese. Lo strumento (come nei migliori Accordi) è assente dal corpo della poesia, dove solo suona il vento, simile soltanto allo scuotere di quelle straordina­rie lamiere. La metafora si rovescia: non desueto antropomor­fismo dello strumento, ma sottile strumentazione della natura: il vento suonatore, gli strumenti alberi, il cielo cassa di riso­nanza. Soprattutto all’accordo dichiarato nel titolo della serie primitiva si oppone il disaccordo fra uomo e natura, moltipli­cato dalle dissonanze formali illustrate. Il periodo unico, con le sue cromatiche accumulazioni, accentua il carattere dinamico della poesia: dagli accordi (elementi statici e verticali della par­titura musicale) passiamo ai movimenti prescelti a introdurre gli Ossi.

I titoli del nuovo ciclo non sono tutti di carattere musicale, ma tutti i testi, da I limoni a Quasi una fantasia hanno intensi rapporti con la musica. I limoni ci immettono in umili orti in cui il «susurro / dei rami amici» propizia «silenzi in cui le cose/ s’abbandonano e sembrano vicine / a tradire il loro ultimo segreto». Il segreto tuttavia non è scoperto, neppure alle soglie di altre «malchiuse porte» :

Quando un giorno da un malchiuso portonetra gli alberi di una corteci si mostrano i gialli dei limoni;e il gelo del cuore si sfa,e in petto ci scroscianole loro canzonile trombe d'oro della solarità.

Su un analogo ritmo sincopato di non del tutto cantabili nove­nari il cuore trova un appagamento musicale (e purtroppo non gnoseologico) nelle canzoni delle straordinarie trombe solari dei limoni. Si va dunque dal silenzio di attesa del miracolo a un trionfale ma alquanto elusivo squillo di tromba: un percorso

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degno del primo movimento di una sinfonia. Segue l’adagio che già ben conosciamo, con l’a solo finale del corno inglese. Il terzo canonico movimento di una sinfonia è lo scherzo, e le nostre attese non sono deluse: Falsetto indica appunto il cantare di testa del cantore che fa la parte del contralto o del soprano, con effetti per lo più caricaturali. E difatti il poeta, «della razza / di chi rimane a terra» inneggia, con lessico qua e là parodisticamente neoclassico, alY élan vital di un’Esterina ventenne che si tuffa in mare, non senza l’accompagnamento di musiche celestiali. Gli irraggiungibili Eldoradi di Corno inglese diventano qui più facili campi elisi:

ecco per te rintocca un presagio nelVelisie sfere.Un suono non ti renda qual d ’incrinata brocca percossa!; io prego sia per te concerto ineffabile di sonagliere.

M a con Falsetto si arresta l’analogia sinfonica: ci manca il conclusivo quarto movimento, che potrebbe essere Quasi una fantasia, per arrivare alla quale dobbiamo invece ascoltare altri scherzi. Non sinfonia classica dunque, che sarebbe davvero un programma neoclassico nel 1925, ma le sue membra sparse, la sua wagneriana e debussiana dissoluzione. Cade qui difatti l’imitazione dei Minstrels di Debussy, non a caso riproposti dall’edizione critica nell’esatta collocazione che avevano nella prima edizione degli Ossi. In Debussy si tratta dell’ultimo pre­ludio del primo libro dei Préludes per pianoforte, del 1910 (musica dunque di attualità): una grottesca parodia di un ritor­nello da music-hall, da suonarsi in modo «nerveux et avec humeur», un brillante studio di staccato (l’antitesi del legatis­simo corno wagneriano) che anticipa Strawinskij, magistral­mente reso da Montale con la sua musica da strada:

Acre groppo di note soffocate,rìso che non esplodema trapunge le ore vuotee lo suonano tre avanzi di baccanalevestiti di ritagli di giornali,con istrumenti mai veduti,simili a strani imbutiche si gonfiano a volte e poi s ’afflosciano.

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Né manca in chiusa il richiamo al solito scordato cuore e a un autoironico riferimento al proprio tentativo musicale: «Bruci / tu pure tra le lastre dell’estate, / cuore che ti smarrisci! Ed ora incauto / provi le ignote note sul tuo flauto.» La musica leggera tanto raffinatamente evocata da Debussy e Montale si fa quindi musica infantile in Caffè a Rapallo, fatta di elementari rumori che incantano «l’animo dubitoso». «Le trombe d’oro della solarità» dei Limoni e il «forte scotere di lame» di Corno inglese si riducono qui a «trombe di lama». Finalmente in Quasi una fantasia, dal titolo ancora una volta musicale (è il sottoti­tolo delle due sonate op. 27 di Beethoven), «Torna l’avveni­mento / del sole» (dunque la solarità che conclude I limoni) «e le diffuse / voci, i consueti strepiti non porta». Finiti gli scherzi di Falsetto, Minstrels e Caffè a Rapallo cala il silenzio, di nuovo propizio all’occasione salvifica, al recupero del tempo, alla tra­sformazione della realtà esterna, siglati dall’occasione del gal­letto di marzo. Il silenzio segnala dunque l’apertura e la chiu­sura dei «movimenti» prettamente musicali. I successivi sono infatti movimenti solo in senso fisico: tentativi di uscire dall’immobilità e dall’atonia. Si ricordi però che in Vento e ban­diere (penultimo e posteriore movimento) il vento marino che modulò un tempo l’assente è il responsabile di un’intensa ben­ché parziale intermittence du cœur. Al silenzio musicale come «valico metafisico» accennerà poi il Montale giornalista nel ’59, dando relazione di una tavola rotonda sulla musica, con l’iro­nico riserbo di chi quel valico non potè mai superare ma che più di altri intensamente visitò in poesia:

qui non parve che si fosse raggiunta un’intesa, perché il senso meta­fisico appartiene a chi lo possiede in proprio e tutte le grandi opere d’arte possono sollecitare questa apertura: Rembrandt non meno di Beethoven, Baudelaire più di César Franck (PS 20).

Più che nella sede originale degli Accordi, Corno inglese trova nel nuovo assetto la più vasta spiegazione e risonanza, date le fittissime connessioni intertestuali che lo legano agli altri movimenti, e di quel ciclo rappresenta il momento di più solenne quanto drammatica musicalità: l’adagio wagneriano su cui innestare i successivi rapidi schizzi debussiani.

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4. «Como inglese» è una citazione musicale?

Avanzo infine una proposta suggeritami da quella ben determinata realtà musicale che è il corno inglese: un corno che non è un corno, ma un oboe dalla voce più profonda e robusta; che è detto inglese ma inglese non è, ma ha quell’epiteto per una misteriosa translitterazione che la filologia non ha ancora del tutto chiarita: un nome ambiguo per una cosa ambigua, già di per sé atta ad attirare l’attenzione di un Montale. È parte inte­grale dell’orchestra tardo-romantica e moderna, ma ha abba­stanza raramente un ruolo solistico. Lo assume senz’altro alla fine del preludio del terzo atto del Tristano, l’opera di Wagner più nota e ammirata da Montale, che la recensì ben tre volte, nel ’57, nel ’59 e nel ’64. Nell’ultima occasione vi riconosce una svolta fondamentale della musica moderna, vi ammira la «stu­penda musica» e, con qualche riserva, le «sterminate lentezze» (PS 420-3). N ota fra l’altro come fosse già opera di repertorio «quaranta anni or sono», quindi all’epoca delle sue prime prove poetiche, all’epoca in cui anche Arturo Onofri firmava una guida al dramma musicale10. Né bisogna dimenticare che alle spalle degli entusiasmi del primo dopoguerra sta, su un piano diverso, la lunga parafrasi che di questo notturno dramma di amore e morte fece D’Annunzio nel Trionfo della morte (1894).

Il breve e lento preludio del terzo atto (quello della riunifi­cazione nella morte dei due protagonisti) comporta tre motivi che si incastrano l’uno sull’altro senza pause ma ben distingui­bili. Secondo le tipiche denominazioni wagneriane, che ritro­viamo in ogni guida all’opera, compresa quella di Onofri, abbiamo: 1. tema della desolazione, che si alza su cupi e vibrati accordi degli archi; 2. tema della solitudine, cromatico e ascen­dente, affidato ai violini, che raggiungono note molto acute;3. tema della privazione d’amore, melodico, che si conclude in ff. A questo punto si alza la tela, l’orchestra tace e udiamo fuori scena un pastore che, ignaro del dramma di Tristano, suona la zampogna (resa dal corno inglese a solo): un motivo desolato, melodicamente arditissimo, che non porta nome, ma Tristano, che giace morente sulla spiaggia del mare, sotto un albero, a questi suoni si riscuote e riconosce in essi la voce del suo destino tragico, portatogli dal vento, e questo destino consiste nel desiderio infinito, che fa oltre la morte. Al di qua di ogni

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interpretazione simbolica e di ogni facile concordanza su quel piano, credo che la messa in scena sia eloquente, e che il taglio del preludio orchestrale e del successivo a solo di corno inglese sia molto vicino a quello della poesia montaliana, se la quadri­partizione proposta regge: al primo tema musicale della desola­zione corrisponderebbe il primo tema della poesia: il vento che vibra e suona gli alberi; al secondo ascendente ben risponde il secondo del cielo; al terzo che si chiude in fortissimo il terzo del mare in tempesta. Infine, se nella musica l’orchestra tace e si ode fuori scena il corno inglese, nei versi si introduce l’impossi­bile e memorabile a solo, rimanendo fuori testo lo strumento musicale che lo emette. Il titolo della poesia può dunque avere il valore di una citazione: indica che di quello strumento non si tenta un’imitazione, ma che forse di quel preciso corno inglese wagneriano si offre una trasposizione11.

L’«ingenua pretesa» non muore ma nasce con gli Accordi, e raggiunge in Corno inglese un primo alto risultato tu tt’altro che ingenuo. È una pretesa simile a quella che il poeta ha ricono­sciuto nel musicista: «Wagner quasi traduce in realtà la presun­zione di fondere le arti in una sola» (PS 311). A questo sogno, tradotto in pagine esteriori e magniloquenti da D ’Annunzio, Montale non poteva non mettere la sordina e circondarlo di ogni cautela, ma certamente lo ha rincorso a lungo come un possibile Eldorado.

Alessandro Martini Università di Friburgo

in: "Versants - revue suisse des littératures romanes", 11 (1987)

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NOTE

1 Citerò per abbreviazione le seguenti opere di Eugenio Montale: OV: L ’opera in versi, edizione critica a cura di Rosanna Bettarini e Gianfranco Contini, Torino, Einaudi, 1980. PS: Prime alla Scala, a cura di Gianfranca Lavezzi, Milano, Mondadori, 1981. SP: Sulla poesia, a cura di Giorgio Zampa, Milano, Mondadori, 1976. Ringrazio per gli ottimi suggerimenti l’amico e col­lega Alain Faudemay, e per l’aiuto costante, anche nelle più difficili emergenze, mia moglie Olivia, alla quale dedico queste mie scarse ma meno fredde pagine.

2 Eugenio Montale, Mottetti, a cura di Dante Isella, Milano, Il Saggiatore, 1980, pp. 63-66. A proposito di questi brevi e concettosi componimenti chia­mati mottetti si insiste molto sul valore letterario del termine, ma si dimentica spesso l’indicazione di genere musicale sacro e polifonico, da Palestrina a Poulenc.

3 La raccolta fa splendida luce sui risvolti musicali della poesia monta- liana, come documenta Saverio Orlando, «Alla Scala, con Eusebio e con Malvo- lio», in Paideia, XXXVII, 1982, pp. 45-51. Ma il volume ha anche una sua intrinseca validità, come mostra l’appassionata e nutrita recensione di Pier Vincenzo Mengaldo, «Montale critico musicale», in Studi novecenteschi, XI, n° 28, 1984, pp. 197-239. A p. 204 vi si dice della «sorda resistenza a Wagner del gusto montaliano», di «antica riluttanza [...] radicalizzata con gli anni», che sembrerebbe divergere da quanto vado asserendo. Ma appunto di gusto si parla, non del pieno riconoscimento del ruolo di Wagner nella storia della musica; della sua accettazione in toto, non del sicuro apprezzamento di singole pagine. A p. 234 per altro Mengaldo precisa trattarsi soprattutto di avversione ideolo­gica, che si fa più viva con il tempo proprio per l’accresciuta consapevolezza delle ultime conseguenze espressionistico-dodecafoniche del discorso wagne­riano. Mentre dal Montale esordiente, postillerei, Wagner può essere evocato anzitutto come l’antesignano di Debussy.

4 Eugenio Montale, Quaderno genovese, a cura di Laura Barile, Milano, Mondadori, 1983, p. 47 (5 maggio 1917): «L’altro giorno divorai per intero Sagesse di Verlaine. Il colossale capolavoro! È la terza volta (o la quarta?) che lo rileggo; e sempre più l’ammiro!» Si veda anche l’attenta nota della Barile a pp. 156-7. '

5 Pier Vincenzo Mengaldo, «Da D ’Annunzio a Montale: ricerche sulla for­mazione e la storia del linguaggio poetico montaliano», in AA. W ., Ricerche sulla lingua poetica contemporanea, Padova, Liviana, 1966, pp. 163-259, poi in Mengaldo, La tradizione del Novecento, Milano, Feltrinelli, 1975, pp. 13-106.

6 Gian Pietro Biasin, Il vento di Debussy. La poesia di Montale nella cultura del Novecento, Bologna, il Mulino, 1985, p. 31, preferisce dare a lancia a terra 12 ecc. il soggetto vento 1, piuttosto che il mare 10.

7 Gianfranco Contini, «Su Eugenio Montale. II. Dagli Ossi alle Occasioni» [1938], in Esercizi di lettura, Torino, Einaudi, 1974, p. 79.

8 Per queste e tante altre osservazioni, che mi permettono qui di tirar dritto, cfr. Pier Vincenzo Mengaldo, «Per la cultura linguistica di Montale: qualche restauro. II. Corno inglese e Alcione», in op. cit., pp. 301-313, part, p. 310. “

9 Così, con orecchio al solito vigile e acutissimo Giorgio Orelli, Accerta­menti verbali, Milano, Bompiani, 1978, pp. 179-80.

10 Riccardo Wagner, Tristano e Isotta. Guida attraverso il poema e la musica a cura di Arturo Onofri, Milano, Bottega di Poesia, 1924.

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11 II rinvio a La mer di Debussy, in particolare alla terza parte del poema sinfonico, Le dialogue du vent et de la mer (G. P. Biasin, op. cit., p. 27), tematica­mente più ovvio, credo debba cedere a questo wagneriano, tanto più pregnante a livello di forma del contenuto, senza per questo negare l’evidenza, cioè il peso ben maggiore di Debussy nella poetica montaliana, rispetto a Wagner. Al di là del gusto personale, l’altissima competenza musicale del poeta rende ben più allettante questo refolo wagneriano nel dominante «vento di Debussy», che spira più fresco altrove e accanto a Corno inglese. Mengaldo ha da par suo riba­dito l’estraneità di fondo della poetica di Montale a quella di Wagner (cfr. nota 3), ma a chi di Corno inglese ha fatto un bell’esempio di attraversamento dannunziano (cfr. nota 8) non dovrebbe essere discaro vederlo interpretato anche come attraversamento wagneriano.

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IL VENTO DI DEBUSSY: POESIA E MUSICA IN MONTALE*

C'è una decisa affermazione di Eugenio Montale, contenuta nella famosissima e mai t roppo citata "Intervista immaginar ia" del 1946, dalla quale conviene prendere le mosse:

Quando cominciai a scrivere le prime poesie degli Ossi di seppia avevo certo un'idea della musica nuova e della nuova pittura. Avevo sentito i Minstrels di Debussy, e nella prima edizione del libro c'era una cosetta che si sforzava di rifarli : Musica sognata. E avevo scorso gli Impressionisti del troppo diffamato Vittorio Pica.1

Pur nella cautela, t ipicamente montal iana, della sua formulazione ("avevo un ' idea", "avevo scorso"), questa affermazione a posteriori di intenzioni e di consapevolezze determinanti per l'incipi t di tutta un 'opera di poesia conserva un' importanza fondamentale, accresciuta poi dalla ripubblicazione recente nell'edizione critica proprio di quella modesta "coset ta" qui r ichiamata. Siamo di fronte in realtà a un'orgogl iosa rivendicazione di apertura culturale e di novità (" l a musica nuova", " l a nuova p i t tura": la posizione e la ripetizione dello stesso aggettivo non sono certo casuali, ma retoricamente rivelatrici), per cui le parole di Montale sono da prendere come

*È il testo, ampliato, di una relazione letta al Convegno Internazionale di Studi, "La poesia di Eugenio Montale", Genova, Aula Magna dell'Università, 25-28 novembre 1982.

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Gian-Paolo Biasin

Il tema è stato poi ripreso e sviluppato nel volume "Montale, Debussy, and Modernism", Princeton U.P., 1990.

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u n ' i n f o r m a z i o ne prez iosa e non come un ' i nd i caz ione "dep is tan te" per i l critico che voglia ricostruire le origini della poesia di Montale e i l quadro culturale in cui essa venne a inserirsi e ad affermarsi.

Intanto, ci sono le tre componenti fondamentali degli interessi dell giovane (come poi del maturo e del vecchio) Montale: poesia, musica e pittura; non debbo certo richiamare qui gli elementi, le occasioni, gli aneddoti biografici in cui questi interessi si art icolarono e t rovarono espressioni diverse, dai pastelli con le deliziose marine e i sorridenti ritratti agli studi da bari tono presto abbandonati ma mai dimenticati e trasferiti più tardi nell 'att ività precisa e puntigliosa di critico musicale esigente e magari idiosincratico del Corriere della sera.2 Piuttosto, l ' interazione fra poesia, musica e pit tura indica al critico contemporaneo la complessità della cultura, quale è teorizzata nel principio "d ia log ico" de Michail Bachtin3 e che Montale aveva inteso e indicato da par suo, autonomamente, con grande efficacia. Infatti l ' interazione fra diversi generi, modi espressivi, linguaggi, codici, da sola non basta: deve trattarsi di un' inte-razione attiva, innovativa, che sperimenti nuove possibilità, nuovi orizzonti, magari traducendo i risultati di un campo in un altro parallelo, traslando un linguaggio in un altro.

Occorre dunque chiedersi, prel iminarmente, perché Montale indichi la musica nuova e part icolarmente Debussy, e la nuova pittura e part icolarmente gl' impressionisti. Certo, si t ratta di forme espressive congeniali alla poesia per lunga tradizione, da "u t pictura poesis" fino a " de la musique avant toute chose" (basti r icordare le numerose pagine che Hugo Friedrich ha dedicato a l l ' "un i tà strut turale" e al l 'analogia fra poesia, musica e pit tura moderne4) , e particolarmente congeniali, dati i riferimenti biografici accennati, al giovane Montale.

Ma perché gl' impressionisti, e perché Debussy? Brevemente, si può dire con Fénéon che gl'impressionisti

furono tra i primi a porre le basi della pit tura moderna, con la separazione e l 'accostamento di colori puri sulla superficie del dipinto, i quali dovevano poi essere rimescolati e fusi insieme dalla percezione attiva dell 'osservatore, r icreando quel l 'armonia visiva — e quindi l 'oggetto stesso della visione — che potevano sembrare persi alla prima impressione: si pensi alla cattedrale di Rouen, alla stazione di St. Lazare e alle biche di Monet e alla

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grande Jatte di Seurat, con le loro sapientissime variazioni luminose e " l ' inf ini t a delicatezza" del model lato.5 È dunque lo stile con la sua disgiunzione tra segno e significato che gl'impressionisti mettono in pr imo piano a scapito della rappresentazione e dell'oggettività; ed è una partecipazione attiva dell 'occhio dello spettatore che essi richiedono come parte integrale del procedimento artistico.

Analogamente, Debussy fu tra i primissimi a scardinare il sistema tonale tradizionale, con dissonanze volute che rompevano la scala armonica e dovevano essere recepite e accettate dall 'orecchio dell 'ascoltatore, che veniva così indirizzato verso la musicalità intrinseca ed autonoma dei suoni. Nella nuova poesia, dissonanza lessicale e parola analogica sono le due categorie critiche che, dopo Friedrich, caratterizzano col massimo vigore gli sviluppi novecenteschi e i l loro rapporto con pittura e musica.

Non so se Montale avesse chiari fin dall' inizio simili rapporti e simili analogie in tutte le loro complessità e ramificazioni. Probabi lmente, no. Certo, Montale aveva capito l ' importanza del libro di Pica, i l critico d 'ar te napoletano davvero " t roppo d i f famato", se si pensa che Soffici lo qualificò senza mezzi termini di " imbeci l le" (mentre Fénéon ne aveva invece messo in risalto la "coerenza r a r a" e l 'apertura mentale senza dogmatismi);6 infatti, i l l ibro di Pica, oltre a presentare un panorama notevole del movimento impressionista, dai precursori inglesi agli epigoni del divisionismo italiano (Segantini, Morbell i, Previati, Pellizza da Volpedo ed altri), contiene un' idea derivata proprio da Fénéon e fondamentale ancor oggi per la comprensione degli impressionisti, cioè i l loro uso di "macchie di colori puri che si fondano a distanza sulla pupilla dello spet tatore" invece che sulla tavolozza.7 Ma i l fatto stesso che Montale citasse insieme impressionisti e Debussy sembra voler indicare che considerava sullo stesso piano impressionismo pittorico e impressionismo musicale, mentre per Debussy l 'etichetta stessa di impressionismo è almeno da rivedere e da limitare nel tempo. Piuttosto, è importante notare, come ha fatto Laura Barile, che " l 'at tenzione a ciò che avveniva nel mondo musicale è caratteristica della cultura di quegli ann i" del pr imo Novecento: infatti "anche Serra esplorava la stessa zona, della musicalità del verso, intesa in termini quantitativi, di arsi e tesi, di r i tmo e non più di melod ia", e in tale contesto sarà utile ricordare

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La  dissonanza,  la  rivista  di  breve  durata  ma  di  significative 

aperture,  diretta  da  Giannotto  Bastianeiii  e  I ldebrando  Pizzetti, 

dal  titolo  emblematicamente  programmatico  e  indicativo  della 

" m u s i c a  n u o v a " .8 

In  ogni  caso,  che  Montale  fosse  consapevole  ο  no  di  tutte  le 

implicazioni  del  rapporto  fra  le novità espressive nelle tre arti non è veramente importante: ciò che conta, e molto, è che egli questo rapporto lo visse fin dall ' inizio con una sensibilità e una tempestività straordinarie; che di questo rapporto  ο  interazione  si 

arricchì tut ta la sua prima poesia; e che in particolare (tralasciando per ora la pittura) la primitiva scelta debussyana non fu mai r innegata ma fu r ipetutamente e sapientemente usata dal poeta a fini di poetica e di politica culturale, in modi e contesti che varrà la pena esplorare.

I l discorso montal iano su Debussy è frammentario, apparentemente occasionale e discontinuo, ma in realtà int imamente coerente e rigoroso per chi abbia la pazienza di avvicinarne i tasselli. Le osservazioni di Montale sono di carattere teorico, storico, e culturale. A livell o teorico, i l rapporto tra musica e poesia è riconosciuto da Montale lungo tutto l 'arco dell'estetica musicale, dai madrigali ai libretti d 'opera, e la vexata quaestio della superiorità del l 'una sull 'altra  ο  viceversa è risolta nel senso che "poesia e musica camminano per conto proprio e che i l loro incontro resta affidato a fortune occasional i" (come per esempio nei casi di Debussy, Mussorski e Schönberg), perché in realtà, mal larmeanamente, la poesia " i n se stessa è già musica"; posizione ribadita nel 1962: " So che l 'arte della parola è anch'essa musica, sebbene abbia poco a che fare con le leggi della acust ica" .9 Mi si dirà che simile orgogliosa affermazione dell 'autosufficienza della parola poetica contrasta con quella iniziale dello sforzo di rifare Minstrels: è vero, ma solo in superficie, perché anche, anzi proprio " r i facendo" Debussy Montale riafferma la superiorità della parola sulla musica, i l cui carattere "asemant ico", " u na grande conquista della cultura m o d e r n a " ,1 0 viene dunque temat izzato, concet tual izzato, dal l 'unica forma d'arte capace di compiere una tale operazione esplicitamente, cioè la letteratura, la parola scritta, e in particolare la parola poetica. Ciò è tanto vero che nella stessa "Intervista immaginar ia" Montale aveva richiamato i grandi ismi filosofici contemporanei (le "paro le grosse" di "Mar fo r i o " :

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l 'esistenzialismo kierkegaardiano di Scestov, l ' immanentismo assoluto di Gentile, " i l grande positivismo idealistico del Croce", e soprattut to, per gli anni di Ossi di seppia, il contingentismo di Boutroux), per poi negarli subito — ma intanto i l r ichiamo, che è "semant ico", resta:

No, scrivendo il mio primo libro (un libro che si scrisse da sé) non mi affidai a idee del genere. [...] Ubbidii a un bisogno di espressione musicale. Volevo che la mia parola fosse più aderente di quella degli altri poeti che avevo conosciuto. Più aderente a che? Mi pareva di vivere sotto una campana di vetro, eppure sentivo di essere vicino a qualcosa di essenziale. Un velo sottile, un fil o appena mi separava dal quid definitivo. L'esperienza assoluta sarebbe stata la rottura di quel velo, di quel filo: una esplosione, la fine dell'inganno del mondo come rappresentazione. Ma questo era un limite irraggiungibile. E la mia volontà di aderenza restava musicale, istintiva, non programmatica. All'eloquenza della nostra vecchia lingua aulica volevo torcere il collo, magari a rischio di una controeloquenza.11

Niente " i sm i " , dunque; ma questo "bisogno di espressione musicale", alla luce della autonomia e semanticità della poesia, la dice lunga sulla fede di Montale nella parola scritta, fin dall ' inizio. Occorrerà magari cercare di individuare possibili omologie (funzionali, strutturale) fra musica e poesia alla luce di studi recenti, come le appasionanti considerazioni di Leonard Bernstein in termini chomskiani, in cui le trasformazioni della grammatica generativa (a livell o fonologico, sintattico e semantico) trovano convincenti applicazioni nelle letture di grandi testi della musica occidentale;1 2 ma lo scetticismo montal iano in materia resta, e i l critico deve prenderne at to, e riconoscere preliminarmente i l fatto evidente che gli sforzi maggiori compiuti dal poeta per collegare in qualche modo poesia e musica appartengono tutti al suo primissimo periodo, e includono solo: alcune poesie mai raccolte in volume (mai elevate alla dignità del l ' "opera in versi": Musica silenziosa, Suonatina di pianoforte, Accordi) e la prima sezione degli Ossi, quei "Mov iment i" appunto musicali ed anzi debussyani (Mouvement è una delle Images per piano) ma già metaforici ("Ascoltami, i poeti laureati / si muovono..."), che nella ristrutturazione definitiva inclu-dono I limoni, Corno inglese, Falsetto e Minstrels; mentre la serie Mediterraneo è si debitrice di La mer (Pieri), ma direi più come idea che come esecuzione.1 3

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Negli  sviluppi  ulteriori  della  poesia  montal iana  vi  saranno 

solo  echi  ο  sapienti  riferimenti  musicali  al  di  fuori  di  qualsiasi 

intenzione  sistematica,  come,  per  fare  solo  due  esempi,  il mottetto 

Infuria  sale  ο  grandine  col  richiamo  a  La cathédrale engloutie ( "mol to probab i lmente" ) ,1 4  ο  La  bufera  col  r icordo  di  Jardins 

sous  la  pluie,  sempre  di  Debussy. 

Intanto però, a livello storico, Montale sa bene che musica, pi t tura e poesia seguono le proprie strade parallele, che possono non coincidere nel tempo e non corrispondere nello spazio. Consideriamo con lui "a lcune da te" relative al decadentismo:

Il preraffaellismo [...] era vivo in Inghilterra quando in Italia dipingevano i Fontanesi e i Cammarano, classici malgrado il loro romanticismo. Rimbaud e Mallarmé scrivono quando in Italia si è giunti appena alla scapigliatura; i nostri macchiaioli si svegliano quando incontrano l'impressionismo francese; Debussy è un contemporaneo di Puccini e Mascagni. D'Annunzio non si spiega senza le sue fonti straniere, innumerevoli. Mentre infuria l'espressionismo viennese, Casella e soci propongono un ritorno al Settecento.15

D'accordo, "per fortuna siamo in r i ta rdo", come conclude la sua rassegna Montale con sorridente ma salutare ironia storiografica. Intanto però Montale ha messo i puntini sugli i , ci ha procurato i dati di fondo per capire bene la sua operazione culturale, nella quale Debussy ha una funzione centrale, da vera e propria cartina di tornasole. Seguiamo i l discorso montal iano nel campo letterario:

[Gozzano] ridusse D'Annunzio come Debussy aveva ridotto Wagner, ma senza mai giungere a risultati che possano dirsi debussiani. La poesia di Gozzano resta in quel clima che gli studiosi dell'ultimo melodramma italiano dell'Ottocento chiamarono "verista", un clima che sostanzialmente non è di origine decadente. [ . . . ] Mi par certo che in Gozzano la componente romantico-borghese-verista sia stata la più fruttuosa. Gozzano ridusse al minimo comun denominatore la poesia italiana del suo tempo, e qui i l raffronto con Puccini torna ancora irresistibile.16

Si noti l ' impeccabile esattezza del ragionamento di Montale, in cui i riferimenti musicali sono in rapporto "d ia log ico" coi dati letterari: sappiamo che Puccini era " i n r i ta rdo" rispetto a Debussy, e che usando un criterio qualitativo Gozzano non può

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essere considerato un innovatore riuscito del tutto ("senza mai g iungere a r isul tati che possano dirsi d e b u s s i a n i " ) .1 7

Riconoscendo a Gozzano ciò che gli spetta (fu " i l primo che abbia dato scintille facendo cozzare l 'aulico col prosaico"), Montale ci fa però ricordare anche la propria intenzione, verlainiana, di " torcere i l collo all 'eloquenza della nostra vecchia lingua aul ica", "magari a rischio di una controeloquenza": e se Debussy è al centro del ragionamento, i l vero bersaglio che si delinea è in realtà D'Annunzio. Come in musica Debussy ha ridotto e quindi in un certo senso sostituito Wagner, così in letteratura D'Annunzio sarà r idotto e superato non da Gozzano, ma da Montale, quel Montale che avrà "a t t raversato" D 'Annunzio, a cui la musica dopotut to era stata aggiunta da Debussy (in Le martyre de Saint Sébastien), che a sua volta era stato messo in poesia proprio da Monta le !1 8

Converrà dunque dedicare qualche attenzione supplementare a Claude Debussy e cercare di capire ancor meglio (o più esplicitamente, più capillarmente) di quanto abbia fatto Montale la novità e l ' importanza della sua opera sia nello svolgimento della musica contemporanea che in rapporto alla letteratura, cioè in un contesto culturale di cui la musica fa parte come sistema significante " i n cui regnano dei rapporti particolari fra i l significante e il significato, e questo sistema simbolizza a suo modo i grandi temi della Cultura, i l rapporto con l 'al tro, con la natura, con la morte, col des ider io . "1 9

Nel la s tor iogra f ia mus ica le, Debussy occupa una "singolarissima posizione" che viene schematizzata da Salvetti nei termini seguenti:

partecipe dell'impegno intellettuale e morale dei decadenti-wagneriani; propenso a un'arte "leggera", fatta di accenni e di analogie; ricercatore infaticabile (rinnovantesi fino alle morte) di un linguaggio musicale che esprimesse sia l'evanescenza spirituale delle esperienze interiori, sia il rigore formale di un fare artistico cosciente e perfettamente responsabile.20

Ho scelto queste parole di Salvetti perché mi sembrano assai efficaci nel tratteggiare gli elementi storico-sostanziali e critico-formali dell 'opera di Debussy; del quale vale la pena citare intanto una dichiarazione fatta a Guiraud già nel 1889:

Non sono tentato di imitare ciò che ammiro in Wagner. Io concepisco una forma drammatica diversa: la musica comincia là

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dove la parola è impotente a esprimere: la musica è scritta per l'inesprimibile; vorrei che essa sembrasse uscire dall'ombra e che, qualche istante dopo, vi ritornasse. [...] Sogno dei poemi che non mi condannino a trascinare avanti atti lunghi, pesanti, [...] dove i personaggi non discutano, ma subiscano la vita e la sorte.21

A queste intenzioni giovanili corr ispondono i risultati delle opere maggiori di Debussy, dal Prélude à l'après-midi d'un faune (1894) a Nocturnes (1900) e fino a Pelléas et Mélisande (1902), le quali costituiscono quello che è stato chiamato, forse non del tutto giustamente, " l ' impressionismo musicale" del compositore, basato in ogni caso su un'estetica simbolista e decadente e volto alla "dissoluzione della solidità, della grandiosità, della compattezza del linguaggio musicale del tardo romanticismo tedesco" .2 2 Wagner aveva esasperato, nel sistema armonico tradizionale, la tensione per cui ogni accordo tende verso un altro: Debussy vuole invece " rompere questa tensione, spesso artificiosa, recuperare i l valore sonoro di ogni singolo accordo preso per sé so lo", sia accostando "gl i uni agli altri accordi d issonant i ", sia passando " da un accordo consonante ad un altro appartenente ad altra tonal i tà", sia infine "con la minore forza di attrazione del 'punto di r iposo', cioè del centro tona le" (scala pentatonica, scale difettive): i l conseguente "al lentamento della tensione armon ica" produce suoni sempre più pu r i .2 3 Analoga operazione Debussy compie sull ' impianto ritmico tradizionale (con lunghe pause, sospensioni, ripetizioni, variazioni), e sull 'orchestrazione (in cui egli dissolve la massa orchestrale del sinfonismo tedesco e predilige timbri anch'essi puri e strumenti solisti, "soprat tu t to flauto, oboe, corno ing lese") .2 4 A ulteriore commento, citerò l'analisi di Prélude à l'après-midi d'un faune, nella quale Bernstein ha messo in evidenza non solo che si tratta di un 'opera "at tentamente costruita e intenzionalmente disegnata" sul t r i tono, " l 'assoluta negazione della tonal i tà", ma che le implicazioni armoniche basate sul tr i tono (la scala a toni interi) producono " i l pr imo materiale atonico organizzato che sia mai apparso nella storia della musica" tonale, per concludere infine che il Faune è un vero e proprio "saggio sul mi maggiore".25

Nelle opere posteriori al 1902, sia orchestrali che — specialmente — pianistiche, Debussy accentua "i l rigore nuovo che collega armonia e melodia" e, "anziché nascondere la linea melodica e r i tmica nel l 'alone impressionistico, la mette nettamente in evidenza" (anche Jacques Rivière fin dal 1910-11

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aveva notato che la musica di Debussy era una "musica della vo lu t tà", ma "esa t ta ", " r igorosa", " rarefat ta dall ' intell igenza", e ancora, "commovente per i l suo stesso r igore" ) .2 6

I l superamento dell ' impressionismo,  ο  se  si  preferisce 

l ' innovazione  del  "pensiero  sonor ia le" ,  avviene  anche  per  mezzo 

dell ' ironia  di  certi  pezzi  come  il  Golliwogg's  Cake-walk  ο  The 

little  shepherd, è notevole nelle Images del 1905-07 e nei 24 Préludes per pianoforte del 1910-13 ed è definitivo nelle ultime opere, e in particolare nei 12 Études per pianoforte del 1915, "dove, dietro la sollecitazione del fatto meccanico-tecnico, avviene una totale emancipazione della dissonanza e si esplorano già chiaramente i luoghi del pianismo del Novecento" .2 7

Si può, r iassumendo, concordare con Jarocinski, i l quale afferma che l'estetica di Debussy "cor r isponde" fondamental-mente "al l a poetica di Mal larmé. Tutti e due agli antipodi del wagnerismo, essi hanno cercato ' l 'essenza delle cose', le nude verità, non deformate da piatte categorie spaziali  ο  da  una  pom­

posa  r e t o r i c a . "2 8 

Le  brevi  notazioni  che  precedono,  oltre  a  definire  la 

posizione  di  Debussy  nella  musica  del  suo  tempo,  spero  indichino 

abbastanza  chiaramente  la  sua  importanza  nel  rapporto  dialogico 

con  la  letteratura.  Opero  qui  un  capovolgimento  totale  rispetto 

all'analisi  di  Wenk,  che  ha  mostrato  con  precisissimi  riscontri 

testuali  l 'influenza  di  alcuni  poeti  (specie  Banville,  Baudelaire, 

Verlaine, Louÿs e Mallarmé) sulle scelte e sulle soluzioni musicali di Debussy. Desidero caratterizzare invece l'influenza di Debussy sul giovane Montale, approfondendo l' indicazione lasciata dal poeta.

L'influenza di Debussy è prima di tut to, e non t roppo paradossalmente, letteraria, proprio perché i l letteratissimo musicista ha filtrato e trasmesso la grande lezione del simbolismo francese, a cui dunque — come ma a differenza di Ungaretti — anche Montale si r ichiama, con grande consapevolezza tanto dei debiti quanto della propria au tonomia .2 9

Ma l'influenza di Debussy è da sottolineare in secondo luogo per l 'anti-grandiosità del suo stile e per l 'anti-eroismo dei suoi personaggi che "non d iscutono" ma "sub iscono": modelli culturali, certo, che si r i trovano non solo nel teatro di Maeterlinck ma in tanta letteratura del Novecento, e documentabili per Montale, dalla poetica della diminutio antiaulica di I limoni

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all 'antieroe per eccellenza Arsenio, preparato fra l 'altro da Minstrels.

Con uguale decisione va poi sottolineata " l 'emancipazione della d issonanza", che sarà poi ripresa e teorizzata da Igor Stravinski nella sua Poétique musicale del 1942, citata in apertura di l ibro da Friedrich per caratterizzare la lirica moderna ,3 0 in quanto attraverso la dissonanza lessicale si vuole esprimere una ben più profonda dissonanza interiore — e non vi sono dubbi che Montale è una voce assolutamente centrale e genuina in una lirica così intesa.

Ancora, un preciso anche se non duraturo influsso di Debussy si può individuare nel l ' " impressionismo" delle prime prove poetiche di Montale, al punto che tre dei sette Accordi portano i titol i di tre degli strumenti preferiti dell 'orchestrazione debussyana: f lauto, oboe, corno inglese (e si noterà che la Suonatina di pianoforte, forse proprio perché "al l a Maurizio Ravel" e non alla Claude Debussy, è rimasta nel l imbo delle poesie disperse).3 1

Infine, non tanto un'influenza quanto una consonanza  ο  una 

corrispondenza  profonda è da riscontrare a livell o tematico: i l mare gioca un ruolo notevolissimo nella musica di Debussy come nella poesia del ligure Montale; accompagnato spesso dal vento, elemento sonoro che ne completa la figuratività, i l mare è presente i n numerose composizioni dei due art isti come fonte d' ispirazione, interlocutore, pretesto descrittivo, narrativo  ο 

discorsivo.  Vale  la  pena  citare  un  commento  particolare  di 

Jarocinski: 

Il  mare  di  Monet  non è mai terrificante. Si partecipa alla contemplazione del pittore, lui stesso in un accordo panteista con la natura. Ma in La mer di Debussy tutto sembra avvenire — come in Turner — ad un livello cosmico. Nella parte finale di questa sinfonia poliritmica, Le dialogue du vent et de la mer, il rumore funesto dell'uragano sembra annunciare la morte e la distruzione; la stessa impressione promana dal Prélude VII (libro I): Ce qu'a vu le vent de l'Ouest.32

Quanto queste osservazioni siano pertinenti anche per la poesia di Montale, da Arsenio a La bufera, credo non sia necessario sottolineare.

Ma appunto, occorre ora verificare sui testi montaliani gli aspetti dell ' influenza e della consonanza debussyane.

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Non è questa la sede per un'analisi approfondita e sistematica degli Accordi e delle altre poesie "musica l i" del giovane Montale, ma mi sarà consentito un brevissimo accenno ad alcuni aspetti di queste poesie che mi sembrano important i, a integrazione di quanto già osservato da critici del valore di Fort i, Sanguineti e Ramat ,3 3 mentre dedicherò maggior spazio alla lettura e al commento di Minstrels e di Corno inglese.

Testimonianza preziosa di una stagione culturale di un' intensità e di un fervore straordinari, la suite dei sette Accordi ci consente di verificare testualmente l' incidenza sul fare poetico di Montale di movimenti non solo contemporanei e italiani (il dannunzianesimo e i l crepuscolarismo, già notati dai critici), ma anche precedenti e stranieri: in part icolare, l ' impressionismo ("e a questa ciarla / s'univano altre, ma più gravi, e come / bolle di vetro luminose intorno / stellavano la notte che raggiava. / Di contro al cielo buio erano sagome / di perle, / grandi flore di fuochi d'artif izio, / cupole di c r i s t a l l o . . ." — in Flauti-Fagotti, dove si noteranno anche la parola analogica e l 'all itterazione di "grandi flore di fuochi d 'art i f iz io"); e i l simbolismo, rintraccia-bile non solo nell 'uso tipico di maiuscole iniziali per parole chiave come il " C e n t r o" e i l "N ien te" in Violoncelli  ο  il  " B r u t t o "  in 

Contrabbasso,  ma  anche  nei  numerosi  casi  di  parole  analogiche 

(per  esempio:  " O c c h i  corolle  s 'aprono  /  in me — chissà? —  ο  nel 

suo lo" ,  con la sua struttura chiasmatica in  Violini,  oppure il canto 

che  va  "nel le  v e n e "  e  poi  nel  " c u o r e "  in  Violoncelli),  e  infine 

nella  dissonanza  lessicale  (si  ricordi  il  bellissimo  ossimoro  di 

Flauti-Fagotti:  "gli  occhi  s 'abbacinavano  /  in  un  gaio 

s u p p l i z i o ! " ) .3 4 

Inoltre,  la  suite  di  Accordi  costituisce  una  vera  e  propria 

" p r o v a  d ' o r c h e s t r a "  di  temi  e  motivi  che  si  r i troveranno 

nell 'opera poetica di Montale,  dall 'attesa del miracolo al grigiore 

della  vita  quotidiana,  dalla  tristezza  alla  gioia  ο felicità fragile, dalla perplessità  ο  smarrimento  esistenziale  all 'invenzione 

del l ' inter locutr ice-"tu" . 

Ma  passiamo  intanto  a  Minstrels,  l 'unica  poesia  derivata 

esplicitamente  "da  C.  Debussy",  pubblicata  col  titolo  Musica 

sognata  nella  prima  edizione  critica.3 5 

Ascoltiamo  dunque,  prima  di  tu t to,  il  testo  musicale  da  cui 

deriva  quello  poetico: è i l dodicesimo dei Préludes per piano, nell 'esecuzione di Walter Gieseking, " i l candido Gieseking" come l o chiama Mi la . 3 6

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Da un punto di vista formale, questo preludio è notevole perché i l lustra quan to a f fe rmato i n precedenza nella presentazione di Debussy: in esso " l e successioni di accordi non hanno alcun carattere funzionale. Un disegno rapido crea associazioni di suoni, e invano si cercherebbe a questo una giustificazione nelle regole del l 'armonia t rad iz ionale" .3 7 È la novità del r i tmo che si impone, un po' come nel Golliwogg's Cake-walk. Ma forse, per i l critico letterario che si occupi dei rapporti dialogici della cultura, ancor più interessanti degli aspetti formali possono risultare quelli tematici del brano.

Minstrels non è l 'unico pezzo di Debussy sul l 'argomento. Va ricordato che egli musicò poesie di Banville (Pierrot) e di Verlaine (Fêtes galantes) nelle quali, tramite Watteau, si r i trovano personaggi della commedia dell 'arte italiana: Colombina, Pierrot, Arlecchino, alcuni dei quali r icompariranno, col Dottor Balanzone, nel balletto Masques et Bergamasques del 1909 per Diaghi lev.3 8 Si può anzi parlare di un vero e proprio topos musicale in proposito: Petroushka di Stravinski è del 1911, il Pierrot lunaire di Schönberg del 1912, il Pulcinella di Stravinski del 1920. Anche nell ' iconografia contemporanea la maschera, i l clown, i l menestrello, i l salt imbanco diventano protagonisti di un' intera vicenda pittorica, che collega i l motivo teatrale e quello musicale, come si può vedere dai pochi esempi, illustrativi e interconnessi, che seguono: l 'Arlecchino di Paul Cézanne (1888-90, fig. 1), l 'Arlecchino e la sua famiglia di Pablo Picasso (1905, fig. 2), l 'Uomo con la chitarra di Georges Braque (1911, fig. 3), l 'Arlecchino con il violino di Picasso (1918, fig. 4), il bozzetto di Gino Severini per i l balletto Pulcinella di Stravinski del 1920 (fig. 5), e ancora le Maschere di Picasso (1921, fig. 6), e di Severini (1922, fig. 7). Analogamente, per i l corrispondente topos letterario, basterà ricordare (magari tramite "L ' intermezzo del l 'Ar lecchinata" di Lucini del 1898) le movenze chapliniane dello Zeno di Svevo, le scomposizioni delle "Maschere n u d e" di Pirandel lo, tut to l 'atteggiamento dei poeti crepuscolari che si può far culminare negli emblematici versi di Palazzeschi: "Chi sono? / Il salt imbanco del l 'anima m i a" (e al Portrait de l'artiste en saltimbanque è intitolato un ormai classico ed elegante volume di Jean Starobinski .3 9 Si t rat ta, in una parola, di un luogo deputato dell 'anti-eroismo in arte. Sul cui sfondo possiamo ora leggere i l testo di Monta le :4 0

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Ritornello, rimbalzi tra le vetrate d'afa dell'estate.

Acre groppo di note soffocate, riso che non esplode ma trapunge le ore vuote e lo suonano tre avanzi di baccanale vestiti di ritagli di giornali, con istrumenti mai veduti, simili a strani imbuti che si gonfiano a volte e poi s'afflosciano.

Musica senza rumore che nasce dalle strade, s'innalza a stento e ricade, e si colora di tinte ora scarlatte ora biade, e inumidisce gli occhi, così che il mondo si vede come socchiudendo gli occhi nuotar nel biondo.

Scatta ripiomba sfuma, poi riappare soffocata e lontana: si consuma. Non s'ode quasi, si respira.

Bruci tu pure tra le lastre dell'estate, cuore che ti smarrisci! Ed ora incauto provi le ignote note sul tuo flauto.

Montale aderisce al testo di Debussy innanzitutto tematicamente: l 'argomento della sua poesia è la musica suonata dai minstrels del t i tolo, i menestrelli  ο più specificamente i "suonatori ambulant i" del vocabolo inglese che diventano i " t r e avanzi di baccanale" (o "uomini paradossal i" secondo una variante) "vestiti di ritagli di g iornal i" nell ' interpretazione modernissima del poeta; essi sembrano davvero "st rappati a qualche collage futur ista", oppure "correlativi figurali di gusto fra fauve e cubist ico" alla "essenza pr inc ipa lmente fonica e r i tm i ca" del breve componimento poet ico.4 1

Si noti poi che questa musica è, specificamente, un " r i t o r n e l l o " , cioè una r ipet iz ione-variazione t ip icamente

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musicale, che in Montale è resa con la ripresa del secondo e del terzult imo verso ( " t r a le vetrate d'afa del l 'estate" — " t u pure tra le lastre del l 'estate") e con il paragone fra il ritornello stesso e il cuore ( l 'uno e l 'altro bruciano nel calore estivo). Infine, la musica-argomento è anche la forma stessa della poesia, col suo ritmo ora scattante ora sfumato, con i suoni aspri del suo tessuto fonico (per esempio "acre groppo di note soffocate") e con le piccole dissonanze di rime imperfette (rimbalzi — avanzi, esplode — vuote, baccanale — giornali).

Con questa "cose t ta" che si sforzava di rifare Debussy, Montale paga un suo debito culturale e lascia ai suoi lettori una precisa indicazione in proposito. Indicazione che però è anche "dep is tan te", non per quello che dice, ma per quello che cela: infatti nella poesia c'è un elemento tipico di Montale, poetico e metapoetico, quel " c u o r e" qui ancora incerto (si smarrisce come i l cuore di Corno inglese, "scordato s t rumento") ma che già "b ruc ia" al calore estivo; e questo bruciare è non più che un accenno, ma importantissimo perché verrà poi svolto in momenti cruciali di Ossi di seppia: " ta li i nostri animi arsi // in cui l'i l lusione brucia / un fuoco pieno di c e n e r e . . ." (Non rifugiarti nell'ombra); " i l fuoco che non si smorza / per me si chiamò: l ' ignoranza" (Ciò che di me sapeste); " N on sono / che faville d 'un t irso. Bene lo so: bruciare / questo, non altro, è i l mio signif icato" (Dissipa tu se lo vuoi, in Mediterraneo); e "Penso [ . . . ] / al rogo / morente che s'avviva / d 'un arido paletto, e ferve t r e p i d o" (Crisalide). Sono tut ti momenti cruciali per l 'autoconsapevolezza del poeta e del suo fare poetico: egli, partendo " i n c a u t o" dal le ' ' ignote no te" suonate sul suo " f l au to" in Minstrels, arriverà agli splendidi risultati del "b ruc ia to" per eccellenza, Arsenio.

Ma intanto, i l motivo del cuore, già metonimico della poesia nascente, viene svolto da Montale anche in un'a l t ra poesia coeva ancor più debussyana di Minstrels, cioè Corno inglese, l 'unica salvata degli Accordi, fin dall ' inizio, senza esitazioni e senza ripensamenti, e i l risultato poetico di gran lunga maggiore raggiunto dal giovane poeta.

Leggiamola.4 2

11 vento che stasera suona attento —ricorda un forte scotere di lame— gli strumenti dei fitt i alberi e spazza l'orizzonte di rame

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dove strisce di luce si protendono come aquiloni al cielo che rimbomba (Nuvole in viaggio, chiari reami di lassù! D'alti Eldoradi malchiuse porte!) e il mare che scaglia a scaglia, livido, muta colore, lancia a terra una tromba di schiume intorte; il vento che nasce e muore nell'ora che lenta s'annera suonasse te pure stasera scordato strumento, cuore.

È un breve componimento che ha in sé i dati dell'esperienza debussyana, dal titolo stesso, eco della predilezione del musicista per lo strumento epon imo,4 3 ai precisi riferimenti tematici rintracciabili nei due preludi per piano Le vent sur la plaine e Ce qu'a vu le vent de l'Ouest e nella terza parte del poema sinfonico La mer, Le dialogue du vent et de la mer. Ma questi dati sono come trascesi e fusi in una costruzione che è già, interamente e potentemente, montal iana, a cominciare dalla valenza metaforica del t i tolo, confermata appieno da una traduzione posteriore che Montale fa da Emily Dickinson, "Tempes ta ", del 1945: " C on un suono di corno / i l vento a r r i v ò . . . " ;4 4 e la cui importanza tematica sta tutta nel fatto che quel sostantivo, i l vento, su cui è basata, è i l pr imo in assoluto dell ' intera opera in versi: "Godi se i l vento ch'entra nel pomario / vi r imena l 'ondata della v i ta", esordisce Montale in In limine, definendo emblematicamente non solo la liminalità della sua poesia, ma i l suo duplice spazio poetico, interno ed esterno, secondo lo schema ormai classico di Lotman, e la funzione dinamica e creativa che in esso ha il vento .4 5 È una costruzione poetica che racchiude un'esperienza paesaggistica, musicale e affettiva in una unità straordinaria; è un piccolo concentrato, un microcosmo autosufficiente di temi, immagini e tecniche di Montale, in una struttura circolare chiusa a livell o fonico, lessicale e sintattico.

A livello fonico, Corno inglese è tutta giocata sul contrasto-complemento (dissonanza-armonia) fra i gruppi consonantici sibilanti e fricativi (onomatopeici  ο  quanto  meno  suggestivi  del 

vento)  S,  ST,  e  ZZ  da  un  lato:  STasera,  Suona,  Scotere, 

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STRumenti, SpaZZa, o r i zzon te, STRiSce, Scaglia, Schiume, naSce, S'annera, SuonaSSe, STasera, Scordato, STRumento; e dal l 'al tro i l suono delle nasali, labiali e dentali dei gruppi ENT e OMBA : vENTo, at tENTo, strumENTi e le varianti orizzoNTE e pro tENDono all' inizio della poesia, r imbOMBA e t rOMBA al centro, poi ancora vENTo, lENTa, s t rumENTo: questa dissonanza-armonia (in cui è possibile forse cogliere anche suggestioni stravinskiane: sarebbe far torto a Montale limitare solo a Debussy la "musica nuova") si risolve nel distico finale, con lo scioglimento liquido di " c u o r e ".

È un tessuto fonico compatto nella sua insistita ripetitività, che fa da base musicale al livello lessicale-semantico della poesia, dove a lor volta i sememi " i l ven to" (ripetuto due volte, al primo e al quattordicesimo verso), " i l m a r e" e " l 'o r izzonte" si riferiscono a una situazione semplicissima, definita anche temporalmente da "s tasera" al pr imo e terzultimo verso (insieme col verbo " s u o n a" — "suonasse", nonché "s t rument i" al terzo verso e " s t rumen to" al penult imo), ma soprattutto riferita al vocativo finale, fortemente affettivo, " c u o r e ". È a questo livello che occorre sottolineare la potenza visiva, pittorica, della poesia di Montale, che completa e s'interseca con l ' indubbia musicalità di frasi quali " un forte scotere di l ame"  ο  "gli  strumenti  dei  fitti 

a l b e r i " :  si pensi alle immagini  "or izzonte di rame  /  dove strisce di 

luce  si  protendono  /  come  a q u i l o n i " ,  "nuvole  in  viaggio",  " i l 

mare  che  scaglia  a  scaglia,  /  livido,  muta  c o l o r e " ,  " u n a  t romba  / 

di  schiume  i n t o r t e " .  Da  notare  ancora  la preziosità delle scelte lessicali " sco te re", "scagl ia" (riferita a mare, come in Meriggiare pallido e assorto) e " i n to r te "; la vaghezza poetica dei plurali leopardiani " nuvo le ", " r e a m i ", "E ldo rad i ", " p o r t e "; l a voluta ambiguità di " sco rda to ", che, nei significati sovrapposti di "d isa rmon ico" e "d iment ica to" riferit i a " s t rumen to" e a " c u o r e ", costituisce un superamento del crepuscolarismo insito nel semema finale. L 'uni tà della composizione è ulteriormente cementata dalle numerose rime, rime interne e rime imperfette: vento-at tento-strument i -protendono; lame-rame; r imbomba-t r o m b a; po r te - i n to r te; co lo re -muore -cuo re; vento- lenta-strumento; s'annera-stasera.

A livello sintattico, siamo di fronte per la prima volta nel l 'opera di Montale a una poesia costruita su un unico periodo dal l 'ampio respiro, come avverrà più tardi nella famosa L'anguilla. Esso costituisce indubbiamente una "un i tà ritmica mus ica le" ,4 6 e si potrebbe trascrivere graficamente così:

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All a frase principale corrisponde la linea melodica, alle secondarie i materiali armonici: i l rapporto tra i due elementi sintattici è sbilanciato a favore dei secondi, per cui si crea un ri tmo nuovo e diverso (percepibile anche visivamente) nella struttura dela poesia. Si tratta di un unico periodo in cui la sintassi è retoricamente ripetitiva e sospesa, di grande efficacia: la frase dichiarativa " I l vento lancia una t romba" diventa ottativa, " i l vento suonasse te p u r e " .4 7 Tutte le numerose clausole dipendenti e incidentali sono rette dall 'unico soggetto "i l vento" in una struttura a emboîtement  ο  a  scatole  cinesi  culminante  quasi 

ossimoricamente  nella  parentesi  centrale.  La  quale è una frase nominale, senza verbo, ma chiaramente collegata al soggetto e all 'oggetto della principale: le nuvole sono " i n viaggio", sospinte appunto dal vento, come se avessero, per i l " c u o r e ", una destinazione verso gli "al ti E ldorad i" (che ricordano " l e t rombe d 'oro della solar i tà" di I limoni, anche per i l r ichiamo "malchiuse po r te" — "malchiuso por tone" ). Questa frase nominale si può configurare come vera e propria frase musicale in maggiore (si not ino: "ch ia r i ", " a l t i " , " lassù", i due esclamativi in dissonanza ο  a  contrasto  con  il  resto  della  poesia  in  minore  (con  le 

connotazioni  " d i  r a m e " ,  " l i v i d o " ,  " i n t o r t e " ,  e  " s ' a n n e r a " ) . 

Perciò la frase parentetica diventa i l centro — sintattico, visivo, musicale, affettivo — di tutta la poesia, nella quale produce una dissonanza fondamentale, sottolineata e contenuta dalle parentesi che prolungano la sospensione già ampia tra i l soggetto e l 'oggetto, tra la natura e i l poeta. Un'a l t ra indicazione

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di questa dissonanza si trova a livello metrico, in cui l 'uso assai libero di versi tradizionali va dall 'endecasil labo iniziale al senario e al binario finali, "scordato strumento, / cuore", entrambi abbastanza inconsueti nel canone della lirica i ta l iana.4 8

Corno inglese esprime per la prima volta la stessa situazione che verrà svolta completamente ed emblematicamente nel più tardo Arsenio, conf igurandola però in maniera meno drammatica: nella dialettica fra immobilità e movimento, fra i l poeta e i l mondo, la frase parentetica centrale supera le c o n n o t a z i o ni p o t e n z i a l m e n te t r a g i c h e, è u n ' a p e r t u ra al l ' immaginazione, alla speranza, alla Senhsucht del poeta che contempla la tempesta, la " t romba di schiume in tor te": è i l varco che Montale auspica in In limine,49 e che forse ha trovato Esterina, la debussyana " jeune fill e aux cheveux de l in " di Falsetto (lei è "come spiccata da un ven to ", i l poeta è "del la razza di chi r imane a te r ra" ).

In Corno inglese si t ratta di un varco immaginario, concettuale e ipotetico, che tuttavia è li , presente e invitante, attualizzato dall ' invocazione al centro della poesia nata dalla musica, debussyana e ligure, del vento .5 0 Quel vento, che a livello connotativo-espressivo, i l poeta vuole produca una "mus ica" che smuova lo "scordato s t rumento" del cuore. Montale comunque non descrive un paesaggio e non esprime semplicemente uno stato d 'an imo, ma cerca con i mezzi poetici descritti di squarciare le apparenze, di rompere i l velo, di raggiungere (come Debussy, come Mallarmé) "qualcosa di essenziale": che i l suo sia un tentativo, e non un risultato, è insito nell 'espressione ottativa e parentetica.

Corno inglese è dunque il momento di massima fusione tra poesia e musica in Montale, i l momento in cui l 'occasione-musica si t rasforma veramente, definitivamente, in poesia.

GIAN-PAOLO BIASIN University of California, Berkeley

NOTE 1 Eugenio Montale, Sulla poesia, Milano, Mondadori, 1976, p. 563. 2 Si vedano almeno, in proposito, i tre libri di Montale, Pastelli e

disegni (Milano, Scheiwiller, 1966), Farfalla di Dinard (Milano, Mondadori, 1960), e Prime alla Scala (Milano, Mondadori, 1982); e la biografia di Giulio Nascimbeni, Eugenio Montale, Milano, Longanesi, 1969.

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in "Rivista di studi italiani",nno I , n° 2, Dicembre 1983a

in "Rivista di Studi Italiani", anno I , n° 2, Dicembre 1983

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3 Cfr. Michail Bachtin, Estetica e romanzo, Torino, Einaudi, 1979, e The Dialogical Imagination, Austin, University of Texas Press, 1980; cfr. inoltre Vittorio Strada, Dialogo con Bachtin, in "Intersezioni" I (1981), n. 1, pp. 115-24.

4 Hugo Friedrich, La lirica moderna, tr. it., Milano, Garzanti, 1961. 5 Félix Fénéon, Au-delà de l'impressionisme, a cura di Françoise

Cachin, Paris, Hermann, 1966, pp. 84-85 (il testo risale al 1887): "L'innovation de M. Seurat a pour base la division scientifique du ton. Voici: au lieu de mélanger sur la palette les pâtes dont la résultante, étendue sur la toile, fournira à peu près la couleur de l'objet à figurer, — le peintre posera sur la toile des touches séparées correspondant les unes à la couleur locale de cet objet, les autres à la qualité de la lumière qui y choit, d'autres aux reflets projetés par les corps voisins, d'autres aux complémentaires des couleurs ambiantes. [ . . . ]

De cette manière d'operer, voici les avantages: I. Les couleurs se composent sur la rétine: nous avons donc un

mélange optique. Or l'intensité lumineuse du mélange optique (mélange de couleurs-lumières) est beaucoup plus considérable que celle du mélange pigmentaire (mélange des couleurs-matières) [ . . . ] " . Cfr. anche John Rewald, The History of Impressionism e Post-Impressionism. From Van Gogh to Gauguin, New York, Museum of Modern Art, 1973 e 1978 rispettivamente: due volumi fondamentali per seguire i complessi rapporti fra impressionisti, neo-impressionisti, e simbolisti che sono alla base degli ulteriori sviluppi della pittura moderna, a cominciare da Cézanne.

6 Si vedano: Ardengo Soffici, Scoperte e massacri. Scritti sull'arte 11908-131, Firenze, Vallecchi, 19292, p. 235, nonché pp. 290-93; e Fénéon, pp. 135-37.

7 Vittorio Pica, Gl'Impressionisti Francesi, Bergamo, Istituto Italiano d'Arti Grafiche Editore, 1908, p. 55 e passim. Il libro, corredato di "252 incisioni nel testo e 10 tavole", ha anche un lungo capitolo dedicato a Monet, "l'iniziatore più convinto e più cosciente ed il rappresentante più schietto, più fido e più completo dell'impressio-nismo", p. 51; Renoir è definito "virtuoso delle dissonanze cromatiche", p. 98; e non manca un dubbio sull'etichetta stessa di impressionismo, un "nome abbastanza inesatto", p. 14.

8 Laura Barile in Eugenio Montale, "Tre articoli ritrovati" (a cura di L. Barile), Inventario, n.s. 4, gennaio-aprile 1982, pp. 11 e 20, n. 18; il riferimento a Serra rimanda a Gianfranco Contini, Altri esercizi (1942-1971), Torino, Einaudi, 1978, pp. 77-100, ma anche alle fondamentali pagine di Ezio Raimondi, Il lettore di provincia: Renato Serra, Firenze, Le Monnier, 1964.

9 Eugenio Montale, Auto da fé, Milano, Il Saggiatore, 1966, pp. 113 e 111 (il brano da cui sono tratte le citazioni è del 1949), e p. 244, rispettivamente.

10 Montale, Sulla poesia, p. 144. 11 Ibid,. p. 565.

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12  Leonard  Bernstein,  The  Unanswered  Question,  Cambridge, 

Mass.,  Harvard University Press,  1976. 13

 Marzio Pieri, Biografia della poesia, Parma, Edizioni della Pilotta, 

1980,  p.  251  ("Quanto  Debussy,  nel giovanne  Montale").  Interessante 

anche il tentativo di Silvio Ramat di descrivere la strutturazione degli Ossi 

di  seppia  come una ' "armonizzazione"  tra  il  "recitativo"  degli  "Ossi 

brevi"  e  il  "cantato"  di  Mediterraneo:  in  Storia  della poesia  italiana  del 

Novecento,  Milano,  Mursia,  1976,  pp.  224-25. 14

  Montale,  L'opera  in  versi,  p.  913.  Cfr.  in  proposito anche  Laura 

Barile,  che  ricorda,  oltre  a  Farfalla  di  Dinard  ("tutta  percorsa  da 

cavatine,  fa diesis sotto le righe, si bemolle e ricami tenorili"), i frequenti 

espliciti  rimandi  a  determinate  forme,  ο  frasi,  musicali,  come  'la 

farandola di  fanciulli sul greto. . . '  (farandola:  danza di origine greca ma 

popolare  in  Provenza,  in  tempo  6/8  moderato),  lo  'scalpicciare  del 

fandango'  (danza nazionale spagnola utilizzata da Manuel De Falla nel 

Cappello  a  tre  punte),  la  'fantasia'  (brano  strumentale  di  forma 

assolutamente  libera)  di  Quasi  una fantasia (già rilevato da Lonardi), lo stesso 'mottetto'": in Montale, "Tre articoli ritrovati", p. 10. L'elenco, naturalmente, si potrebbe allungare.

15 Montale, Auto da fé, p. 301 ( da "Per fortuna siamo in ritardo" del 1963).

16 Montale, Sulla poesia, p. 57. 17 Ma in Prime alla Scala Puccini viene inteso in una dimensione

moderna, ricca di fermenti e di inquietudini (p. 265); cfr. Mosco Carner, Puccini. A Critical Biography, New York, Holmes and Meier, 19772, e Mario Bortolotto, Consacrazione della casa, Milano, Adelphi, 1982, pp. 131-51.

18 Cfr. Sulla poesia, p. 603: "Credo che la mia poesia sia stata la più 'musicale' del mio tempo (e di anche prima). Molto più di Pascoli e di Gabriele. Non pretendo con questo di aver fatto di più e di meglio. La musica è stata aggiunta, a D'Annunzio, da Debussy".

19 Nicholas Ruwet, Langage, musique, poésie, Paris, Seuil, 1972, p. 44.

20 Guido Salvetti, Il Novecento I, vol. IX di Storia della Musica, a cura della Società Italiana di Musicologia, Torino, EDT, 1977, p. 43. È opportuno sottolineare una notazione di Montale relativa a quegli anni e agli sviluppi della musica nuova: "Abolit a la dominante, escluso il tematismo (che privilegia certe note a vantaggio d'altre), ammesso il principio che in ogni composizione ogni nota sia sempre un principio e una fine e che il centro debba essere in ogni luogo e in nessuno, i musicisti danno lezione ai poeti; e questi accettano la lezione": in Sulla poesia, p. 329 (1965). Per un affascinante ritratto della Parigi che fu in parte anche il milieu di Debussy, si veda Roger Shattuck, The Banquet Years: The Arts in France, 1885-1918, (il libro tratta di quattro biografie parallele: Henri Rousseau, Eric Satie, Alfred Jarry e Guillaume Apollinaire).

21 Citato da Salvetti, p. 45, e da Bartolotto, p. 74.

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22 Salvetti, p. 46. Anche Massimo Mila, Breve storia della musica, Torino, Einaudi, 1977, p. 358 concorda in tale sistemazione critica; mentre Stefan Jarocinski rifiuta i termini sia di impressionismo (come errato) che di simbolismo (come insufficiente) per definire il musicista: in Debussy. Impressionismo e simbolismo, tr. it., Fiesole, Discanto Edizioni, 1980. Lo stesso Debussy rifiutava questi termini (si veda per es. il suo Il Signor Croche, autodilettante, tr. it., Milano, Bompiani, 1945, p. 26); essi conservano però una loro utilità storica e culturale, se non critica, da non trascurare (come, d'altronde, il concetto stesso di "dissonanza").

23 Salvetti, p. 46. Nella storiografia musicale è proprio il concetto della purezza del suono che si delinea come caratterizzante per Debussy; per esempio, ancora Paul Claudel sottolineava impressionisticamente la "diaprure" nella musica del "Claude national" (in Oeuvres complètes, XVII , L'oeil écoute, Paris, Gallimard, 1960, p. 150); mentre Jarocinski insiste più modernamente sul "pensiero sonoriale" tutto volto alla liberazione della purezza, e non della sfumatura, dei suoni (in Debussy, passim). Anche Piero Rattalino nota che in Debussy "i timbri non si fondono, ma semplicemente coesistono, e si perde anche la sensazione della gerarchia di valori tra melodia e parti di accompagnamento in favore della compresenza di più eventi sonori indipendenti" (in Storia del pianoforte, Milano, Il Saggiatore, 1982, pp. 272-73).

24 Salvetti, pp. 46-47. Cfr. ache Bernstein, pp. 147-89. Sulla melodia, "forza organizzatrice" di Debussy e "controparte musicale" della linea sinuosa dell'Art Nouveau, cfr. Arthur Wenk, Claude Debussy and the Poets, Berkeley, University of California Press, 1976, pp. 180 e 186-87. Cfr. infine Ruwet, pp. 70-99 ("Note sur les duplications dans l'oeuvre de Claude Debussy"), e Jarocinski, pp. 157, 164 e 195.

25 Bernstein, pp. 243-45, 249, 259. 26 Rispettivamente Salvetti, pp. 51 e 53, e Jacques Rivière, Études,

Paris, Gallimard, 194419, pp. 131 e 133-34. Per parte sua, Montale ha osservato che Debussy fu "grande musicista soprattutto quando scoperse per conto suo il pianoforte, con una prodigiosa immersione nella civiltà del suo paese, da Rameau-Couperin fino a Monet e a Renoir": in Prime alla Scala, p. 13.

27 Salvetti, p. 54: "Ricordiamo i titoli : per le cinque dita, per le terze, per le quarte, per le seste, per le ottave, per le otto dita; per i gradi cromatici, per gli abbellimenti, per le note ribattute, per le sonorità opposte, per gli arpeggi composti, per gli accordi".

28 Jarocinski, p. 193. 29 Cfr. in proposito Montale, "Tre articoli ritrovati", in particolare

la recensione al volume di Georges Duhamel e Charles Vildrac Notes sur la téchnique poétique, pp. 5-6, nella quale Montale si interessava alla teorica "di quella sottospecie del verso libero che si è chiamata verso 'bianco': un verso, per intenderci, preoccupato di una musicalità più intrinseca che esteriore, di una maggiore aderenza alle sfumature della

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vita spirituale, e di certa patetica aridità lineare, atta, più che la musica singhiozzante del ritmo faux exprés dei primi simbolisti, a suggerire echi e fantasmi dell'intelligenza" (si noteranno espressioni quali "maggiore aderenza", ripresa nell'"Intervista immaginaria" del 1946 in un contesto diverso, "aridità" e "intelligenza", che sono vere e proprie auto-definizioni critiche della poesia montaliana; cfr. inoltre il commento di Laura Barile, pp. 7-8.

30 Friedrich, p. 12. Si ricorderà che anche per Arnold Schönberg l'emancipazione della dissonanza come eliminazione della base dell'armonia è il fondamento della dodecafonia (in Stile e idea, Milano, Rusconi e Paolazzi, 1960, pp. 109-10; citato anche da Enrico Fubini, L'estetica musicale dal Settecento a oggi, Torino, Einaudi, 1968, p. 229). Quello che per Theodor Adorno (in La filosofia della musica moderna) è un contrasto insanabile fra Stravinski e Schönberg, fra musica tonale e non tonale, diventa più giustamente per Bernstein (nell'ultima parte di The Unanswered Question) un rapporto dialettico indispensabile per capire il pathos e la vitalità della musica del Novecento.

31 Del "terreno di radicale modernità" su cui è sorta la prima poesia di Montale ha parlato Sergio Solmi ("L a poesia di Montale" in Scrittori negli anni, Milano, Il Saggiatore, 1963, p. 285), che suggerisce una linea Heine-Laforgue-Govoni, cui Lanfranco Caretti aggiunge Palazzeschi in "Un inedito montaliano |Suonatina di pianoforte]", Paragone, 336, 1978, pp. 3-7, p. 5.

32 Jarocinski, p. 178. L'importanza del mare e il paragone con Turner sono trattati anche da Wenk, pp. 205-10, che cita pure un'interessante lettera di Debussy assolutamente contraria al termine "impressionismo" usato dagli "imbéciles" per definire Turner, "l e plus beau créateur de mystère qui soit en art".

33 Cfr. Marco Forti, Eugenio Montale, Milano, Mursia, 1973; Edoardo Sanguineti, Ideologia e linguaggio, Milano, Feltrinelli, 1965; e Silvio Ramat, Montale, Firenze, Vallecchi, 1965.

34 Tutte le citazioni si riferiscono a Eugenio Montale, L'opera in versi, a cura di Gianfranco Contini e Rosanna Bettarini, Torino, Einaudi, 1981, pp. 765-72.

35 Montale, L'opera in versi, p. 866. 36 Massimo Mila, L'esperienza musicale e l'estetica, Torino, Einaudi,

1956, p. 180. Cfr. Rattalino, pp. 324-25: fra i grandi pianisti del Novecento, Gieseking fu tra i primissimi a includere "costantemente e frequentemente" Debussy nel repertorio.

3 7Jarocinski, p. 168; e a p. 166: "Le prélude XII (che abbonda in valori sonoriali) mostra come una melodia figurativa ed ornamentale possa, grazie ad un movimento rapido, trasformare una struttura orizzontale in una verticale (battute 25-26)".

38 Cfr. Wenk, pp. 19-23. 39 Jean Starobinski, Portrait de l'artiste en saltimbanque, Genève,

Skira, 1970.

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40 L'opera in versi, p. 14. 41 Silvio Ramat, Protonovecento, Milano, Il Saggiatore, 1978,

p. 486; e Forti, p. 52. 42 L'opera in versi, p. 11. 43 Sulla predilezione di Debussy per il corno inglese si veda

Jarocinski, p. 173. 44 OV, p. 722. 45 Si veda Jurij Lotman e Boris Uspenskij, Tipologia della cultura, tr.

it., Milano, Bompiani, 1975, pp. 145-81; e per la liminalità, si vedano l'interpretazione antropologica (turneriana) di Rebecca West, E.M., Poet on the Edge, Cambridge, Mass., Harvard UP, 1981, e quella decostruttiva (derridiana) di Stefano Agosti, Cinque analisi. Il testo della poesia, Milano, Feltrinelli, 1982, specie pp. 83-84.

46 Ettore Bonora, La poesia di Montale, I, Torino, Tirrenia, 1965, p. 88. Non sono ovviamente d'accordo con la sua valutazione degli incisi come "dei momenti in sordina" del componimento (p. 87).

47 Naturalmente è possibile interpretare la sintassi della poesia, come fa Giusi Baldissone (Il male di scrivere. L'inconscio e Montale, Torino, Einaudi, 1979, pp. 1. nota 1, e 123), nel senso che è il mare a lanciare a terra "una tromba di schiume intorte": in tal caso si avrebbe un'unica frase principale ottativa col soggetto ripetuto (il vento—)il vento). Ma simile interpretazione mi pare meno persuasiva di quella che ho scelto, perché toglie forza (e drammaticità) proprio al vento che è il soggetto grammaticale, l'occasione della poesia, l'antagonista del poeta; senza contare che a livello strettamente sintattico la costruzione di due verbi collegati paratatticamente da una virgola (per di più aggiunta solo nell'edizione critica: "i l mare che [ . . . ] muta colore, lancia a terra una tromba") è certamente insolita in Montale.

48 A proposito di questi versi Ramat, Montale, p. 22, parla erroneamente di "novenario finale", ma osserva con finezza che la divisione in "due tronconi" sta "quasi a significare la congenita disarmonia di questo strumento".

49 Cfr. In limine: "Cerca una maglia rotta nella rete / che ci stringe, tu balza fuori, fuggi!"; ma l'interrogazione di Montale rimarrà ancora attraverso gli Ossi (si pensi a Crisalide e a Casa sul mare) e fin nel cuore delle Ocassioni (La casa dei doganieri: "I l varco è qui?").

50 Quanto sia intrinsecamente "musicale" Corno inglese si può verificare anche in un confronto a prima vista secondario  ο  addirittura 

improbabile  tra  il  secondo  verso  "—  ricorda  un  forte  scotere  di  lame  —" 

e  un'osservazione  di  un  musicologo  contemporaneo:  "La  tecnica  della 

costruzione  [...]  si  era  evoluta  fino  a  un  pianoforte  che  non  era più esattamente il pianoforte di Chopin e di Liszt. La maggior tensione delle corde [...] gli aveva sottratto il vecchio suono di corda percossa e, aggiungiamo noi, gli aveva dato un suono di lamina percossa. È proprio qui che Debussy sviluppa una concezione nuova non solo del suono, ma della musica" (Rattalino, p. 271, corsivo aggiunto).

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Fig. 2 Fig. 1

Fig. 3 Fig. 4

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Fig. 5 Fig. 6

Fig. 7

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PIER VINCENZO M ENGALDO

M O N T A L E C R IT IC O M U SIC A L E *

Se non sono male inform ato l’am pia scelta di scritti musicali di M ontale uscita, p u rtro p p o postum a, alla fine del 19811 non è stata abbastanza segnalata e discussa da chi di dovere: dai critici musicali anzitu tto , e poi dai m ontalisti. E ppure attraverso di essa abbiam o po tu to , finalm ente, farci u n ’idea organica in to rn o a quello che è stato, com e no to , l’interesse extraletterario più p ro fondo del com piantissim o poeta2, e*. Scritte a caldo alla comparsa della raccolta montaliana in questione, queste note hanno un andamento di rendiconto o recensione che, riprendendole a due anni di distanza, non ho saputo né voluto modificare. Ringrazio vivamente l’amico Gilberto Lonardi per i calzanti suggerimenti.1. E.M., Prime alla Scala, a c. di G. La v e z z i , Milano, Mondadori 1981. La benemerita curatrice, che espone i suoi criteri in una Nota al testo alle pp. 473-4, si è giustamente attenuta a prudente conservatorismo. In questo tipo di testi non è infatti facile distinguere l’errore di trasmissione o di stampa dal lapsus d'autore: si tratti di errore linguistico («utu* mélange», p. 311) o nel riportare un nome proprio («Margherita Backer», in realtà Baker, p. 450), mentre sarà senz’altro una distrazione montaliana il baritono per tenore a metà della pagina 259 (sul Pirata)-, più difficile distinguere per il Tarescio di p. 100 (Enzo Taraselo, noto attore e fra l’altro interprete del Conformista di B. Bertolucci): forse in questi casi era bene rettificare nell’Indice dei nomi (anche il «Berto Proni» di p. 136 è quasi certamente Troni). Ma non è attribuibile a Montale «il violoncellista Amedeo Baldo», p. 87 in fine di corrispondenza, da allungare in Baldovino; e andrà corretto, anche se scappato a Montale stesso, V•impressionismo musicale viennese» (=espressionismo). Altre cose sono meno rilevanti, e potranno anche andare a carico dell’edizione mondadoriana.

Utilmente, la Lavezzi, fornendo provenienza e data dei singoli articoli, ha aggiunto il rimando al numero corrispondente della Bibliografia montaliana di L.B a r i l e (Milano, Mondadori 1977), anzi ha precisato, attraverso lo stesso strumento, i casi in cui M. ha recensito l’opera in oggetto altre volte, o simili repliche. Segnalo allora che alle pp. 36, 41, 49, 86, 207, 261 mancano i rimandi rispettivamente ai nn. 985, 950, 1055, 1118, 1064, 1102, mentre quello di p. 294 al num. 994 è errato, dato che là si tratta òeW’Ifigenia in Tauride di Gluck, qui di quella in Aulide (v. del resto, nella cronaca stessa, p. 2%); in compenso per il Guglielmo Teli, p. 425, si dà un riscontro che non figura nell’opera della Barile.2. Nonché l’aspetto preponderante della sua attività giornalistica per il «Corriere» (più «d’informazione» che «della Sera») negli anni fra il ’54 e il ’66. Proprio le corrispondenze c recensioni per quel quoditiano nel tredicennio ricordato costituiscono la parte di gran lunga prevalente degli scritti raccolti in PS.

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da:

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Pier Vincenzo Mengaldomisurare la qualità altissima della sua competenza in materia. N on solo, ma anche a prescindere dai giudizi di merito, e dalle connessioni fra questi scritti e l’insieme della personali­tà montaliana, la silloge costituisce comunque un documento particolarmente vivace e ricco su un periodo importante della vita musicale italiana, inventariato da un cronista d’eccezione che poneva il suo punto d’osservazione in alcune sedi privilegiate di quella (stagioni scaligere, festival di Venezia e Spoleto ecc.). Soprattutto per riparare da parte mia a un’inadempienza collettiva, tipica di un paese che non sa più distinguere ciò che è importante nella sua cultura, mi proverò a dire qualcosa di queste pagine, ponendomi al punto d’incrocio fra una non totale incompetenza montalia­na e una forte, seppur disarmata, passione musicale.

Prime alla Scala (d’ora innanzi PS), raccolta organizzata dall’autore stesso3, s’articola in cinque sezioni. La prima (Sulla musica) contiene scritti di varia natura e prevalente­mente d ’origine non occasionale o sur commande> che vanno dal saggio all’elzeviro, e per quest’ultima parte sono teoricamente intercambiabili con analoghi brani già ristam­pati in Auto da fé 4. Nella seconda sono ospitati cinque ritratti (è il suo titolo) di protagonisti della vita musicale del Novecento, Stravinskij, Gavazzeni, Toscanini, Titta Ruffo e la Callas. La terza antologizza i réportages montaliani dai festival di Venezia e Spoleto. La quarta, Le prime alla Scala e alla Piccola Scala, è di gran lunga la più nutrita del libro, occupandone oltre 300 delle 470 pagine complessive5. Nell’ultima e più succinta (...£ in altri teatri) sono contenute3. V. la citata N o ta a l testo della Lavezzi.4. M ilano, il Saggiatore 1966 (d’ora innanzi A F), un p o ’ d ap p ertu tto : noterem o qualche coincidenza. O sservo qu i che il breve articolo Parole in musica (PS, pp . 23-4) era già osp ita to in Sulla poesia, a c. di G .Z a m p a , M ilano, M ondadori 1976 (che abbrevierò in SP ), pp . 143-4, e quello sulla Carriera d 'u n libertino di Stravinskij (PS, pp. 31 ss.) in Fuori d i casa, M ilano-N apoli, Ricciardi 1969 (= FC ), pp . 331 ss., con lo stesso tito lo : Sulla seta d i S.5. C om e M . è d ivenuto cronista musicale del «C orriere» ha accennato lui stesso spiritosam ente in due interviste del ’62 e del ’75, poi in SP, pp. 596 e 603 (qui anche l’im portan te afferm azione che in Keepsake è «metà della sua vita»).

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Montale critico musicalecronache dai teatri «minori», a partire dal prim o scritto musicale, e in assoluto, di M ontale, un resoconto della «prima» del M ameli di Leoncavallo a Genova, autentica ghiottoneria del libro6. S’aggiunga che per quanto riguarda la quarta sezione si è imposta un ’ulteriore restrizione nella scelta, stante l’opportunità di fornire una sola cronaca per opera (o spettacolo di balletto), quando l’autore ne abbia scritta più di una, onde evitare ridondanze e vere e proprie ripetizioni. Com e avvertito nella N ota al testo, generalmente (ma non sempre) Astato scelto «l’articolo cronologicamente prim o, quasi sempre più ampio» (e se non sbaglio sono state spesso preferite le inaugurazioni di stagione). O ra è pur vero che nel caso di M ontale ci interesserebbero, gaddianamente, non solo i doppioni ma anche i triploni e quadruploni, cioè le varianti, ma non si riesce a dar to rto alla decisione dell’autore e della curatrice, e non solo per motivi editoriali. Stando sempre sulla quarta e più im portante sezione, un’idea della consistenza della scelta può esser data prendendo come campione, sulla base della Bibliografia della Barile, un paio di stagioni scaligere e vedendo il rapporto fra inclusioni ed esclusioni: 1954-55: 7 cronache incluse e 15 escluse (tra cui tre di serate di balletti; ho contato per uno due articoli successivi su Bohème); 1960-61:11 incluse contro 12 escluse (una delle quali riguarda il Parsifal, su cui PS ospita già un articolo dell’anno prima). Il resto varia attorno a questi due tipi di proporzione, né accertamenti più dettagliati arrivereb­bero a stringere molto, troppi essendo gli elementi in gioco.

Ma veniamo alla qualità della scelta, tanto più interessante perché fondamentalmente dovuta all’autore stesso. È eviden­6. Quanto tuttavia quel M. diverga dal più recente basterebbero a dimostrarlo quest’affermazione: «io credo...in tesi generale, che ogni musico dovrebbe sempre essere autolibrettista», p. 459, e su altro piano la tirata patriottica del finale; anche l'impasto linguistico è assai diverso dagli scritti del secondo dopoguerra. Più utile il confronto con la temperie del quasi coevo Quaderno genovese, a c. (ottima) di L. B a r i l e , con uno scritto di S . S o l m i , Milano, Mondadori 1983. Qui tra l’altro la curatrice riporta, pp. 111-12, il divertente aneddoto di M. stesso e della sorella Marianna su come egli s’improvvisò nègre d’un amico incompetente per la cronaca sull’opera di L.

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Pier Vincenzo M engaldote che le antologie personali lasciano in linea di principio perplessi per le stesse ragioni che le rendono sollecitanti: p rim a fra tu tte il sovrapporsi, inevitabile e magari cercato, della fisionom ia recente delPautore all'antica, che ne esce giudicata e insiem e alterata. D etto ciò, nel caso di PS si no tano sub ito due dom inanti. U na, di prim ario interesse, è la netta preferenza accordata agli scritti sulla m usica teatrale rispetto a quelli sulla m usica «pura», che del resto non sem pre erano altre ttan to im pegnati. La seconda, all'in terno di questa, è un certo sacrificio com plessivo dei resoconti da altri teatri rispetto a quelli dalle due Scale (e qui è certo un p o ' privilegiata la G rande): la quinta sezione, com e si ricava sem pre dalla Bibliografia della Barile, poteva ben essere più pingue (non infrequenti, anzitu tto , le cronache da altri teatri milanesi). Q u an to al prim o pun to , è chiaro che, dando il m assim o spazio agli interventi sul teatro d 'opera, l’autore stesso ha volu to p o rre l'accento sul cuore della sua passione, e cultura, m usicale. Il perché così stessero le cose non può essere, a m io avviso, risolto solo nelle notissim e circostanze biografiche, e neppure nel fatto che il teatro d 'opera appartiene pure per un verso (m a quanto precariam ente!) alla «letteratura». In PS stessa ci sono spie di altro , e più interessante, o rd ine di m otivazioni, e poco im porta, anzi, che queste siano intervenute a cose fatte. U na è la considerazione, qui svolta a pp . 71-2, che il teatro in generale è ancora - o così pareva a M ontale - «la sola form a d ’arte in cui la trad izione conti al cento per cento. Senza questa p iattaform a, in fatto di teatro , il talento individuale conta poco o nulla» (interessante, anche per l'ind ire tta indicazione di «conservatorism o», il rim ando alla polarità eliotiana)7. L 'altra , e ancor p iù notevole, è l'insistenza sul teatro m usicale, alm eno nelle form e sue p iù tipiche e più care al7. Fa pendant l’asserto iniziale di Tutti in pentola (AF , p. 271): «La tragedia classica e il melodramma dovevano la loro universalità al fatto di attenersi ad alcune regole del gioco accettate da tutti. Messe in questione tali regole, stabilito che il linguaggio non dov’esserc convenzionale ma strettamente individuale, questi due grandi generi artistici sono entrati in coma*.

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M ontale critico musicalepoeta, come arte costituzionalm ente «impura»8. C iò che è im puro è anche più vicino alla «vita» di ciò che è puro, ed insistere sull’im purità del melodramma equivale a sottolinea­re il carattere vitale ed esistenziale, non intellettualistico, di questo tipo di esperienza musicale, in armonia con altre asserzioni dell’autore su cui ci fermeremo. Significa, più in genere, colpire indirettam ente quelle posizioni estetiche e di poetica a favore di u n ’arte e soprattutto di una poesia «pura» che erano state egemoniche al tem po della giovinezza e della prim a m aturità di M ontale; non si è lontani dalle sue indicazioni per una poesia che sappia inglobare in sé «prosa» e narrazione anziché rinchiudersi in una sua assolutezza separata: ci troviamo dunque al centro della poetica di M ontale e di quella che è stata l’aspirazione costante, o la lunga rincorsa, della sua poesia. Anche per queste ragioni spiace che gli scritti di PS, sempre m olto attenti come vedrem o allo «specifico» teatrale, non si possano ancora confrontare con una raccolta dei non rari interventi dell’autore sul teatro letterario9, in cui egli era tra l’altro assistito dalla sua profonda com petenza di traduttore in quel campo.

E com unque un peccato che da PS siano del tu tto assenti gli articoli su concerti sinfonici o cameristici tenuti a Milano negli stessi anni delle sue cronache scaligere, scritti sul medesimo «Corriere d ’inform azione». Anche perché egli si è trovato a incontrare spesso direttori (più raramente

8. Fondamentale, pp. 193-4, l’attacco agli «esteti... puristi», «gente persuasa che il genio e il buon gusto siano sempre e necessariamente la stessa cosa» ecc. (mentre Balzac, Verdi e Wagner stesso «non sono esempi di buon gusto»); a p. 204 Händel è giudicato «grande musicista impuro», che per di più «parte dal falso per raggiungere il vero» (p. 205); a p. 243, a proposito del non entusiasmante lieto fine ddi'Orfeo, si afferma: «un’opera senza difetti sarebbe un mostro fuor di natura», mentre a p. 312 il Bourgeois di Lulli è qualificato «esempio irraggiungibile di teatro puro, dato e non concesso che possa aspirare alla purità un*arte mista come quella del teatro* (cors. mio), ecc.9. V. intanto V. B r a n c a , M. critico di teatro, in La poesia di E.M. Atti del Convegno Intemazionale, Milano/Genova, Librex 1982 [ma 1983], pp. 41 ss. Interessanti note teatrali sono soprattutto, per ora, in AF.

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Pier Vincenzo Mengaldodella Walkiria (pp. 156 ss.)llbis, del Parsifal (pp. 314 ss), dei Maestri Cantori (pp. 368 s.), del Tristano (pp. 240 ss.). Siamo ben lontani dalle proporzioni fra inclusioni e totale che riscontriam o non solo per M ozart e Verdi, ma anche per Puccini. La spiegazione fondamentale sta certo nella sorda resistenza a W agner del gusto montaliano, su cui dovremo tornare; viene anzi da pensare, di fronte a tanta parsimonia, che l’antica riluttanza si sia radicalizzata con gli anni. Per ora annoto che, all’interno di questa drastica potatura, mi duole l’esclusione di tu tte e quattro le cronache delle giornate della Tetralogia diretta, sullo scorcio della stagione ’62-’63, da A ndré C luytens (nn. 1514, 1516, 1518, 1520): la quale esecuzione, se non m ’ingannano memoria e più recenti impressioni discografiche sul tipo di musicalità di quel finissimo maestro, interprete insuperato della tradizione musicale francese dell’800, dev’esser stata tale da piacere assai a M ontale12: anti-eloquente, morbida, lirica, insomma a contropelo dei modi ieratico-grandiosi tenuti dai tradizionali custodi del Walhalla, anche i più ammirevoli come K nappertsbusch13.

Cosa rappresentasse per M ontale l’esperienza della musica ce lo dicono ora meglio di tu tto alcuni passaggi del Paradosso della cattiva musica, il suo saggio più libero e personale sull’argom ento, giustamente collocato a fungere da ouvertu­re (è il ’46, l’anno della riemersione da guerra e fascismo e della massima auto-coscienza montaliana: l’anno àeWInter- vista immaginaria, uscita nella stessa sede, la «Rassegna

llb is . Che della Tetralogia M. prescelga la Walkiria non fa meraviglia: sempre è stata questa, delle quattro, la preferita dal gusto italiano, come la più «umana» (proprio così!).12. Che recensendo il Parsifal diretto dalle stesso C. lo qualifica di «alta eleganza intellettuale» (p. 316).13. Ma non mi si fraintenda: parlo di tendenza generale, perché poi quel grande Maestro possedeva molte corde al suo arco: si confronti per esempio la sua esecuzione percussiva e barbarica del Preludio della Walkiria con quella del Preludio del Parsifal, che ne estrae in modo straordinario tu tto il pre­impressionismo.

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Montale critico musicaled ’Italia»). Si legga in particolare questo passo: «si va insomma a sentire la buona musica in condizioni d ’animo che escludono a priori la sorpresa, l’imprevisto, il caso, che escludono, cioè, quella condizione di passività ricettiva e gratuita che meglio perm ette di cogliere il segreto della creazione artistica» (p. 11). Si faccia una speciale attenzione alla costellazione ‘passività’ - ‘imprevisto’ - ‘caso’: è im pressionante che i predicati che M ontale enumera a caratterizzare il suo rapporto con la musica, il suo m odo di viverla, la sua preferenza per la «cattiva», siano esattamente intercambiabili con quelli che valgono - e che lui stesso ha fatto valere - a definire la sua poetica delle «occasioni», di cui non per nulla l’agnizione musicale è spesso la punta acuminata. L’esperienza libera della musica è per M ontale - possiamo chiosare - un ’esperienza d ’eccezione proprio perché riguarda assai piti YErlebnis che la Cultura. Ma appunto: nel Paradosso M ontale ragiona da amatore; come cronista del «Corriere d ’inform azione» agirà da professioni­sta en titre. N e viene questa conseguenza, che per un m om ento ci sorprende e forse anche un po ’ ci delude: nella pratica di critico musicale M ontale non si com porta affatto come le dichiarazioni del Paradosso indurrebbero a credere, cioè non s’abbandona a quel tipo di ascolto preculturale, e per lampi e agnizioni, che ci saremmo forse attesi. Perché? Per una ragione generale, che altrove ho accennato14, cioè la forte azione di contenim ento, anche a scopo difensivo, che la razionalità di M ontale ha sempre esercitato sull’iniziale fascinazione magica che ogni forma d ’arte, e più di tutte la musica, ha sempre prodo tto su di lui. E per una particolare, che si può riassumere in un ’inappuntabile coscienza professionale. C erto, anche in PS possiamo cogliere tracce dell’oscillazione fra un ascolto diciamo strutturale, estensivo e razionale, e uno intensivo, frammentario, pre-razionale della musica; vale a dire anche dell’oscillazione fra un ascolto

14. Montale •fuori di casa• (1970), in La tradizione del Novecento, Milano, Feltrinelli 19802, p. 330.

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Pier Vincenzo Mengaldo«culturale», professionale ed uno più libero, edonistico e soggettivo. Ma fondamentalmente è il primo dei due tipi d ’ascolto che detta legge e dà il tono al libro.

A che «genere» appartengono dunque le cronache musicali di PS? N on sia tautologico dire che appartengono in tutto e per tutto al loro genere, deliberatamente. La prima impressione che esse lasciano è proprio quella dell’obbedien­za volontaria a stretti criteri di professionalità, sia nel taglio dell’articolo che nella scrittura. Mai e poi mai l’autore ha l’aria di dirci: ‘eccomi qui, sono il grande Montale e adesso vi dico la mia’, come gli avrebbe potuto consentire non solo la sua grandezza di intellettuale, ma una competenza musicale da far invidia allo specialista in carica. Taglio, scaletta, dosaggio dei giudizi sulle varie componenti della musica e dello spettacolo sono sempre quelli che un lettore del «Corriere» poteva aspettarsi da una cronaca dalla Scala e da Spoleto o da Venezia, sia pure firmata Montale, senza svolazzi ed arbitri soggettivistici. Siamo qui di fronte a un’ulteriore manifestazione del culto montaliano per la «decenza quotidiana». Neppure in questo campo, dunque, è riuscito al poeta di praticare l’aspirazione somma del suo snobismo, vale a dire ciò che lui stesso ha chiamato il «dilettantismo superiore», e quando per avventura lo sfiori nessuno ci casca. Vuol dire che qualcosa di più forte ha sempre impedito a Montale di dar corso sul terreno della cultura, né sarò io a dispiacermene, alle tendenze snobistiche che erano robuste nell’uomo, e non ne costituivano l’aspetto più attraente: non temo di chiamare questo qualcosa anche senso della responsabilità dell’intellettuale, anche se termine e atteggiamento sono oggi fuori corso. E anzitutto questo scrupolo professionistico, in parte naturale in parte così abilmente coltivato da parerlo, a far sì che il tenore di PS sia così diverso da quello di analoghi volumi di scrittori che hanno praticato la critica musicale. Siamo lontani non soltanto dagli scapigliati come Barilli e Savinio, ma anche dal «barocco» e asistematico Vigolo15, per non dire del15. Cfr. Mille e una sera all'opera e al concerto, Firenze, Sansoni 1971 (cronache

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M ontale critico musicalem ondano A rbasino, civettuolo e sem pre in am m irazione della p ro p ria intelligenza; e siamo pure lontani dagli scritti musicali di critici letterari di fantasia e penna sbrigliate come G abriele Baldini16 o il più giovane P ieri17 e, aggiungerei, dagli stessi m usicisti-scrittori del tipo di Bastianelli o G avazzeni: se non altro perché in costoro il fatto che la le ttera tura sia il «secondo mestiere» può com portare u n ’iniziale senso di illegittim ità che si com pensa con un di p iù di «bella pagina»18.

dal ’45 al *66, quindi per la seconda metà perfettamente contemporanee alle momaliane). E v. G. Cattaneo, ne «la Repubblica», 19-12-1984.16. Cfr. Abitare la battaglia. La storia di Giuseppe Verdi, a c. di F. D ’A m ic o , Milano, Garzanti 1970 (riedito di recente).17 . Cfr. soprattutto Viaggio da Verdi, Parma, La Pilotta 1977 e Verdi. L'immaginario dell'Ottocento, Milano, Electa 1981 (con pref. di G . G a v a z z e n i ) .18. V. nell'assieme l’art. dello stesso P i e r i , Le scritture della meraviglia. Sullo scriver di musica nel Novecento, in «Paragone/Letteratura», 388, giù. 1982, poi in Una stagione in Purgatorio. Schegge per una storia di scritture minimamente diverse, Parma, La Pilotta 1983, pp. 331-59, con molte osservazioni stimolanti (non condivido però l’idea finale che da ogni scrittore di cose musicali debba prima o poi spuntar fuori un Barilli: al postutto trovo costui abbastanza deludente). Nello stesso volume altri saggi d ’argomento musicale.

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[ . . . ]

in "Studi Novecenteschi", Vol. 11, n. 28 (dicembre 1984)

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Christine Ott Il problema del “residuo” semantico

[…] Negli scritti critici Montale ritorna più volte su [quella] che egli considera unatendenza specifica, ma anche una meta irraggiungibile della lirica moderna. Ilproblema fondamentale consiste nel fatto che:

la poesia si serve di parole [...] le arti hanno qualcosa di più oggettivo, sono più resistential tempo [...] in esse il significato non tarda a diventare «pretesto», occasione; in poesiatale processo è più lento e lascia sempre un fortissimo residuo1.

Le altre arti (musica, pittura) si servono di materiali asemantici2, e sono quindimaggiormente in grado di dare alle loro opere un carattere «oggettivo»,«resistente] al tempo», dietro al quale il «significato» particolare, soggettivo puòcelarsi. Il materiale lirico, invece, è necessariamente semantico, storico ereferenziale. L’oggettivazione verbale si presta meno ad assorbire le intenzioniindividuali, e lascia un inevitabile «residuo» soggettivistico. Ciò che Montale, nel1923, qualificava come «rottame», è definito ora, nel 1942, un residuo semantico.E interessante notare che nella teoria poststrutturalista il concetto di residuoindica la particolare eccedenza di senso del linguaggio poetico3. All’interno di unateoria lirica postontologica il termine viene a occupare il posto altrimenti riservatoa un “pensiero” che precedesse la parola. È una conferma della (seppure quiinconsapevole) modernità della poesia montaliana. Il carattere referenziale del suomezzo fa sì che la lirica contenga sempre un elemento soggettivo, imponderabile(attraverso l’irrimediabile eccedenza di senso), “impuro”4. Ma proprio questocostituisce per Montale la vitalità della poesia, e insieme la sua singolareparadossalità:

Il destino alto e oscuro della poesia parrebbe dunque quello di tendere sempre più allacondizione di arte, all’assoluta purezza che questa parola postula, restando pur sempre, econ piena coscienza dell’impossibile assunto, un’arte diversa, un’arte sui generis [.,.] (Lapoesia come arte).

La particolarità della lirica consisterebbe dunque proprio nel dissidio tra lanecessità di impiegare parole e la tendenza a dissolvere l’elemento semantico(riflessivo, razionale) nell’assoluta liricità (o purezza) - oppure a trascenderlo:

[...] nessuno scriverebbe versi se il problema della poesia fosse quello di farsi capire. Ilproblema è di far capire quel quid al quale le parole da sole non arrivano.

1 La poesia come arte (1942).2 Naturalmente colori e suoni possono suggerire dei significati emotivi, ma non significano nel senso

proprio del termine.3 Stefano Agosti definisce il «“residuo” linguistico non simbolizzalo» come «un’eccedenza di linguaggio

impossibilitata ad assidersi (ad assorbirsi) nella trama comunicativa (concettuale) [...] un sovrappiù nonrazionalizzabile o non calcolabile di "semanticità”» (Agosti, Discorso, parola analitica, linguaggiopoetico).

4 Cosi nello scritto Parliamo dell’ermetismo del 1940, in cui Montale definisce la «poesia pura» in terminimolti simili a quelli di Intenzioni, per poi concedere: «La poesia lirica, come genere, è una astrazione chepuò diventar concreta solo in determinati casi (...) L’obiettivo chiede una giustificazione al subiettivo chesottintende, all’anima; l’impurità, cacciata dalla porta, rientra dalla finestra. Per fortuna!».

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L’assurdità della lirica è appunto questa: vuole trascendere il linguaggio dellacomunicazione, e tuttavia comunicare qualcosa. Impiega parole, ma tenta diesprimere più di ciò che queste possano dire. Quindi non si tratterà tanto diarmonizzare quest’irriducibile contraddizione quanto piuttosto di sopportarla.Non a caso Montale ha definito la lirica una «strana convivenza della musica edella metafisica, del ragionamento e dello sragionamento, del sogno e dellaveglia»5. […]

(da: Montale e la parola riflessa, 2003, trad.it. Milano,Franco Angeli, 2006)

5 «Che cos’è una poesia lirica? Per conto mio non saprei definire quest’araba fenice, questo mostro,quest’oggetto determinatissimo, concreto, eppure impalpabile perché fatto di parole, questa stranaconvivenza della musica e della metafisica, del ragionamento e dello sragionamento, del sogno edella veglia» (Storia dell’araba fenice, 1951; corsivo mio).

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Edoardo SanguinetiIn margine a un paradosso

In un articolo del 1951, che era una recensione al Verdi vivo di EmilioRadius (Il genio che compì il lavoro di molte vite), Eugenio Montale scriveva, tral’altro: “Il problema di Verdi, come del resto quello di Donizetti e di altri operistimusicali dell’Ottocento, è complicato dal fatto che probabilmente fracinquant’anni le sue opere saranno ineseguibili”. Il tempo vola, anzi è scaduto, e iltransito dal cinquantenario al centenario verdiano spinge a ima verifica di quelprudente vaticinio.

L’ineseguibilità di cui discorreva Montale, occorre ricordare subito, era diordine tecnico, esecutivo, essenzialmente vocale. Egli sentiva che si stavaestinguendo una tradizione interpretativa, una modalità di recitazione e di canto, eanche di messa in scena –di messa in opera, davvero – alla quale si poteva tentaredi porgere forse soccorso, suggeriva con amara ironia, qualora “si allevino e siformino degli specialisti, tenendoli in gabbia come bestie rare”. Ma se Verdi eraormai vissuto, o vivibile, come lontano dalle forme concrete delle realizzazioniteatrali, alla metà del Novecento, non lo era nemmeno abbastanza per esseresottoposto a quei restauri che già riuscivano necessari, e perfettamente tollerati,per il Barbiere o per i Puritani. All’orecchio di Montale, insomma, Verdi apparivacome ormai affidato, in grave degrado, a “cantanti di tipo pucciniano”, incapaci diintendere quel particolarissimo “verismo” verdiano, quella sua rivoluzionariavocalità, e prontissimi, anzi, a fraintenderlo.

Ma sotto questo lamento tecnico, si celava poi, più radicale e piùsignificativa, una diversa preoccupazione. Il timore autentico di Montale era che il“verdismo” fosse destinato a scomparire come “passione nazionale”. Di una verasopravvivenza, scriveva, “francamente, non si vedono i segni”. Del resto, egli sitrovava dinanzi a quella “tenzone” che divideva gli “ammiratori del Verdi centrale”(cioè del trittico Rigoletto Trovatore Traviata, proverbialmente supremo) dagli“zelatori del Verdi ultimo” (Otello e Falstaff ovviamente), e dagli amanti del“primissimo Verdi” (per “quella vena che va dal Nabucco e dai Lombardi fino aimiracolosi recitativi drammatici del Don Carlos”). Tra questi amanti minoritariegli iscriveva “modestamente” sé stesso, “pur ammettendo che il Verdi più grandee più italiano sia quello del Trovatore (melodramma più che dramma)” – eintendeva dire, appunto, perché più melodramma che dramma.

A mezzo secolo di distanza, questa “tenzone”, credo, può giudicarsisuperata, se non del tutto spenta, ma più per effetto di una distanza la qualetempera fatalmente molti sbalzi prospettici, che per una concorde risoluzionecritica. E questa distanza è quella che si interpone, di necessità, tra noi che giàsiamo affacciati al Duemila e gli “operisti musicali dell’Ottocento” in genere, eVerdi in prima fila, e che non consiste tanto in un generico blocco d’anniaritmeticamente sgranati, ma nella grande, e veramente epocale, crisi musicalenovecentesca, che ha segnato, per intanto, la morte, non già del teatro musicale,ma certamente del melodramma, quale si spegne, precisamente, nel “tipopucciniano”. Il problema esecutivo e interpretativo, in ogni caso, era la figura diuna più forte, e non più rimediabile frattura. Montale davvero percepiva che stavadiventando sempre più difficile, e in breve forse impraticabile, vivere il verdismo (eil puccinismo stesso) come forma, per così dire, culturalmente naturale, e dunqueimmediatamente partecipabile, in forza e per grazia di un imprescrittibileimprinting.

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In occasione di un Ernani alla Scala, 1959, rilevava chiaramente, allora:

Non è solo che siano più rare le grandi voci, o almeno le voci adatte; è che il rapporto colpubblico appare sensibilmente mutato.

E spiegava:

Un telone di cartapesta, un’orchestra discreta ma non sovrabbondante, due o tre artisti capacidi sentire ed esprimere il canto verdiano erano una volta sufficienti a rivelare Verdi a unpubblico degno di ascoltarlo; e ciò avveniva spesso in teatri di modeste esigenze.

Alcuni anni prima, nel ‘46, è ben noto, Montale aveva esibito, con dedica aMassimo Mila, il suo Paradosso della cattiva musica, che avrebbe poi inaugurato,1981, le sue Prime alla Scala. Non a caso, quel Paradosso recava nel propriocentro la deprecazione per il cattivo momento che Verdi aveva attraversato,“tenuto in quarantena dagli intellettuali”, a dispetto dell’“entusiasmo popolare chelo ha sempre accompagnato”.

Sempre sì, o almeno quasi sempre, in allora, ma non per sempre, dunque.In giuoco era una maniera di ascolto che era rimasta lungamente attiva presso quel“pubblico rozzo, conciliante e sincero” che Montale, nella sua prima gioventù,aveva incontrato al ’’Caffè ristorante del Lido d’Albaro”, con “gli allegri sberleffidella Mascotte o della Figlia di Madama Angot”, e con affini esemplari daKeepsake, e con il piacere di “abbandonarsi alla disperazione di Loris Ipanof o alleprestigiose contraffazioni musicali di Leopoldo Fregoli”. Nel ’56, per una Fedora dicui Gianandrea Gavazzeni aveva procurato “la versione più vantaggiosa”, infatti,confessava, maliziosamente nostalgico: “Personalmente, le nostre Fedore leabbiamo ascoltate in teatri che erano poco più di baracche, con esecutori chesottolineavano i luoghi più enfatici dello spartito”. Era un’educazione musicale,oggi del tutto estinta, che aveva avuto modo di degustare ancora, per poco, quelloche Montale definì, nel ’49, Il tempo delle “soubrette”, l’età d’oro dell’operetta,quando l’“arte umbertina” era riuscita a sopravvivere e continuarsi, “per un paio didecenni, sotto il successore di Umberto”. È il tempo in cui, “fatte tutte lesottrazioni possibili, madama Butterfly non canta in modo troppo diverso da Eva”(quella di Franz Léhar, naturalmente), e “le primedonne dell’opera nonfuroreggiano più se non hanno qualità di stelle operettistiche (Lina Cavalieri,Carmen Melis)”. Era quell’educazione musicale che Montale confessava e vantavaa proposito dei Casi della musica di Fedele D’Amico, dicendosi “partecipe” e“complice” dell’opera ottocentesca, “poco amante della musica pura ma addiritturainnamorato della musica teatrale e in particolare del melodramma, quasi unicagloria del nostro romanticismo”. Si capisce che “solo le cattive esecuzioni” avevanopotuto rendergli “del tutto comprensibile l’opera ascoltata”.

Quella paradossale apologia della “cattiva” musica era, insomma,un’apologià delle “cattive” esecuzioni, e del “cattivo” repertorio. E il paradigmasupremo, per un simile paradosso, era, pur tra molte reticenze e molte ambiguità,iperparadossalmente, la musica verdiana. Perché “Verdi è stato l’ultimo operistache abbia fatto cantare i suoi personaggi: quelli che vennero dopo di lui riuscironospesso anche a far cantare: ma la differenza resta enorme”. E perché, certo, “leantiche esecuzioni erano volgarucce, ma rendevano il più e il meglio: l’essenza delcanto di Verdi”. E le “grandi fiammate di entusiasmo” rimasero sempre piùemarginatamente confinate nei “teatri popolari”, in irrimediabile e veloce agonia.

Quella pienezza di “canto” era verificabile nel “colore” operistico verdiano,perché, per Verdi, “in un’opera, trovato il colore, il gioco è fatto”, dichiaratamente,come annotava Montale, nel ’56, in margine a un Ballo in maschera. E Verdi

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intendeva discorrere “non certo di un colore timbrico, bensì di una colorazionedella melodia”. Quattro anni più tardi, a proposito del Don Carlo (il miglioreesempio della “crisi verdiana”, superiore anche al Boccanegra), Montale osservavache in quest’opera Verdi “ha trovato un colore nuovo, ha trovato la carie nera eprofonda della Controriforma e le circonvoluzioni e i festoni del grande barocco”.E, per un Otello del ’59, aveva già notato:

Non sembra che dopo il ventennio ’47-’67 (dal Macbeth al Don Carlo) Verdi potesse in alcunmodo sorpassare le vette che aveva raggiunto. Poteva invece aggiungere nuovi colori alla suatavolozza e questo rende importanti Otello e Falstaff se si considera che al colore Verdi davaun significato strettamente poetico. Trovato il colore di un dramma, diceva, il resto viene dasé. In tale senso, in cui confluisce anche l’arricchimento tecnico, l’aumentata scienzadell’orchestratore e dell’armonista, Otello è ancora uno dei capolavori drammatici di Verdi eporta alle ultime conseguenze il colore che il musicista aveva già intraveduto nel Boccanegra.

E quanto al Boccanegra, nel ’65, dopo aver notato che al libretto “hannomesso mano tre librettisti: il Verdi che ne abbozzò in prosa la sceneggiatura, ilPiave e da ultimo il Boito” (nel passaggio dalla redazione 1857 a quella 1881),Montale affermava che alla musica

hanno atteso almeno tre Verdi diversi: quello dei Lombardi e del Macbeth, il Verdi dellamaniera nera (quello del Don Carlo e delle parti migliori dell' Otello) e infine il Verdi“aggiornato” dei coretti ancillari, delle serenate e delle fanfare lontane, il Verdi già accusato(chissà perché) di ‘wagnerismo; l’ultimo Verdi, insomma, nei suoi aspetti più superficiali.

E tre Verdi, con tre maniere, significa, di fatto, tre coloriture melodiche edrammatiche. Nel ’57, per altro, per un Falstaff Montale aveva scritto che, neiprimi due atti (nel terzo impera “un sinfonismo da Sogno di una notte di mezzaestate e da Queen Mab”), si scorge “(in parte per merito del libretto, in parte per ilgenio di Verdi che in ogni opera trovava un diverso colore), una tinta di vecchionegozio Old England (o magari Farmacia Roberts) del tardo Ottocento italiano”.

Non è questo il luogo per tentare un abbozzo di diagnosi di un Verdisecundum Montale. Ma era utile chiedere al poeta genovese, che aveva vissuto, conla seduzione e il fascino, anche la crisi e il tramonto della gestione dei coloriverdiani “nelle grandi arene, di fronte a un pubblico che vuole commuoversi e nonguarda troppo per il sottile ai mezzi impiegati dall’artista” (sono parole dettate, èquasi ovvio, per un Trovatore, nel ’62), di testimoniare per noi di un’età chepossiamo, che dobbiamo dire assolutamente conclusa. Proprio in quel ’51 delcinquantenario, ancora, Montale polemizzava, discorrendo di Gozzano, controquegli “intellettuali d’oggi” (dei nostri ieri, cioè, ormai) “che si vergognano diPuccini e preferiscono il Falstaff al Trovatore (ma in cuor loro amano solo lamusica negra)”. Senza questo rigido moto polemico, non è correttamentecomprensibile il “paradosso” montaliano, e la sua lettura del teatro musicale, e diVerdi in particolare. Ma la sua non era comunque quella di un poeta prestato allacritica musicale, nell’ambito del suo secondo mestiere. Era, in qualche modo, e perquesto adesso ci importa, la lettura di una intiera generazione, e può finalmentevalere, infatti, per noi, come documento e come allegoria di una condizioneculturale e di una disposizione storica remota e perduta. Ma, come tale,precisamente, ci soccorre con una differenza decisiva, ci aiuta a meglio apprestarcia intendere un altro Verdi, il nostro eventuale contemporaneo, il possibile Verdidel secolo che si inaugura.

(in: Giuseppe Verdi, genovese, a cura di R.Iovino eS.Verdino. Celebrazioni Verdiane Genova 2001 – Lim.)

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CALVINO E BERIO:Lo strano caso di Un re in ascolto

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TOMMASO POMILIO

Scrittura dell'ascolto: Calvino in Berio

Il paradigma, il complesso e tumultuoso, autodecostruente intreccio iper-autoriale – su cui si fonda il testo verbale di Un re in ascolto e la sua stessa costruzione, – così come l'arco cronologico, su cui esso si compie, è, qui ormai, materia ben nota. Ricapitoliamo, per ora assai sommariamente (omettendo passaggi intermedi). Dal '77, quando Italo Calvino, impressionato dalla lettura delle pagine di Roland Barthes sulla nozione di ascolto (firmate con Roland Havas, per l'Enciclopedia Einaudi)1, ne propone la suggestione a Luciano Berio, da cui era stato intanto convocato per quel progetto di riscrittura/decostruzione del Trovatore e degli statuti del melodramma, che vedrà la luce solo nell'82 come La vera storia (per il progetto, il compositore si era già rivolto a Sanguineti, poi ritraendosi); poi all'agosto dello stesso anno, quando il compositore, recatosi a Salisburgo, riceve commissione per un’ ‘opera’ da rappresentare al Festspiele; al successivo autunno, con la stesura del soggetto; al '79 (la prima parte dell'anno, verosimilmente), quando lo scrittore proverà a sviluppare il soggetto in un primo libretto, in tre atti, cui già è assegnato il titolo che sarà definitivo; quindi, a partire dall'anno successivo, fino alla totale riformulazione del soggetto e, progressivamente, alla radicale decostruzione del progetto iniziale, col

1. Roland BARTHES – Roland HAVAS, Ascolto, poi incluso in R. BARTHES, L'ovvio e l'ottuso. Saggi critici III, trad. di Carmine Benincasa et al., Torino, Einaudi 2001, pp. 237-251.

in: Le théâtre musical de Luciano BerioActes de six journées d'études qui ont eu lieuà Paris et à Venise entre 2010 et 2013Sous la direction de Giordano FerrariParis, L'Harmattan, 2016

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disegnarsi, nell'80, di un trattamento rutilante e multiplanare2, destinato a seguire ormai non più la paranoia verosimile di un re-usurpatore prigioniero del suo «palazzo-orecchio», imbrigliato nelle maglie di congiure che sono presupposto e conseguenza del suo medesimo esercizio del potere (o forse i fantasmi stessi dell'essere, nella prigionia d'un «mondo che non gli appartiene, che forse non esiste»), ma invece, i labirintici circuiti mentali di un «padrone della musica», un direttore di teatro d'opera «in preda a un'angosciosa crisi interiore», perduto nel suo proprio «labirinto» (tema questo topicamente calviniano, come è noto). In parallelo, il trattamento dell'80 vede lo sviluppo di altri due livelli (accolti in parte nel lavoro finale): quello in cui seguiamo un'opera (tradizionale) non dal punto di vista della platea ma dalla prospettiva del palcoscenico, e infine quello relativo al backstage, il lavoro materiale durante l'esecuzione dell'opera, tra le quinte e il retro del fondale.

Azzerato il primo soggetto e di conseguenza il primo libretto, la sola struttura del trattamento dell'80 resisterà nel risultato finale – il testo o canovaccio geniale, che serà ancora, nominalmente, a firma da Calvino, ma in realtà pastiche integralmente ascrivibile alla volontà di Berio (nel frattempo, come sappiamo, era caduta la testa di un altro candidato ‘librettista’, Wolfgang Fleischer): frutto di ulteriori riadattamenti e ‘caoticizzazioni’, rispetto all'idea di (ri)partenza (quella del trattamento dell'80 appunto), e arricchito per l'inserzione di riverberi shakespeariani (nel direttore di teatro andrà a cortocircuitarsi, crepuscolarizzato, il Prospero della Tempesta o ancor meglio del finale della Tempesta, mediato da suoi riscrittori – Auden e Gotter segnatamente) così come di schegge che riportano, quasi in circolo, situazioni ed energie di lavori immediatamente passati (da Opera, o da La vera storia).

2. Italo CALVINO, Per Un re in ascolto di Berio: Trattamento 1980, in Id., Romanzi e racconti, ed. diretta da C.MILANINI, vol.III, Racconti sparsi e altri scritti d’invenzione, a c. di M.BARENGHI – B.FALCETTO, intr.. C.MILANINI, Milano, Mondadori 1994, pp.755-757. Dallo scritto sono tratte le brevi citazioni che seguono.

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Scrittura dell'ascolto: Calvino in Berio

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Nel testo verbale conclusivo, confluiranno materiali elaborati da Calvino in vista di uno sviluppo del trattamento progettato nell'80, in particolare quelle «arie» che verranno infine intitolate a Prospero, in realtà già utilizzate da Berio nel «teatro immaginario» di Duo, per baritono, due violini, coro e orchestra, in onda su Rai Radiouno nel settembre dell'82, nell’ambito del XXIV Premio Italia: ove è in scena, in a-solo, l'impresario del Trattamento dell'80, dialogante con se stesso («con le voci del suo passato e con la coscienza della sua fine imminente», leggiamo nella Nota dell'autore)3, a «sognare un suo teatro […] chiuso nello spazio irreale dei suoi ricordi»: mentre, a duettare concretamente, od oniricamente, sono i violini; i vari passaggi, dal trattamento a Duo e poi al testo finale, implicheranno ulteriori smembramenti, prima nella ridisposizione delle varie «arie» calviniane in Duo e quindi nella loro distribuzione nella logica del testo dell'84.

Non troverà invece posto nel ‘libretto’ definitivo il bizzarro Coro di congiurati da un libretto d'opera (che Calvino aveva pubblicato nel giugno dell'81 su «Il Caffè»), ancora memore dei temi del primo, ripudiato (da Berio) libretto del '79, ma ormai proiettato sul progetto attuale: al punto che il «libretto d'opera» enunciato nel titolo, non è più, certo, quello del primo Re in ascolto, ma piuttosto quello dell'ipotetica opera «tradizionale» messa in scena dall'impresario del trattamento dell'80... (o dovremo forse immaginare una sovrapposizione fra l'opera mancata del primo libretto, e l'ipotetica ‘opera tradizionale’ citata nel trattamento dell'80? del resto, il Coro si pone in linea di continuità, o contiguità, anche col lavorìo sui/dei tòpoi, svolto ne La vera storia). È un testo, questo, filastroccante ai limiti del puro gioco verbale, fitto di bisticci e calembours, che può riportarci da un lato ai toni del primo, pop anziché no testo per Berio

3. La nota beriana per Duo, in occasione del Premio Italia (in cui il musicista parla, peraltro, di “teatro virtuale”), è riportata fra l’altro da Claudio VARESE, Calvino librettista e scrittore in versi, in Luigi BALDACCI [et al.], Italo Calvino. Atti del Convegno internazionale (Firenze, Palazzo Medici-Riccardi, 26-28 febbraio 1987), Milano, Garzanti 1988, pp. 349-368 (la citazione è alla p. 360 del saggio).

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(Allez-hop, del lontano '59), così come a un nonsensical intimamente combinatorio, in un arco teso fra Carroll e Queneau, ma con un sorprendente quasi-montalismo in explicit («L'ombra zebra la brina di settembre», con memoria, di certo non involontaria, della «prima belletta di Novembre»)4: omaggio forse, o sberleffo?, al più grande librettista mancato della nostra letteratura, o forse indizio lasciato a bella posta a illuminare il coro d'una luce polifonica e pur centralmente novecentesca di mottetto.

Benché promettentissimo, negletto dové restare, peraltro, un secondo progetto di trattamento, stilato dallo scrittore in un ‘trattamento-riassunto’ in tre pagine dattiloscritte a data 6 agosto 1981 (omettevo di citarlo, qui in apertura, perché scivolato via dalla materia dell'azione musicale senza lasciare ahimé la più pallida traccia)5: qui il protagonista è un uomo che non riesce a parlare con una donna incontrata lungo la strada, isolata com'è, questa, dalle sue cuffie di walkman; che è gadget, ricordiamolo, dalla Sony introdotto giusto nel '79, al tempo della stesura del primo ‘libretto’. E non sarebbe troppo azzardato, ma solo ulteriormente labirintico, ipotizzare in questa diavoleria della casa giapponese, che fu vera e propria rivoluzione tecnologica della scena dell'ascolto e in ciò che ne deriva (nel regime d'una metamorfosi e persino ‘finzionalizzazione’ della realtà esterna, ridisegnata in toto da una colonna sonora interminabilmente pulsata dalgi auricolari... il ridisegnarsi, elettrificarsi, per l'ascoltatore, in set – mobile, continuo, interminabile – dei neutri scenari dell'esperienza

4. Mi riferisco naturalmente al verso con cui si chiude Non recidere, forbice, quel volto, il più fatidico forse dei Mottetti di Eugenio Montale, sezione-chiave de Le occasioni (1939). Ma non è certo l’unico omaggio al grande corregionale, nella materia del Re in ascolto; un riferimento assai trasparente (stavolta a uno dei più fatidici componimenti degli Ossi di seppia, 1925 – Forse un mattino andando) si trova all’atto secondo del libretto originale del 79, per la precisione nel Coro di ribelli: «Forse un mattino livido / vedrà gli ultimi incendi» (in Italo CALVINO, Romanzi e racconti, vol.III, op. cit., p. 742). 5. V. la nota di Cesare MILANINI per i Materiali per «Un re in ascolto» di Berio, nei Romanzi e racconti calviniani, edizione da lui diretta per i Meridiani Mondadori: vol. III, op.cit., pp. 1292-1295.

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quotidiana, quasi un infinito piano-sequenza mentale... l'accesso quindi a una qualità, assordata e risonante, di solipsismo di massa, che è poi la chiave prescelta da Calvino per quel trattamento abortito... ecc.), una fonte di quell'invenzione del «palazzo-orecchio», alla base del primo libretto («il palazzo del re è una conchiglia all'orecchio in cui i silenzi si dilatano e gli echi si avvolgono a spirale»), e del suono, o voce, che risuona «per ponti e vicoli e cortili6».

*

Come pare evidente ormai drammaticamente (uso un'espressione di Berio – che virgoletta, spingendo su una valenza, piuttosto, drammaturgica, intrinseca all'avverbio)7, la costruzione del testo verbale si presenta quale un corpo a corpo titanico, agonico e scintillante di effetti speciali, fra due entità autoriali, due stregoni dei linguaggi (il materializzarsi della figura di Prospero nemmeno in

6. Le citazioni sono tratte dal libretto originale (1979) di Un re in ascolto, in I. CALVINO, Romanzi e racconti, vol.III, op.cit., pp. 730-754 (rispettivamente, alle pp. 738 e 744). Rimando volentieri al bell'intervento di Robert Adlington nel corso della giornata di studio presso la Fondazione Cini (qui raccolto), specie nel punto in cui questi si riportava a The Fall of Public Man di Richard Sennett, saggio pubblicato dalla newyorkese Knopf giusto nel 1977 (anno peraltro topico per il nostro Ascolto – all'indomani della focalizzazione barthesiana – e anno, poi, dell'invenzione dello «stereobelt», immediato antesignano del walkman), nella considerazione dell'ascoltatore, sorta di ‘spettatore interiore’, teso a isolarsi dalle forze disintegrative del circostante (e del silenzio di lui, quale forma di difesa dall'esperienza di relazioni sociali, e dalla sua stessa, profonda insicurezza). 7. Mi riferisco a un passo (che citeremo meglio più avanti), dell'86, poi pubblicato nell'88, in cui il compositore parlerà delle ragioni della «mancata convergenza finale» con gli intenti dello scrittore. Si tratta della memoria da Berio resa al Convegno sullo scrittore che si tenne a Sanremo il 28-29 novembre dell'86, a un anno dalla sua scomparsa, e pubblicata poi ben tre volte nel corso dell'88, in prima battuta, su «l'Unità» del 12 gennaio 1988 col titolo Le note invisibili, poi, col titolo La musicalità di Calvino, in «il verri», ottava serie, n.5-6, marzo giugno 1988, pp.9-12; in Giorgio BERTONE (a c. di), Italo Calvino. La letteratura, la scienza, la città. Atti del Convegno nazionale di studi di Sanremo, Genova, Marietti 1988, pp.115-117. Il testo è incluso ora in Luciano BERIO, Scritti sulla musica, a c. di A.I. De Benedictis, intr. G. Pestelli, Torino, Einaudi, 2013, pp. 328-331.

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questo è casuale) animati da negromanzie, certo divergentissime, a soddisfare una propria aspirazione alla totalità la quale si dà analoga e insieme, forse, opposta e incompatibile a quella dell'altro. Se parallela e ad intensità altissima si svolge la ricerca sulle forme e i sensi (eventualmente, i cinque sensi) dell'espressione, tesa all'attingimento di un assoluto-testuale – e magari metatestuale se poi soprattutto avviene, in entrambi i casi, per via di prassi tendenzialmente «traduttorie», a scostare le pieghe dei testi e del proprio testo, – profondamente sembra divergere il livello, lo strato (direi, per suggestione geologica e speleologica) in cui l'uno e l'altro artista s'inoltra a operare il sondaggio suo proprio. Pur incrociandosi negli snodi del progetto in cui si finalizzano, i percorsi si discostano a fondo: e assai meno, forse, in ragione dei principii che sovrintendono ai due specifici ambiti espressivi, che per il differente grado di coinvolgimento entro la materia espressiva8; e potremmo dire che, dalla parte dello scrittore (di colui che opera nella lingua) agisce una resistenza a depotenziare il logos onde favorire l'erompere anche insensato, alogico (o alter-logico), del melos,

Certo è che per Berio, a differenza di Calvino, ciò che conta è la «polifonia di livelli espressivi» (così nella importante memoria

8. Berio nel '58, in Poesia e musica – Un'esperienza (ora in Scritti sulla musica, op.cit., pp. 253-266) definiva con esattezza le differenze di fruizione delle due forme espressive, ossia tra «una condotta percettiva di tipo logico-semantico (quella che si adotta di fronte a un messaggio parlato) e una condotta percettiva di tipo musicale, cioè trascendente e opposta alla precedente sia sul piano del contenuto che sul piano sonoro», e la necessità di abbandonare «i più semplici schemi formali della percezione» in nome di una forma più totalizzante di «adesione creatrice» in cui «tutti i nostri sensi sono chiamati ad apprendere e consumare l'oggetto estetico»; è forse pleonastico, in questa sede, di ricordare anche in questo scritto Berio mirava alla possibilità di uno spettacolo «totale», il cui scopo più autentico sarebbe non «di opporre o anche di mescolare due diversi sistemi espressivi, ma di creare invece un rapporto di continuità tra di loro, di rendere possibile il passaggio da uno all'altro [sic] senza darlo a intendere» (cito da pp. 254 ss.). Pare singolare, e significativa, la quasi assoluta coincidenza temporale di questo scritto con il fatidico Mare dell'oggettività calviniano, che contempla un'analoga pulsione, ma da un'angolatura opposta (almeno apparentemente).

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dell'86, qui citata in nota). L'assoluto musicale di Berio ci appare impulso all'espressione (anche a quella linguistica e culturale), portato oltre i linguaggi, e ancor più, oltre il logos; eventualmente, e senza nessun empito estatico-irrazionalistico, nel cuore stesso di quel magma sul cui limite Calvino (pur sporgendosi) si ritraeva inorridito: lì dove – dirà il compositore nella memoria dell'86 circa la sua collaborazione con Calvino – «testo e musica perdano la loro autonomia» in nome di «una compenetrazione più ricca, organica e addirittura inestricabile». È appunto quella compenetrazione che rischia di spalancare un accesso a quel mare o magma dell' «oggettività», che lo scrittore mai vorrà spingersi ad attraversare: a dismettere cioè il potere del logos: a cessare di riconoscere, anzi, nel logos, la struttura di un ethos irrinunciabile; mai sciogliendo la lingua o la testualità medesima in possibilità di contatto, anche ustorio, con la materia, ma piuttosto optando per una resistenza/centralità del discorso in quanto dominio dell'astrazione e, diremmo col Berio del '59, della dimensione logico-semantica. In questo, pare ovunque emergere (persino nello sguardo «fanciullesco» e poetico dell'esordio neorealista, del '47 – si pensi al personaggio, in gran parte autobiografico, del partigiano Kim)9 la insopprimibile vocazione saggistica della parola calviniana; la quale convive tuttavia con la fiducia nelle versatilità della letteratura, della sua capacità (a citare una pagina del '62) di «stare in mezzo ai linguaggi diversi e tenere viva la comunicazione tra essi10». La pur strenua Sfida al Labirinto o

9. I. CALVINO, Il sentiero dei nidi di ragno (1947), in Id., Romanzi e racconti, ed. diretta da C. MILANINI, vol.I, a c. di M. BARENGHI-B. FALCETTO, pref. J. STAROBINSKI, Milano, Mondadori 1991, pp. 3-147; ci riferiamo, qui, al capitolo IX. 10. La citazione, contenuta in una parentesi, è sulla conclusione della importante testimonianza di Calvino nel volume collettivo La generazione degli anni difficili, a c. di E.A. ALBERTONI et al., Bari, Laterza 1962, pp. 75-87 (l'intervento è ora incluso in I. CALVINO, Eremita a Parigi. Pagine autobiografiche, Milano, Mondadori 1994); riportiamo qui il passo che precede, lì dove lo scrittore manifesta la sua «passione per una cultura globale» e il suo «rifiuto della incomunicabilità specialistica per tener viva un'immagine della cultura come un tutto unitario, di cui fa parte ogni aspetto del conoscere e del fare, e in cui i vari discorsi d'ogni specifica ricerca e

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(per altri versi, diversamente interlocutorii) al Mare dell'Oggettività, al magma, annunciata a cavallo fra anni '50 e '6011, sarà destinata ad aver luogo non nei termini di un loro attraversamento, ma in quelli di una loro descrizione, dall'esterno sempre, seppur vertiginosa e attratta/atterrita dalle loro vertigini (del Labirinto; dell'Oggettività): nei panni, sempre più astratti, del regista patente/occulto di celibi macchine narrative, cristalli o geodi – fino all'esemplarità di Se una notte d'inverno un viaggiatore. È in questo, forse, che il processo descritto nel primo libretto di Un re in ascolto, e poi nel racconto omonimo – punta estrema anche cronologicamente del percorso calviniano, scritto alla vigilia della prima salisburghese12 – assume un valore quasi proiettivo, autorivelatorio: come riassume Falcetto, «se, a un certo punto, [al re] sembra di ritrovare in sé un canto che non conosceva è solo per scoprire che quella nuova voce non è la sua ma quella di un sé cui non ha concesso di esistere13» (del resto, nel trattamento dell'80 lo scrittore parlerà esplicitamente di «doppio»).

Ma su punti come questi, Berio stesso, 'stregone' piuttosto del magma (seppur variegato e stratificatissimo, persino multiplanare, specie di magma – dalla natura non troppo diversa infatti da quella di tanto Sanguineti, che del compositore fu forse alter elettivo), ebbe a pronunziarsi, nella medesima testimonianza dell'86/88; sottolineando, certo, la resistenza dello scrittore all'immersione nella dimensione

produzione fanno parte di quel discorso generale che è la storia degli uomini» (la cit. si trova a p.86). 11. I saggi celeberrimi che citiamo (rispettivamente del '62 e del '59) si trovano in I. CALVINO, Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, pubblicato per la prima volta nel 1980; citiamo dalla ristampa del 2011 negli Oscar Mondadori con uno scritto di C. MILANINI, dove si trovano alle pp.101-119 e 48-56. 12. Precisamente, nel mese di luglio, come è testimoniato da una nota su un taccuino dello scrittore. Una selezione del testo (circa la metà del totale) venne poi pubblicato su «La Repubblica» il 12-13 agosto, cinque giorni dopo la prima dell'azione musicale; da essa, Calvino, nel presentare il proprio scritto, prende elegantemente le distanze, di fatto disconoscendo il proprio ruolo di coautore. 13. Bruno FALCETTO, «Cantare mentre tutto il resto non canta», in «Riga», n.9, 1995, pp. 246-252 (la cit. si trova a pp. 251 ss.).

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totalizzante e appunto magmatica della musica (Berio, nella sua memoria, lo fotografa come «intimidito dalla musica»), ma anche rilevando nell'opera calviniana la natura di «un processo musicale in continua trasformazione». – Di fatto, su tanto intrecciarsi e deliberato fraintendersi, dové comporsi (tra le mani dis-organizzative o iper-organizzative di Berio, despota e demiurgo e autodecostruito Prospero della sua propria rappresentazione), un ircocervo testuale ramificatissimo, un ‘libretto’ o meglio (iper)testo risultante da una serie di sovrapposizioni e progressive, decise revisioni. Fino a includere passaggi d'una corrispondenza di Calvino a Berio, in cui lo scrittore (comprendendo, nelle sue lettere, anche la voce dell'altro) con lucidità sottolinea la natura del loro disaccordo.

Com'è noto, e come già accennavo, l'intreccio va esteso, oltre che ai due soggetti in gioco, almeno a un terzo: se è vero che l' ‘azione musicale’ risulterà da modi diversi d'intendere (o appunto fraintendere) il timbro e i sensi della voce barthesiana sull'ascolto; e incorporarne, comunque, le suggestioni. Ma ancora (dalla parte di Berio), all'ipotesi calviniana dovrà subito sovrapporsi una presenza ulteriore, decisiva quanto tremendamente impegnativa – quella dell'ultimo Shakespeare – mediata, come sappiamo, in maniera quanto meno duplice. Da un lato, tramite il Singspiel Die Geisterinsel – L'isola degli spiriti – che Friedrich Wilhelm Gotter nel 1791 trasse dalla Tempesta, con la collaborazione di Friedrich Hildebrand von Einsiedel (pubblicandolo in rivista nel 1797), e che in soli tre anni, fra il 1796 e il 1799, in un habitat culturale di Romanticismo incipiente (nel '98 uscirà il primo numero della rivista «Athenaeum»), venne musicato più volte (cinque, per la precisione); in questo Singspiel, Berio avverte echi dal Flauto magico, quasi il suo «misterioso profumo». Del resto, una leggenda (più volte confutata, ma da Berio accolta) vuole che il testo fosse passato fra le mani dello stesso Mozart poco prima della morte14: e non è da escludere, in questo, che –

14. A tale questione Berio fa riferimento peraltro nel fondamentale Dialogo fra te e me pubblicato nell'84 nel programma di sala di Salisburgo, ora in Scritti sulla musica, op. cit., pp. 273-279.

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triangolata fino all'inverosimile – nel ‘libretto’ deciso da Berio s'includa l'ombra mozartiana... Dall'altro lato, La tempesta irrompe nel testo verbale dell'azione tramite il commentario in versi, The Sea and the Mirror, che Wystan Hugh Auden scrisse in un altro momento topico e furente della storia e della cultura occidentale, fra il 1942 e il '44. Come l'ascolto si spezza in una folla di percezioni o meglio in una sorta di follia percettiva, che confluisce tutta nella cassa di risonanza di un mega-orecchio protervo e quasi ubuesco (quello che troverà espressione soprattutto nel racconto...), così la situazione testuale espressa nel risultato finale (operato, di fatto, interamente da Berio) è estremamente tormentata e diffratta; un gioco di specchi spezzati, portato giusto nel cuore dell'esperienza secondonovecentesca, ma per giungere alla chiave stessa del canone occidentale tutto: lo Shakespeare più totalizzante, quello appunto della Tempesta, e (soprattutto) il Prospero specie dell'explicit (quando i suoi «incanti son tutti spezzati» e «su tre pensieri uno è per la sua tomba»), qui assunto come assoluto mago e demiurgo d'ogni possibile Teatro, ormai preda dello suo stesso teatro (di cui, in Un re in ascolto, è l'impresario) così come dei suoi propri individuali fantasmi.

Fatto sta che, proprio nelle settimane antecedenti la prima di Salisburgo, Calvino – rassegnatosi ormai alla caduta del progetto da lui immaginato – si dedicherà alla stesura finale del racconto, destinato a trovar spazio nel progettato libro sui cinque sensi; e si affretterà a pubblicarne, sulle pagine de la Repubblica, una versione rimaneggiata, qualche giorno dopo la prima, elegantemente benché non del tutto esplicitamente ritirando la sua il quale viene (ma di questo già dicevamo in nota).

*

È toccando i vari fili di questo ordito, ossia su questo stesso risonante disaccordo, che varrà la pena adesso muoversi, per tentare di seguire la brusca metamorfosi subita dal concetto calviniano nella violenza (e quasi, brutalizzazione) su esso portata dal trattamento beriano: arrestandosi giocoforza alle soglie di ciò che se ne trasporrà

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nel quadro di un progetto di scrittura puramente narrativa, ormai sottratta al caos scenico e sonoro perseguito con tal forza da Berio, parallela e ormai alternativa ad esso; alle soglie insomma del racconto, che nella sua interezza uscirà soltanto postumo (nell'incompiuta raccolta sui cinque sensi, il cui scopo era, a detta dell'autore, di «rendere possibile al mondo non scritto di esprimersi»...)15: labirinto ulteriore ed estremo, in cui, in questa sede, non sarà il caso di inoltrarsi.

Partirei, intanto, dal piano più produttivo, ovvero dinamizzante la fabbrica del testo verbale (non avremmo difficoltà a chiamarlo libretto, se non fosse per l'uggia provata da Berio per questo termine) così come, alla sua base, l'azione medesima elettrificante la scena: quel livello propriamente agonico, ossia del fruttuoso conflitto fra le due identità autoriali sottilmente unite l'una all'altra da almeno una ventina d'anni (dai tempi di Allez-hop) per un legame che appare inscindibile non meno che retto su di un consapevole equivoco intorno al concetto stesso di opera d'arte (e più in particolare di musica e di musicalità) in quanto, diciamo, forma critica di totalità.

Della natura conflittuale, ai limiti (dicevamo) dell'agonico, caratterizzante i rapporti fra Berio e Calvino, dové testimoniare il compositore stesso, nella breve e densissima memoria, che citavamo, resa al Convegno di Sanremo, a un anno dalla scomparsa dello scrittore, e che non possiamo evitare adesso di percorrere nel suo spessore. Qui, il rapporto fra i due autori, da Berio è riassunto scherzosamente (forse nemmeno troppo) nella chiave del ‘soffrire’, in base al fatto che essi «perseguivano una ricerca comune alla quale si giungeva però da premesse e da direzioni diverse» che, nel caso del nostro ‘libretto’, dové giungere a una divaricazione sostanziale nella «visione del lavoro». Fra le ragioni della «mancata convergenza 15. Così nel testo di una conferenza newyorkese dell'83, Mondo scritto e mondo non scritto, poi pubblicata nella primavera-estate del 1985 su «Lettera internazionale» (traggo la notizia dalle note di Milanini, nel succitato vol.III dei Romanzi e racconti calviniani). La raccolta, com'è noto, verrà pubblicata come Sotto il sole giaguaro, traendo il titolo dalla novella sul senso del gusto.

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finale» (ossia del non «riconoscersi completamente», da parte dello scrittore, nel «risultato finale» – parlando ancora di Un re in ascolto), il compositore indica il fatto che Calvino, nella sua scrittura per musica, «tendesse ad ancorarsi a una storia e a svilupparne un percorso narrativo che entrava irrimediabilmente e spesso ‘drammaticamente’ in conflitto con quello che invece sottintendeva lui [Berio]: cioè un percorso e uno sviluppo musicale che poco avevano a che fare con la narratività». Se è vero che nel concetto beriano di musica vocale, testo e musica sono destinati «a perdere la loro autonomia», ciò accade per dar vita a una «compenetrazione [...] organica e addirittura inestricabile», a una «dimensione significativa di grande spessore espressivo»; in Calvino invece questo processo sembra suscitare resistenze – timidezze, a dire di Berio («intimidito dalla musica» il sanremese di Santiago di Cuba), o forse persino timori, scettico come questi era circa il fatto che «anche la musica potesse manifestare e mescolare assieme diversi livelli di realtà» (il riferimento è naturalmente al saggio del '78, posto a conclusione di Una pietra sopra)16, o respinto dal fatto che essa non fosse «razionalizzabile e verbalizzabile in tutti i suoi livelli». Berio rileva quanto refrattario lo scrittore fosse alla dimensione musicale («la musica suscitava in lui un po' d'interesse solo quando c'erano parole da capire»): ma appunto la «esterna non-musicalità» di Calvino è elemento da cui Berio si dichiara attratto (in quanto predilige «testi che vengono «da regioni non musicali» e diventano musica solo attraverso un «lungo e complesso percorso»). Ma soprattutto, il compositore coglie, nella scrittura di Calvino, una forma intrinseca e assoluta di musicalità, «in virtù di quella moltitudine, di quella polifonia di elementi espressivi che lui aveva difficoltà a percepire nell'esperienza musicale». Sì che, «con la mobilità dei suoi livelli di realtà» (l'allusione è sempre, un po' libera, allo scritto del '78), la testualità calviniana risulta infine qualcosa come «un'architettura musicale: come una costruzione di frammenti internamente partecipi

16. I. CALVINO, I livelli della realtà in letteratura, in Una pietra sopra, op. cit., pp. 376-392.

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di un processo musicale in continua trasformazione», o infine «come una progressiva sublimazione di forme musicali17».

Dalla parte dello scrittore, è possibile intendere in tutta la sua portata questa forma tanto generativa di conflitto (conflitto ai limiti di una reciproca ‘sofferenza’)18, nella curiosa corrispondenza, per così dire ricapitolatoria (a cui già alludevamo), che Calvino indirizzò a Berio, consistente in due lettere, l'una datata alla fine dell'81, in dicembre (quando ormai il primo libretto era stato accantonato, le «arie di Prospero» erano state scritte e attendevano di essere realizzate nel futuro Duo, e si lavorava sulla base del trattamento multiplanare dell'80), l'altra ai primi mesi dell'82, probabilmente in aprile, pubblicate entrambe da Enzo Restagno nel '95 volume per i settant’anni di Berio19. In questa fantomatica ‘corrispondenza’, lo

17. Come specificato a inizio capoverso, le citazioni sono tratte dall’intervento, precedentemente citato, di Luciano Berio, per gli Atti del convegno di Sanremo (La musicalità di Calvino, op.cit.). 18. Nel Dialogo fra te e me, dell’84 (op.cit., p. 276), Berio sottolinea peraltro il valore (il paradosso?) di una complessiva «instabilità di rapporto» a rendere «l’unità dell’insieme». 19. La corrispondenza in forma di pseudo-dialogo è riportata in Enzo RESTAGNO (a c. di), Berio, Torino, EDT 1995, pp. 135-141, col titolo A proposito di «Un re in ascolto» (due lettere inedite di Italo Calvino a Luciano Berio): la data della prima di essa, 10 dicembre 1981, sembra acclarata, mentre alla seconda è dubitativamente attribuita una datazione riferibile all'aprile 1982. Il volume a cura di Restagno contiene diversi saggi e materiali preziosissimi per la comprensione della nostra azione musicale: dal testo di Massimo MILA pubblicato nel programma di sala della prima alla Scala («Un re in ascolto»: una vera opera), all'intervista dell'86 a Umberto ECO (Eco in ascolto), all'ampio e assai ben concertato studio di Laura COSSO («Un re in ascolto»: Berio, Calvino e altri); ed è un rammarico non riprendere e discutere a dovere, in questa sede, una così ricca e varia messe di stimoli. A questi, andrebbe aggiunto almeno il contributo di Peter SZENDY, Punto d'ascolto, in Angelo SOMAINI (a c. di), Il luogo dello spettatore: forme dello sguardo nella cultura delle immagini, Milano, Vita e Pensiero, 2005; e, per quel che riguarda Calvino o meglio la sua attività di scrittore per musica, quello di C. VARESE, Calvino librettista e scrittore in versi, citato in precedente nota, e Salvatore RITROVATO, «Un re in ascolto». L'ultimo «tragico» Calvino librettista, in M. MESCHINI – C. CAROTENUTO (a c. di), Tra note e parole: musica, lingua,

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scrittore si faceva carico anche della voce dell'interlocutore o contraddittore, nelle parti di un Io e di un Tu (ricorderà Berio, nel '95, in una testimonianza orale, che ciò avvenne per una sorta di ‘sceneggiatura’ programmata da Calvino stesso)20. Si tratta di pagine che sorprendentemente il compositore – lo abbiamo detto – deciderà di annettere, almeno in parte, nell'ircocervo del ‘suo’ testo verbale (firmato comunque dallo scrittore, per quanto questi pochi giorni dopo la prima salisburghese si affrettasse poi a prenderne le distanze, come sappiamo); pagine che dovettero colpire e divertire così profondamente il compositore, da stimolare in lui la stesura di una non meno fondamentale autointervista, inserita nel programma di sala della medesima prima dell'84 (il succitato Dialogo fra te e me). Per quanto reinventate ed evidentemente ‘sceneggiate’ da Calvino, queste battute di dialogo, reinventate nella corrispondenza, valgono a render conto con una certa precisione del dibattito avvenuto fra i due, svelando il ruolo avuto dal compositore nella progettazione del trattamento del 1980.

Nel 'falso' dialogo ricomposto da Calvino,, si tratta, innanzitutto, della caduta del primo libretto: alla situazione drammatica ideata dallo scrittore, il personaggio «Tu», ossia Berio nella ricostruzione di Calvino, risponde: «Questo va bene come situazione, in senso generale, però adesso dovresti trasportare tutto in un altro ambiente,

letteratura, Ravenna, Longo 2007, pp.117-130 (oltre al contributo di Falcetto, che abbiamo invece avuto modo di citare più diffusamente; e a quelli, illuminanti veramente tutti, di questa giornata, che non ho modo di citare nella loro forma compiuta, e a cui rimando). 20. La testimonianza di Berio venne raccolta il 19 settembre 1995 nel quadro della diretta radiofonica (Radiotre Suite, per l'esattezza) di una serata di rievocazione della figura di Calvino, al Piccolo Regio di Torino, a dieci anni dalla morte dello scrittore; il compositore ricorda che, nel «programmare» lo «scambio» epistolare (unidirezionale e a due voci), Calvino avesse annunciato a Berio che il loro sarebbe stato un dialogo fra un compositore e un librettista; e che, in questa prospettiva, lui «sarebbe stato» Boito, e l'altro, Verdi... Nei suoi dettagli, la vicenda è riportata giusto in questa sede da Renata Scognamiglio (che ha reperito il prezioso documento audio), al cui intervento rimando, e che ringrazio (cfr. nota 27 a p. 18).

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con un altro linguaggio... Non puoi mica fare un libretto da vecchio melodramma, non ha senso, capisci...». In secondo luogo, la nuova chiave esplicitamente metatestuale e metateatrale, ma ancor prima metamusicale, che Berio impone rispetto al progetto inizialmente tutto narrativo di Calvino: «bisognerebbe far sentire la musica dentro la musica, è per questo [che] pensavo che la scena deva venir fuori nella scena, dentro la scena». Nel concetto beriano, il direttore d'un teatro d'opera si sovrappone dunque al re, in quanto «immagine del potere contemporanea»: al punto che «tutta l'azione potrebbe svolgersi in un teatro» e sul primo piano risalirebbe «tutto quello che avviene dietro lo scenario, tra le quinte, la sera d'una prima» e «nello stesso tempo in quel teatro ci dev'essere l'opera che viene rappresentata sulla scena, e dev'essere un'azione diciamo così omologa alla scena fuori del teatro»; il teatro stesso diviene, al limite, l'inconscio dell'impresario, di colui che «ha fatto un sogno», e che diverrà Prospero nel testo definitivo e già nel concetto calviniano delle Arie ma solo, per Calvino, per via d'una triangolazione con il claustrofobico onirismo kafkiano (il passo dal Diario di Kafka, «L'ho sognato l'altroieri. Tutto era teatro» ecc, del 5 novembre 1911, da Calvino riportato nella prima delle due epistole-dialogo, viene implicitamente dichiarato all'origine della prima delle Arie – «Ho sognato un teatro, un altro teatro, esiste un altro teatro oltre il mio teatro», ecc.)21.

Nelle parole del Tu (Berio) ricostruite dall'Io-mittente (Calvino), il punto di vista da privilegiare resta quello portato «dall'interno del palcoscenico, mostrando il rovescio d'una rappresentazione d'opera

21. Per quanto non espressamente praticata, fin dalla prima ideazione è decisiva l'impronta del Kafka più claustrofobico e concentrazionario, e al limite benthamiano (alla dominante di un Panopticon acustico si richiama anche Szendy, nella succitata interpretazione): trasmessa al nostro «duo» dal Barthes di Ascolto, in un passo dei Diari (del 5 novembre 1911) che Berio opportunamente riporterà in una testimonianza dell'84 (dal programma di sala della prima salisburghese di Un re in ascolto), ripubblicata poi nel programma di sala per l'allestimento dell'86 alla Scala di Milano (La nascita di un re, ora in Scritti sulla musica, op. cit., pp.270-272): «Sto seduto in camera mia, nel quartier generale del chiasso di tutto l'appartamento: odo sbattere tutte le porte...»

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[…] un'agitazione reale che fa da contrappunto alla tensione drammatica irreale». Ancor più, le battute reinventate nella corrispondenza rendono conto della dialettica fra i due autori circa la nozione di silenzio (un silenzio interno all'ascolto, e viceversa); «d'improvviso, senza preludio […] una voce fortissima, come un'esplosione», per Berio, «un po' come se dentro la musica ci fosse il silenzio»: mentre Calvino pensa a «un effetto-silenzio» in quanto «attesa del suono», a «un fruscio che occupa tutto lo spazio sonoro», o ancora (sulla traccia di Blanchot citato da Barthes) al canto delle sirene come «canto dell'abisso: che, inteso una volta, apriva in ogni parola un abisso e invitava con forza a sparirvi dentro». Si tratta qui, a ben vedere, di due diversi modi di ricezione delle note barthesiane sull'ascolto; l'uno che punta sull'attesa, sul vuoto (è di Calvino, naturalmente), l'altro (quello di Berio) che ruota su un concetto totale di Teatro in quanto «luogo dell'ascolto», tale da poter «rappresentare attivamente l'atto d'ascoltare, contenere l'ascolto in tutte le sue forme».

Da notare, infine, che la corrispondenza, o almeno la prima delle due lettere pubblicate da Restagno (quella del 10 dicembre 1981, da cui citavamo quest’ultimo estratto), è del tutto contemporanea all'acquisizione del secondo (e definitivo) 'detonatore' (il primo essend il saggio di Barthes, naturalmente), che dové scoccare in Berio per l'ideazione del testo e dell' ‘azione’: mi riferisco alla messa in onda televisiva della Tempesta nella regia di Strehler, che avvenne appunto in quel dicembre '81. E sarà da sottolineare che, a quel punto, le cinque arie poi assegnate a Prospero, erano già state scritte, in tutto o in parte, e sicuramente lontane da qualsiasi suggestione shakespeariana: così almeno testimoniano le battute dell'Io-Calvino, in quella lettera. Una materia insomma concepita prima di Prospero e senza Prospero, e che (al pari del medesimo pseudo-epistolario) verrà subito ‘cannibalizzata’ nel nuovo concetto che, da quel dicembre, per Un re in ascolto, prenderà corpo nell'ispirazione di Berio. Dati, tutti, che convergono sul conformarsi di un'azione testuale che pone al suo proprio centro, non tanto un soggetto, ma un processo, in linea di

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principio interminabile: o, a dirla con le parole del compositore, di «un lavoro musicale che racconta il suo diventare opera22».

Com'è noto (e come ho appena ricordato), stralci dai punti di maggior rilievo della corrispondenza vennero poi ‘importati’ da Berio (ulteriore ‘backstage’, stavolta puramente testuale) nel ‘libretto’ dell'84: ci riferiamo al duetto II, fra il regista e l'impresario/Prospero, e poi (ulteriormente decostruiti in parodia) al duetto III, fra il mimo e Venerdì (che, al pari di Duo, è di fatto un a-solo, e lo straniato duetto ha luogo sinesteticamente fra la parte canora – assegnata al Venerdì/Calibano, shakespearedefoesco – e la parte mimica). Il duetto II ruota intorno alla vorticosa dialettica di agitazione e silenzio/attesa (dove la musica «dentro alla musica» della lettera diviene «un silenzio che vuol farsi udire»), ovvero di udire e ascoltare, riportandosi ai passi in cui nella corrispondenza Calvino riassumeva il soggetto e libretto del '79 in cui «lo spettacolo è la storia di un re che tende l'orecchio»: unica traccia, e quanto indiretta, del progetto iniziale. C'è da dire che le persone dell'Io e del Tu (Calvino vs. Berio) della corrispondenza, qui si confondono: o meglio, in Prospero si riassumono entrambe le posizioni espresse nel bizzarro testo epistolare a due voci...

*

Soprattutto nella fabbrica di Un re in ascolto si rivela, come in una sorta di lucido acting out, il disaccordo necessario, su cui si fonda il patto stesso di collaborazione fra lo scrittore e il compositore. Fra musica e scrittura. Un disaccordo fecondo, come testimonia, non ultimo, il concetto (tratto da un passaggio delle «arie di Prospero» o già di Duo) su cui ruoteranno le lezioni da Berio tenute a Harvard fra il '93 e il '94: Un ricordo al futuro, e che verrà apposto come titolo

22. In Dialogo fra te e me, cit. (p.276). Nell'intervista resa ad Angelo FOLETTO, Storia di un'opera senza una storia, in «La Repubblica», 14 gennaio 1986 Berio – parlando del lavoro come di un «processo musicale e teatrale», – lo definirà «un'opera sull'impossibilità di scrivere un'opera».

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nella pubblicazione (postuma) in volume23; il titolo cita invero uno dei versi che Calvino distillò per le cosiddette «arie di Prospero», e precisamente quello con cui Berio avrebbe scelto di chiudere l'azione musicale, e il suo testo: e vale a indicare «una costruttiva revisione o, addirittura […] una sospensione del nostro rapporto col passato e […] una sua riscoperta sulle tracce dei percorsi futuri», nella convinzione che un testo, per individuo irripetibile che sia, di per sé «implica una pluralità di testi». Quella pluralità in nome della quale si gioca e si fonda lo stesso produttivo disaccordo fra i due autori; e che nel modo più tormentato trova una sua forma irripetibile nell'azione (non opera, nella visione beriana) – risultato di una tensione forse inconciliabile ma propulsiva fra le due convergenti/divergenti visioni, nel segno denso e ossimorico d'un indistricabile «ricordo al futuro». Ma è possibile, anche, che il musicista in realtà non facesse, per via di provocazioni, che incitare lo scrittore a ‘liberare’, attualizzare, nel modo più letterale e concreto, il groviglio complesso del suo concetto di testo – e non semplicemente definirlo nel quadro di una letteratura eminentemente concettuale, capace di designare (illuminare) il labirinto necessario, e però sempre assai più per via discorsiva, illuministicamente persino, che non lungo tragitti occulti e più interni al profondo del linguaggio. Non è il caso qui di sfidare a nostra volta la voragine che sembra aprirsi sull'intera testualità calviniana: quella scissione saggistica che la determina – la inabissante vertigine di vis riflessiva e autoriflessività che attrae i suoi lettori nel momento stesso in cui induce lui, Calvino, ad aborrire il salto nel gorgo necessario, in cui, alter il primo Sanguineti, Berio a fondo s'era addentrato. Un «maelstrom» mulinante nel mare concreto e oggettivo della scrittura (concetto, per contro, a Calvino assai caro, nella mediazione di Barthes e in genere della cultura francese) – e non necessariamente il gorgo di un pensiero della scrittura portato, insieme, dentro e fuori la scrittura medesima, che esso (pensiero) è in atto di immaginare e conformare. È questo il lato più affascinante e forse inestricabile della

23. L. BERIO, Un ricordo al futuro. Lezioni americane, a c. di T. PECKER BERIO, Torino, Einaudi 2006.

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questione-Calvino; ché nelle sue pratiche e macchine testuali, pur intellettualmente vorticose e labirintiche, lo scrittore sembra arrestarsi al livello dell'enunciazione o ancor più della definizione: lasciando emergere la vertigine dei possibili, da cui il suo dire è assediato (la quale coincide, anche, con l'impossibile d'un assoluto-testuale, col mare-magma dell'écriture appunto, o magari del nulla), ma ritraendosi un passo di qua dal limite: contemplandone il ribollìo calamitante ma senza cedervi, e ancor meno sognando di addentrarvisi. (Che è poi la doppia, discordante tensione su cui si regge il saggio capitale – siamo al '59, all'altezza della prima collaborazione con Berio – su Il mare dell'oggettività, che citavo; un saggio scritto in gran parte ad argine di quelle tensioni che, fra emergenza dell'Es e istanze de opera aperta, già in quegli anni lievitavano tra i futuri protagonisti della neoavanguardia). Questo mare – o per altri versi, mobile labirinto – Calvino vorrà rispecchiare ma appunto descrittivamente, restando di qua dal suo fluido (ritrattosi dal tuffo, non troppo diversamente dal primo Montale), alla larga dalle tensioni materico-linguistiche forse necessarie per attraversarlo o appunto sfidarlo. Non diversa, anche se condotta su altro piano, e altra tensione (politico-sociale, per riassumere), sarà per lo scrittore l'esperienza del labirinto. E soltanto l'accesso alla dimensione combinatoria (portato della sua esperienza francese) saprà indicargli una via diversamente agibile, lucidamente in abbandono, per il dominio del labirinto, e delle sue ipnotiche geometrie.

Il punto-limite del concetto letterario che scaturisce da tale movimento, risiede forse in quel testo saggistico, insieme esemplare e dedaleo, così fortemente autoriflessivo, sui Livelli della realtà in letteratura – ultimo fra quelli inclusi in Una pietra sopra – che Berio echeggiava a Sanremo nella memoria su cui ci dilungavamo. La data, il 1978, non è priva di significato: dopo la proposta del soggetto, siamo nel punto dell'ideazione e quindi della stesura dell'azione musicale, anzi delle due ‘azioni’ (è il momento, ricordiamolo, anche de La vera storia): e siamo, poi, all'indomani della pubblicazione, sull'Enciclopedia Einaudi di quelle pagine barthesiane, che subito

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colpirono lo scrittore – al punto che egli si affrettò a proporle a Berio come lo spunto di un lavoro possibile. Proprio su una suggestione tratta dalla voce barthesiana (il rimando alle sirene omeriche), e nel segno dell'ascolto, andrà a chiudersi l'intervento del '78; perché qui ciascuno dei concentrici, labirintici «livelli di realtà» implicati dall'atto del narrare, sembra dover precipitare nel ricettacolo dell'ascolto: non solo il potere magico-evocativo del narrare e la sua domanda di ascolto (su cui ruotavano, di fatto, due interventi capitali e pur fra loro distantissimi dei medi anni '60, la prefazione al Sentiero dei nidi di ragno e il saggio Cibernetica e fantasmi)24, quel dire intrecciato o sia inabissato fittamente nel dire (non così diverso, forse, dalla «musica dentro la musica» del Tu-Berio della prima lettera 1981); quell'enunciazione insomma, composta di una soggettività plurima e al limite autoazzerantesi, che in letteratura è per Calvino condizione stessa di realtà (io scrivo / io scrivo che Omero racconta / Omero racconta che Ulisse / Ulisse dice: / io ho ascoltato il canto delle Sirene): ovvero di una realtà che al suo proprio limite scompare, lasciando che lo spazio letterario mallarmeanamente «s'affacci sul nulla»; non solo, dunque, questo potere che, come l'ago d'una bussola, punta al suo proprio svanimento: ma in definitiva, la liturgia ultima e germinale d'un ascolto (già kafkiano, certo) del silenzio.

Ovvero, l'evocazione della possibilità che la pura lirica, sia essa o poesia, conferisce al raccontare: quella di spingersi «ai confini dell'ineffabile».

Il saggio sui livelli della realtà si chiude allora con un canto/silenzio come pura «esperienza lirica, musicale» posta «al di là dell'espressione»: il luogo «da cui Ulisse, dopo averne sperimentato l'ineffabilità, si ritrae, ripiegando dal canto al racconto sul canto». Ed è esattamente lo stesso luogo (qui a parlare è di nuovo, in quella di Barthes, la voce di Blanchot) in cui il canto diventa un abisso

24. Quest'ultimo, in I. CALVINO Una pietra sopra, op. cit., pp. 201-221. Per la prefazione (datata giugno 1964), v. il succitato vol.I di Romanzi e racconti, pp. 1185-1204.

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(«aprendo in ogni parola un abisso e invitando con forza a sparirvi dentro»): che è quanto Calvino ricorda a Berio, in citazione diretta, chiudendo la sua programmatica «corrispondenza» intorno al Re in ascolto. Verosimilmente, è sul punto di questa ritrazione, di questo ripiegarsi, che il compositore implicitamente pungola lo scrittore: tornare a un'espressione assoluta, posta al di là dell'espressione ma carica di ogni espressione; dal racconto sul canto, tornare all'abisso d'un canto capace di azzerare il racconto, e, assieme a esso, i vari «livelli» delle sue mediazioni verbali.

Il fatto è che, nella sua stessa paradossale astrattezza ed esprit de géométrie, nella sua impagabile ritrosìa nei confronti della dura oggettività, possiamo intendere Calvino come autore acutamente sensoriale, pur se ‘cerebralmente’ sensoriale; sì che al limite estremo della sua esistenza, deciderà di eleggersi apertamente quale scrittore dei cinque sensi, nel progetto destinato a rimanere incompiuto. Ma resta singolare che il suo percorso così acutamente visivo (la vista resta, per lui, fra i sensi, quello privilegiato) si suggelli, di fatto, sulla dominante dell'ascolto; mentre il racconto sulla vista, per quel volume sui cinque sensi, dopo una lunga progettazione rimarrà irrealizzato. Il fatto è che fin dall'esordio fulminante della sua vasta, polifonica narrativa, la voce e dunque l'udito (che – a dirla con Barthes – non è l'ascolto, ma di certo ne è la condizione) rivela la propria forza germinale, capace di creazione e trasformazione; ci riferiamo al diffondersi del canto/grido di Pin, generante una folla di voci alle prime righe del Sentiero, e in grado di articolarsi, più avanti, in una vera e propria, violentissima canzone, dal potere demonicamente dinamizzante nei confonti dello stesso plot (Chi bussa alla mia porta, chi bussa al mio porton, cap.VII); e la pratica del suono sul finire degli anni '50 si approfondirà nella scrittura di varii testi per canzoni nell'ambito dell'esperienza ben engagée di Cantacronache, specie con Sergio Liberovici (ideatore di quel progetto)25, oltre che nella stesura 25. Sul tema è possibile riferirsi a Emilio JONA – Michele L. STRANIERO (a c. di), Cantacronache: un'avventura politico-musicale degli anni Cinquanta, Torino, DDT

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di libretti, ancora per Sergio Liberovici (per La panchina, già nel '56)26 e poi per Berio stesso (Allez-hop, del '59), ruotando perlopiù sulla materia di Marcovaldo.

La pratica «librettistica», in quiescenza per circa tre lustri, riprenderà più strutturalmente nella nuova collaborazione con Berio per La vera storia (ma per il compositore, già nel '68, Calvino era tornato a scrivere alcuni brevi testi, per Prière, dedicata a Stockhausen per i suoi quarant'anni). Nel frattempo, però, almeno sulla carta il suono continuava a vibrare (e in modo assai più profondo di quanto non era stato fra libretti e canzoni); mi riferisco soprattutto alla straordinaria cosmicomica del '68 Cielo di pietra, uscita nel volume La memoria del mondo. Il racconto, giusto nel ‘nostro’, topico 1980, venne ripubblicato in rivista27, col titolo L'altra Euridice e alcuni stringenti ritocchi ma soprattutto con la sostituzione di Qfwfq (l'eroe delle Cosmicomiche) col dio Plutone (oltre all'esplicitazione di Rdix, compagna in fuga dal lui e dal suo regno, come Euridice, e alla «messa in chiaro» circa una presenza dello stesso Orfeo). Si tratta di una terrificante quanto atterrita riflessione del potere del puro suono, nel conflitto fra «il canto» sovraterreno «prigioniero del non-canto che massacra tutti i canti» e la «musica silenziosa degli elementi», risonanti sotto il manto terrestre. Che sono, fra le altre cose, due fra le possibili accezioni di quella misteriosa musica occultata dentro la musica, a cui (assegnando la battuta a Berio) Calvino alludeva nella prima lettera dell'81; e che, mutata ulteriormente di segno e direzione, troverà posto nell'Aria IV del testo finale: «Dietro i suoni. I suoni hanno un rovescio» (ma anche, poi, nell'Aria II, dove si parla, come di entità nuove, di suoni che contengono in sé «l’ascolto dei suoni»). & Scriptorium 1995 (la prima ed. è del '66); ma anche al filmato a c. di M. BENTINI et al., Cantacronache 1958-1962: politica e protesta in musica (2011, in versione dvd, promosso dall'Università degli studi di Bologna e dall'Istituto storico Parri Emilia-Romagna). 26. Su questo testo, si è soffermata Maria CORTI in un saggio (Un modello per tre testi. Le tre «Panchine» di Calvino) incluso Il viaggio testuale, Torino, Einaudi 1978, pp.201-220. 27. In «Gran Bazaar», settembre-ottobre 1980.

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Abbiamo appena riconosciuto, come il momento più significativo in questa messa in rilievo dell'udito, la chiusa del saggio 1978 sui Livelli della realtà in letteratura, con l'irruzione esplicita seppur indiretta del tema dell'ascolto; ma ormai decisivo è il livello di interpolazione con la voce di Barthes, e con la sonorità di Berio. Sarebbe eccedere, ormai, i limiti del nostro intervento, provare a procedere a una verifica inevitabilmente incerta di quali livelli del denso saggio barthesiano28 (di cui Calvino subito rileva «la bellezza e l'importanza») siano sfiorati dalle dita lievi e sensibili dello scrittore nel libretto '79 e nel racconto '84, e quali invece finiranno per intrecciarsi con la materia di Prospero, in Duo e nel testo dell'azione realizzata: se si l'ascolto sia lo spazio d'una ipersorveglianza legata a una salvaguardia del proprio sistema territoriale, come «un imbuto orientato dall'esterno verso l'interno» (così sicuramente nel '79 e nel racconto – orientato verso un interno claustrofobico e sempre più infero); o se, piuttosto, sia atto di creazione, legato alla «riproduzione intenzionale di un ritmo» (ciò che ci condurrebbe piuttosto dalla parte della composizione, presumibilmente); o come decifrazione, invece, ricerca del «di sotto» (o del di dentro) del senso (o del testo – musica o letteratura che sia); o se si tratti, infine, dell'ascolto psicanalitico, lì dove «l'ascolto parla» o (diremmo allora con Calvino-Berio) i suoni sono «diversi da com'erano partiti», sono «i suoni con in più l'ascolto dei suoni»: implicando, questo tipo di ascolto, il dispiegarsi di un'intersoggettività complessa – quella giocata fra l'Io e il Tu delle lettere (o della quinta aria di Prospero), o fra Prospero e il Regista (e Venerdì e il Mimo) dei duetti che citavamo, o magari, frai i concentrici enunciatori del saggio sui Livelli della realtà... – e comunque implicanto l'aprirsi della scena (iperteatralizzata) dell'Inconscio, simile a quella quella del Prospero bericalviniano (più Berio che Calvino, certo...) Andrebbero almeno stralciati, però, due passaggi dalla pagina conclusiva della voce barthesiana, e che ci

28. R. BARTHES – R. HAVAS, Ascolto, op.cit.

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riportano dritti nel cuore magmatico-disperso di quell'intrico di testi e sottotesti e ritorni e cancellature che riconosciamo ormai nel nome di Un re in ascolto: dove Barthes sottolinea come «l'ascolto si apra a tutte le forme di polisemia, di sovradeterminazione, di sovrapposizione, disgregando la Legge che prescrive l'ascolto diretto, univoco […] in tal modo […] tornando alla concezione di un ascolto panico, nel senso greco, dionisiaco»; e dove egli ricorda che «ciò che viene ascoltato […] non è la presenza di un significato, oggetto di riconoscimento o di decifrazione, ma la dispersione stessa, il gioco di specchi dei significanti, senza sosta riproposti da un ascolto che ne produce continuamente di nuovi, senza mai fissare il senso». Ma, finalmente: l'ascolto può presentarsi, in Barthes, come «un piccolo teatro in cui si affrontano due moderne deità: il potere e il desiderio» (entrambe attive, nel testo finale di Berio-Calvino, nel nome del re del teatro)...

Resta del tutto pacifico che non vi sia nessun automatismo possibile, nello scivolare libero del senso (o dei sensi) dalla sublimissima ‘sonata’ saggistica di Barthes al laboratorio denso e conflittuale del nostro impagabile e in parte improbabile ‘duo’; per cui (e tanto più per Berio) la ‘voce’ barthesiana resta unicamente un ‘detonatore’. E però forse a un altro passaggio barthesiano dovremmo, ancora, riferirci: lì, dove, nel segno della voce che canta, si fissa invece la fascinazione ipnotica e corporea legata all'atto dell'udire: «la voce non è soffio, bensì la materialità del corpo che sgorga dalla gola, là dove si forma il metallo fonico». È questo insieme il punto da cui si diparte la narrativa calviniana (la voce-canto di Pin, di cui dicevo, e poi quella sua canzone demoniaca, Chi bussa alla mia porta, che avrà una forza tale da alimentare l'incendio del casale, chiave di volta del romanzo, e determinerà lo scioglimento della picaresca brigata partigiana), e da cui pure atterrita sembra ritrarsi, non diversamente dallo Qfwfq-Plutone del Cielo di pietra; ed è qui che invece irrompe, con tutta la sua sapienza selvaggia e iper-stratificata, il metallo fonico e orfico di Berio, quasi a ordire, almeno per una volta, attorno alla rapinosa vis concettualizzante dell'amico scrittore, la trappola

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materica del corpo, non meno che il suo proprio, sonoro «gioco di specchi29».

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Ma proprio questa traccia della voce ci offre un elemento ulteriore e ultimo (per questa occasione), per seguire le labirintiche onde del pensiero testuale calviniano. Appunto «inseguendo una voce», il re del primo libretto (e quindi del racconto) finirà per depotenziarsi, dimettendo l'ascolto-attenzione (l'ascolto-potere) per abbandonarsi invece a un ascolto-desiderio, e fatalmente dispersione. È il punto in cui il dispotico e paranoico re di Calvino si muterà nell'introverso, elegiaco Prospero in dialogo con se stesso, in ascolto del suo proprio ascolto, in cerca di «una voce nascosta fra le voci» e del «rovescio dei suoni nell'ombra», il quale rimarrà il soggetto delle cinque Arie sopravvissute dal Duo fino all'84: un demiurgo morente, che nutre ormai un'idea di ascolto come forma di (finale) abbandono, nella cassa di risonanza di un «vuoto da cui vengono i suoni», entro lo spazio di un teatro dove «un io che non conosco canta / la musica che non ricordo». Eppure, nel primo e irrealizzato libretto (ma racconto infine realizzato), la voce inseguita dal re ha un'identità precisa: si tratta di un personaggio femminile in maschera, che intona manierati e insieme criptici endecasillabi, brandelli di canzone i quali ci suonano intrinsecamente librettistici: «Una luna che splende ed una luna... […] ...Bocca che morde e bocca che sorride...». Sembra risuonare, qui, un'eco del sonetto che Fenton intona nel III atto del Falstaff verdi-boitiano, trovando, al suo culmine, una corrispondenza nella voce di Nannetta: e non tanto, non solo, per la rispondenza su cui il sonetto s'impernia, e che è, mutata radicalmente di segno (in senso non più comico, ma quasi diremmo preraffaellita), citazione diretta boccacciana – «bocca baciata non perde ventura, anzi rinnova come fa

29. «L’ascolto come sintomo, come selezione e come collocazione di suoni nello spazio, nel tempo e nella nostra coscienza, implica sempre e comunque un universo di codici diversi che interagiscono come in un gioco di specchi». L. BERIO, La nascita di un re, op.cit, p. 270.

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la luna» (Decameron II, 7); quanto per la intera situazione d'un inseguimento di due voci, espressa nella prima quartina del sonetto – «Dal labbro il canto estasiato vola / Pe' silenzi notturni e va lontano / E alfin ritrova un altro labbro umano / Che gli risponde colla sua parola», – che appare qui parafrasata: ulteriore «situazione» melodrammatica che Calvino riformula, parallelamente al lavoro che andava svolgendo per il libretto de La vera storia30. Sul sonetto boitiano gioca peraltro, triangolata su Boccaccio, e riverberata quindi (per quel che ci riguarda) sul Calvino di Un re in ascolto primo e ultimo e hors-texte (libretto rimosso e racconto), una duplice memoria shakespeariana. Memoria non solo della materia di Falstaff – che, per il nostro Re, assai più che quella delle Allegre comari di Windsor, sarà quella dell'Enrico IV, – possibile architesto, almeno nella situazione base (col nodo di usurpazioni uccisioni congiure, che ruota attorno alla figura del sovrano), del primo libretto e del racconto. Ma memoria, anche, del corpus dei sonetti shakespeariani, che – come dimostrò Wolfgang Osthoff giusto nel '77 in un saggio apparso nella collettanea per Mila Il melodramma italiano dell'Ottocento, il quale non dové certo essere ignoto al nostro duo31, – incide sul sonetto boitiano di Fenton per almeno due esemplari, l'8 (soprattutto) e il 128 (forse apocrifo), entrambi ad argomento «musicale», entrambi centrati sul tema di una musica risonante dentro la musica (dove il contenente è, alla lettera, epiteto del soggetto adorato): nel primo caso una «musica all'ascolto» (di altra, ed effettiva musica), nel secondo caso una «musica» che «trae musica» da uno strumento, il virginale. È qui forse che trova uno dei suoi punti d'origine, tanto indiretto quanto vertiginoso, quel misterioso tema della «musica dentro la musica», su cui verteva il dibattito Calvino-Berio, e che si riverbererà nelle ‘arie’

30. Abbiamo riferito, in precedente nota (e meglio di noi, Renata Scognamiglio), come Calvino avesse annunciato al compositore che quello che avrebbe svolto nella corrisponenza «sceneggiata» dell’81-82 sarebbe stato un dialogo un Boito e un Verdi... 31. Wolfgang OSTHOFF, Il sonetto nel Falstaff di Verdi, in G. PESTELLI (a c. di), Il melodramma italiano dell'Ottocento: studi e ricerche per Massimo Mila, Torino, Einaudi 1977, pp. 157-183.

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Scrittura dell'ascolto: Calvino in Berio

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poi incluse nell' ‘opera’ finita32. Il sogno della «duplice azione», che Boito attribuiva a Shakespeare e che si avvera (nel suo sonetto dal Falstaff) nella virtù propria del canto di «tender sempre ad unir chi lo disuna», ovvero (come notava Osthoff) di «unificare la duplicità che genera l’accordo e al tempo stesso lo scinde», si avvera e moltiplica nel sogno di Prospero sognato da Berio e Calvino triangolandolo e rescindendolo ulteriormente su Gotter e Auden, e poi sullo Shakespeare sonettistico ancora; che è, tradotto nell'indistricabilità d'un concetto portato oltre la letteratura e anche oltre la musica, la fusione di ogni «livello di realtà» reso possibile dall'arte, nel solo, oniroide paradosso d'un «ricordo al futuro». Ossia, – dalla parte di Calvino nei Livelli della realtà, – dell'ineffabile puro, mallarmeano, o di un frastornante tacere kafkiano di sirene: d'un luogo insomma della «pura esperienza lirica, musicale» finalmente posta «al di là dell'espressione». Musica-dentro-la-musica, suo abisso e silenzio.

32. Peter Szendy, nell'acuto saggio che citavamo, dà una suggestiva interpretazione del concetto di questa musica dentro la musica: «Il la e il si bemolle rappresentano […] una specie di perno intorno al quale la melodia sembra avvitarsi, proprio come il testo si arrotola nelle sue iterazioni […] con queste due note, tutto si svolge come se la melodia stessa aderisse, nella scrittura musicale, alla forma di una conca o di un labirinto a spirale. Come se essa tentasse di tracciare, nello spazio sonoro, il disegno di un orecchio. Un orecchio all'interno stesso della musica. Un orecchio ordito di suoni, a partire dal quale è possibile ascoltare la musica nella musica».

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Luciano Berio

UN RE IN ASCOLTOAZIONE MUSICALE IN DUE PARTI

LIBRETTO DI ITALO CALVINO

PERSONAGGI

Prospero basso-baritono Regista tenore Venerdì recitante Protagonista soprano Soprano I soprano Soprano II soprano Mezzosoprano mezzosoprano 3 cantanti tenore, baritono, basso Infermiera soprano Moglie mezzosoprano Dottore tenore Avvocato basso Pianista

Prima rappresentazione: Salisburgo, Großes Festspielhaus

8 agosto 1984 Regista Kim Begley tenore Venerdì Claudio Desderi recitante Protagonista Kathryn Harries soprano Sorano Dottore Brad Cresswell tenore

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Berio: Un re in ascolto - parte prima

ARIA I (Prospero)

Il sipario si apre lentamente quando l’orchestra comincia a suonare. Sulla sinistra della scena una sezione di palcoscenico in penombra. A destra la stanza di Prospero. All’alzarsi del sipario Prospero ha appena ricevuto un messaggio da un fattorino che si allontana rapidamente. Appartato e assorto il Mimo osserva Prospero.

PROSPERO

(come sognando, ora “lontano” ora “vicino” -- con improvvisi soprassalti)

Ho sognato un teatro, un altro teatro,esiste un altro teatro,oltre il mio teatro,un teatro non mio che pur io conosco,io ricordo,ossia io ricordo d’aver dimenticatosolo questoun teatro dove un io che non conosco canta.Canta la musica che non ricordoe che io adesso vorrei cantarenon ricordo...

La sezione di palcoscenico si illumina a poco a poco. Entrano tre ballerini, tre cantanti con un pia-nista, il regista, lo scenografo con alcuni assistenti, la sarta, alcuni acrobati, una signora da segare in due, un clown e una figura esotica e ripugnante (Venerdì).

PROSPERO

Non ricordo cosa ho sognato,ma solo il vuoto che quel sogno m’ha lasciato,il vuoto in me,quel vuoto da cui vengono i suonie che ora tace.

DUETTO I (Regista e Venerdì)

Il palcoscenico è in piena attività: si sta provando uno spettacolo. La scena è un’isola. Tutti fanno qualcosa mentre il regista prova con Venerdì, che ha

PARTE PRIMA

VENERDÌ (cercando le parole intimidito)

REGISTA

(correggendo Venerdì)

Silenzio… silenzio…

(imitando il regista)

Silenzio, silenzio.fra poco in questanotte magicasi giungeràall’azionee tu -- e tu…

(imitando il regista)e tutti tratterrannoil fiatomentre una coppianon curantewalzeggia sullacorda tesacome se non ci fosse morteo speranza di caderee il po -- e il po...

e il povero vecchioha paura,e tutti si farannobeffedelle sue rughee gli tireranno la barba

mentre lui l’altro .raccoglierà tutte learmi della seduzioneconiugando la facciacoraggiosa di un eroecon la bellezza diquella figura,la for-- la for…

la forza magica d’un risocon quegli occhipieni di desiderio.una bocca fatta per baciare

e tutti…

(molto espressivo)e il povero vecchio ha paura

(Impaziente)mentre lui l’altro..

(aggressivo)la forza magica d’un riso…

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2

Berio: Un re in ascolto - parte prima

in mano un costume che indosserà dopo.

con quelle guancefresche e-- e-- --

ecco, lui è il padronee forse ha inizio il suo trionfo.Forza fantasmi cheavete insidiatola sua vita,indicategli ora la strada.

silenzio, silenzio,il ferito piangementre il clownraddoppia il senso diquello che fa. Oh...

Oh, oh,

oh come ridono

I bambinii bambini..

(tossisce)(enfatico)

Ehi, ombra della madre svegliati nella tempe...

Il palcoscenico è un caleidoscopio di azioni. Il regi-sta continua a provare con Venerdì e con i 3 cantanti accompagnati dal pianista (che accenna con la voce alla parte di una cantante assente).

(enfatico)Ecco, ecco...

(impaziente)Silenzio, silenzio...

Oh, oh...

(ironico)oh come ridono...

(enfatico)i bambini...

(zittisce perentoriamente Venerdì)

PIANISTA

Mi guardi indietromentre ilsole scendedietroquell’isola

3 CANTANTI

Ma noiin questo luogotranquilloe solitariogodiamo il

REGISTA

In questoluogo

al riparo…

dove lanostra vitaècambiata

senso dellavitaal riparo dellatempesta.Il mormoriodella foresta…

ilmormorio…

VENERDÌ

Fra poco in questanotte magicasi aggiungeràall’azionee tutti tratterranno ilfiatomentre un coppianoncurantewalzeggia suuna corda tesacome se non cifosse morte o speranza dicadere.

e il poverovecchio ha paurae tutti si farannobeffedelle sue rughee gli tireranno labarbamentre lui, l’altroraccoglierà tutte learmi dellaseduzione.

Ecco, lui è ilpadronee forse ha inizio ilsuo trionfo.Silenzio. Il feritopiangementre ilo clownraddoppia

3 CANTANTI

La natura propiziadegliuominie delle coseci rassicurae noi ci arrendiamoal silenziosodissolversidel mare.

REGISTA

Dove la nostra vita…

PIANISTA

Dove la nostra vita ècambiata…

REGISTA

(al pianista)

Mi guardo indietromentre il sole scende…

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3

Berio: Un re in ascolto - parte prima

il senso di quelloche fa.Oh come ridono ibambiniquando i tamburirullanoe la bella signora èsegata in due.

Entra il coro con le parti in mano. Il registra mostra loro la posizione)

VENERDÌ

Ehi, ombra dellamadresvegliati nellatempestamostraci che ilmondo concretoche noi amiamoè tutta robaimmaterialee che tutto il restodall’altra parte delmuroè silenzio…Oh quale autoritàdà all’esperienzala sua sorpresa?

3 CANTANTI

Ma noiin questo luogotranquillo e solitariogodiamo il senso dellavitaal riparo dellatempesta.Il mormorio dellaforestala natura propizia degli uominie delle coseci rassicurae noi ci arrendiamoal silenziosodissolversidel mare.

Il regista continua a provare infaticabile. Dà spetta-colo dimostrando egli stesso i gesti da compiere e le posizioni da assumere. Può dire ogni tanto dei sì e dei no e così a tempo di walzer. Prospero lascia la stanza e fa il suo ingresso sul palcoscenico, pensieroso e assente. Il mimo lo conduce attraverso i diversi aspetti dello spettacolo in prova. Il regista continua a provare con Venerdì, i 3 cantanti, il pianista, il coro e un messaggero che deve imparare come consegnare rapidamente un messaggio.

CORO

Che silenzio.Nuovi presentimentidopo nove anni di poterelassù pronta a distruggerec’è un’armata di nuvole.Più scuri gli scogli.Le acque si increspano.Più cupe ondeggianole cime degli alberi

Ascolta quanti terrorici minacciano nella notte…

Entra un giovane soprano per un’audizione, col suo pianista. Il regista interrompe bruscamente la prova. Prospero si fa loro incontro con premura. Le azioni sul palcoscenico si calmano.

Audizione I (Soprano, Regista, Prospero)

SOPRANO

Mi guardo indietromentre il sole scendedietro quell’isoladove i nostri affetti sono cambiati.Un letto è vuoto, Prospero,la mia persona è miaforse nessuno conoscerà la fiammache mi brucia nel buio.Il tutto di teè parziale, Prospero,il tuo bisogno di amarenon si incontreràmai con me.Io sono ioper scelta, adessosono solo me stessa.La mia lingua tace,il mio linguaggio è mio.Addio.

REGISTA

(correggendo enfaticamente il soprano)

Addio!

SOPRANO

(come il regista)

Addio!

PROSPERO

(correggendo il soprano dolcemente)

Addio!

SOPRANO

Addio!

REGISTA

Addio!

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Berio: Un re in ascolto - parte prima

SOPRANO, REGISTA, PROSPERO

(a tre)

Addio!

Il pianista si allontana con un gesto di stizza, trasci-nando con sé il soprano.

Duetto II (Regista e Prospero)

REGISTA

Dove siamo adesso?Tu dicevi che tutto comincia all’improvvisoe che c’è subito tanta agitazione.

PROSPERO

No, io pensavo a un silenzio come fosseun’attesa.L’attesa del canto.

REGISTA

E dopo dicevi che il silenzio è riempito dalla vocecome se dentro alla musica ci fosse un silenzioche vuol farsi udire.

PROSPERO

Forse, ma udire e ascoltare non sono la stessa cosaIo vorrei che questo teatro potesse contenere l’ascoltoin tutte le sue forme.

REGISTA

Solo il desiderio d’udire apre l’orecchio.E tu cercavi una voce di donna che cantaun’ariasu una scena che è come un labirinto.E lo spettacolo è la storia di un re che tendel’orecchio.È come un’isola deserta, come un teatro vuoto.Teme una congiura, tende l’orecchio ad ogni rumore.

PROSPERO

È un re che ascolta con le orecchie degli altri.Quando ascolta coi propri orecchi,cogliendo l’eco del palazzo, nulla lo rassicura.Non ha orecchi per un lamento che viene dalla prigione.Ode, ma non ascolta.È solo, ti ricordi?

REGISTA

Tu dicevi che il re si confida solo con un servi-toreche è come un animale: brutto e sordo.

PROSPERO

Forse, ma è anche una creatura delicata e invi-sibile,che è soggiogata dall’immaginazione del re, che canta.È una voce fra le tante che solo lui ascolta.

REGISTA

Non solo. Tu dicevi che i servitori informano il reche la regina lo tradisce,e che il suo regno è in pericolo.

PROSPERO

Forse non è un sogno, i fatti sono sottili come soffi.Sento dei passi!

Sulla scena tutti prestano attenzione a Prospero e al Regista.

REGISTA

Ma tu dicevi anche di un coinvolgimento gene-rale,come fosse una tempesta.

PROSPERO

Forse una tempesta, o una rivoluzione, ma pacifica,come in un sogno. Non so.

REGISTA

Una tempesta che rende drammatico l’intero universo?

PROSPERO

Con un personaggio che possa visitare altre menti...tante menti diverse.

La sarta prova costumi diversi. Venerdì indossa con impaccio il suo costume.

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Berio: Un re in ascolto - parte prima

Concertato II con figure (Pianista, Venerdì, Regista, 3 Cantanti, Coro)

Il regista riprende a provare con Venerdì, coi 3 can-tanti, coi 3 ballerini, gli acrobati, il coro, la signora segata in due, un messaggero, il clown. Immobile, Prospero segue la prova di questo spettacolo indeci-frabile.

PIANISTA

Mi guardo indietro…

VENERDÌ

Fra poco in questa notte magicasi giungerà all’azionee tu…

PIANISTA

Mentre il sole scende…

VENERDÌ

e tu…

E tutti tratterranno il fiatomentre lui, l’altro

mentre lui, l’altroraccoglierà tutte le armi dellaseduzione…Ecco lui è il padronee forse ha inizio il suotrionfo.Forza fantasmi cheavete insidiato la suavita,indicategli ora lastrada…

REGISTA

E tutti…

(a Venerdì, gridando)

Ma cosa fai là in mezzo?

(A Venerdì, impaziente)

Eccetera!

Ora il regista prova diverse posizioni del coro e di un messaggero che deve imparare come consegnare velocemente un messaggio.

3 CANTANTI

Che silenzio!

VENERDÌ

Ehi, ombra della madre,svegliati nella tempesta,mostraci che il mondo concretoche noi amiamoè tutta roba immateriale.Silenzio, silenzio. Eccetera.

CANTANTE (tenore)Che silenzio!

VENERDÌ

(fra sé, quasi incomprensibilmente, come studiando la parte)

Fra poco in questa notte magicasi giungerà all’azione,e tutti tratterranno il fiato,mentre una coppia noncurantewalzeggia su una corda tesa.Lassù, pronta a distruggerec’è un’armata di nuvole.E il povero vecchio ha paura.e tutti si fanno beffe di lui,delle sue rughe e gli tireranno la barba.

(si toglie il copricapo)

Fra poco questa notte magica,eccetera…Mentre una coppia solitariawalzeggia su una corda tesa.Eccetera.

(si siede a terra)

£ CANTANTI

Nuovi presentimentidopo nove anni di potere…

CORO

Fra poco in questa notte magicasi giungerà all’azione;oh!

VENERDÌ

Fra poco in questanotte magica

REGISTA

(come un suggeritore)

Fra poco in questanotte magica

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Berio: Un re in ascolto - parte prima

si giungeràall’azionee tutti tratterranno il fiatomentre una coppia noncurante…

(infastidito)Su!--sì--sì--sa--no!

Così!--sì!--sì!--su!--sa!--sa!--sì

si giungeràall’azionee tutti tratterranno il fiatomentre una coppianoncurante…

CORO

Nuovi presentimentidopo nove annidi potere…

3 CANTANTI

Nuovi presentimentidopo nove anni di potere.Più scuri gli scogli.

CORO

Le acque si increspano.

3 CANTANTI

Dopo nove anni di potere

REGISTA, 3 CANTANTI E CORO

È finita la festaÈ così, sì, è così,sì, siete spiritinell’aria.Sì, nell’aria,sciolti nell’aria,sì così svaniranno.svaniranno le torri,i palazzi sontuosi,i templi,e questo immendo mondo:svaniranno senza traccia,come un sogno.

Mentre l’azione lenta-mente si calma, il mes-saggero porta messaggi a tutti. Il regista è vicino a Prospero, immobile; clown, acrobati e bal-lerini ripetono, sempre più lentamente, i loro numeri.

Spari dietro la scena. Venerdì è terrorizzato.

Spari e sirene dietro la scena. Venerdì si avvicina, agitato, al proscenio col copricapo in mano. Si rivolge a tutti, come chiedendo attenzione.

(“Serenata”)

VENERDÌ

Silenzio, il tempo piange,mentre il clownraddoppia il sensodi quello che fa.Oh, come ridono i bambiniquando i tamburi rullanoe la bella signora è segata in due!Silenzio,ehi, ombra della madre,silenzio,svegliati nella tempesta,mostraci che il mondo concretoche noi amiamoè tutta roba immateriale,e che tutto il restodall’altra parte del muroè silenzio.

Prospero rientra nella sua stanza.

Oh quale autoritàdà all’esperienza la sua sorpresa?

Aria II (Prospero)

Sul palcoscenico stanno provando un “effetto mare” con lunghe strisce di stoffa blu.

PROSPERO

(assorto e lontano)

I suoni arrivano al porto, al teatro,all’orecchio,al grande porto del teatro orecchio.Io sto nel punto da dove i suoni irradianoper raggiungere il porto.Io sto qui a orecchio teso e ascolto l’orecchioteatro.Qui tornano i suoni partiti da quiin questo stesso momento.Il mio orecchio teso accoglie quei suoniall’arrivo:diversi da com’erano partiti.Sono i suoni con in più l’ascolto dei suoni.Cerco qualcosa che mi viene detto fra i suonie ch’io non so se devo aspettarecon desiderio o con paura.

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Berio: Un re in ascolto - parte prima

Sul palcoscenico entra un’altra cantante per un’au-dizione. Il regista interrompe la prova.

Audizione II (Mezzosoprano)

Prospero ascolta l’audizione. È immerso nei suoi pensieri. Un fattorino gli porta un altro messaggio.

MEZZOSOPRANO

Oh notte grave immensa chiara,guarda il nostro vascello:la sua scia rimane intattasul mare e sul silenzio.Gli occhi guardano altrove, Prospero.La mia bussola è mia.I marinai nostalgici non sannoin quali acque io navigosola, da sempre.

Il mezzosoprano esce. La prova è finita. Il palco-scenico si vuota lentamente. Restano solo il mimo e Venerdì immersi nella luce blu marina.

Duetto III (Venerdì, Mimo)

L’uno di fronte all’altro, il mimo e Venerdì danno vita ad uno spettacolo: una parodia del precedente scontro tra Prospero e regista (Duetto II). Con grazia malinconica il mimo mima le risposte di Pro-spero e le immagini suggerite da Venerdì.

VENERDÌ

Tu dicevi,Io pensavo.Tu dicevi che c’è tanta agitazione.Io pensavo ad un silenzio.Tu dicevi che c’è anche un re che ascolta levoci di sottoterra.Tu pensavi ch’è solo.Tu dicevi.Io dicevo.Io dicevo che parla con un animale esotico eributtante come me.Tu dicevi.Io dicevo.Tu pensavi a una creatura delicata e invisibile.Io dicevo.

Tu pensavi.Io pensavo che il mio regno è in pericolo.Nella tempesta, nella rivoluzione.Dove sono?Sono qua.Dov’è?Cosa?Mi sfugge...Tu pensi.Mi perdo.Forse questo perdersi è trovarsi.Forse è già venuta la fine.Forse è già calato il sipario e le luci sispengono.Tu pensavi.

(esce)

MIMO

(esce)

Aria III (Prospero)

Prospero è sempre solo nella sua stanza. È inquieto. Sulla sezione di palcoscenico luci di servizio.

PROSPERO

C’è una voce nascosta tra le vociche appare e scompare.Io la sento alle volte nettissima,e poi si perde.Tu, dice, oppure io, dice,ricordati io ricordo il ricordo,dice, ma non voglio ricordarequel ricordo che affiora.Forse non è il ricordo ma l’attesa,il momento della fine che attendela mia fine, la tua,muori, tu muori dice muoio, io muoio.C’è una voce che parla di me,seppellita fra le voci,dentro di me, dentro l’ascolto,che dice muori, dice, io ho paura.

(Prospero viene colto da malore e si accascia)

Sipario lento.

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Berio: Un re in ascolto - parte prima

PARTE SECONDADuetto IV (Regista, Prospero)

Sipario. Tutto (scena, luci, posizione di Prospero) è come alla fine della Parte Prima.

(Entra il regista)

REGISTA

È stato un viaggio terribile da solo.

PROSPERO

Adesso non siamo più una coppia.

REGISTA

Sembra ubriaco...

PROSPERO

E posso veramente credere di morire.

REGISTA

È improvvisamente lucido.

PROSPERO

Ariel! Dov’è Ariel?

(Entra il mimo)

PROSPERO

Stai con me, Ariel,mentre faccio le valige,e delizia la mia partenza col tuo primo attolibero.Canta Ariel...dove sei?Canta dolcementedalle amare e pigre acque...

Concertato III (Prospero, Regista, Venerdì, Soprano I, Infermiera, Mezzosoprano, Moglie, 3 Can-tanti, Dottore, Avvocato, Coro)

Il mimo aiuta Prospero a sollevarsi, con gesti che rivelano una consuetudine affettiva.

PROSPERO

...che c’è? Che c’è?Spirti fedeli, spiaggia sacra,venti e onde, e soli e stelle,fate che si raggiunga lo scopo, amici...lasciate quest’isola, amici...

(si accascia di nuovo. Sembra dormente. Ogni tanto sussulta e ascolta)

REGISTA

(guardandosi intorno)

Su presto, su presto...

CORO

(ancora fuori scena)

Addio, addio amici...

REGISTA

Bisogna aiutarlo......su presto...

(a Prospero)

come stai?Non andargli vicino, sta molto male.

MOGLIE

Come sta?

REGISTA

Sta male.

CORO

Addio, addio amici, fratelli...

DOTTORE

Portatelo via, in ospedale...

INFERMIERA

Non lasciatelo qui... state indietro...

DOTTORE

Siate calmi, vi prego!Coraggio, mettiti seduto e respira,respira finché ti scoppiano i polmoni, respira!Perdo la pazienza... respira...

REGISTA

Aiutate il malato... state calmi... intralciate illavoro...state indietro... state calmi...Dottore, parlagli, dottore, mettiti al lavoro...

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Berio: Un re in ascolto - parte prima

MOGLIE

Come sta? Non lo riconosco più!

AVVOCATO

Come sta? Può firmare? Siate pazienti!

CORO

(in scena)

Addio, amici, fratelli, figli...

SOPRANO I, INFERMIERA, MEZZOSOPRANO

Calma, calma!

MOGLIE

Non lo riconosco più! Calma!

TENORE

Come sta? calma! calma!

DOTTORE

Calma, calma!

REGISTA

O finisce sul fondo!

BARITONO, BASSO, AVVOCATO

È molto cambiato... come sta? Calma, calma!

SOPRANO ICalma, calma!Bisogna porgere la mano a chi sta cadendo...Come sta?

BASSO, AVVOCATO

È molto cambiato...

TENORE, DOTTORE, BARITONO

Calma! ...cambiato...

CORO

Addio amici, addio luci...

DOTTORE

Vi garantisco che ce la farà!

BARITONO, BASSO, AVVOCATO

Io non so che succederà...

SOPRANO I, INFERMIERA, MEZZOSOPRANO, MOGLIE, DOTTORE, TENORE

... ce la farà...

SOPRANO ISolo lui sa il dramma che sta recitando nellasua testa,solo lui lo sa...io non so chi canta e chi ascolta...

MOGLIE

Perché son qui in mezzo a tutta questa gente?Ha il solito bisogno di perdono...

TENORE

Portatelo via... ha perduto tutto ora.Soffre, forse tutto è perduto.

La scena si riempie di strisce di stoffa bianca.

BARITONO, BASSO, AVVOCATO

State calmi...

BARITONO

Io non so se ci ascolta...

AVVOCATO, POI BARITONO E BASSO

Pazienza, pazienza, non lasciatelo qui...

CORO

Addio fratelli, luci, polvere...

DOTTORE, DOPO BASSO

Forse tutto è perduto...

SOPRANO IIo non so chi canta e chi ascolta.Forse è già venuta la fine...

La separazione fra la stanza di Prospero e il palco-scenico si fa meno netta e gradualmente scompare.

MOGLIE

Nessuna pietà!

TENORE

Che ci sta a fare qui, vada via...

MOGLIE

Smascherarlo, svergognarlo!

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Berio: Un re in ascolto - parte prima

DOTTORE

No, no, no, no...

TENORE

Come sta? Come sta?

DOTTORE

State calmi, perdo la pazienza! No, no, no,no...

CORO

Addio luci, polvere, fatica...

VENERDÌ

Pazienza, pazienza, i malanni non hannopazienza.Cosa gliene importa alla febbre,del teatro e del suo re.

Sirene d’ambulanza dietro la scena.

AVVOCATO

Meglio una firma qui.

VENERDÌ

Ma voi fate silenzio, tornatevene a casa,non disturbatelo più

(come citando)

Oh canta leggero e brillante il distacco.

MOGLIE

Un cancro in gola, cagnaccio blasfemo...

VENERDÌ

Oh canta senza ansia un re,cioè lui, cioè noi, adesso, cioè sempre.

SOPRANO ICome sta?

VENERDÌ

Cotto d’amore e d’ansia,tremando penosamente prende il silenziosopassaggio...

TENORE

Ha perduto tutto...

VENERDÌ

Oh canta quella verde e remota Cockagnedove scorrono fiumi di whiskey...

INFERMIERA

È molto amato...

REGISTA

Voleva censurare un atto...

VENERDÌ

Oh canta leggero e brillante il distacco.

SOPRANO I, MOGLIE, MEZZOSOPRANO, 3 CAN-TANTI, AVVOCATO, CORO

Addio...

TUTTE LE VOCI (tranne Prospero e Venerdì)Amici, figli, fratelli addio...addio luci, polvere, fatica...

La scena si trasforma a poco a poco in una incon-trollata veglia funebre.

SOPRANO IAddio!

MEZZOSOPRANO

Non so come si fa,io non so chi canta e chi ascolta...

CORO

Addio luci, polvere,addio fatica,addio pozzo del tempo.

SOPRANO I, INFERMIERA, MEZZOSOPRANO, MOGLIE, TENORE, DOTTORE

Come sta?

SOPRANO IDove sono?

MEZZOSOPRANO

Io non so chi canta e chi ascolta.Lo senti?

VENERDÌ

Dove sono? Forse è già venuta la fine,

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Berio: Un re in ascolto - parte prima

forse il sipario è già calato...

TUTTE LE VOCI (TRANNE VENERDÌ)Come sta?

VENERDÌ

E le luci si spengono...addio... addio amici, addio figli, fratelli,addio luci, polvere, fatica...

CORO

Addio amici, addio polvere...

VENERDÌ

Addio padrone mio,addio pozzo del tempo addio,specchio del suono,eco dei gesti.

Air (orchestra sola)

Prospero è ora in mezzo alla scena, troneggiante su una poltrona, come un re triste.

Entra un altro soprano per farsi ascoltare. Le fanno indossare a forza un costume. Sulle spalle di Pro-spero viene posto un manto regale.

Audizione III (Soprano II)

SOPRANO IIOh notte grave, immensa e chiaraguarda il nostro vascello.La sua scia rimane intattasul mare e sul silenzio.Un volto piange il nulla,la mia coscienza è mia...

Due armigeri portano via il soprano come una regina colpevole.

Aria IV (Prospero)

PROSPERO

Dietro i suoni. I suoni hanno un rovescio.Mi trovo dentro il suono perché sono io che lo spingo.Vola, sollevati onda, nuvola passa, scorrifiume:sono io il padrone di questo fiume che scorre.Il mio regno non si vede né si tocca,non è le tavole di questo palcoscenico,né la polvere sospesa del cono di luce bianca,

non le pieghe dell’orecchio conchiglia diricordi.Il mio regno è una distesa impalpabile,e il ponte-fiume di musica che vola,il mare di musica quando si stacca dalle rive,dalle corde che vibrano, quando approda e favibrare.

Entra la protagonista. È una superstite: il suo costume è stracciato. la scena è immobile.

Aria V (Protagonista)

PROTAGONISTA

Mi guardo indietromentre il sole scendedietro quell’isoladove la nostra vitaè cambiata.(a Prospero)Un letto è vuoto, Prospero.La mia persona è mia.Forse non conoscerai mai la fiammache mi ha bruciato, sola,nel buio.Il lutto di te è incompleto, Prospero.La mia volontà è mia.Il tuo bisogno di possederenon s’incontrerà più con me.Oh notte grave immensa e scura,nascondi quell’inutile vascello:la sua scia non ha più senso,né sul mare, né sul silenzio.

(a Prospero)

Gli occhi guardano altrove, Prospero.La mia bussola è mia.I marinai nostalgici non sannoin quali acque ho navigatosola, da sempre.Un suono irritante, Prospero,la mia voce è mia,la meraviglia è spenta, Prospero,il mio teatro è mio.Il mio canto è pianto per te, Prospero,il tuo canto è in fondo al mare,più in fondo di quanto sia mai sceso loscandaglio.Addio!

(esce)

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Berio: Un re in ascolto - parte prima

Concertato IV (Soprano I, Mezzosoprano, Regista, Baritono, Soprano II, Moglie, Tenore e Basso, Infermiera, Dottore, Avvocato, Coro)

La “folla” intorno a Prospero esplode eccitata.

CORO

Ascolta, ascolta!

La scena si calma. A poco a poco tutti si tolgono il costume e lasciano lentamente il palcoscenico.

SOPRANO I, MEZZOSOPRANO, REGISTA, BARI-TONO, SOPRANO II, MOGLIE, TENORE E BASSO, INFERMIERA, DOTTORE, AVVOCATO, CORO

Una cosa perduta cerca un nome perduto,forse tutto è perduto.Addio, amici, addio figli, addio polvere.Ascolta!Addio fatica, addio pozzo del tempo.Ascolta!Addio, specchio del suono, addio eco deigesti, pozzo del tempo, addio!

Il mimo rivolge a Prospero i suoi gesti affettuosi.

SOPRANO I(si avvicina a Prospero)

Addio!

(esce)

Il mimo esce. I 3 ballerini tentano impacciati un passo di danza come per distogliere Prospero dai suoi pensieri.

Aria VI (Prospero, Coro)

PROSPERO

C’è una voce nascosta fra le vocinascosta nel silenzio, nel rovescio, nel fondo,nel profondo, nel fondale di tela, nel giardinodi notte, nel bosco, nel lago,nel riflesso dell’acqua fra le foglie il rovescio,il rovescio dei suoni nell’ombra, il buioilluminatodalla voce l’ombra dove il ricordo non arrivail non ricordo è un lago freddo e nerola memoria custodisce il silenzio ricordo delfuturola promessa.Quale promessa?Questa, che ora arrivi a sfiorarecol lembo della voce e spezza come il ventoaccarezzail buio nella voce il ricordo in penombraun ricordo al futuro.

(Prospero muore)

FINE DELL’OPERA

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A proposito di “Un re in ascolto ”

(due lettere inedite di Italo Calvino a Luciano Berio)*

10 dicembre 1981Caro Luciano,Tu dici: - Bisognerebbe, capisci, che tutto cominciasse d’improvviso,

senza preludio, subito una voce attacca a cantare, una voce fortissima, come un’esplosione, l’orchestra si sente dopo, ma come se stesse suonan­do già da un pezzo, capisci, forse sono due le orchestre, una sulla scena che risponde all’altra orchestra giù nella fossa, e tanta agitazione sulla scena, molte cose che succedono subito, capisci.

Io dico: - Sì, vedo, siamo d’accordo, però in certo qual modo io pensavo a un silenzio, un effetto di silenzio, no, aspetta, lasciami dire, diciamo un effetto-silenzio che però non esclude quello che dici tu, la voce, l’orchestra, le due orchestre e tutto, guarda che io sono d’accordo ma l’effetto potrebbe essere adesso ti dico la mia poi vediamo, l’effetto è quello dell’attesa, l’attesa del suono come uno che canta e cosa canta? L’attesa del canto, ossia l’assenza, non so se rendo l’idea.

Tu allora rispondi qualcosa come: - Sì, sì, in un certo [senso] sono anche questo, diciamo che questo è uno degli elementi, capisci, il silen­zio viene fuori in negativo dal fatto che tutto è riempito dalla voce e dalla musica, e allora è un po’ come se dentro alla musica ci fosse il silenzio, e così anche la musica, capisci, bisognerebbe far sentire la musica dentro la musica è per questo [che] pensavo che la scena deva venir fuori nella scena, dentro la scena, dico, non so se mi segui.

Io, allora: - Ho trovato questa cosa di Roland Barthes lì nell’Enciclopedia e adesso te la leggo: «Udire è un fenomeno fisiologico, ascoltare è un atto psicologico - così c’è scritto - possibile definire le condizioni fisiche dell’au­dizione eccetera con l’acustica, la fisiologia dell’udito; L’ascolto invece può

* Copyright Palomar Srl, 1990. Riprodotte per gentile concessione della Wylie, Aitken & Stone, Inc.

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essere definito soltanto a partire dal suo oggetto, o obiettivo. Tre sono i tipi dell’ascolto...» Sta a sentire.

E tu: - Formidabile. Il teatro, il luogo dell’ascolto, potrebbe rappre­sentare attivamente l’atto d’ascoltare, contenere l’ascolto in tutte le sue forme...

Continuo a leggere: - «Nel primo tipo l’ascolto si rivolge verso gli indizi. A questo livello, nulla distingue l’animale dall’uomo, il lupo ascolta ravvicinarsi della preda, la lepre ha orecchie solo per il latrato del cane, l’innamorato ascolta il passo che s’avvicina, riconosce i segni che gli annunciano l’arrivo della persona amata... [».]

Una voce di donna canta un’aria. La scena è un labirinto. Figure di uomini cercano di raggiungere la donna che canta e non ci riescono.

- «L’udito sembra essenzialmente connesso - io sto continuando a leggere Barthes - alla valutazione spazio-temporale... Dal punto di vista antropologico l’ascolto è il senso stesso dello spazio e del tempo colto attraverso i gradi di lontananza, e i ritmi... l’appropriazione dello spazio è sonora. La casa, equivalente del territorio animale, uno spazio di suoni familiari, riconosciuti, sinfonia domestica...[».]

Kafka: - Diario, 5 novembre 1911. «Sto seduto in camera mia, nel quartiere generale del chiasso. Odo sbattere tutte le porte; solo il loro rumore mi evita di sentire i passi che corrono dall’una all’altra... Scorre la sbarra della porta d’entrata, stride come se avesse mal di gola, s’apre con una breve nota d’una voce femminile poi si chiude con un tonfo sordo, maschile, che risuona senza alcun riguardo. Mio padre è uscito; comincia ora il rumore piti delicato, disperso, disperante, intonato dalla voce dei due canarini. Vorrei aprire un spiraglio della porta, strisciare come una vipera nella stanza vicina e dal suolo chiedere alle mie sorelle e alla loro governante che stiano un po’ zitte[»].

Io: - Il libretto allora potrebbe essere questo, sta a sentire.Un re che tende l’orecchio in una reggia deserta. Teme una congiura.

Tende l’orecchio ai passi delle sentinelle, agli squilli di tromba... Ogni rumore insolito potrebb’essere la minaccia dei nemici...

Il re: - Un re è abituato ad ascoltare con gli orecchi degli altri... Quando deve usare i propri orecchi cogliendo gli echi del palazzo-orec­chio nulla lo rassicura...

Coro: - I fatti sono sottili come soffi... possono insinuarsi infiltrarsi farsi strada... sussurri, sibili, indiscrezioni, indizi...

Io: - Il re si confida solo col suo vecchio scudiero, che è sordo.Scudiero: - Gli informatori insinuano, però...Il re: - Cosa?Scudiero: - Non so... Sento che parlavano della regina Non ho inteso

bene...Il re: - Doralice?Coro: - Tu la credi fedele... Tu la credi... fedele come moglie... come

regina... Ci sono indiscrezioni, indizi, voci...

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Il re: - Sento i suoi passi... Sembravano avvicinarsi... Ora s’allontana­no... Dove va?

Voce di donna che appare e scompare nel labirinto, inseguita da uomini.

Tu: - Questo va bene come situazione, in senso generale, però adesso dovresti trasportare tutto in un altro ambiente, con un altro linguaggio... Non puoi mica fare un libretto da vecchio melodramma, non ha senso, capisci... Io vorrei un’immagine del potere contemporanea... Per esem­pio il direttore d’un teatro d’opera... Tutta l’azione potrebbe svolgersi in un teatro...

Kafka: - Diario. 9 novembre 1911. L’ho sognato l’altroieri. Tutto era teatro; io stavo ora su in alto, nel loggione, ora sulla scena. L’attrice era una ragazza che alcuni mesi fa mera piaciuta; vedevo il suo corpo flessibile nel momento in cui s'afferrava terrorizzata alla spalliera d’una sedia... A un certo momento lo scenario era così grande che non si vedeva più nulla, né palcoscenico, né platea, né buio, né luci... Rappresentavano una festa imperiale e una rivoluzione. Della festa dapprincipio non si vedeva nulla; comunque, erano quelli della corte che se n’erano andati a una festa; e nel frattempo era scoppiata una rivoluzione... la folla aveva invaso il castello... Ecco che tornavano le carrozze dei cortigiani per la Eisengasse, velocissi­me. Mi passò accanto una torma di gente, in maggioranza spettatori del teatro... e in mezzo a loro una giovane che conoscevo...

Tu: - No, la festa, la rivoluzione, l’abbiamo già fatta... Nella Vera storia...

Io: - I sogni si ripetono...Tu: - Un sogno, un sogno in un teatro...Io: - Ecco: il direttore del teatro ha fatto un sogno...Il direttore del teatro: - Ho sognato un teatro, un altro teatro, esiste

un altro teatro oltre il mio teatro (pezzo già scritto).Io: - Egli sogna di raggiungere una donna che non è altro che il

fantasma d’una vóce.Voce di donna: - C ’è una voce nascosta tra le voci (pezzo già scritto).Tu: - Sì, questo potrebbe essere uno spunto... ma nello stesso tempo

c’è tutto quello che avviene dietro lo scenario, tra le quinte, la sera d’una prima... (azione).

Io: - Un teatro in cui cova il malcontento contro il direttore. Gli ingranaggi del grande meccanismo s’inceppano. Si scorgono i segni mi­nacciosi della disgregazione, (azione)

Tu: - E nello stesso tempo anche l’opera che viene rappresentata sulla scena, dove appare il potere come i Boiardi del Boris, i Grandi di Spagna del Don Carlos...

Io: - A questo punto io prevedevo un re che ascolta una voce che viene da sottoterra. Il re tiene prigioniero nei sotterranei il suo predeces­sore, di cui ha usurpato il trono. No, è solo lo scudiero sordo che sente quella voce. Il re non ha orecchi per il lamento che viene dalla cella.

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Tu: - preferisco il sogno del direttore...Direttore: - C ’è una porta, la porta degli artisti... la porta che dà

direttamente, dove?, c’è un passaggio (pezzo già scritto).Voce di donna: - (duetto già scritto).Io: - Continuo a leggere l’Enciclopedia. Il secondo tipo d’ascolto è

una decifrazione-, quel che cerchi di captare con l’orecchio sono dei segni, in base a ceni codici. Prima della scrittura, prima della pittura rupestre, ecco la riproduzione intenzionale d’un ritmo, caratteristica dell’uomo. Ciò che è ascoltato non è più il possibile (minaccia, desiderio) ma il segreto, ciò che sta sepolto... il mondo occulto degli dèi...

Il re: - Lo spazio del palazzo è descritto dai suoni, e anche il tempo, le ore calme e le ore ansiose.

Il direttore: - Dov’è il mio posto? Scusino il disturbo... (pezzo già scritto)

Io: - Per finire, dice Roland Barthes: «il terzo tipo d’ascolto, ha luogo in uno spazio intersoggettivo, dove “io ascolto” vuol dire anche “ascol­tami”, “una signifìcanza” rilanciata all’infinito, nell’inconscio...[».]

Il re: - Tendo l’orecchio al brusio che sale dalla città: arrivano rumori frantumati, indecifrabili; ascoltarli è riposante. Se tendo l’orecchio forse potrò cogliere un richiamo, un presagio, come dalla bocca d’un oracolo.

Voce di donna (canta un’aria)Tu: - E allora?Io: - Questa sarebbe la fine del primo atto.Tu: - Un atto, questo?Io: - Diciamo allora la fine della prima lettera. Non mi resta che

chiudere coi saluti più affettuosi,dal tuo

Italo

* * *

[aprile 1982?]Caro Luciano,è tanto che non ti scrivo. Bisognerebbe riprendere quel tema per il

secondo atto: quel personaggio che segue un canto che per lui è come il canto delle Sirene...

Appena io dico Sirene, tu subito: - Ecco, questa potrebbe essere l’idea da sviluppare, un’idea si capisce che scorre parallela alle altre: Ulisse e le Sirene.

Ma io dicevo le Sirene solo cosi per dire, non farmi perdere il filo.Tu: - Ma che filo vuoi perdere se sono sei mesi che sto aspettando questa

tua lettera. Il secondo atto s’apre col canto delle Sirene, a me va benissimo.Io: - Aspetta. La prima cosa da fare è vedere nei versi d’Omero

letteralmente cosa dicono le Sirene. Lasciami cercare un momento. Odissea, libro dodicesimo, verso centottantaquattro e seguenti:

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«Qui, presto, vieni, o glorioso Odisseo, grande vanto degli Achei, ferma la nave, la nostra voce a sentire.Nessuno mai s’allontana di qui con la sua nave nera, se prima non sente, suono di miele, dal labbro nostro la voce; poi pieno di gioia riparte, e conoscendo più cose.

Tutto sappiamo quello che avviene sulla terra nutrice».j

Tu: - Potremmo prendere solo alcune parole: «ferma la nave», «suono di miele», «tutto sappiamo».

Io: - Però cosi sembra che il canto delle Sirene sia una cosa tranquilla, il canto che le Sirene vogliono far credere... Mentre invece già prima Omero aveva spiegato come stanno le cose, al verso quarantaquattro e seguenti:

«... ma le Sirene col canto armonioso lo stregano sedute sul prato; pullula in giro la riva di scheletri umani marcenti; sull’ossa le carni si disfano.»

Tu: - Ecco «la riva di scheletri» può andare molto bene, però anche «sedute sul prato»: ci sono questi due momenti contemporanei, uno come in filigrana sull’altro, capisci.

Io: - Tutto sta a decidere il punto di vista da cui ci mettiamo; perché potrebbe essere anche il canto delle Sirene come lo immaginano i com­pagni di Ulisse con le orecchie tappate. Oppure il canto come Ulisse cerca di ricordarselo, quando è passato il pericolo e lo slegano, e prova a modulare il motivo e s’accorge che l’ha già dimenticato, svanito come il ricordo d’un sogno.

Tu: - È un uomo contemporaneo, tutto dev’essere molto contempo­raneo, Ulisse è un uomo d’oggi che cerca di ricordare il canto delle Sirene, ma è chiaro che non le ha mai sentite se non in sogno, non sono mai esistite quelle Sirene. Eppure è il canto delle Sirene che lo fa andare avanti; è un canto del futuro quello che lui ha nelle orecchie. Questa è l’idea che tu dovresti sviluppare.

Io: - Allora si potrebbe inserire questo tema nella vicenda che aveva­mo incominciato: il direttore vorrebbe tornare nel teatro che ha sognato, sentire l’esecuzione perfetta dell’aria di quella soprano. Ma per far questo deve identificarsi con lo spirito di quella musica, di quelle voci, di quel teatro, e rinunciare a tutto quello che lui è diventato. Deve ritrovare in se stesso quel che ha perduto e raggiungere la voce del suo desiderio.

Tu: - Sì, questa è una bella idea, ma io ho bisogno di qualcosa che si veda sulla scena, una situazione drammatica. E poi bisogna che mi dai delle parole da cantare, mica posso musicare i pensieri che ti passano per la testa.

Io: - Se guardi nelle tue carte ci dev’essere una pagina che avevo scritto che forse non andava bene, dipende da cosa ne vuoi fare, era quella col numero A.2.1. che comincia:

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C’è una porta, la porta degli artisti? La porta che dà direttamente, dove?, c’è un passaggio...

Guarda se la ritrovi; io comunque ne ho una copia.Tu: - Sì, sì, anche quello può servire, però nello stesso tempo in quel

teatro ci dev’essere l’opera che viene rappresentata sulla scena, e dev’es­sere un’azione diciamo così omologa alla scena fuori del teatro. Una cosa come nel Don Carlos, hai presente? fino a che c’è un coinvolgimento musicale generale come sarebbe una tempesta. Adesso dico per dire, mica voglio una tempesta, dico una cosa con tutta l’orchestra, forse due orchestre in modo che i due livelli diventano uno.

Io: - Beh, devi tener presente che io avevo elaborato anche quella storia del re che va per la città in incognito, col suo scudiero sordo, mescolandosi alla folla. Io ci metterei dei cori di folla che si diverte ma con sotto come una minaccia, una violenza che cresce. E dei cori invece di vendetta e distruzione, che invece sotto sotto vibrano come dei canti d’amore.

Tu: - M ’interessava di più l’idea che avevi avuto del concorso di canto.

Io: - Ah, sì. Il re per trovare la donna che aveva sentito cantare nel primo atto, invita al palazzo musici e cantori e cantatrici e darà un premio alla voce più bella. Così spera di ritrovarla, ma non sa cne una voce che canta davanti al re non può più essere la voce del desiderio che lui ha sentito. Qui c’è tutta una scena che avevo immaginato; è inutile che te la ripeta; ho tutte le stesure; se ti serve fammi un fischio. Poi tutto dovrebbe finire con una congiura di palazzo e una rivoluzione popolare.

Tu: - Questo mi va molto bene, solo che si dovrebbe vedere tutto come dall’interno del palcoscenico, mostrando il rovescio d’una rappre­sentazione d’opera. Tutto il nervosismo, capisci, che c’è dietro le quinte, un’impazienza, un’agitazione reale che fa da contrappunto alla tensione drammatica irreale. Tutte le cose che vanno di traverso all’ultimo mo­mento...

Io: - La soprano che le manca la voce...Tu: - No, quello no.Io: - Allora cosa?Tu: - Mah, vediamo, i vestiti che non vanno bene... La sarta...Io: - No, la sarta non mi piace. Mi piacciono i pompieri. Perché non

ci mettiamo un principio d’incendio? Intervengono i pompieri con gli estintori...

Tu: - Mi pare che ti vai staccando dal tema centrale e rischiamo di disperderci. Il tema da cui siamo partiti era l’ascolto.

Io: - C ’è sempre quel testo di Barthes che ci serve per dare l’intelaia­tura concettuale. Vedi per esempio: «La natura, coi suoi rumori, è fervi­da di senso: così almeno, secondo Hegel, l’ascoltavano gli antichi Greci. Le querce di Dodona con il fruscio delle foglie esprimevano delle profe­

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zie...». Eh, che ne dici? Le querce di Dodona potrebbero essere il finale del second’atto. Un fruscio che occupa tutto lo spazio sonoro.

Tu: - Macché Dodona, macché fruscio, non ci siamo, non ci siamo ancora. Meglio le Sirene, riprendere a questo punto il tema delle Sire­ne...

Io: - Ma è proprio la stessa cosa! Come dice Blanchot:«C’era qualcosa di meraviglioso in quel canto reale, comune, segreto,

canto semplice e quotidiano, che tutto a un tratto si dava da riconosce­re... canto dell’abisso: che, inteso una volta, apriva in ogni parola un abisso e invitava con forza a sparirvi dentro.»

Su queste parole è meglio che m’interrompa e ti lasci a meditare,tuo

Italo

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EDOARDO SANGUINETI

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Luigi PestalozzaConversazione con Edoardo Sanguineti

In questa conversazione con Edoardo Sanguineti vengono affrontati alcuni temigenerali, che oggi sono importanti, che riguardano anche la storia, ormai, delleavanguardie musicali e poetiche, letterarie, in Italia, dalla fine della guerra.Sanguineti parla naturalmente della sua esperienza, di come vede certe cose. Manegli anni Sessanta il suo incontro con Luciano Berio, sul quale giustamente sisofferma, si colloca in un quadro più ampio di problemi. Superare le divisioni frale diverse attività culturali, in particolare fra musica e poesia e pittura, tendevain realtà a mettere in discussione certe rigidità istituzionali, infine sociali. Noncredo che sia un caso che la contestazione del Sessantotto e il fiorire negli anniSettanta di tante iniziative il tipo nuovo rispetto alla vita della musica nelleistituzioni tradizionali, abbia avuto per protagonisti tanti musicisti e nonmusicisti (poeti, pittori) che negli anni Sessanta o nei tardi anni Cinquantaavevano cominciato a mettere in discussione certi schemi. Per esempio avevanocominciato a lavorare insieme, a intrecciare le ricerche. In diverse e significativedirezioni. Voglio ricordare anche che a metà degli anni Cinquanta, attorno aItalia Canta e a Cantacronache, si ritrovarono musicisti e letterati comeManzoni, Fortini, Liberovici, Calvino, Jona ecc. Il problema era una canzonediversa, antagonista, né soltanto politica-mente impegnata. L’interesse era per ladisponibilità a rompere le competenza, la logica dei generi, perfino dellespecializzazioni (delle gerarchie); e in questo ordine mentale, intellettuale, infineideale, teorico, avvennero anche gli incontri sul terreno del teatro musicale. Ilsenso vero, fu che venivano rotte le stesse abitudini di collaborazione, poichéprecedenti illustri, certo, ce ne erano stati. Ma ora la ricerca e cioè la critica sicombinava fra musicista e poeta, per esempio, né l’oggetto era una qualchemitica e sempre mancata (può solo mancare se ha solo sé come oggetto)interdisciplinarità. L'oggetto fu la critica e la ricerca, appunto, di una nuovaforma di comunicazione o di conoscenza, coi mezzi impiegati. Soloincidentalmente entrava in causa il teatro, o altro. L’importante era e ridiventa,come Sanguineti stesso fa capire, il discorso sul come e per che cosa comunicare.A questi livelli si incontrarono poeti, letterati e musicisti, calandosi nei proprispecifici, la voce, le strutture del discorso di parole e/o di suoni. Ma oggi sonoancora aperte (riaperte) le questioni di fondo. Probabilmente non è unacoincidenza che a Castelporziano o a Genova o altrove, si siano moltiplicati certimeeting, di poeti, e di poeti e musicisti. I conti, viene fuori dalla conversazione, lisi fa oggi con la spinta sociale, dominante, alla spettacolarizzazione della vita ditutti, e di tutto. E musica e poesia sono per definizione, direi, spettacolari: devonofinire nel flusso indistinto di un immaginario collettivo frustrato e rivolto controla collettività dall’inconsistenza, in ogni senso, dell’immagine? Non credo che siauna necessità. Il rischio o il processo già in atto attraverso gli oceani, riguardasemmai, per dirla franca, le forme in cui si svolge nell’età dei media, la lotta diclasse. Negare l’identità dell’atto musicale o poetico, spettacolarizzandolosenz’altro scopo, vuol dire usarlo nella società di massa da un punto di vista didominio, preciso, sulle masse. Perciò le sorti (anche) della poesia e della musica,di quelle che hanno le rispettive avanguardie degli anni Cinquanta e Sessantaalle spalle, sono oggi importanti. Perciò, almeno in campo musicale, il riflussoneoromantico attorno al quale la nostra stessa rivista dibatte, sembra

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appartenere all’affermarsi annichilente della spettacolarizzazione globale deifatti, dei comportamenti, delle cose. C’è da chiedersi quanto abbia pesato suquesti sbocchi nel mondo occidentale il dilagare fino a diventare senso comune,del pensiero negativo. Quanto alla musica, credo parecchio, se solo si pensa alnesso con i valori viscerali posti ormai come scopo musicale o meglio del consumomusicale. Un tale consumo puramente fisico viene confuso con tardohegelianiriferimenti alla verità. Allora, senza allontanarci troppo dalla conversione,alcune delle notazioni che in esse sì trovano, o dei richiami coraggiosi diSanguineti alla critica della spettacolarità, mi sembrano più che un appello,l’indicazione di una strada che va ripercorsa, in modi nuovi.

L.P.

D. Parto da lontano, dagli anni dei Novissimi, gli anni Cinquanta inoltrati, e iprimi Sessanta. Dei cinque poeti che formavano il gruppo, tre hanno lavorato condei musicisti. Pagliarani con Paccagnini, Balestrini con Nono e Henze, tu con Berio(ripetutamente) e Globokar. D’altra parte Giuliani, fra l’altro molto legato aEvangelisti, è stato vicino e addentro alle cose musicali di allora. Ti chiedo chesignificato ha avuto, secondo te, questo incontro piuttosto sostanzioso deiNovissimi con la musica e il teatro musicale in particolare, e che cosa ha significatoin particolare per te una tale esperienza.

R. Intanto credo che una ragione di questa collaborazione la si possa ritrovare nelfatto che uno dei punti di partenza negli anni Cinquanta (perché poi negli anniSessanta si venne alla pubblicazione in qualche modo collettiva di lavori chenaturalmente erano stati elaborati nel corso degli anni Cinquanta), era dato dallaconsapevolezza di un certo ritardo della situazione letteraria italiana nei confrontidella situazione pittorica e musicale. Mentre nel campo delle arti figurative, e dellamusica, esisteva un tessuto internazionale di lavoro ormai costituito, conriferimenti molto aperti nei confronti di quello che si veniva facendo in altrenazioni, e con richiami molto consapevoli alla eredità delle avanguardie storiche,sul piano letterario la situazione era rimasta molto più chiusa, per ragioni ancheabbastanza spiegabili proprio se consideriamo il tratto differenziale: lacomunicazione linguistica comporta delle difficoltà che non esistono, almeno inun’area culturale omogenea, sul terreno musicale e su quello pittorico. Non sono,quello musicale e quello pittorico, linguaggi universali, ma sono anche linguaggiper i quali il passaggio di frontiera è — naturalmente entro un orizzonte storicoomogeneo, — agevole. Il fatto di accogliere volentieri ogni possibilità dicollaborazione con pittori e con musicisti, nasceva dal desiderio di un contattoconcreto con dimensioni culturali adeguate a quello che noi cercavamonell’orizzonte della parola. Per me era molto più facile discutere problemi dipoetica con un pittore o con un musicista, che con un letterato della precedentegenerazione, e, nella maggior parte dei casi, anche della mia. Proprio per questaricerca di un territorio più avanzato, era possibile allora un incontro con altrisperimentatori, sia nell’ambito della pittura che della musica, anche sul pianooperativo. Probabilmente intervennero infine anche elementi abbastanza casualinel fatto che fu piuttosto l’uno o l’altro di noi a collaborare con dei musicisti.Occorrevano anche occasioni empiriche di incontro personale oltre che uninteresse e una volontà di uscire dal puro e semplice esperimento della paginascritta. Oggi, per quel che mi riguarda personalmente, direi che in fondo i due

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personaggi fondamentali furono Baj sul piano della pittura e Berio sul piano dellamusica. E una forte simpatia già costituita preventivamente dalla reciprocaconoscenza del nostro lavoro, ci fece trovare poi le occasioni concrete dicollaborazione. Per Berio era impossibile trovare in poeti della tradizione, vuoipostermetica vuoi neorealistica, una possibilità di incontro che non fosse inqualche modo sfasata. E se penso al Berio prima del nostro incontro, che lavorainfatti utilizzando Joyce o Cummings, è chiaro che egli, fuori d’Italia, potevatrovare dei testi, magari relativamente arcaici, ormai, storicamente, ma checomunque rappresentavano un tipo di ricerca e un tipo di rapporto con illinguaggio con il quale poteva incontrarsi. Credo dunque che da parte di Berio cisia stata una vera soddisfazione nel trovare qualcuno che poteva lavorare sulterreno del linguaggio in maniera omogenea, armonica rispetto alla sua ricercasonora. E voglio subito sottolineare un punto, che cioè, nel caso di Berio, ilrapporto con la voce umana, il rapporto con il materiale verbale, era un rapportofondamentale. Berio è un musicista che ha un’importante produzione, è chiaro, ditipo strumentale, ma c’è tutta una zona di esplorazione vocale, di lavoro sulla voce,proprio sulle possibilità della voce umana come strumento, che è fondamentaleper i suoi interessi. Da parte mia, non voglio mettere in causa una sorta divocazione infantile, rientrata, verso la musica, rientrata in parte accidentalmente,o forse rientrata indipendentemente dai casi della vita. Ma è certo che un punto diriferimento, nella mia formazione giovanile, proprio dal punto di vista letterario,era la ricerca dodecafonica come modello di rigore compositivo, che aspiravo atrasportare appunto sul terreno della letteratura. Insomma non si è trattato di uncapriccio né di un caso, e nemmeno dello sforzo di trovare una sorta di armoniaprestabilita fra ricerche che si svolgono, prima e poi, di fatto, su terreniradicalmente differenziati, ma una aspirazione a costruire nuove possibilitàtecniche, di un ordine diverso, al di là di una certa paralisi del linguaggioconvenzionato e pattuito, e della sua cristallizzazione inerte, ecco, anche questopreesisteva all'incontro con Berio. Quindi, nel momento in cui questo incontroavvenne, io lo sentii molto come una sorta di realizzazione abbastanza naturale,come un esito che era in qualche modo interno al mio tipo di ricerca.

D. Parliamo ancora della tua collaborazione con Berio. Una domanda può essere:che cosa lega, che cosa c’è di continuativo, per te, nelle tre esperienze condotteassieme, e cioè Passaggio, Laborintus II, A-ronne. Io direi che il filo rossopotrebbe essere una tua peculiare ricerca sulla parola e sulla lingua, che trova nellaqualità della musica di Berio, in ciò che in essa viene ricercato, soprattutto perquanto riguarda la voce o l’uso della parola, una corrispondenza ben precisa. Mainsomma che cosa prosegue, se pur prosegue, in vent’anni di collaborazione e cioèda Passaggio ad A-ronne che è del ’78.

R. A-ronne fu commissionato dalla radio olandese per il cinquantenario delmanifesto del Surrealismo. Era quella l’occasione, e quindi il suo anno è proprio il1974. Il mio incontro con Berio, è dell’anno 1960. Passaggio lo elaborammo fra il1961 e il 1962, e fu eseguito nel 1963. C’è una netta continuità fra quel lavoro eLaborintus II, perché la prima redazione di Laborintus II fu un ballettorappresentato per la prima volta, nello stesso 1963, alla Fenice di Venezia, con iltitolo Esposizione. Poi viene il 1965 che è l’anno in cui appunto Esposizione,fortemente rimanipolata a livello musicale come a livello testuale, raggiunge laredazione definitiva come Laborintus II, commissionato dalla radio francese,come omaggio a Dante, in occasione del centenario dantesco. E qui forse non èinutile spiegare il piccolo enigma del titolo, perché, musicalmente parlando, non

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esiste un Laborintus I. Ma Berio volle richiamarsi alla mia prima raccolta dipoesie, il Laborintus stampato nel 1956, alcuni versi del quale, in effetti, sonopassati nel “libretto” di Laborintus II (che è “secondo”, dunque, in relazione a untesto poetico, soltanto, e non ad una composizione musicale). C’è poi un certovuoto, colmato da piccoli episodi. Per esempio, c’è una delle redazioni di Questovuol dire che, una redazione radiofonica, che era montata assieme a testi miei chevenivano letti con la mia stessa voce, con quella di Luciano e con quella di CathyBerberian sullo sfondo del nastro puro d’origine, elaborato con Leydi. Ma devodire che a me riesce probabilmente più difficile, che al lettore e all’ascoltatore,indicare immediatamente tutti gli elementi di continuità. lo sono tentato,comunque, di cercarli nella sperimentazione, proprio, sulla voce. O forse quella eral’ottica intenzionale che mi muoveva. In Passaggio fu molto importante, per me, iltipo di impostazione drammatica concordato con Berio, con la presenza di uno deidue cori nel pubblico e di dover risolvere — è un’esperienza che ho vissuto inqualche modo, benché siano cose molto eterogenee, due volte in vita mia — , ilproblema del coinvolgimento. Nel ’63, del coinvolgimento non se ne parlavaancora, per quanto ricordo. Però di fatto credo che sia stata una delle sole duevolte in cui io sono riuscito, non dico a realizzarlo, ma a vederlo realizzato, perchédi norma è cosa che ho sempre visto attuata, o meglio non attuata, in manieramolto goffa. Le due sole volte in cui l’ho trovato realizzato autenticamente, fu nellosgomento vero — ricordo la prima di Passaggio —, provato dal pubblico dellaPiccola Scala nel sentirsi insieme investito e rappresentato dal coro sparso neipalchi, e poi fu, in un tutt'altro tipo di impostazione, anche intenzionale, quando,con Ronconi si mise in scena L’Orlando Furioso. Erano modi di coinvolgimentototalmente diversi, ma, a mio parere di eguale efficacia, mentre quelle chevenivano spesso poi celebrate come esperienza di partecipazione del pubblico, leho giudicate sempre molto macchinosamente irrealistiche, perché non strutturate,non richieste e imposte dall’opera nella sua costruzione. Al contrario, in quei duecasi, con Berio e con Ronconi, era la forma organica con cui l’opera venivacostruita, una volta musicalmente e una volta come teatro di parola, che implicavaquel tipo diretto e totale di partecipazione. E qui, recuperando una cosa che èimplicita nella domanda precedente, si può aggiungere questo: che nelle ricercedei Novissimi, e poi del Gruppo ’63, era forte il sentimento di unadrammatizzazione e di una teatralizzazione della parole poetica. La parola, neirappresentanti più significativi di quella nuova avanguardia, era sentita moltocome parola detta, come fatto vocale o, come mi piace anche dire, come fattocorporale, di investimento corposo nel linguaggio, e da questo punto di vista,almeno nel momento intenzionale, è questo l’elemento di maggiore continuità cheio sentirei presente in quegli esperimenti. In breve, l’energia corporale investitanella voce. Anche Laborintus II la cui prima esecuzione, come ho già accennato,prima esecuzione radiofonica, per non parlare di A-ronne, che nacque come testoradiofonico, e che per me deve rimanere un testo che non ha destinazione scenica(l’uso scenico sarà semmai un adattamento ulteriore, ma indubbiamente secondoe secondario), si basano su questo principio della metamorfosi biologica del testo,del suo calarsi concreto in una voce nella vocalità corporea. Sarei tentato di parlaredi “visceralità della voce umana”. E poi, nel mio stesso lavoro scenico, ancheindipendentemente dalla musica — gli esperimenti teatrali dove per esempiousavo la sovrapposizione delle voci come altrettanti strumenti —, vale lo stessoprincipio. Ma pare abbastanza sintomatico, allora che il primo testo al qualelavorerà Globokar, che è Traumdeutung — proprio con il titolo freudianodell'interpretazione dei sogni, sia estremamente prossimo al tipo disperimentazione, di impiego musicale, diciamo, cioè viscerale, della voce, usataper Passaggio, e venga a sua volta assunto, appunto da parte di Globokar, come

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materiale per la musica. Per cui c’è una specie di ricambio circolare di esperienza.

D. Di che anni parli?

R. Globokar incominciò a lavorare con i miei testi, direi, negli anni Sessantainoltrati, ora non ricordo esattamente. Traumdeutung, nato per quattro voci (unavoce femminile e tre voci maschili, trattate come un quartetto verbale) diventa, neltrattamento di Globokar, una composizione per quattro cori. C’è indubbiamentetutto un momento in cui con Berio prima e con Globokar dopo, la sperimentazionefonetica del testo diventa per me il momento centrale. Ma ribadirei questo, che, infondo, fin dall’inizio, io pensavo sempre ai miei testi poetici come destinatiessenzialmente a una funzione vocale. Mi è capitato molte volte di riflettereintorno a questo paradosso che è il testo letterario nella condizionecontemporanea, il suo essere situato in bilico tra i due poli della visibilità del testo,cioè della fruizione ottica che il testo stampato esige, e del suo dissolversi, invece,in suono. Se vogliamo, la poesia visiva e la poesia fonetica sono i due momentipolari entro i quali sta un infinito orizzonte di esperienza, e la poesia è in qualchemodo, per me, che non amo né la poesia fonetica né la poesia visiva, questodifficile equilibrio e gioco tra la fruizione sonora del testo e la sua fruizione visiva.Una partitura per l’occhio, un disegno per l’orecchio, se vuoi.

D. Quello che dici sollecita un argomento quanto mai attuale. Mi pare che il tuoincontro con la musica sia un incontro con lo spettacolo, con la stessa voce chediventa spettacolo di sé. E oggi più che mai sotto le spinte stesse della civiltàamericana, tutto viene sempre più concepito come spettacolo, la politica perprima. In altre parole, i comportamenti si dissolvono nella loro spettacolarità, e inessa si dissolve anche la ragione, il suo ruolo. La crisi delle ragioni, o della stessarazionalità, che sono due cose diverse ma evidentemente intrecciate, sta semmai inquesto: se ne parla tanto quando si parla di dominio della spettacolarità intesaproprio anche come espressione dell’irrazionale, o della ragione non più candidataall’egemonia. Se dunque la tua esperienza con la musica privilegia il versante dellospettacolo, come ti collochi di fronte ai problemi cui ho accennato?

R. Ecco, quello che mi pare importante nei lavori con Berio, e poi darò spazioanche al lavoro fatto con Globokar non solo perché è il lavoro più recente, maperché credo che in esso venga abbastanza alla luce tutta la coerenza di un certotipo di rapporto con lo spettacolo, è proprio questo, questo rapporto. L’aspettodella spettacolarità, infatti, è assunto criticamente, e questo mi pare il trattodistintivo. E cioè probabile che io e Berio abbiamo, non dice anticipato (miparrebbe un po’ buffo immaginarci come dei precursori, non mi piacciono questeformule), ma indubbiamente messo in causa i problemi di partecipazione e dicoinvolgimento, di spettacolarizzazione nel senso forte della parola, per cui si ègiunti all’opera come antiopera che trascende la chiusura del palcoscenico erovescia il vero spettacolo nella sala, tra il pubblico, in platea, senza chiudersi sullascena, o non solamente sulla scena. In questo senso il punto capitale è la tematicadel consumo della spettacolarizzazione. In Passaggio episodi come quello dellavendita all’asta della donna, del pubblico che si definisce autocriticamente comepubblico consumatore, che paga, che è gerarchizzato nelle varie classi sociologicheed economiche per cui è situato a livello di platea o di balconata o di palco; inLaborintus II il tema dantesco dell’usura come tema centrale e insomma delcapitalismo, e della mercificazione (il primo titolo Esposizione alludeva

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precisamente proprio a ciò, e in particolare io avevo in mente il Benjamin cheindaga intorno alle esposizioni universali, allo spettacolo delle merci,derisoriamente risolto poi, nei termini del balletto, in una specie di esibizione dispazzature, di relitti, di detriti, insomma il consumo e lo spreco). Ecco, in questosenso io mi distinguerei nettamente da una problematica dellaspettacolarizzazione come fine; è anzi, piuttosto, la critica dellaspettacolarizzazione, e qui se vogliamo parlare di anticipazione, allora parlerei dianticipazione di una critica nei confronti di una tendenza che allora eracertamente più che in germe, nella realtà, matura sino al marcio, ma forsenemmeno in germe nella coscienza critica collettiva. Forse l’immaginario collettivocominciava appena a elaborarla, ma l’intenzione certamente di Passaggio e diLaborintus II è di critica radicale nei confronti di questo tipo di tendenze alloraemergenti. In A-ronne, che in qualche modo può apparire un po’ appartato cometipo di esperienza, proprio per la sua stessa natura strutturale, la spettacolarità èdi ordine appunto radiofonico, è di ascolto, è lo spettacolo della voce. Ma esisteuna spettacolarizzazione fonetica indipendentemente da ogni gestualità, e non acaso il giuoco provocatorio sta nel fatto che il breve testo, che poi è un montaggiocitazionale, comincia elaborando il tema del principio, si sviluppa elaborando iltema della medietà, del mezzo, del centro, si conclude elaborando il tema dellafine, della conclusione, e tematizza quindi la propria pura organizzazionestrutturale, pur orientandola, insieme, sopra il tema della struttura corporea —dove comincia il corpo umano, quale è il suo centro, quale la sua fine – , e cioèsomatizzando questo tema vocale e formale. Anche qui un tema che mi èenormemente caro come quello della corporeità, e sul quale appunto insistevo, e dicui la vocalità in qualche modo è il medio tra quello che è il valore concettuale deltesto, o referenziale, e il valore di fruizione fonetica, viene tematizzato e quindiportato a un livello di resa consapevole e di critica trasparenza. Ma vengofinalmente a Carrousel. Carrousel si presenta, e penso alla prima edizione che èquella di Zagabria in cui collaborai anch’io alla regia, si presenta dunque, natocome nacque in uno stadio coperto, come spettacolo globale che si apreufficialmente con una parodia di discorsi inaugurali, con l’introduzione di bandeche sfilano, di gruppi ginnici e folclorici che vi esibiscono, per utilizzare infine tuttigli elementi in qualche modo fieristici e di consumo della musicalità,restringendosi poi a raffinatezze esasperate nell’impiego di mezzi tecnologici, nelsenso delle più ricercate combinazioni di vocalità, e anche delle più perverse(Globokar utilizza il canto dei fogli di cartavelina sopra la bocca, gli effetti dicircolarità del suono attraverso il cantante che ruota su se stesso e quindi rispondea diversi punti microfonici che poi a loro volta sono diffusi in rotazione nella sala,con sovrapposizioni di effetti registrati, e via discorrendo), e termina con unaspecie di microspettacolo di pura recitazione, quando tutto pare ormai dissolto:viene colto cioè il momento giusto di un finale inconcluso (il pubblico sta giàandandosene), per innestare a sorpresa una specie di metacritica del teatro e dellospettacolo, con una serie di epigrammi gestiti da clown-attori il cui modello èaffetto dal Lustspiel che fa da intermezzo nella Notte di Valpurga di Goethe, einsomma compare il personaggio storico, quello mitologico, la maschera, il tiposociale, il rappresentante di classe, che reagiscono a loro volta allo spettacoloappunto con gli epigrammi che leggono su cartigli, i quali poi volano nel mezzodello stadio, e si spettacolarizzano nel momento stesso in cui lo spettacolo viene inqualche modo trasceso perché, ecco, è assunto criticamente. Forse questa è l’altrafaccia di quella continuità — in qualche modo vengo a integrare anche qui, con unarisposta ulteriore, la tua domanda precedente —, è dunque l’altra faccia di unaspettacolarità che non è mai goduta per sé stessa, e se vuoi io direi che, in fondo,l’idea fondamentale del teatro e della spettacolarità rimane per me quella

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brechtiana, l’idea di una distanza critica. Se parlavo, prima, di coinvolgimentoriuscito, può apparire contraddittorio ora che io dica che gli unici coinvolgimentiche ho vissuto davvero, li ho vissuti attraverso le sperienze che ho citato. Ma inrealtà io credo a una sola forma di coinvolgimento, che è il coinvolgimento critico,in opposizione al coinvolgimento di pura empatia, che si riduce a unapartecipazione psicologica e mistico-emozionale. Che è poi quella che Brechtdefiniva aristotelica, e che, infatti, è quella assolutamente tradizionale. D’altraparte, la formula che è a me cara, e non mi dispiace di dirlo in sede di discorsomusicale, è quella dell’emozione intellettuale. Se io dovessi dire quale è il risultatoche io ricerco, nei confronti dello spettatore o fruitore di un qualunque tipo di miotesto — che sia la lirica, il romanzo, il teatro, e naturalmente la saggistica, direi cheè un tipo di emozione intellettuale, cioè un tipo di emozione fortemente armata insenso critico e quindi molto lontana da quello almeno che oggi si intendecomunemente quando parliamo appunto di spettacolarizzazione o peggio disimulacrizzazione, e finalmente di immaginario collettivo. [...]

Il titolo originale della conversazione (in Musica/Realtà, n.4, pp. 21-37, Bari 1981), di cui si riproduce la prima parte,era: Critica spettacolare della spettacolarità

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CECILIA BELLO MINCIACCHI

«Vociferazione» e «discorso ininterrotto»: aspetti testuali nelle prime collaborazioni di

Berio e Sanguineti (1961-1965)

Passaggio e Laborintus II

«Il mio sogno era scrivere musica, e scrivo parole per risarcimento: è un surrogato, un Ersatz1». Questo confessava Sanguineti in una conversazione del 1988, sollecito a dire che la sua non era affatto una battuta. Per lui lavorare con i compositori, e segnatamente con Berio, ha rappresentato «la realizzazione di un sogno2», la possibilità di delegare in tutta felicità quello che non sapeva fare in prima persona. E mai risarcimento deve essere stato più appagante, per Sanguineti, di quando ha scritto parole per Berio, cooperando attivamente nel disegno di un progetto comune: opere di parole e musica,

1. Edoardo Sanguineti, in Franco VAZZOLER, La scena, il corpo, il travestimento. Conversazione con Edoardo Sanguineti, in «L’immagine riflessa», XI, 1988, poi in E.SANGUINETI, Per musica, a cura di Luigi Pestalozza, Milano-Modena, Ricordi-Mucchi, 1993, pp. 187-211: 189. 2. Idem.

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Le modalità compositive del catalogo, del montaggio e dell’inserto erano condivise da Berio che con Sanguineti ha sempre dimostrato grande consonanza ideologica e metodologica. In una lettera del 26 aprile 1965 scrive Sanguineti: «godo che tu possa sviluppare la tua tendenza all’inserto». Altrove Berio, parlando del lavoro svolto in collaborazione con Sanguineti, scrive che il catalogo è l’unica forma, anzi l’unico genere letterario che «refuses any possible formalistic approach of the type that made the experience of opera possible64». A questo si aggiunga quanto Berio scrisse nella nota per il programma di sala dell’esecuzione del 1968 a Spoleto:

Il principio del catalogo coinvolge anche alcuni aspetti della struttura musicale infatti Laborintus II è anche un catalogo di riferimenti (non citazioni) a Monteverdi, Stravinsky e modi di esecuzione tipici del jazz. Le parti strumentali sono spesso sviluppate come una estensione delle azioni vocali delle tre cantanti e dei mimi-attori. Un breve inserto di musica elettronica [...] è concepito come estensione dell’azione strumentale. Parte integrante della struttura musicale del lavoro sono i diversi gradi di intelligibilità del testo: le parole singole e le frasi talvolta sono percepibili come tali, tal’altra come “timbri” della struttura sonora globale. Laborintus II si configura come discorso ininterrotto (la voce umana vi è

64. Questa frase di Berio si può leggere in un manoscritto inedito alla Paul Sacher Stiftung catalogato come [Laborintus II], 1996 (testo di una conferenza ad Harvard): «The texture of the elements involved becomes so rich that at a certain moment the “catalogue” seems to be the only possible verbal form to order it. [...] The nature of the text is such that there are certain moments where Dante “sounds” like Sanguineti and Sang[uineti] like Dante: the litterary form [catalogue] (if one can use that word) refuses any possible formalistic approach of the type that made the experience of opera possible». L’estratto mi è stato segnalato da Angela Ida De Benedictis, che ringrazio.

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«Vociferazione» e «discorso ininterrotto»: aspetti testuali nelle prime collaborazioni di Berio e Sanguineti (1961-1965)

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sempre presente, in vari modi e con varie funzioni), una sorta di theatrical speech, una “conferenza” a più livelli, una eterofania di “arie”..., la cui struttura musicale perfettamente determinata, suggerisce di volta in volta diversi modi – reali o virtuali – di drammaturgia.65

Fin dalle prime collaborazioni, i punti di incontro più forti e significativi tra Berio e Sanguineti sono stati sostanzialmente tre: il dialogo politico – i soprusi sociali e culturali in Passaggio, l’esibizione delle merci-feticcio e della loro volgare tirannia in Esposizione, la condanna dell’usura in Laborintus II –; il riuso della tradizione precedente in qualità di riferimento e insieme di materiale da montare, compresa la derivazione da ambiti storici e stilistici e da generi tra loro in attrito, e questo vale tanto per i riferimenti testuali quanto per quelli musicali; il trattamento della voce e delle voci nella loro interrelazione, ovvero la vociferazione e la gestualità vocale. La vociferazione è una delle maniere privilegiate in cui il testo di Sanguineti, e il testo in genere, è stato trattato da Berio. All’interno di una più ampia tendenza alla vociferazione, come si vedrà più avanti, nelle prime collaborazioni Berio ha lavorato sui testi di Sanguineti soprattutto in tre modi: lasciando il testo perfettamente intellegibile, chiarissimo e scandito (parti affidate allo speaker66 – fig. 3); rendendo il testo non chiarissimo ma

65. Luciano BERIO, Nota per il programma di sala della prima esecuzione in forma scenica di Laborintus II, Teatro Caio Melisso, Spoleto, 11 luglio 1968, in E. SANGUINETI, Per musica, op. cit., p. 66. 66. Si veda quanto scrive Sanguineti a Berio nella lettera datata «6 febbraio 1965»: «è anche vero che un recitar cantando, inventato per uno “speaker”-cantante, sarebbe cosa d’oro (immagina, tanto per dire, una specie di schönberghismo devastato da Berio)».

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ancora decifrabile (parti affidate al coro e all’orchestra o solo al coro con una sovrapposizione non del tutto confusa perché magari slittante, sfasata, ma almeno in parte intellegibile – fig. 4); facendo in modo che il testo risulti non decifrabile nelle sue componenti, ovvero non intellegibile nei suoi singoli significati verbali (parti di testo affidate a verticalizzazioni secche, a partenze simultanee di frasi diverse, fermamente sovrapposte anche in un insieme di lievi sfasature, così da creare un blocco fonetico dominante sul nucleo semantico – fig. 5).

Fig. 3: Luciano Berio, Laborintus II, battute 4-8 (pagina 6), per voci strumenti e registrazioni (1965), Universal Edition 13792, London 1976, p. 1. copyright 1976 by UE SpA Milano assigned to Universal Edition A.G. Wien (per gentile concessione).

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Fig. 4: Estratto testo parlato (ripoduzione facsimile senza le altre parti) da pagina 26: Luciano Berio, Laborintus II, per voci strumenti e registrazioni (1965), Universal Edition 13792, London 1976, p. 1. copyright 1976 by UE SpA Milano assigned to Universal Edition A.G. Wien (per gentile concessione).

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Fig.5 : Estratto testo parlato (ripoduzione facsimile senza le altre parti) da pagina 2: Luciano Berio, Laborintus II, per voci strumenti e registrazioni (1965), Universal Edition 13792, London 1976, p. 1. copyright 1976 by UE SpA Milano assigned to Universal Edition A.G. Wien (per gentile concessione).

L’asse portante delle opere nate in collaborazione tra Berio e Sanguineti è un discorso ininterrotto di voci umane, con tutta la fisicità che la vociferazione può dare alla parola. In latino vociferare o vociferari (vox + fero) significa ‘enunciare con forza’, ‘gridare’, ‘vociare’, ‘strillare’, ‘gridare a gran voce, concitatamente’. Molti i luoghi reperibili in Lucrezio, tra questi: «carmina... vociferantur» (sono ‘canti’ che ‘risuonano’, ‘echeggiano’, ma anche ‘canti’ che ‘svelano’, De rerum natura, I, 731-732); o «aeraque quae claustris restantia vociferantur» (è il ‘bronzo che resistendo ai catenacci rimbomba’, De rerum natura, II, 450) o anche «simul ac ratio tua coepit

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vociferari / naturam rerum» (‘non appena la tua dottrina iniziò a proclamare, a mettere in chiaro, questo sistema della natura’, De rerum natura, III, 14). Ma vociferare può indicare anche, in epoca più moderna, una sovrapposizione continua e mossa, un parlottìo simultaneo, un raccontare e uno sparlare, anche, brulicante. Sanguineti, che amava il plurilinguismo, il montaggio e le contaminazioni; che amava mostrare, rendere chiare le cose proprio attraverso accostamenti e contrasti, parlava della musica di Berio come di una «vociferazione».

In una delle ultime conferenze su Berio, nel 2008, Sanguineti tracciando un affettuoso ritratto del suo Berio – «un mio ritratto del mio Berio» – tornerà proprio su questo punto:

Mi è accaduto di enunciare una volta un paradosso se non troppo, ma non troppo, uno pseudo-paradosso direi, e lo avrò anche replicato, come accade negli anni, che potrebbe esprimersi così: «Se l’uomo non fosse un animale vocale, Berio non sarebbe mai diventato un musicista». Intendevo dire, in modo forse più inaccoglibile che stravagante, che Luciano è in essenza uomo di musica umana, musicista della vox umana. E dico vox, non canto, è ovvio: dico rumore vocale, rumore boccale. Insomma, è mia convinzione che il suo lavoro sia integralmente, anche nelle più rigorose e pure strumentalmente tra le sue composizioni, tale che gli strumenti vociferano. Berio è stato un musicista per eccellenza vociferante.67

67. Edoardo SANGUINETI, Quattro passaggi con Luciano, in corso di stampa, op. cit.

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A questo brano posso aggiungere che di pochi anni prima, del 2005, è un racconto di Sanguineti, l’ultimo edito in vita, intitolato, propriamente, Vociferazioni e che oggi a me sembra una suggestione memoriale forte, che mi piace legare, anche rischiando nell’interpretazione, anche solo in eco, proprio al vociferare di Berio. Del resto l’incanto del rimando, per quanto assolutamente indiretto, è pur possibile, se solo pensiamo all’amore che legava Berio e Sanguineti, come ricorda in modo molto toccante Talia Pecker Berio68. In questo racconto, Vociferazioni, cinque voci, cinque protagonisti si presentano in successione, componendo cinque micro-racconti. Sono personaggi di un affresco, il ciclo dei mesi nel castello del Buon Consiglio a Trento, da cui Sanguineti sceglie il mese di ottobre, che è peraltro il mese in cui è nato Berio. I cinque personaggi portano, ciascuno, il semplice nome di una vocale. C’è d’altro canto un interessante passaggio nella partitura di Laborintus II in cui le voci pronunciano, a volte sovrapponendosi e a volte sfasandosi, solo le cinque vocali in un gioco di pura articolazione fonetica (entrambi gli esempi, voci sovrapposte e sfasate, fig. 6).

68. Per inaugurare i lavori della giornata di studio Il teatro musicale di Luciano Berio. Passaggio e dintorni, Venezia, Fondazione Cini, 25 settembre 2010, Talia Pecker Berio ha rievocato la corrispondenza e l’intesa intellettuale tra Sanguineti e Berio in modo tanto bello quanto fulmineo citando una frase pronunciata da Sanguineti nel convegno di Siena del 2008 – «io e Luciano eravamo innamorati» –, e un’affermazione di Luciano Berio – «Ho sempre amato Edoardo Sanguineti di vero amore, di quel sentimento globale e immanente che anche i poeti, a dispetto dei loro canzonieri, hanno difficoltà a descrivere» – riportata nell’Album Sanguineti, a cura di N. Lorenzini ed E. Risso, Lecce, Manni, 2002, p. 20.

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«Vociferazione» e «discorso ininterrotto»: aspetti testuali nelle prime collaborazioni di Berio e Sanguineti (1961-1965)

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Fig. 6: Estratti testo parlato (ripoduzione facsimile senza le altre parti) da pagina 28 (lettera S) et pagina 29 (lettera R): Luciano Berio, Laborintus II, per voci strumenti e registrazioni (1965), Universal Edition 13792, London 1976, p. 1. copyright 1976 by UE SpA Milano assigned to Universal Edition A.G. Wien (per gentile concessione).

Nel testo di Sanguineti le voci si presentano in successione, si descrivono in modo un po’ frammentario, parlano del loro lavoro, della loro posizione nell’affresco, raccontano di se stessi, e degli altri, cose a volte un po’

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contraddittorie, sono un po’ «tutti confusi». Rappresentano una pluralità di voci parlanti all’interno della scena, una sequenza di voci che alla fine esita, concettualmente, in brulichio, in diversità di prospettive, di identità (si veda più avanti il nitido e problematico gioco io/tu). Personaggi esposti in un affresco, immobili, muti, prendono carne: sono da Sanguineti esposti in voce. Il testo è tutto, interamente, fatto da voci.

La conclusione, allora, può essere affidata a due passi da questo racconto, due passi che, oltre ad essere emblematici della sensibilità di Sanguineti per la vociferazione, chiudono virtuosamente il circolo e possano essere letti, per suggestivo fascino, come un omaggio di Sanguineti a Berio, e nostro ad entrambi:

E non ci sono che storie complicate, ti dico. Perché quando dico io, io, non dico niente, ancora. Diciamo che vocifero un mio vociferare, soltanto. Se dico che è ottobre, mettiamo, è che io dico che è ottobre, appena. Ma non è che è ottobre veramente, magari. È che io dico che è ottobre appena. È soltanto che io vocifero, allora. E allora tu puoi metterti lì che dici che vuoi sapere chi è lì che vocifera. E chi vocifera, quello può essere tutto, cioè chiunque, cioè tutti. Puoi essere tu, anche. È chiaro, anzi, che sei tu che dici che io dico che è ottobre, forse, mettiamo. Anzi, te lo metti tu, lì. E sei tu che dici che noi mettiamo che sono io che dico, vociferando, che è ottobre.

[...]

È che ci sono tanti e tanti modi di vociferare, in un io, e cioè in tanti ii diversi, in tanti ii rimescolati come a caso, come si rimescola un mazzo di carte, in tutti i tanti ii che siamo, come capita in te, se ti capita, e come capita in me, in tutti gli ii, quando gli capita. E adesso ti avverto, io, che io smetto di vociferare, tra un momento. Io sono un io taciturno, allora,

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«Vociferazione» e «discorso ininterrotto»: aspetti testuali nelle prime collaborazioni di Berio e Sanguineti (1961-1965)

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tanto per dirti qualche cosa, dicendo ancora, e per farmi una mia ultima vociferazione, prima di essere un io che non ti vocifera più, a te, almeno, se non altro. Ma è poco, ma sì, lo so. Ma un io, se tu ci stai attento, è proprio quasi un niente. No, che è poco più di niente, piuttosto. Ma volevo poi dire, invece, che è poco meno, ecco. Fine.69

69. Edoardo SANGUINETI, Vociferazioni, in Id., Smorfie. Romanzi e racconti, Milano, Feltrinelli, 2007, pp. 409-421: 419-421.

in La distruzione da vicino. Forme e figure delle avanguardie del secondo Novecento(Nocera Inferiore, Oèdipus, 2012)

in "La distruzione da vicino. Forme e figure delle avanguardie del secondo Novecento"(Nocera Inferiore, Oèdipus, 2012)

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E.S.

La messa in scena della parola(1982)

La musica vocale, ha dichiarato Berio una volta, è una “messa in scena dellaparola” . E in altra occasione ha affermato che gli interessa in quanto mima edescrive “quel prodigioso fenomeno che è l’aspetto centrale del linguaggio: ilsuono che diventa significato”.

Incominciamo dalla seconda affermazione, in cui, per così dire, la parolanon è ancora data, e possiamo ancora situarci dinanzi al suono umano informe.Credo che Berio sia stato affascinato sempre, da sempre, dalla forza espressiva eimpressiva che, nella comunicazione intersoggettiva, possono acquistare i segnivolontari e involontari di cui è portatrice l’emissione vocale preverbale, dal gemitoal colpo di tosse. È questo grado zero (anzi, sottozero) del linguaggio, che sipotrebbe definire puro rumore orale, puro gesto sonoro, questo spazio cosìresistente alla notazione scrittoria, e di così basso livello convenzionale, questoaspetto non articolato della vocalità, quello in cui tuttavia affonda le proprie radiciogni discorso possibile. L'animale uomo, del resto, ci appare naturalmente capace,originariamente, di una sterminata gamma di versi istintuali e spontanei, tra iquali selezionerà, disciplinandosi, il proprio limitato codice fonetico. E sarà tantodisciplinato, da precludersi infine, a selezione avvenuta, il recupero integrale diquello strumento sonoro di partenza che è il suo corpo medesimo. E a un talestrumento, per molte corde, potrà regredire soltanto, e per lo più con fatica, apartire dalla competenza esecutiva selettivamente raggiunta, con le propriedeterminazioni e i propri limiti. Tutto questo non meriterebbe forse grandeattenzione, se non emergesse subito un tratto capitale in questo aspetto delprocesso di umanizzazione dell’uomo. Ed è che la vocalizzazione primaria èassunta, immediatamente, come significante, e viene così in partenza socializzata.

Al verso umano primitivo si risponde con parole umane, l'enfant sauvage,nel senso in cui tutti lo siamo, nascendo, è già immesso, a partire dal suo primogesto sonoro, entro il tessuto generale del dialogo. Qui non voglio fermarmi,naturalmente, sopra quella simulazione di dialogo che l’uomo può instaurare, e ineffetti instaura, con gli animali, e con lo stesso “paesaggio sonoro” in genere (ilsoundscape di Schafer), e sopra la donazione di senso che egli effettua, al riguardo.Sono cose che ci condurrebbero troppo lontano, ma che è necessario almenoevocare. Voglio rivolgermi subito, piuttosto, ai luoghi estremi, e più tipici, di unesperimento come A-Ronnne, dove il doppio processo, di innalzamento dal suonoal senso, e di abbassamento dal senso al suono, attraverso un perpetuo giuoco dianalisi e di sintesi, di composizione e di scomposizione, di strutturazione e didestrutturazione della parola, modellizza il decorso generale dell’opera, traesercizio fonetico e esercizio fonologico. Sono infatti proprio tali luoghi di confine,quelli che decidono, al tempo stesso, il paradigma di fruizione corretta dellacomposizione (di esecuzione e di ascolto), e il processo di articolazione deldiscorso sonoro. Da un lato, infatti, è proprio a questa zona indecidibile, tra suonoe significato, che occorre mirare, continuamente, e d’altro lato è il raccontò sonoro,di accesso àl senso e di uscita dal senso, che fonda la trama, l'intreccio, efinalmente il significato oggettivo dell’opera. I significanti acquistano senso allaluce di questo metasignificato dominante, di un tale percorso e di una tale

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oscillazione polare. In causa, insomma, è una esplorazione delle zone critiche incui il segno verbale si crea e si cancella, ovvero di alcune situazioni, assunte comemoduli esemplari, in cui rumore vocale e carica semantica si convertono e siscollano, si incrociano e si compattano. A-Ronne fa, della vocalità musicale, anzidella vocalità umana, il proprio oggetto, problematizzando la dicibilità del senso, eil senso della dicibilità.

Ho puntato su A-Ronne, non tanto perché, come suo responsabile testuale,mi sento più autorizzato a discorrerne, ma perché mi pare sia giusto scorgere inquesta composizione il luogo centrale in cui la vocalità beriana si rivela e confessain tutti i suoi tratti specifici. Spazio di una laboratorialità privilegiata, non è tantoun “documentario” sopra un determinato materiale verbale, quanto un“documento” rivelatore intorno all’idea di voce umana, in Berio. Che l’esclusionedella musicalità strumentale, in una simile prova, renda un tale documento piùpuro e più trasparente, è ovvio. La deliberata riduzione di campo permette aglielementi posti a reagire nell’orizzonte dell’osservazione inventiva un supplementodi lucidità - e non si deve dimenticare l'originario lavoro di registrazione, affidatonon a cantanti, ma ad attori. Ma questa riduzione è soltanto un aspettodell’esperimento. E penso alla fondamentale indiscriminazione, per contro, travoce e strumento, nel linguaggio di Berio. Quando Cathy Berberian, narrando dellanascita di Circles, raccontava che “les instrumentistes devaient produire des sonsqui ressemblaient au mot que je disais, et moi je devais rapprocher le son du motprononcé du timbre des instruments” , così che “le ‘Sting’ du début, par exemple,ressemble exactement au son de la harpe”, discorreva giustamente, subito, di“interaction”, di “une sorte d’échange permanent”, di “reciprocité”, di “challenge”,evocando l’altra faccia, assolutamente complementare a A-Ronne, della ricerca diLuciano. Suono “organico” e suono “strumentale” sono invitati a giocare senzagerarchizzazione determinata, in una sorta di aperta e indefinita concorrenzialità.Se raccordiamo e integriamo Circles (1960) e A-Ronne (1974), scegliendo due“points on the curve to find”, non dirò a caso, ma con sufficiente arbitriocampionativo, non ricostruiamo, propriamente, una linea storica di sviluppo, madecidiamo, in ideale sincronia, due momenti che si spiegano e si completanoreciprocamente. E dicono, in sostanza, una cosa, la medesima cosa. Perché sicapisce che la “messa in musica” della parola non potrà che essere concepita, comeda ulteriore dichiarazione d’autore, che come una forma di “trascrizione”, e senzaalcuna cautela immaginosa o metaforica. Mettere in musica significherà dunqueimmettere l’espressione verbale entro “una macchina ulteriore che amplifica etrascrive il senso su un diverso piano della percezione e dell’intelligenza”. Nellainterminabile querelle, rappresentata in re, prima ancora che teoricamente,dall’infinita vicenda della relazione di parola e musica, la posizione di Berio apparecosì, trascendendo la sua stessa vicenda personale, come la posizionenaturalmente paradossale su cui si fonda la possibilità stessa della comunicazionee dell’espressione musicale. È in causa la fiducia nella semantizzazione del rumorein figura di suono. E questo postulato, o questa illusione (ma qui non fa differenza)è quella per cui il suono ha senso, e un senso non meno determinato, anche sediversamente determinato, di quel senso che riposa semanticamente nel discorsoverbale (tanto che, se illusione esiste, l’illusione sembrerà gravitarecompletamente, a questo punto, sopra lo scorporamento indotto dalla scrittura). Sicapisce che, a queste condizioni, la “messa in musica” della parola sia“trascrizione” donatrice di senso (e che insomma scavalchi, in qualche modo, l’”iscrizione” scrittoria, gravitando sopra la registrazione notatoria del suono). Èl'immissione della materia verbale entro una “macchina” (ma per una macchinaorganica e corporea), quella che riuscirà, non tanto amplificatrice e moltiplicatrice

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di significati, ma istitutrice, radicalmente, di senso. La parola del “paroliere” e del“librettista”, se possiede un senso “linguistico”, possiede pure da sempre, comeogni parola umana, anzi proprio come ogni umano rumore, un senso “musicale”.Tutto quello che appartiene alla sfera della connotazione espressiva, tutto ilconcreto vissuto linguistico (che la scrittura non può che descrivere mediatamente,per circuito denotativo), è la notazione musicale che può assumere come il propriospecifico verbale (e, più latamente, come proprio specifico sonoro). Se la scritturaletteraria fissa il senso dell’enunciato, in termini riduzionalmente denotativi, lascrittura musicale ne controlla direttamente la connotazione. E la “trascrizione”beriana, in sostanza, non significa altro che questo. Di fronte al muto materialeverbale, la notazione musicale decide e definisce quella misconosciuta dimensionesemantica, acusticamente articolata e declinata, che la civiltà della scrittura hadepresso, sempre più fortemente, in favore di una logica semantica riduttivamenteconcettuale, astratta, scorporata. In ultima istanza, la donazione e la dotazione disenso, che dipendono dalla “messa in musica”, sono da risolversi,antropologicamente, in una restituzione di senso. Si salda un debito.

Ma Luciano non parla, propriamente e soltanto, di “messa in musica” dellaparola, ma, lo abbiamo visto a principio, di “messa in scena”. Si tratta di vocalità (edi strumentalità) corporea, e la corporeità vocale è iscritta in un sistema più vastodi significati corporei, nel lessico generale della gestualità. Nel momento stesso incui, con la musica ex machina, a livello generativo come ricettivo, deperisce ilsignificato dello strumento come strumento di un corpo, come protesi corporea seosiamo dire, e si rende sintetizzabile la voce stessa, una restituzione di senso nonpuò che rivolgersi con forza a riportare, con l'esecuzione in genere, l’emissionevocale in particolare, alla sua dinamica base somatica, alla “scena”. Lariproducibilità sonora, anzi la producibilità, incide negativamente sopra lacontingenza concreta dell’esecuzione, mette in oblio che la musica non è soltantouna realtà per l’orecchio, ma anche, assolutamente, per lo sguardo. Ora, l'atto diparola, in situazione, è prima di tutto gesto corporeo. E se la “scena” restituisce,come spazio del gesto sonoro, l’integrità del messaggio verbale, i suoi sensi plurali,sarà proprio la codificazione musicale quella che potrà fissare, storicamente, iparametri della scena verbale.

Come è noto, la teatralità beriana precede di molto, così idealmente comecronologicamente, l’interesse per il teatro propriamente detto. L’opera in musica,la destinazione al palcoscenico della composizione, la narrazione drammatica, nonsaranno allora che i casi più pronunciati e conclamati di una tensione verso quellamusica come spettacolo che è essenziale al suo vero discorso sonoro, E se questopuò riuscire rilevante, più largamente, per tutto il nostro uso della musica,soprattutto nell’età della sua producibilità e riproducibilità ex machina, a cuiBerio, non a caso, ha portato un'estrema attenzione pionieristica, e sulle cuipossibilità è tornato più volte, nel tempo, a interrogarsi creativamente, convienepure sottolineare che, sul piano della tradizione melodrammatica, è infine questoatteggiamento di consapevole e calcolata spettacolarità radicale, quella chedetermina realmente e irreversibilmente la crisi dell’opera come genere pattuito estrutturalmente riconoscibile, e così anche, per contro e in parallelo, la suapossibilità di assunzione allusivamente straniata. Il metaoperismo.di Berio, ledefinizioni, precisamente, di “messa in scèna” e di “azione musicale” , non giovanotanto alla designazione di questa e quella specifica composizione, quanto aindicare la costellazione centrale in cui, presso Berio, parola e musica vengono acontatto, vengono in scena.

Quasi come in un’allegoria, nell’opera più citazionalmente impegnata a unconfronto con quello che, per il nostro compositore, è il melodramma per

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eccellenza, il Trovatore verdiano, la determinazione del genere diventa, con lamediazione di Calvino, lo sappiano o no gli autori, un titolo, poiché la “vera storia”è iscritta nei gesti sonori, vocali e strumentali, che si esibiscono in scena e inorchestra. Ed è ancora più sintomatico, forse, che i tre atti di Opera valgano,latinamente, quasi in parodia, come un neutro plurale. Proprio da ultimo, aproposito di Un re in ascolto, Berio indicava nella impossibilità dell’opera il temadi questa sua opera estrema, aggiungendo che precisamente e soltanto nella formadell’opera questa impossibilità può essere dichiarata e scrutata compiutamente,può essere “messa in scena”. E tuttavia, l’astuzia di Berio, per cui il melodramma siconverte nella propria negazione (in modi che, per altro, il nostro secolo haconosciuto in parallelo, per tutte le forme teatrali, e per il romanzo, e per la poesia,e per tutti i generi, genericamente), è chiaramente esposta a quella anche piùastuta rivincita del genere, che si conserva, e persino si rafforza, nella proprianegazione medesima. Non è affatto un accidente se, in questa chiave, di una resa odi una conquista di un'opera vera, di un vero melodramma, Berio ha ottenutoconsensi critici tutt’altro che marginali. È certo, ad ogni modo, che il grande temadella “scena” straniata, che percorre un po’ tutto il Novecento, sembra ormaiorientarsi, e in ogni modo lo deve, verso modi di impossibile riconversione, diimpraticabile recupero.

Forse è un’indiscrezione, ma so pure che la preoccupazione attuale di Berio,oggi, trova significativamente il suo centro, sul terreno dell’opera, nel problemadella fossa orchestrale, nello storico emblema del golfo mistico, che è appunto ilsegno macroscopico della grande illusione incantatoria, e della separatezzamanifesta e invalicabile tra il visibile e il gestuale della vocalità e l’occulto e iltruccato dello strumentale. Se questo è il nodo presente della “scena” beriana,ancora una volta non può ridursi a fatto personale, a accidente privato. È un nodoche le cose stesse hanno imposto, e che, in qualche misura, concerne così noi tutti.

(in: Ideologia e linguaggio, nuova edizione ampliata, a c.di E.Risso, Milano, Feltrinelli, 2001)

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Praticare l’impossibile(1996)

Volendo tentare di riassumere in una proposizione sola il senso ultimo dellegato culturale di John Cage, trascurando gli sviluppi tutt'altro che semplici elineari delle sue posizioni, nel tempo, e cercando di forzarne unitariamente ildecorso, credo che si potrebbe ricorrere con vantaggio a una dichiarazione che eglistese, in margine al suo A Year from Monday, nel '63 (e che fu tradotta, nel '71, daRenato Pedio, nell’edizione italiana di Silenzio): “Vorrei che le nostre attivitàfossero più sociali, e sociali in modo anarchico” .

Cage era ben convinto, e lo dichiarò molte volte, che i grandi idealidell’anarchismo filosofico del secolo scorso, in America, ideali ai quali facevaspecificamente riferimento, erano tramontati senza possibilità di recupero, senzasperanza di ritorno. E tuttavia, si sa, Thoreau fu per lui un punto costante eirrinunciabile di riferimento, in particolare per l’idea che la migliore formaauspicabile di governo rimanga la soppressione di ogni governo, la morte dellostato, e, se non altro per la nozione capitale di disobbedienza civile, il modelloideologico prediletto. Al di là di ogni anarchismo politico, in ogni caso, mantenevatutta la sua forza, per Cage, quello spirito anarchico che la cultura e l’arte erano ingrado di conservare e rilanciare e approfondire senza tregua. La missione delpoeta, per Cage, era, in essenza, la riproposta continua del valoredell’insubordinazione e della rivolta. Se l’anarchismo può apparire, ormai,politicamente impraticabile, è praticabile artisticamente, e l’esercizio estetico, ingenerale, fa corpo con la pratica concreta dell’anarchia, che è il suo esclusivocontenuto concreto di verità. E non si tratta affatto di una qualche sublimazionecompensatoria, di un risarcimento dimidiato sul terreno intellettuale. Al contrario,quello che veramente importa è conservare intatto, anzi accrescere di continuo,nell'arte, il nucleo vivo e insopprimibile di quel messaggio civile,operando sopra lamente degli uomini attraverso i suoni e le immagini, le parole e i gesti, così daricondurli, oltre ogni sospensione e rottura, empirica e provvisoria, alla volontà ealla capacità di modificare le proprie convinzioni e convenzioni, le idee e lepercezioni, reinstaurando la fedeltà a quella visione del mondo che l’anarchiapropone, e ristrutturando il consenso a quell’utopia, reinducendone la tangibilepraticabilità.

Quando Cage insiste sopra il superamento di qualunque divorzio e distanzatra l'arte e la vita, non intende per nulla militare in favore di un’estetizzazionedell’esistenza, come accadrà non poche volte presso non pochi suoi ammiratori eseguaci, forse soprattutto sul terreno musicale, e forse soprattutto in Europa. Alcontrario, il problema è quello di riversare sopra il vissuto quotidiano, nell'azionesociale di ognuno, quanto l’arte addita in forma simbolica ma reale, fornendomodelli sperimentabili di nuove relazioni con gli uomini e con le cose. Non sarebbené importante né appassionante sforzarsi di modificare l’arte, di innovare illinguaggio, se non ci fosse, più che la speranza, la certezza che, modificando l’arte,si modifica la mente, e si può così avviare una vera e progressiva rivoluzione deicomportamenti sociali, onde pervenire a mutare il mondo, a cambiare la vita.

L’arte, anzi, nel momento stesso in cui l’immediatezza politicadell'anarchismo sembra irrealizzabile, non offre un semplice surrogato tattico, maaddita una strategia superiore. Al miraggio di un sovvertimento frontale si puòcontrapporre, se così possiamo dire, una tenace e non violenta guerra di posizione.

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Thoreau può incontrarsi con Gandhi come con Mao. E a Mao si richiama volentieriCage, puntando preferibilmente, è naturale, sopra il momento della lunga marcia,assunta come paradigma di una I accorta rinuncia all’urto conflittuale diretto, invista di una più controllata arte di rivincita nel ripiegamento, di trionfo neltemporeggiamento.

Dichiara Cage, infatti: “La cosa decisiva che penso influenzi il mio modo diagire più di ogni altra è l’interesse sociale, e così cerco di non scrivere un pezzo ameno che non abbia una sua utilità in quanto esempio di una società”. È ancoraMao, per altro, che è evocato a testimoniare per una disposizione al bene, nellemasse, che soltanto una coazione opprimente a contegni forzosamente competitivie conflittuali può pervertire e corrompere. In termini di stretta pedagogia, giàl'emulazione scolastica è, nell’orizzonte formativo, l’avvio di quella corruzione difondo che una società lacerata e divisa impone fatalmente agli uomini. Si possonoindiziare di utopismo, certo, anche molti tratti delle proposte di Cage, su questoterreno, ma non si può negare la chiarezza assoluta del principio che regola, adogni passo, il suo progetto artistico: “L’intera struttura sociale deve cambiare, cosìcome sono cambiate le strutture nelle arti”. Una poetica ha senso se è un progettopolitico, allegoricamente organizzato, sperimentalmente esemplificato e agito.

Per essere più precisi, e più fedeli, intanto, al lessico di Cage, convieneavvertire che egli dice di non avere interesse, propriamente, per l’impegno politico,in estetica, ma per l’impegno sociale. Cage tende anzi, ripetutamente, anche inmomenti tra loro diversi e lontani, a opporre alla politica, come pratica violenta, eperciò compromessa e contaminata alle radici, la socialità, e prima di tutto lasocialità artistica, come pratica ideologica di consenso diffuso e profondo, e sivorrebbe dire molecolare, che attraverso il messaggio effettuale delle operemusicali e pittoriche, letterarie e coreografiche, rende egemone, per gradi, un’ideadi comunità altra e migliore, liberata dai conflitti d’interesse e di dominio, dalleopposizioni di classe. E non si tratta di un’illusione candidamente irenica. Cage èconvinto che la forza della cultura sia più potente di qualunque costrizione, inultima istanza, e che, per quanto sia operazione di lungo aggiramento e di tenacescavo, sia destinata, nel tempo, a riuscire comunque vittoriosa. Per eccellenza,l’esperienza dell’happening, nell’elaborazione di Cage, così distante da troppideformanti tentativi di imitazione malintesa e di replica incomprensiva, assume ilvalore esemplare di esperienza collettiva collaborante, di conquista disciplinata diuna superiore armonia di menti associate: è la lunga marcia dell’organizzazionedell'anarchia liberata.

Anche per questo punto, è necessario prestare attenzione al vocabolarioconcettuale di Cage, per evitare qualche facile e non di rado banalizzato equivoco.Il problema dell’interpretazione, per Cage, è noto, è un problema cruciale. QuandoCage oppone l'aleatorietà, all’improvvisazione, intende rilevare il fatto, anchetroppo facilmente verificabile, che, improvvisando, in musica come in qualunquealtra forma di azione, estetica e no, si ricorre, in realtà, irresistibilmente,fatalmente, alla replicazione meccanica dei propri atteggiamenti consolidati, equindi a stereotipi rassicuranti e inerti, perdendo ogni pulsione creativa, ognistimolo innovativo, e cedendo a una stanca quanto vana ripetizione. Il sogno di uninventare irriflesso, in nativa spontaneità e in sgorgo sorgivo, si rovescia dinecessità nel calco passivo del passato, nelle risposte precondizionate dalleconsuetudini e dal ricordo. Cage può persino fare appello, a un certo punto, inmateria, allo spirito di competizione, e a una nozione di improvvisazionecompetitiva, di cui ritrova esempi nella cultura indiana, avendo in mente un tipo dicompetizione collaborante, che si esprime come stimolazione reciproca verso unimpiego intensificato delle diverse capacità personali, e insomma, in maniera

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apparentemente paradossale, e persino ossimorica, verso una emulazione solidale,un conflitto cooperante. E siamo così alla questione centrale del pensiero di Cage,e da Cage elaborato per lo più secondo le categorie procurategli dal buddismo zen,che vede nel casuale il superamento dell’egotismo desiderante, la sconfìtta dell’ioche opera per porre in atto soltanto le sue avide intenzioni individuali, e che èvincolato al carcere della volontà chiusamente soggettiva, della volontà di potenza.

Uscire dai limiti dell’ego, aprirsi al mondo, aderire al caso con assolutorigore: sono queste, per Cage, le procedure etiche dell'arte. E aleatorietà è libertà,proprio in quanto si oppone radicalmente all’arbitrario, al caotico: in quanto èdisciplina. Afferma Cage, discorrendo dei suoi primi lavori indeterminati:“Quando io dico, ad esempio: ‘Fate un'azione disciplinata’, non sto dicendo: ‘Fatequello che volete’. Eppure questo è esattamente ciò che ora alcune personepensano che dica”. E spiega, allora: “Le libertà che ho concesso non sono state dateper permettere qualsiasi cosa uno voglia fare, ma rappresentano piuttosto degliinviti, rivolti alla gente, a liberarsi dai propri gusti personali e a disciplinare sestessi”. Un agire deistituzionalizzato si pone in perfetta antitesi nei confronti dellesfrenatezze del capriccio e della tirannia di un soggetto che affermiautoritariamente e licenziosamente le proprie pulsioni irriflesse. È invece lameticolosa costruzione di un’autodisciplina che scrupolosamente elaboraun’autolegislazione radicalmente socializzata e radicalmente decentrata neiconfronti dell'io. È la linea che conduce, in emblema, dal mozartianoMusikalisches Würfelspiel alla consultazione archetipica dell’I Ching.

Ma Cage non insiste soltanto sopra l'autoeducazione el’autoregolamentazione che, proposta all’interprete della sua musica, diventa unprogramma pedagogico di significato universale. C’è la difficoltà opposta,incarnata nell’esecutore che, ben lontano dall’abbandonarsi ciecamenteall’arbitrio, che significa, come già si è considerato, un affidarsi inerme e inerte allapigrizia rutiniera, rifiuta la responsabilità di cui deve farsi carico, quale gli èconcessa e, in qualche modo, imposta, e esige piuttosto che gli sia indicatodettagliatamente quello che deve fare, chiudendosi, come in un protetto rifugiorassicurante, nel ruolo, precisamente, del mero esecutore passivo. Parlando diEtcetera (1973), in cui l’interprete può sentirsi vincolato o sciolto da prescrizioni,Cage chiarisce che una siffatta composizione intende rappresentare con empiricaevidenza simbolica, sensibilmente, la presente condizione della società, in cuiemergono, insieme, il desiderio di una responsabile autonomia e il terrore di unarischiosa libertà. Nel caso, Cage mette alla prova e pone a confronto capacità eincapacità di fare uso delle proprie occasioni di azione, di gestire la propriaindipendenza e la propria servitù.

Il fare musica, a questo modo, si configura come una sorta di via regia permodificare sé stessi. Al limite, per Cage, diventare un individuo diverso,diversamente socializzato, comporta l’acquisizione graduale di un'abilità diemancipazione progressiva dalla musica stessa: superare la musica, la musica chesi produce come la musica che altri ha prodotto e va producendo, e pervenire agodere sempre meglio, sempre più liberamente appunto, dei suoni dell’ambiente,delle voci della natura come dei rumori dell’industria. U sogno, o l’incubo, nonso,.della morte della musica, della morte dell’arte, non designa così una perdita, enemmeno, e ancora meno piuttosto, la transizione a una ulteriore condizionespirituale, ma una costante, illimitata estensione delle capacità sensibili e dellestrumentazioni tecnologiche, del godimento e degli artifici. Non saprei dire se Cagepotesse avere in mente il Lautréamont che propone una poesia fatta da tutti, nonda uno, ma so di certo che Cage aveva in mente, fondamentalmente, una musicafatta da nessuno, non da tutti, e ancora meno da uno.

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È chiaro, allora, perché Cage respingesse, più ancora con sdegno che conforza, l'idea di un’arte come autoespressione. L’arte è automodificazione:

e ciò che altera è la mente, e la mente è nel mondo e costituisce un fatto sociale [...]. Noicambieremo in modo meraviglioso se accetteremo le incertezze del cambiamento: equesto condizionerà qualsiasi attività di progettazione. Questo è un valore.

L’arte, così concepita, è la forma piena della capacità di mettersi in giuoco, ea rischio. Non c’è né da manifestare una propria presunta interiorità occulta, né daconoscere una propria supposta natura profonda. Non c’è né automanifestazionené autoconoscenza, poiché c’è, tutt’al contrario, autorinnovamento. Importarivoluzionare se stessi, e non esibirsi né comprendersi. È utile, dunque, “usare laparola ‘comprensione’ contrapposta a ‘esperienza’”. E positiva è l' “esperienza”.Anche a questo riguardo, non so quale ruolo possa avere avuto Dewey, nellaformazione di Cage. Ma per Cage, è sicuro, l’arte è soltanto e sempre “esperienza’’,e “esperienza” sociale. Essa non ha valore né emotivo né intellettivo, non conducea nuovi sentimenti o nuove verità. L'arte arricchisce e approfondisce la prassi.“Non credo affatto - proclama Cage - che comprendere qualcosa conducanecessariamente a farne esperienza.” E avere “esperienza” del mondo, di sé e dellecose, questo importa, perché questo modifica noi e il mondo, e “dobbiamo esserepreparati all’esperienza, non tramite la comprensione di qualcosa, ma piuttostoaprendo la nostra mente”. A questo punto, e a queste condizioni, Cage potràaffermare anche che nell’arte c’è mistero: perché c'è mistero nell’esperienza, che èinesauribile, e che nessuna conoscenza può surrogare, non per altro. E la musica,finalmente, è da usare. La musica, infatti, non ha un senso, ma ha un significato:ha significati che si svelano nel praticarla, nell'usurarla. Come diceva Wittgenstein,e come Cage sottolinea con vigore, “il significato di qualcosa è il suo uso”. Lapoetica di Cage, come poetica dell’esperienza, dell'uso, è una poetica della prassi.Esperienza, uso, prassi d'autore, certamente. È di esecutore. Ma anche, emassimamente, esperienza, uso, prassi di fruitore. L’estetica di Cage, se cosìvogliamo dire, una compiuta estetica della ricezione. Ed essenziale è che il fruitoreusi il lavoro dell’autore e dell'esecutore, perché, anche per questo riguardo, siamodi fronte a un tratto di valore sociale decisivo. Si delinea, in effetti, un percorsonetto “dalla proprietà all'uso”.

Per tutto questo, se Finnegans Wake è “il libro più importante delventesimo secolo” , è perché è un libro “privo di senso”, ma, essendo tale, carico diun’estrema “molteplicità di significati” . Di fronte a questo testo,

siamo liberi di scegliere il nostro percorso, piuttosto che essere costretti a percorrerequello di Joyce. Joyce ha un atteggiamento anarchico nei confronti del lettore e così illettore può agire in totale autonomia.

Nell’85, commentando l’irritazione provocata in gran parte del pubblico,che usciva dalla sala, a un'esecuzione di Muoyce, a Francoforte, Cage notava:

Ho quindi motivo di supporre che il lavoro sia ancora irritante. La gente forse non siaccorge di essere irritata, ma prova tuttavia una grande difficoltà nel prestare attenzione aqualcosa che non capisce. Credo che ci sia una linea di confine tra il “comprendere” e il“fare esperienza”, e molta gente pensa che l’arte abbia a che fare con la comprensione, manon è così. L’arte ha a che fare con l’esperienza [...]. Non è l'esperienza ciò che si vuole.Non si desidera irritarsi, 'è così la gente esce, dicendo che l’avanguardia non esiste. Mal’avanguardia continua, ed è esperienza.

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In tempi come questi, tempi di postmodernità, ritorna particolarmente utilee urgente il richiamo persuaso di Cage alle ragioni irrefutabili della modernità edell’avanguardia. Egli dice:

Penso che la gente abbia sempre sperato che sarebbe finita, ma il guaio è che questo nonaccadrà mai. Il motivo per cui non finirà è rappresentato dal fatto che avanguardia èsinonimo di invenzione, scoperta e cambiamento: e queste sono qualità essenziali chesaranno sempre là a irritare la gente.

Ora, avanguardia significa poi, semplicemente, ‘‘una mente flessibile”. Esorge, e risorge, poiché la storia non è finita, ‘‘come il giorno dalla notte, dal nondover cadere preda del governo e dell’educazione”.

Qui, adesso, non occorre ridisegnare, poiché è assai nota e assai limpida, lacostellazione cara a Cage, costituita dai suoi sodali e compagni. Se in alto, supremocorrelativo ideologico e artistico, può stare Marcel Duchamp, e con lui, in generale,lo spirito di Dada, così come sta, indimenticato maestro, Schönberg, e stannoovviamente Satie e Varèse, Artaud e Joyce, Busoni e Ives, accanto e intorno sicollocano Cunningham e Tudor, Rauschenberg e Johns, e quanti superbamente egenerosamente sono stati magnificati in Silence e in A Year from Monday. Vorreisoltanto rilevare una proposizione determinante, almeno storicamente, che èl’epigrafe indimenticabile delle pagine su Bob Rauschenberg (1961): “A chiunquepossa interessare: I ‘quadri bianchi’ vennero per primi: il mio pezzo silenziosovenne più tardi” (e si allude, s’intende, a 4’33”, che discende dalla serie di ‘‘whitepaintings”). E se non è il luogo opportuno, questo, poiché si punta a un’immagineglobale e unitaria e terminale, per affrontare la questione della genealogia dellapoetica di Cage, non sarà inutile, almeno, rammentare la rivelazione recata a Cagedal giudizio di Stravinskij su Schönberg: “La ragione per cui la musica diSchònberg non mi è mai piaciuta è perché non è moderna” . (E non si può nonpensare, magari per associazione libera, al famoso, se non famigerato Schönberg èmorto di Boulez, 1952, a condizione di rilevare intanto, al minimo, quel giudiziosevero, se non spietato, su Boulez appunto, dello stesso Cage: “Pierre ha lamentalità di un connoisseur. Con quel tipo di mente si può solo avere a che farecon il passato. Non si può essere esperti in ciò che è sconosciuto” – dove sicontiene quella che è forse la più affascinante e la più precisa definizione, pressoCage, e non soltanto presso Cage probabilmente, del ruolo dell’artista: un espertodel non ancora mai sperimentato.)

Ma, a comprendere correttamente la posizione di Cage è essenzialesottolineare l’opposizione che egli instaura e approfondisce, in più circostanze, traDada e Surrealismo. Il principio dell’alea è nettamente posto come alternativoall’automatismo surrealista, e sappiamo perché, dal momento che “l’arteautomatica costituisce un modo per ripiegarsi su se stessi, soffermandosi suipropri ricordi e sulle proprie sensazioni”, come avviene, esattamente, con la cattivaimprovvisazione. Dada è una finestra sul mondo, è l’apertura massima allasperimentazione della realtà, laddove il Surrealismo appare, complice lapsicoanalisi, introversamente chiuso sull’io, sprofondato nell’inconscioindividuale. E sarà pure sintomatico che al “Surrealismo dell’individuo” siopponga, per Cage, quel “Surrealismo della società”, di cui può essere consideratauna forma il New Dada della Pop Art. Non meno coerente e chiarificatore è ilrifiuto che Cage porta nei confronti dell’Arte Concettuale, e la denunciadell'equivoco per cui egli viene talora ascritto tra i suoi anticipatori e promotori,laddove importa, al solito, che sopra il progetto concettualmente intenzionatotrionfi la rivelazione luminosa e inquietante dell’esperienza. Quanto a radicalismo,

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d’altra parte, si pensi alla distanza che Cage colloca tra la propria ricerca e l’operadi Schwitters e Picabia, accusati di essere diventati, a un certo punto, puri artisti, eaccettati come artisti, mentre un Duchamp è riuscito a rimanere, sino alla fine,irriducibile e inaccoglibile ricercatore, inaddomesticabile anarchico.

È dovere dell’artista, finalmente, in questa prospettiva, “nascondere labellezza”. La storia dell’arte, per quanto ha di autentico, è una storia della“liberazione del brutto”, che si tratta di penetrare, di sperimentare, di usare. “Ciòche stiamo cercando di fare - potrebbe essere la conclusione estrema di Cage, lamorale della sua favola - è aprire le nostre menti in modo tale da non vedere più lecose come brutte o belle, ma di vederle esattamente come sono.” È così,precisamente, che Cage apre la strada, per sé, per tutti, al realismodell’avanguardia, e insomma al realismo tout court, in questa nostra modernità. Eil realismo è la meta storicamente naturale per qualunque experiencing mind, perqualunque accepting mind.

Affermare la praticabilità artistica, sociale e etica dell’anarchia significa,dunque, fornire saggi e sensate esperienze della “praticabilità dell’impossibile”. Ècome dire, tornando circolarmente a quella nota di A Year from Monday da cuisiamo partiti, che “il nostro vero lavoro, oggi, se amiamo l’umanità e il mondo incui viviamo, è la rivoluzione”.

(in: Ideologia e linguaggio, cit.)

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Rap e poesia(1996)

Nella tipologia dei rapporti di collaborazione fra poesia e musica ci sono duepolarità fondamentali: da un lato c'è il caso di uno scrittore che, senza pensareassolutamente alla musica, scrive un testo, che un musicista utilizza, perché logiudica adoperabile ai suoi fini espressivi, stimolato oltre che dall'aspetto tematico,dall'aspetto dell'organizzazione linguistica; dall'altro lato esiste invece il caso diuna collaborazione che nasce perché il musicista chiede ad un autore un testo chesia appositamente scritto; poi ci sono i casi intermedi, in cui l'autore propone deimateriali che ha già elaborato e che il musicista trasceglie liberamente. Il miolavoro sul rap con Andrea Liberovici appartiene a questa sorta di terza via: non miè stato chiesto il permesso di musicare testi determinati e nemmeno di scriverneuno per l'occasione, ma piuttosto di collaborare ad un progetto. Io ho proposto varimateriali preesistenti, altri sono stati cercati da Liberovici stesso fra i miei scritti, eci siamo accordati su una relativa libertà d'uso. Credo che questo modellocollaborativo possa essere interessante, poiché non si tratta più né di un'idea natasu commissione, né dell'utilizzazione di un testo concepito al di fuori della musica,ma del lavoro di un musicista su dei materiali poetici che gli vengono messi adisposizione e che può riorganizzare secondo le proprie esigenze.

In realtà, la mia attenzione alle sperimentazioni che coinvolgono musica eletteratura non è nuova. Ho incominciato a lavorare in collaborazione conmusicisti all'inizio degli anni Sessanta, segnatamente con Berio. Berio è forse ilmusicista che meglio incarna la mia idea di collaborazione, che si è prolungata finoad oggi, con episodi qualche volta anche lontani nel tempo, ma senza che mai sirompesse una linea di continuità, anche perché è accaduto che, pur modificandosile nostre poetiche e le forme del nostro linguaggio com'è naturale in una ricerca, cisiamo mossi sempre con qualche simmetria: i problemi, sia di linguaggio poeticosia di linguaggio musicale che si ponevano, presentavano spesso delle analogie,pur nell'ovvia differenza di due modalità comunicative piuttosto eterogenee. ConBerio e con altri musicisti, il lavoro era di volta in volta mutevole, ma aveva lacostante di appartenere sempre a quel genere di musica che consideriamo “grave”,seria, legata al teatro, alla sala da concerto, o anche a soluzioni cameristiche, malontana dalla cosiddetta pop music, vale a dire da una musica di più largoconsumo, che usa modalità di comunicazione popolare, nate o divenute tali.Questo ambito mi ha sempre appassionato, dapprima attraverso le suggestioni deljazz, poi con lo sviluppo del rock e di altre forme più recenti, dalla discomusic alleposse. Oltre a questo interesse specifico, quando sottoposi a Liberovici alcuni deimiei materiali, ero mosso dall'idea, che lui del resto condivideva, che il rap fosseprima di tutto una tecnica evidentemente ritmica e musicale, ma anche una tecnicadel discorso verbale, un modo paradossale per “recitar cantando” , in cuil'importanza del testo è molto forte e permette di utilizzare anche deicomponimenti che non abbiano una preordinata struttura ritmica, ma che sicostruiscono attraverso giochi verbali. Io ho fatto uso, almeno in molti dei mieitesti, dell'allitterazione, della rima ribattuta e questo si prestava bene ad esseretrasformato in rap, con poche modifiche di replica, di iterazione, di variazione.Dopo aver accolto la proposta per un rap, suggerii a Liberovici di andare oltre, dipensare ad uno spettacolo in cui il rap rimanesse la struttura essenziale, ma

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accanto ad esso venissero usati testi musicali tradizionali - per violoncello, adesempio - poi registrati in modo da creare, sia da un punto di vista scenico egestuale, sia da un punto di vista verbale, una grande possibilità di movimentidiversi nelle direzioni più varie. Essendo soddisfatto del risultato ottenuto, lostesso Liberovici pensa ora di curare e ampliare questa forma e creare unospettacolo ancora più ampio, innestando ulteriori elementi (come la canzone oaltre modalità) altrettanto eterogenei rispetto al materiale preordinato. Questolavoro ha quindi una sua struttura già organizzata, ma è anche un lavoro inprogress perché suscettibile, nelle intenzioni del musicista, di continui sviluppi.

Da un punto di vista tematico, Liberovici era poi partito da un soggetto sucui potevo offrire molto materiale: il motivo del sogno; perciò l'ho lasciato libero dimontare i miei testi e di giocare - come io auspicavo che potesse avvenire - sullacongiunzione di parti eterogenee tra loro, ma che in una logica onirica ritrovavanoun loro senso di montaggio. Del resto, molta della pop art, intesa non soltanto nelsenso pittorico, ma di arte pop, nell'accezione in cui si impiega questa parolaquando si parla oggi del folclore di massa, è degna di grande attenzione; e c'è unoscambio continuo, qualche volta consapevole qualche volta inconsapevole, tra leespressioni tradizionali d'arte e le espressioni di massa legate al consumo e allacultura dei giovani. In fondo, si ritrova in questo rapporto qualcosa che latradizione ha sempre conosciuto e che poi ha un po' perso: se si guarda al modo incui la musica del passato ha operato con ciaccone o gagliarde o minuetti o valzer, sivede che tutta la musica più seria, qualche volta persino seriosa, ha utilizzato delleforme di danza che erano consumate contemporaneamente dalla cultura“popolare” del tempo. In seguito c'è stata una scissione o almeno una maggioredifficoltà di relazione tra questi elementi, anche se l'influenza del jazz sulla musicaseria, ad esempio, ha toccato musicisti come Debussy e Stravinskij e credo chequesta forma di contaminazione non solo possa continuare, ma possa diventarepiù esplicita e consapevole, e più programmatica di quanto sia accaduto nelNovecento.

Anche la scrittura letteraria e il lavoro sulla parola potrebbero trovare inquesta sorta di ibridazione una spinta ulteriore per rompere con il “poetese” insenso negativo, cioè il gergo lirico, la selezione verbale verso realtà superiori dotatedi aura, e stimolare maggiormente ad un impiego poetico del linguaggioquotidiano, di tutto quello che è il mondo della prosa moderna, della tecnologia,delle feconde mescolanze di lingue diverse. D'altra parte è importante ricordareche in una certa letteratura americana all'epoca della cultura beat, ci sono statiautori, come Kerouac e Ginsberg, che dichiaravano di essersi ispirati molto alritmo del jazz o alla pop music, proprio come ritmo di scrittura; ci sono esempi, inpoesia come in prosa, di una letteratura che ha subìto questo influsso della ritmicamusicale, sul terreno del romanzo e della narrativa, come su quello poetico e credoche, in questa direzione, si possano ottenere degli sviluppi ancora più ricchi.

Nel valutare la situazione italiana, occorre però fare le dovute differenze. Gliesperimenti degli anni Cinquanta e Sessanta per creare una canzone d'autore o losviluppo dei cosiddetti cantautori hanno dato risultati assolutamente discutibili.La tipicità della canzone italiana appare molto imprigionata entro limiti dimelodicità tradizionale, per cui diventa o tardo melodramma riciclato, nel miglioredei casi, o tarda romanza da camera. Ciò non toglie che ci siano stati anche deirisultati positivi fra gli autori (perché Paoli o Conte hanno forse aperto dellestrade) e degli interpreti piuttosto straordinari, anche dal punto di vista delcostume, come Mina o Patty Pravo. Tuttavia un limite è sempre stato la prevalenzadi melodicità e di poeticità; anche i tentativi di scrivere testi per canzoni fatti daPasolini, da Calvino, da Fortini, persino da Moravia e Soldati seppure molto

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episodicamente, non hanno poi trovato conferma né continuità, perché in fondo lavera musica popolare aveva altre direzioni. L'intervento del jazz e del rock è statoinvece veramente un fatto insopprimibile nello sviluppo del linguaggio musicale, ilsolo che possa trovare equivalenti nella sperimentazione letteraria. Accanto al“poetese” , c'è stato un “canzonettese” : l'Italia purtroppo è il paese di Sanremo,per dire tutto in una formula, e questo ha rappresentato e rappresenta un limitemolto forte.

Anche dal punto di vista dei contenuti, delle idee, benché la canzone abbiaavuto un pubblico larghissimo, in sostanza è sempre rimasta prigioniera diatteggiamenti, per così dire, piccolo-borghesi. Molta della protesta orientata inquel senso è rimasta imparagonabile alla rottura espressiva proposta da tantamusica anglosassone, dai Rolling Stones ai Sex Pistols, per esempio, in cuiradicalismo e anarchismo hanno raggiunto una violenza che da noi è rimastapraticamente sconosciuta o veramente episodica ed eccezionale. Il limite dellacanzone italiana è davvero anche un limite ideologico e di classe. Tentarel'esperimento del rap significava per me uscire davvero da questi confini, passaredavvero ad altro: fare un lavoro, con un musicista, in una direzione che nonrimanesse poi nemmeno prigioniera della forma del rap, ma la utilizzasse comeuna sorta di riferimento fondamentale, nell'organizzazione della struttura diun'esperienza spettacolare, senza rinunciare a nessuno degli elementi che oggi, siala parola, sia il suono possono proporre.

Io tendo sempre più ad insistere sul momento anarchico come momento dipulsione della grande arte critica del Novecento. Se questo momento ha trovatoincarnazione, non è stato tanto nella forma della canzone “all'italiana”, quantopiuttosto nelle esperienze di certo rock violento e oggi, semmai, del rap e di altreespressioni di questo genere.*

* Il testo di questo intervento è il risultato di una conversazione con Edoardo Sanguineti,rielaborata insieme a lui, e pensata per il numero 4-5 di “Bollettino Novecento” (maggio1996). L'occasione di parlare di un esperimento di rap poetico si è trasformata in undiscorso ampio ed organico sulle relazioni tra la letteratura e la musica, nella tradizione,nel nostro secolo e nelle loro potenzialità future [Anna Frabetti]

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Luciano Berioda: A-Ronne(1991)

La musica, per fortuna nostra, non coincide mai completamente con quelloche il suo autore si propone di comunicare - non solo come espressione di unaidea, di un concetto e di una visione poetica, ma anche come documento di (ocommento a) una realtà concreta. Un testo, poetico o no, è invece una realtàconcreta che coincide di solito con quello che il suo autore si propone dicomunicare. In altre parole (e semplificando), un poeta, mettendo in attomeccanismi denotativi più o meno complessi, può non solo creare un labirinto diassociazioni significative ma può anche permettersi il lusso di mentireconsapevolmente e di manipolare la realtà e i referenti. Il musicista non puòmentire, non ne ha gli strumenti, è un puro (con tutto il male che ne deriva): lui :quello che è e i meccanismi connotativi della sua musica sono quello che sono,anche se assiduamente frequentati e condizionati dai fantasmi della storia, delletecniche, degli ascolti possibili e anche se il senso di quello che fa è sempre un po’altrove e non coincide mai completamente, appunto, con quello che egli si proponedi comunicare.

Ma la creatività musicale ha sempre cercato di sviluppare diversi nodi dicomplicità con la realtà concreta e con le idee che la abitalo: con la vita pubblica,per esempio, con la vita privata, la scienza, i1 teatro, i dati naturali e le tecniche. Eogni volta il musicista cerca di assimilare, sublimare e trasformare eroicamentequella realtà concreta in un’altra cosa (magari solo in un titolo), anche senza apersiporre il problema di definire che cosa veramente essa sia. Non c’è alcun dubbio chesi tratti di una definizione abbastanza difficile che richiede strumenti di naturafilosofica analoghi, mi sembra, a quelli che vengono usati quando si cerca unadefinizione del tempo. Quando, da soli, pensiamo alla realtà concreta, sappiamosempre cos’è. Se però qualcuno ci chiede cosa essa sia, non sappiamo più cosarispondere e siamo assaliti dal dubbio che quello di realtà concreta (e di tempo)non sia un concetto ma, piuttosto, un modo di dire assai poco concreto. Comunquesia, nell’immenso repertorio di “realtà concrete” con le quali il musicista si èsempre misurato, la realtà della lingua parlata e scritta, della poesia e della prosa,occupa sicuramente un posto privilegiato. Quel osto che è responsabile del vastomare della musica vocale dove appunto la realtà della lingua parlata si associa allevirtualità del linguaggio musicale.

In A-Ronne, per cinque attori, su una poesia di Edoardo Sanguineti(realizzato nel maggio 197 per la Radio Olandese di Hilversum), si ritrova forsepoco di queste considerazioni: esse hanno però avuto una funzione catalizzatricenella concezione di questo lavoro che, tanto sul piano verbale che su quellomusicale, si pone il problema di combinare assieme e di elaborare, senza volerletrascendere musicalmente, solo associazioni e riferimenti specifici, solodenotazioni e, nei limiti del possibile, solo realtà concrete.

A-Ronne non è una composizione musicale in senso stretto. Avreicertamente incontrato delle difficoltà se avessi voluto definirla con una delleconsuete indicazioni di genere che accompagnano le composizioni vocali (cantata,madrigale, canzone, concerto ecc.). Ho optato invece per quella che mi è sembratala descrizione sintetica più appropriata: documentario. Di documentari se nefanno tanti e sugli argomenti più diversi (su dettagli della vita pubblica, della vita

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privata, della scienza, del teatro ecc.): perché non su una poesia? In A-Ronne,documentario per cinque attori su una poesia di Edoardo Sanguineti, c’è pocamusica ma, come vedremo dopo, i criteri che lo organizzano sono musicali: a volteessi svolgono le funzioni di una macchina da presa che, invece di esplorare unsoggetto o una situazione da diversi angoli e con lenti diverse, esplora una poesia.A-Ronne non appartiene dunque a un genere musicale noto. Concepitooriginariamente come lavoro radiofonico, può forse suggerire qualche tenuelegame coi madrigali rappresentativi, cioè col teatro degli orecchi (della mente,diremmo oggi), del tardo Cinquecento.

Avevo chiesto a Sanguineti una poesia piuttosto breve, condotta su undiscorso non lineare, facilmente segmentabile e costruita possibilmente suimmagini permutabili, come fossero parte di un congegno modulare. Cosi è,infatti, il suo A-Ronne. Nella sua grande coerenza e intensità evocativa sembraguardare continua-mente dentro se stesso e ai suoi stessi congegni, ai suoiframmenti e alle sue rovine. Uno degli aspetti più singolari di questa poesia èl’essere rigorosamente e ossessivamente costruita di citazioni che ruotano su lorostesse e ritornano spesso tradotte in lingue diverse. Anche il titolo è una citazione.A-Ronne: come dire A-Zeta, Alfa-Omega. Ronne è una delle tre abbreviature posteun tempo alla fine della tavola dell’alfabeto, dopo la Zeta. Esse sono: Et, Con e Ron(quest’ultime due sono una trasformazione di cum e della desinenza latina orum).Le designazioni fiorentine, utilizzate da Sanguineti a conclusione della poesia,erano Ette, Conne, Ronne. A-Ronne è diviso in tre brevi strofe: il tema della primastrofa è l’Inizio, il tema della seconda è il Mezzo e quello della terza è la Fine.

I

a: ah: ha: hamm1: anfang2: in principio: nel mioprincipio: am anfang: in my beginning3: ach: in principio eratdas wort: en arché en: verbum: am anfang war: in principioerat: der sinn: caro4: nel mio principio: o lògos: è la miacarne: am anfang war: in principio: die kraft: die tat: nel mio principio:

1 Omaggio a Samuel Beckett (Hamm, personaggio di Fin de partie).2 «Anfang» (principio): Sanguineti chiarisce che il Vangelo secondo Giovanni comincia con leparole: en arché en o lògos, «in principio era il verbo», «in principio erat verbum». Nellatraduzione di Lutero: «Im Anfang war das Wort». Nella scena «Studierzimmer» del Faust (I)di Goethe, Faust ne prova successivamente diverse traduzioni sostituendo «das Wort»(verbum) con «der Sinn» (il pensiero), «die Kraft» (l’energia) e «die Tat» (l’azione).3 Il secondo dei Four Quartets (intitolato «East Coker») di T. S. Eliot comincia con le parole«In my beginning is my end» e finisce con le parole «In my end is my beginning».4 Allusione a Giovanni: «et verbum caro factum est» (e il verbo si fece carne). Può esseredunque il «caro» latino (carne) o il «caro» italiano (da cui: «è la mia carne»).

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II

nel mezzo5: in medio: nel mio mezzo: où commence?6: nel mio corpo:où commence le corps humain? nel mezzo: nel mezzo del cammino: nel mezzodella mia carne: car la bouche est le commencement: nel mio principioè la mia bocca: parce qu’il y a opposition: paradigme: la bouche:l’anus: in my beginning: aleph:7 is my end: ein gespenst geht um:8

III

l’uomo ha un centro: qui est le sexe: en méso en:9 le phallus:nel mio centro è il mio corpo:nel mio principio è la mia parola: nel miocentro è la mia bocca: nella mia fine: am ende: in my end: run:10 is mybeginning: l’àme du mort sort par le pied: par l’anus: nella mia finewar das wort: in my end is my music:11

ette, conne, ronne:

Questo gioco di specchi, questa combinatoria di unità semantiche, quasiframmenti culturali di un palazzo terremotato, sembra volerci ricordare unassioma tanto vero quanto solenne: significato è relazione. Il percorso di relazioniverbali tracciato da Sanguineti è complesso e intricato quanto l’accumulazione disignificati e di segnali che vengono marcati dal loro rapporto con lingue diverse.Inoltre, ogni possibile relazione fra gli elementi diversi non è regolatasintatticamente e resta quindi sostanzialmente aperta. La poesia di Sanguineti,concettualmente “musicale” per conto suo, ci ricorda in maniera particolarmente

5 «Nel mezzo» (in medio), l’inizio della Commedia dantesca.6 «Où commence...»: un passo di Georges Bataille (citato da R. Barthes) dove viene trattato untema antropologico, molto frequente fra i “primitivi”, dove sia il principio e dove sia la fine delcorpo (quindi, dove entri nel corpo, alla nascita, l’anima, e dove esca alla morte).7 «Aleph» è la prima lettera dell’alfabeto ebraico.8 “Ein gespenst geht um”: le prime parole del Manifesto di Marx ed Engels.9 “En méso en” (in mezzo era): calco sul Vangelo secondo San Giovanni.10 Omaggio a J. Joyce (run da riverrun di Finnegan’s Wake).11 «Is my music»: omaggio a Luciano Berio (lettera privata).

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vivida un altro solenne assioma che interessa da vicino l’esperienza della musicavocale: il significato di una parola può esser sempre lo stesso (un tavolo è sempreun tavolo) mentre il senso e le funzioni di una parola sono sempre mutevoli. Unamodificazione di contesto, di intonazione e di inflessione possono dare un senso eun peso diverso allo stesso enunciato. Cioè, una modificazione sul pianodell’espressione equivale a una modificazione sul piano del senso. Ed è proprioquesto il tema centrale del documentario A-Ronne, tema che non solo è giàimplicito nella poesia di Sanguineti, ma che è evidentemente presente ogni voltache si ha a che fare con l’incontro e la compenetrazione espressiva di una strutturaverbale e di una struttura musicale (o meta-musicale). Nel documentario A-Ronnele modificazioni espressive (e di senso) vengono ossessivamente e arbitrariamenteimposte, sempre diverse, su un testo relativamente breve. Non solo. In A-Ronnenon c’è musica in senso proprio e quindi non c’è un vero incontro (o scontro) fra ladimensione linguistica e quella musicale. Le situazioni musicali sono esempi dicomportamento vocale fra i tanti ed evocano banali maniere di canto. I cinqueattori leggono e rileggono il testo poetico originale illuminandolo, trasformandoloe filtrandolo attraverso un vasto repertorio di gesti vocali specifici (dal richiamoall’insulto, dal piangere al ridere, dall’eloquio volgare al sussurro erotico,dall’afasia all’acrobazia articolatoria, dal rumore fisiologico al canto di chiesa, dalconfessionale alla piazza, alla caserma, alla lezione di canto ecc.). Si tratta insostanza di una ri-lettura continua delle citazioni di A-Ronne attraverso un ampiorepertorio di “citazioni” di gesti e di stereotipi vocali: una ri-lettura continuacondotta senza vere e proprie “interferenze” musicali, con gli strumenti del testostesso.

Un testo, quando è complesso, va comunque riletto e va esplorato da angolidiversi. La grande polifonia vocale del passato, nel cui ambito si è sviluppato ilpensiero musicale europeo, “metteva in musica” soprattutto testi universalmentenoti. Per esempio il testo della Messa. Chi ascoltava sapeva cos’era un Kyrie o unGloria e, diversamente dall’autorità vaticana, non si sentiva minimamentedefraudato se ardite e complesse architetture contrappuntistiche gli impedivanouna percezione vocale, parola per parola, del testo. Anzi, è stata proprio questalibertà “acustica” nei confronti del testo della Messa che ha permesso ai grandicreatori di esplorare nuovi territori musicali di grande intensità e complessitàespressiva (Ockeghem, Palestrina, Bach e Beethoven). In epoche più vicine a noi,invece, forme e maniere letterarie da una parte e forme e maniere musicalidall’altra avevano un ampio campo di coincidenza metrica, prosodica, retorica eformale: basti pensare a Mozart, alla grande stagione liederistica e a Debussy, dovequesto rapporto di contiguità fra testo poetico e musica promuove una interazioneillimitata di campi espressivi omogenei. Oggi ¡è frequente il caso di compositoriche “mettono in musica” testi letterari di grande complessità, di difficilissimacomprensione quando cantati e, anche, di ardua lettura. Il compositore dovrebbeallora organizzare musicalmente diversi gradi di percepibilità, decidendo qualiparti del testo possano essere occultate, o quasi, dalla musica e quali invecedebbano esserne illuminate. C’è infine una tendenza che faccio mia e che, nella suaglobalità, non esclude necessariamente le altre. Penso alla possibilità di usarecriteri musicali per l’analisi e per la riscoperta espressiva di un testo, dando, a chiascolta, la possibilità di percorrere e ripercorrere coscientemente il meravigliosoitinerario, sempre da riscoprire anche nell’esperienza musicale, fra suono e senso.Nella musica vocale questo itinerario è meno “astratto” e più tangibile che nellamusica strumentale. E comunque profondamente emozionante che il pensieromusicale ci permetta la conquista di un senso ulteriore, e di un altro e poi di unaltro ancora, senza mai perdere contatto con quello che “dice” la voce. Questa

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tendenza alla globalità dell’espressione vocale implica innanzitutto il rifiuto di unaconcezione dualistica e un po’ archeologica del linguaggio, che pone il suono dauna parte e il senso dall’altra, in una prospettiva che, adattata alla musica, puòcondurre a una divisione moralistica fra suoni e rumori, fra vocali e consonanti e,fatto qualche passo più in là, fra il bene e il male.

Tutti gli elementi del linguaggio possono concorrere all’espressione poeticae al senso, cosi come ogni elemento vocale può essere convertito in musica. RomanJakobson, che ho avuto la fortuna di conoscere, amava raccontare un aneddoto. InAfrica c’era un missionario che si lamentava del fatto che gli indigeni fosserosempre nudi. «Ma anche tu sei nudo» gli dissero un giorno gli indigeni indicandola sua faccia. «Certo, ma è solo la faccia». «Ebbene - replicarono gli indigeni - pernoi la faccia è dappertutto». Lo stesso vale per la poesia, conclude Jakobson: lafaccia della poesia è dappertutto, ogni elemento linguistico può essere convertito infigura poetica. […]

(in: A.Ziino (a c. di), Musica senza aggettivi. Studi perFedele d'Amico, Firenze, Olschki, 1991)

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NANNI BALESTRINI

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“Spezzando le frasi e anche le parole, accostandole in modi apparentemente arbitrari,

voglio arrivare a far scaturire un significato più profondo, irrazionale, che generi emozioni mentali, come fanno la musica e la pittura,

non ragionamenti”

Empty Cage *

1ci sono tante e tante cose che possono andare insiemesenza sapere quale sarà il risultato ogni ripetizione deve provocare un'esperienza del tutto nuovaabitare il mondo intero non frammenti separati del mondociascuno di noi è il centro del mondo senza essere un ioil mondo non è diventa si muove cambia

2non ho nessuna idea di come tutto questo avvienequalsiasi cosa causa ogni altra cosanon crediamo nella natura umanaci sono due modi di scendere dalla montagnale circostanze determinano i nostri attil'altro modo è scivolare giù dopo aver raggiunto la cima

3immaginiamo una strada con molta genteun silenzio pieno di rumoriciascuno di noi è il centro del mondo senza essere un iociò che conta è ciò che avvienesenza sapere quale sarà il risultatoè una maniera di aprirsi all'assenza di volontà

* Allusivamente organizzato in sestine (con preciso, benché “labile”, riferimento al metrointrodotto da Arnaut Daniel), questo testo, quasi un manifesto della poetica balestriniana,riprende manipola sovrappone ricombina frammenti teorici di John Cage, per forza di un' “arscombinatoria” puntata verso l' “indeterminato” e l'aperto. – Sul Balestrini “combinatorio”, v. “ilverri”, n.38, ottobre 2008, numero monografico Attività combinatorie – da partire dal “Tristano”di Balestrini. Per quel che riguarda le collaborazioni con musicisti, da parte di Balestrini (a partireda quella con Luigi Nono), v. Milleuna: parole per musica, prefazione di M.Gamba, Roma,DeriveApprodi, 2007 (libro+cd).

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4non crediamo nella natura umanail nulla è in tutte le cose quindi anche in meciò che conta è ciò che avvieneil mondo reale non è un oggetto è un processoqualcosa che avviene qualcosa di inatteso di irrilevanteci sono due modi di scendere dalla montagna

5un modo è quello di cadere giù quando la state scalandocontinuando a restare schiavi dell'azione e della logicail significato è l'usoil sentimento è in ciascuno di noi non nelle cause esternel'uso assicura il non ordine la libertàla possibilità di vedere accadere qualsiasi cosa

6bisogna andarsene da quiabitare il mondo intero non frammenti separati del mondoil mondo reale non è un oggetto è un processoqualsiasi cosa causa ogni altra cosale cose devono entrare in noil'istante è sempre una rinascita

7le cose vanno e vengonoogni ripetizione deve provocare un'esperienza del tutto nuovaè soprattutto questione di cambiamentol'indeterminazione è il salto nella non linearità e nell'abbondanzaciò che avviene accade ovunque e contemporaneamentepoiché tutto già comunica perché voler comunicare

8perché tutto possa accaderementre nella conversazione nulla si imponenon solo non lo voglio ma voglio distruggere il potereprincìpi e governi sono ciò che favorisce l'obliobisogna andarsene da quisiamo sempre più impazienti e diventeremo sempre più voraci

9ci sono tante e tante cose che possono andare insiemestruttura e materiale possono essere legati oppure opporsiquello che mi interessa non sono le regole ma il fatto che le regole cambinoil mondo non è diventa si muove cambiale vecchie strutture del potere e del profitto stanno morendo

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un modo è quello di cadere giù quando la state scalando

10il nulla è in tutte le cose quindi anche in meun silenzio pieno di rumoriqualcosa che avviene qualcosa di inatteso di irrilevanteincontri tra elementi eterogenei che possono restare senza alcun rapportoammucchiati tutti insieme e allo stesso tempoun gioco senza scopo un'assenza di finalità

11è l'uguaglianza del comportamento nei confronti di tutte le cosecostruire cioè riunire ciò che esiste allo stato dispersoimmaginiamo una strada con molta genteè un'opera su un'opera come tutte le mie opere indeterminateio non ho niente da direcomunicare è sempre imporre qualcosa

12mentre nella conversazione nulla si imponeciascuno è libero di provare le sue emozionil'uguaglianza dei sentimenti verso ogni cosalasciando alle cose la libertà di essere ciò che sonole cose devono entrare in noil'istante è sempre una rinascita

13struttura e materiale possono essere legati oppure opporsiammucchiati tutti insieme e allo stesso tempofrantumare la loro linearitàperché tutto possa accaderequello che mi interessa non sono le regole ma il fatto che le regole cambino è soprattutto questione di cambiamento

14costruire cioè riunire ciò che esiste allo stato dispersosenza sapere quale sarà il risultatol'altro modo è scivolare giù dopo aver raggiunto la cimaun clima molto ricco di gioia e di smarrimentole vecchie strutture del potere e del profitto stanno morendooccorre liquidare il dogma produttivistico e del profitto

15frantumare la loro linearità lasciando alle cose la libertà di essere ciò che sonola tirannia e la violenza sono dalla parte della linearità

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comunicare è sempre imporre qualcosacontinuando a restare schiavi dell'azione e della logicaprincìpi e governi sono ciò che favorisce l'oblio

16non solo non lo voglio ma voglio distruggere il potereoccorre liquidare il dogma produttivistico e del profittorespingere le esclusioni le alternative radicali tra oppostisforzandosi di provocare un altissimo grado di disordineun clima molto ricco di gioia e di smarrimentosiamo sempre più impazienti e diventeremo sempre più voraci

17la tirannia e la violenza sono dalla parte della linearitàl'indeterminazione è il salto nella non linearità e nell'abbondanzanon sopprimere le possibilità ma moltiplicarleè una maniera di aprirsi all'assenza di volontàle cose vanno e vengonole circostanze determinano i nostri atti

18cerco di non rifiutare mai nullaciò che avviene accade ovunque e contemporaneamentesforzandosi di provocare un altissimo grado di disordinel'uso assicura il non ordine la libertàciascuno è libero di provare le sue emozioniil sentimento è in ciascuno di noi non nelle cause esterne

19incontri tra elementi eterogenei che possono restare senza alcun rapportocerco di non rifiutare mai nullarespingere le esclusioni le alternative radicali tra oppostinon sopprimere le possibilità ma moltiplicarlela possibilità di vedere accadere qualsiasi cosal'uguaglianza dei sentimenti verso ogni cosa

20è un'opera su un'opera come tutte le mie opere indeterminate un gioco senza scopo un'assenza di finalitànon ho nessuna idea di come tutto questo avvieneio non ho niente da direpoiché tutto comunica già perché voler comunicareil significato è l'uso

(in: Caosmogonia, Milano, Mondadori, 2010)

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Le Milleunadi Nanni Balestrini

Sai diSalataSalivaSaltandolaSangue dalSanguinaSaturataSaziareScaldando leScambiandosiScende laSchiuse leSchiumaSciogliereScivola dentroScivola viaScivolosaScoprireSegnandolaSei entrataSempre menoSempre piùSensibileSentendo laSentendosi

Sente leSenza forzaSenza leSeparandoleSe ti fa maleSe ti muoveSe respiriSetaSeteSfinendosiSfiorareSgusciandoSi appoggia sulSi apreSi arrestaSi chiudeSi contraeSi curvaSi giraSilenzioseSi riempieSi schiudeSlacciataSlargandoSmarrita

SmuoveSobbalzaSofficeSognandoSoggiaciSolleticaSollevandolaSolo conSolo nelSoltantoSommersaSommessaSospesa alSospintaSospirandoSospiriSottileSotto il pesoSotto le maniSotto vibrandoSpaccataSpalle inSpasimareSpingendoSpinta verso

SporgendolaSpossataSpremendoStaccatasiStancaStandoci dentroStando fermaStrappandolaStremataStrettaStringendoStrisciareStrizzandoSuccessivaSucchiandoSudateSugli occhiSulla pelleSul ventreSupinaSvanireSvegliandosiSvelta nelSvestitaSvuotata

[Pièce per danza di Valeria Magli, 1978, con musica/esecuzione di Demetrio Stratos]

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Marzia D’Amico

«Valeria balla milleuna»balestrini sciamano asemantico

per la trance vocale di Demetrio Stratos.1

Le cerimonie sciamaniche delle genti primitive, come te-stimoniato da diversi autorevoli studi di etnologia e antro-pologia poi ripresi da teorici della performance,2 erano alcontempo riti sociali ed eventi d’arte. Spesso banalizzati daambigue etichette magico-mistiche dovute ai rigidi para-metri culturali occidentali, i riti cui è utile guardare oggiper arrivare a una definizione puntuale dello spazio della

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1 Questo lavoro consiste nella rielaborazione di un capitolo della mia tesi di Lau-rea Magistrale, discussa presso l’Università La Sapienza di Roma nel luglio del2013. Ringrazio i miei relatori, Tommaso Pomilio e biancamaria Frabotta, perla disponibilità con cui hanno guidato le mie ricerche. Per l’aiuto e la testimo-nianza che mi ha concesso intorno all’evento qui trattato ringrazio anche, dicuore, nanni balestrini.

2 bisogna citare almeno il lavoro di Richard Schechner, tra i piú importanti teo-rici della performance contemporanei, e in particolare il suo studio actuals del1970. nel saggio l’autore spiega alcuni fondamenti della teoria della perfor-mance attraverso l’analisi delle pratiche rituali della società nordaustralianaTiwi. il suo percorso teorico passa attraverso l’estetica di Platone e quella diAristotele. Cfr. R. Schechner, actuals: a look into performance eory, in A.Cheuse – R. koffler (a cura di), e rare action: essays in Honour of FrancisFergusson, Rutgers University Press, 1970, in particolare pp. 35-67 (trad. it. ac-tuals: rituale primitivo e teorie della rappresentazione, in «La scrittura scenica»,n. 7, a. 1973, pp. 32-68).

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performance nel campo dell’estetica erano (e sono tuttorapresso alcune civiltà) composti dalla simultaneità di diverseazioni poetiche che la figura centrale dell’avvenimento, losciamano, doveva comporre con sapienza esatta3 o ripetere4

nel momento dell’esecuzione. La funzione di questa figura,capace di raggiungere una sorta di ipotesto assoluto da cuitrarre i materiali da performare – il cosiddetto ‘tempo delsogno’5 – come si raggiunge un luogo concreto, era quella

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3 Pena il mancato riconoscimento del suo ruolo di guida spirituale e di voce poe-tica presso la comunità. in ogni caso, a riprova del carattere interattivo (e dun-que autenticamente performativo) delle pratiche in questione, alcuni studidimostrano che il pubblico poteva intervenire per salvare il performer da unaperdita dei suoi doni dovuta a una cattiva esecuzione dei moduli colti nel dre-amtime. A questo proposito vd. J. Rothenberg, technicians of the Sacred, Gar-den City, Doubleday, 1968, p. 385; e in particolare l’autorevole A. Lommel,Shamanism: the Beginnings of art, new york, McGraw-Hill, 1967, p. 148. inquesto testo Lommel afferma che «the shaman’s social function consists aboveall in bringing psychic calm and confidence to the tribal community by revitalizingand intensifying its notions of the world» (p. 12), ma dal suo processo terapeu-tico scaturisce una creatività artistica i cui risultati sono effettivi prodotti arti-stici mai adeguatamente indagati dagli studi.

4 Giacché, come vedremo, le cerimonie erano costruite su una grammatica memo-rizzabile che prevedeva costitutivamente l’opportunità di riproporre i medesimi‘testi’ con le uniche varianti dettate dalla natura stessa di ogni esecuzione perfor-mativa: reazioni, stato fisico dell’attuante, circostanze ambientali e simili.

5 il dreamtime è un concetto nato appunto negli studi etnoantropologici sullatrance. Si fa largo uso del termine anche nei performance studies. Per un appro-fondimento vd. tra gli altri: F.A. Wolf, e dreaming universe: a mind-expan-ding journey into the realm where psyche and physics meet, new york, Simon &Schuster, 1994; G. Gotti – D. Sandrini (a cura di), dreamtime: lo spirito del-l’arte aborigena, Venezia, Marsilio, 2011. Curiosamente, il concetto potrebberisultare familiare a chi ne sente parlare per la prima volta in termini antropo-logici e nelle sue ripercussioni estetiche ricordando i vari e vivaci influssi cheha avuto nella cultura popolare: da raffinati comics postmoderni e graphic novelsdi Grant Morrison alla serie televisiva Star trek, in cui il mitico Capitano kirkesce dalla nostra dimensione proprio per esplorare la realtà primordiale del dre-amtime. La vicenda fantascientifica è testimoniata da una versione letterariadella saga. M.W. bonanno, Star trek novel: Strangers om the Sky, Londra,Titan books, 1987. Per Grant Morrison, il riferimento è alla serie di fumettidegli anni novanta e invisibles. La fortuna pop del dreamtime è comunqueprecedente: per esempio la band inglese e Cult, pubblicava già nel 1984 un

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di apprendere canti e danze presso gli spiriti depositari dellamemoria e di trasmetterne la conoscenza agli spettatori at-traverso la ricomposizione di moduli voco-corporali. Talimoduli corrispondono a quelle indicazioni fisse ma varia-mente declinabili che nelle arti agite si definiscono script6

(note di regia, nude descrizioni di azioni, prescrizioni sutono, timbro, pronuncia di parole o suoni, etc.).

il ruolo dello sciamano dunque (e a specchio, in tutte lesue successive forme autentiche, quello del performer) nonsi limitava all’esecuzione di danze, canti, enunciati poeticie azioni; comprendeva una fase creativa, una compositiva,una puramente performativa e, non secondariamente, unacomunicativa a sua volta caratterizzata da alcuni elementifondamentali: interattività, trasmissione didattica, formu-lazione artistica ma universalmente comprensibile di con-tenuti ricevuti dal pubblico, conservazione della memoriae accoglimento della responsabilità di fornire un modellodi contegno estetico-spirituale. Tale ruolo prevede dunqueuna sorta di interessante deontologia, in parte sintetizzatada un efficace passaggio schechneriano:

i viaggi dello sciamano non sono né fini a se stessi népersonali, dal momento che dovrà insegnare ad altritutto ciò che ha appreso. Svolge, insomma, una funzionesociale. Lo sciamano è apprezzato dalla sua gente. È unesempio e un modello per tutti quelli che vogliono ac-quistare potere. È l’uomo che sa e ricorda.7

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album ispirato al misticismo aborigeno dal titolo, appunto, dreamtime. D’altrocanto è evidente come il ciclo di chtulu che ha reso celebre il romanziere H.P.Lovecra e il suo terrificante personaggio sia basata su una simile mitologia.

6 «non li chiamo testi, che vuol dire documento scritto» dice il già citato Sche-chner a proposito di questi elementi minimi dell’arte performativa, «li chiamoscript che significa qualcosa che preesiste a qualunque esecuzione, che funzionada traccia, che resta identica da un’esecuzione ad un’altra». R. Schechner,dramma, script, teatro e performance [1973], in id., la teoria della performance,a cura di V. Valentini, Roma, bulzoni, 1984, pp. 77-111: 79.

7 R. Schechner, actuals: uno sguardo alla teoria della performance [1970], in id.,la teoria della performance, cit., pp. 39-76: 47.

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Tutti gli studi che convergono sulle azioni considerabiliarte e sugli attuanti considerabili poeti analizzano dunquegli elementi che, con le loro variazioni difficilmente preve-dibili, possono in molti modi influenzare la resa del pro-dotto finale che considereremo senza specificazioni ulterioriun testo. Tale testo è infatti il risultato, oltre che della com-posizione degli script attinti nel corso della fase creativa ini-ziale, della «interazione fra spazio, tempo, performer, azionie pubblico»8. È importante aggiungere a tali elementi unpesante aspetto che li permea tutti, essendo costituito siada una componente materiale embodied sia dal suo statutodi medium comunicativo: la voce. nonostante le distanzegeografiche e culturali di diverse tribú, gli script prettamentevocali si manifestano sempre riconoscibili: assieme agli altricompongono quei canovacci virtuali che, come abbiamovisto, presiedono non solo alle singole performance ma anchealle loro eventuali ripetizioni identiche o ristrutturate.

Sono dunque parte delle posture psicofisiche che portanoallo stato di trance, come il resto descritto negli studi suiriti aborigeni e riscontrato in quelli teatrali e piú in generaledi performance theory – nei quali in sostanza coincide conla fase creativa di secondo grado, che segue alla composi-zione iniziale piú sopra collegata al viaggio nel dreamtimedegli sciamani.9

Quanto fin qui rapidamente sintetizzato porta ad alcuneconclusioni provvisorie sulla performance in genere: si trattadi una forma d’arte di matrice rituale in cui un ipotesto in-dicativo presiede all’esecuzione di molteplici testi autonomi,tutti definitivi nel qui e ora esperito da chi li riceve (il pub-

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8 R. Schechner, actuals: uno sguardo alla teoria della performance [1970], in id.,la teoria della performance, cit., p. 72.

9 Particolarmente utili per intuire la fisionomia della trance sono gli studi con-dotti in bali da belo. Cfr. J. belo, trance in Bali, new york, Columbia Uni-versity Press, 1960.

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blico) ma al contempo passibili di modifiche anche sostanzialiin successive, altrettanto originali e autentiche ripetizioniche ne condividono gli script ma non lo spazio e il tempo diattuazione. Adagiando un simile punto di partenza analiticocome una coperta sull’inafferrabile statuto di quella che nelsecondo novecento è stata definita poesia performativa, pos-siamo cominciare a intravederne un profilo definito.

L’esecuzione (e non la semplice lettura) di un testo poe-tico infatti dà origine, secondo gli stessi principi, a una verae propria performance. Considerando il singolo momentodi ‘scrittura’ primigenio alla stregua della fase creativa deldreamtime (dunque a una raccolta di indicazioni e non allanuda stesura del testo) e le successive attuazioni come eventiin cui gli script prendono le loro molteplici e tutte definitiveforme (facendosi loro stesse testi), ci troviamo ad avere ache fare con un genere letterario in cui ad ogni qui e oracorrisponde una nuova poesia e in cui perciò l’analisi deisingoli avvenimenti non può prescindere dalle variabili cheabbiamo già elencato (interazione, moduli virtuali a monte,traiettorie della voce e cosí via).

il medium performativo in qualche modo supera l’espe-rienza classica della poesia come «testo da vedere»,10 ren-dendola non solo ovviamente multimediale (il corpo del-l’attuante si vede, la sua voce si sente, nello spazio in cuiopera ci sono odori etc.) ma valicando anche altri limitiimposti dalla codice gutenberghiano. il testo da vedere dellastampa tradizionale è stabile, immutabile e, rispetto allatrasmissione orale, gode di un maggiore prestigio che mettein cattiva luce gli stilemi dell’oralità, che assumono un’ap-parenza primitiva rispetto al progresso che ha portato allascrittura – quando sarebbero invece semplicemente il ri-

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10 P. bootz, poetic machinations in new media poetry: poetic innovations andnew technologies, Visible language 30.2, Rhode island School of Design, Chi-cago, 1966, pp. 118-137.

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sultato di una diversa linea evolutiva11. Rispetto all’immu-tabilità del testo stampato e della sua diffusione, il testodella performance è sempre variabile: ogni volta si assiste auna delle potenzialmente infinite espressioni possibili. An-che gli imprevisti, che in manoscritti ed edizioni costitui-scono guasti ed errori, possono essere interpolati felicementeal testo: il classico «‘buco di memoria’» ad esempio, «il‘vuoto’, è nell’esecuzione non tanto un incidente quantoun episodio creatore» come efficacemente spiega PaulZumthor12. Esiste dunque una differenza sostanziale tratesti lineari semplicemente letti ad alta voce e testi perfor-mativi, che contengono già al loro interno la tensione al-l’esecuzione. A spiegarlo in maniera semplice ed elegante èil filosofo Hans-Georg Gadamer, che ritiene «esserci unacerta differenza tra il fatto che un testo viene scritto per es-sere recitato, ed il fatto che un testo debba essere letto daun foglio; tra il fatto che un testo debba essere recitato, esia stato scritto per questo, oppure che, come è diventatosempre piú consueto nella nostra cultura, si calcoli di averea che fare solo con la lettura muta»13.

il caso che vorrei prendere qui in esame è abbastanzaparticolare sia per i soggetti che lo costituiscono, sia per latecnica compositiva che presenta. La poesia, un lavoro dinanni balestrini, viene infatti performata (e registrata peruso successivo) da una voce ulteriore, quella di DemetrioStratos, che come vedremo si appropria del testo e ci offreun esempio lampante di come l’esecuzione sia generatriceefficace di un nuovo testo, anzi, dell’unico vero testo. insostanza tra gli aspetti piú interessanti del lavoro analizzato

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11 Su questi argomenti restano fondamentali gli studi di Paul Zumthor e WalterOng. Cfr. almeno P. Zumthor, la presenza della voce, bologna, il Mulino,1984; e W. Ong, oralità e Scrittura, bologna, il Mulino, 1986.

12 P. Zumthor, la presenza della voce, cit., p. 279.13 H.G. Gadamer, persuasività della letteratura, Ancona, Transeuropa, 1988, p.

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in queste pagine c’è la netta distinguibilità delle diversefasi creative di cui abbiamo appena trattato: l’ipotesto discript linguistici (anche se, come vedremo, peculiarmentedissociati da ogni codice) è raccolto dal poeta, che affidal’invenzione di quelli vocali e agiti a due diversi soggettiche a loro volta li performano, separatamente. intervengonoper di piú due forme di dilazione dei qui e ora sovrapposti:l’ipotesto è registrato su carta, l’esecuzione degli scriptvocali è registrata su nastro e le azioni sono danzate dalvivo nel corso di una riproduzione dei precedenti.

La scrittura asemantica di nanni balestrini prevede diper sé una tensione musicale e sonora già avvertibile nelcorso di una lettura muta. Una simile predisposizione alle«esperienze sonore, [a]i modi di organizzare i suoni, di in-ventare insiemi di suoni»14 non può che sposarsi con la ri-cerca vocorale di Demetrio Stratos, che come vedremo halavorato a sua volta sull’espressività pregrammaticale rag-giungibile dalle pure «foníe».

Quella di Demetrio Stratos è una vicenda davvero singo-lare e, nell’ambito dei percorsi della voce nell’arte perfor-mativa, addirittura unica. nato ad Alessandria d’Egitto comeMarinetti e Ungaretti, cresciuto ad Atene e lí formatosi comemusicista, si trasferí in italia nei primi anni Sessanta menoche ventenne a seguito del colpo di stato di nasser. Divennefamoso come cantante rock e beat, dapprima con “i Ribelli”(particolarmente celebri il brano pugni chiusi del 1967 e lacover di oh darling! dei beatles tradotta in italiano) e poicon gli “Area”, un gruppo di virtuosi musicisti progressive efusion che destò l’attenzione non solo del pubblico ma anchedi raffinati musicologi. non a caso alle soglie degli anni Ot-tanta Stratos fu invitato da Jasper Jones a new york, dovecollaborò con John Cage e Andy Warhol alla performance

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14 M. Gamba, Prefazione, in n. balestrini, milleuna parole per musica, Roma,Deriveapprodi, 2007, p. 7.

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musicale e coreutica event. Proprio a new york tuttavia,ammalatosi gravissimamente forse a causa di una bizzarracondotta farmacologica (per anni, su discutibile consiglio diun medico, prese ininterrottamente un antibiotico al giorno),morí a soli 37 anni nel 1979.15

negli ultimi anni della sua vita, l’artista condusse unasorprendente ricerca sperimentale sulla propria voce, chedivenne capace di suoni quasi impossibili, addirittura stu-diati scientificamente da esperti di acustica come FrancoFerrero, Lucio Croatto e Andrea Accardi. Gli studiosihanno concluso, descrivendo elettroacusticamente le emis-sioni di Stratos, che durante alcuni vocalizzi l’artista riuscivaad emettere dei fischi distinti a diverse frequenze, tutte at-testate oltre le capacità della vibrazione delle corde vocali.16

La ricerca di Stratos comunque non è riducibile alla di-mensione piú “atleticamente” performativa: egli sfruttavala sua sola voce per registrare vere e proprie musiche astrattecomposte da suoni diversi ma eseguiti in contemporanea.Lui stesso li chiamava “flautofonie”, “diplofonie” e “triplo-fonie”. Gli ultimi due termini costituiscono il titolo di unsuo celebre pezzo, in cui è sintetizzato gran parte del portatodei suoi esperimenti. Oltre a poterla ascoltare nelle regi-strazioni Cramps,17 l’opera è stata anche scritta sulla paginadall’artista in diverse forme, una delle quali pubblicata po-stuma nel raro fascicolo d’arte codice Biancaneve interna-

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15 Le informazioni bibliografiche qui sintetizzate sono desunte da J. Haouli, de-metrio Stratos. alla ricerca della voce-musica, Milano, Cramps-Auditorium,2009. La monografia – che contiene un utile compendio dei piú estremi espe-rimenti vocali di Stratos in CD – è anche stata utile per reperire i riferimentibibliografici per gli studi scientifici piú avanti menzionati e citati.

16 Cfr. E. Ferrero – L. Croatto – M. Accardi, descrizione elettroacustica di alcunitipi di vocalizzo di demetrio Stratos, in «Rivista italiana di Acustica», n. 4,1980, pp. 229-258. L’articolo è corredato da grafici e schemi illustrativi.

17 Oltre che nel CD dell’etichetta Cramps inserito nella monografia poco sopracitata, il pezzo è pubblicato – nella versione sottotitolata investigazioni – suyoutube <http://youtu.be/D9p7iMTzCf0>.

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tional curato da Dario Villa e Franco beltrametti.18 in essa,efficacemente sintetica del tipico lavoro à la Stratos, il can-tante emette una lunga nota vibrata su cui, con ritmo va-riabile, esplodono dei brevi suoni simili a pizzicati o a notedi xilofono. La nota usata come basso continuo riparte ognivolta che finisce il fiato e progressivamente sale, finché nonraggiunge un culmine in cui, inspiegabilmente, si sdoppiain due note: una piena e una piú sottile, simile a una vibra-zione acuta di cristallo o all’onda di uno strumento elettro-nico. Le note “schioccate” come di xilofono si diradano ela voce, in chiusura, perde ogni connotato umano, diven-tando un ruggito simile a un’interferenza.

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18 D. Stratos, diplofonie, triplofonie, in «Codice biancaneve international», n.0, 1992, p. 32.

il percorso è ben rappresentato nella sinteticissima im-magine su codice Biancaneve nella quale, su un breve pen-tagramma, è indicato un do semibreve definito «voce vet-toriale» e seguito dai segni del vibrato che ascendono finoa un si disegnato come una semibreve nera duplicata in unre “fantasma”, segnato con un tratteggio (si tratta, credo,della terza voce che interviene raggiunto il culmine ascen-sionale). Di lí la situazione si complica e l’autore segnala la

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«rottura del percorso comunicativo», rappresentato dauna discesa delle linee del vibrato e da un gruppo di “semi-brevi piene”: prima l’accordo sol diesis-do, poi un si bemolle,poi un la, tutti legati a una pausa finale puntata e diramatida un segno. nella «rottura» assistiamo a un passaggiodalla voce ancora umana – per quanto ai limiti del possibile– a una voce letteralmente sovrumana, e dunque a un ecce-zionale superamento del significante sul significato: nonsolo l’opera parte già dall’assenza di codice linguistico, maarriva persino a superare con la voce il suono della vocestessa, attestandosi a un livello di asemantico lirismo asso-luto. non a caso la «triplofonia» somiglia alle trifoniedella musica tradizionale mongola, una tecnica che rende icantori capaci di emettere tre suoni armonici nel corso dicanti spirituali di trascendenza.

Per l’occasione d’incontro con lo sciamano balestrini,avvenuta alla fine degli anni Settanta, questo attuante ol-treumano permette al testo affidatogli dal poeta di concre-tizzare foneticamente le sue caratteristiche stilistiche. Vocenarrante di una vicenda scivolante in esse (cosí è costruitomilleuna, il componimento qui in esame) Stratos, forsenon a caso anche lui chiuso onomasticamente tra sibilanti,raggira quasi con ironia la versificazione pensata dall’autoree, con le corde vocali, dà forma – seppure immateriale – alsignificante d’inchiostro sulle pagine, densificandone il si-gnificato con la dizione.

il bagaglio di multiforme esperienza di utilizzo della vocecome strumento a diversi livelli permette al performer divivificare la sonorità intrinseca di cui abbiamo parlato aproposito della scrittura balestriniana attraverso esperimentidi lettura inizialmente improvvisati e poi cristallizzati comescript. Secondo la testimonianza diretta dell’autore, con cuiho avuto occasione di conversare in merito alla collabora-zione con Stratos, nella performance finale il repertorio di

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toni e timbri è stato gestito «come una tastiera»19. nellostudio di registrazione Stratos, a memoria di balestrini, haletto dieci volte l’ipotesto lineare tentando ogni volta diversipossibili script vocali da applicarvi.

Come anticipato, la registrazione su nastro dei centoipo-versi per dieci volte consecutive – il titolo milleuna neconsegue aritmeticamente – venne utilizzata da una ulterioreperformer, Valeria Magli, per una ulteriore improvvisazione,questa volta però agita col corpo e messa in scena senza re-gistrazioni al Teatro Out\Off di Milano nel 1978. Quell’unache si aggiunge alle mille, per inciso, mi pare indicare propriola ‘milleunesima’ esecuzione dei versi, quella completa anchedi danza che in fondo – nella sua unica versione avvenutain un qui e ora ormai perduto – rappresenta il solo verotesto in questione.

Su un palco che il poeta ricorda come «un ring dibox», mentre il nastro recitava di seguito le attuazionisonore del componimento, Magli eseguiva – con l’aiutodi diversi oggetti, quali ad esempio «un ombrello, delleali, una bombetta» – i propri movimenti scenici appa-iando agli script linguistici, a loro volta legati a script sonori,una terza serie di script visivi. La fotografia scenifca si ba-sava su un effetto di buio intermittente, costruito comein una sala di discoteca, che offriva al pubblico – numeroso– che prese parte all’evento una straniante percezione dicontinue immagini fisse, proprio come avviene in ambientistroboscopici. Magli agiva liberamente e dinamicamentesul palco, ma la luce le regalava una multiforme compostaimmobilità, una serie di scatti continuamente interrottimentre la sonorità del testo procedeva senza alcuna inter-ruzione nella scioltissima dizione di Stratos. L’impressione

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19 Da qui in poi le citazioni tra virgolette caporali prive di diversi riferimentisono da considerarsi tratte dalla conversazione avuta con nanni balestrini dachi scrive nell’agosto del 2013.

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finale doveva essere quella di una sorta di galleria foto-grafica proiettata sul basso continuo delle parole aseman-tiche, rese significative dalla prosodia.

Possiamo in parte ricostruire l’«occasione» storica chemise in moto tutto. Mino bertoldo, allora come oggi di-rettore del teatro, aveva progettato una serie di spettacoli eperformance a tema erotico e aveva invitato balestrini adaderire. balestrini scrisse allora milleuna già pensando aMagli (il sottotitolo dell’ipotesto è d’altronde esplicita-mente pièce per danza di Valeria magli), e pensò poi cheper fare agire i versi fosse necessario che le parole, tutte in‘s’ e raccolte in fila come moduli svuotati del loro senso ori-ginario, venissero riempite (o meglio, colorate) con il sensoassoluto e primigenio, slegato dalla necessità di contesti lo-gici, che solo una spiccata intelligenza vocale può dare at-traverso la morfologia prosodica. Coinvolse dunque Stratos,e l’intera operazione – oltre naturalmente a rappresentareun singolare esempio di commistione tra poesia, performanceorale e performance coreutico-teatrale – ha finito per costi-tuire l’unico indizio oggi rintracciabile del lavoro che ilpoeta e il vocalista avrebbero voluto compiere ma che laprematura morte di Stratos ha impedito. balestrini dichiaraancora oggi infatti che avrebbe voluto collaborare di nuovoe piú a lungo con il cantante sebbene, fuori da milleuna(che d’altronde è solo uno dei numerosi duetti a cui il ‘no-vissimo’ ha partecipato con vocalisti e attori), non ci sianoaltre tracce dell’intenso sodalizio artistico che i due inten-devano intrecciare. Ma torniamo all’analisi.

Se diversi dei vocaboli in esse – forse proprio il ‘micro-incipit’ di ogni verso è l’insistito riferimento al sesso richiestodal tema del ciclo ideato da bertoldo – che si susseguonosulla pagina mantengono un’oscillazione di significato, lalettura offerta da Stratos prende una direzione e la fissa. iltesto, sulla pagina,20 è costituito da venticinque quartine di

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versi brevissimi, tendenzialmente di una o due parole, ed èquasi un tautogramma visto che ognuno dei cento versi co-mincia appunto – lo ripeto un’ultima volta – in ‘s’. Alla ma-niera di balestrini, il cui stile è caratterizzato dal collage dibrani di linguaggio estratti dalla realtà e giustapposti contagli e montaggi, formule comunissime vengono mutilate(«sai di»; «sangue dal»; «sempre piú»; «spalle in»; «siappoggia sul»; «svuota la»; etc.) e presentate come crudosignificante vicino a diversi aggettivi al femminile («soffice»;«sommessa»; «stretta»; «supina»; «salata»; etc.), pochinomi («schiuma»; «seta») e verbi variamente coniugati(«succhiando»; «svanire»; «saturata»; «sente»; «siapre»; «sei entrata»; etc.). L’esecuzione di Stratos comeanticipato va in questo senso. Con la voce, il performer fadavvero agire le parole, rappresentandole foneticamente: «sa-liva» ad esempio è pronunciato deglutendo, «saltandola»con improvvisa allegria e insistendo sullo schiocco della den-tale, la parola «schiuma» ribolle nella bocca e quando sonoemesse locuzioni come «se respiri» o «sei entrata» l’esecu-tore inspira l’aria creando un suono d’inghiottimento. Gliscript vocali sono anche molto articolati e allusivi: «sensibile»è pronunciato con l’apparato fonatorio abbandonato, comequando si tenta di parlare dopo aver subito un’anestesia daldentista, in riferimento alla perdita di sensibilità che si haquando si addormenta la bocca; le pronunce di «si curva»e «si gira», invece, imitano l’“effetto doppler” che si perce-

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20 Composto quasi certamente per l’occasione, è raccolto sotto il titolo ahimélontana la signorina richmond sogna Valeria che balla milleuna al XXV cantodel “Secondo Libro” (la signorina richmond se ne va) di le avventure completedella signorina richmond. Questa versione è tuttavia graficamente rimodellataper somigliare a una danza già sulla pagina: le parole sono smembrate e i mo-duli sono sistemati sulla linea del verso anche in disordine, con spesso in evi-denza sulla coda (nella posizione in cui dovrebbe esserci il rimante) le ‘s’ ‘sch’‘sc’ etc. che costituiscono la trama allitterante del testi. Cfr. n. balestrini, leavventure complete della signorina richmond seguite dal pubblico del labirinto,introduzione di O. Del buono, Torino, Testo&immagine, 1999, pp. 90-92.

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pirebbe se chi emette la voce si muovesse rapidamente intondo attorno all’ascoltatore. Si creano, in linea con la sud-divisione in quartine, dei gruppi strofici in cui i versi agisconoin concerto: nel distico «sangue dal | sanguinosa» le tre ‘s’sono pronunciate in modi diversi in una progressione dal so-noro al sordo; la sequenza «spasimare | spingendo | spintaverso | sporgendola || spossata | spremendo | staccatasi |stanca» viene pronunciata con sforzo e costrizione sempremaggiori, acuendo il tono, finché l’ultimo verso non disin-nesca improvvisamente la climax in un crollo vertiginoso, al-lentando di colpo la tensione in accordo col significato.

in maniera interessante Stratos non tenta mai di leggerelogicamente o di legare i versi in possibili strutture sensate:quando ha a che fare con strutture mutile le interpreta in-dugiando, come se non gli venisse la parola mancante, anchequando quella parola potrebbe essere il verso successivo.Cosí i primi versi non diventano “sai di salata saliva”, ma siattribuisce uno script diverso a ogni modulo: «sai di» pro-nunciato con indecisione e allungato in un mugolio pen-sieroso, «salata» pronunciato con le labbra allappate e«saliva» – l’ho già detto – deglutendo.

in pratica, significativamente, Stratos riscrive fonetica-mente il testo di balestrini: non lo interpreta, non scorcia lesue possibilità di lettura e non ci chiede di aderire alle proprieconclusioni. La poesia è transcodificata e riofferta a chiascolta nello stesso grado di indeterminatezza e nudità se-mantica che aveva nella pagina. Ecco confermati i parallelismicon gli elementi della performance tribale visti all’inizio.

Un altro dettaglio interessante è costituito dal fatto che,nell’esecuzione registrata, il performer ripete piú volte l’in-tero poema. Ciò è significativo perché, pur non riuscendoa eseguire una performance esattamente identica, Stratosriusa pedissequamente la stessa sequenza di script. Le azionivocali (sostituzioni dell’espirazione con l’inspirazione, pro-

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nuncia particolare delle ‘s’, cambi di tono, linee della proso-dia, versi, vibrazioni allungate etc.) si ripetono nel medesimoordine associandosi alle medesime parole e chi ascolta puòfacilmente accorgersene con la propria memoria uditiva.Ecco dunque che all’ipotesto verbale si associa un ipotestoprosodico e solo dall’esecuzione simultanea dei due si ot-tiene quella porzione di testo definitivo su cui, in ultimo, siinnesta l’ipotesto poi agito da Magli.

È interessante notare come la variante testuale propostada Stratos non venga accolta nella riscrittura del componi-mento che balestrini ha operato in occasione della pubbli-cazione de le avventure complete della signorina richmond,raccolta che vede milleuna tornare muta sulla pagina conun nostalgico titolo (ahimé lontana la signorina richmondsogna Valeria che balla milleuna) secondo una nuova dispo-sizione nel layout. Confrontando le due versioni salta subitoall’occhio come, pur secondo uno schema e un assetto sceltidi proprio pugno, la variazione offerta sulla pagina – poste-riore alla versione performata da Stratos – acquisti una mo-bilità e una varietà di distribuzione dei caratteri che la tra-sforma radicalmente. il pubblico, questa volta composto dalettori, si trova di nuovo, ma solo mentalmente, ad interagirecol testo. il titolo, in primo luogo, rimanda a un’esperienzaa cui si potrebbe aver preso parte o comunque offre gli ele-menti necessari per una ricerca (anche rapida e svogliata nelweb) che risolva l’enigma memoriale nascosto: l’avvenimentoperformativo rammemorato dal riferimento alla danza diMagli. in secondo luogo l’irregolarità dell’ordine dei voca-boli, distribuiti nello spazio bianco della carta, obbliga auno sforzo di attenzione e di ricomposizione attiva dellepossibili linearità presenti simultaneamente sulla pagina.Una volta di piú si manifesta quella predisiposizione al-l’azione che rende certa poesia balestriniana – in questocaso addirittura, nella raccolta finale, performata tipografi-

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camente – costitutivamente diversa da quella muta, buonaal limite per letture ad alta voce.

Certamente piú vivace e coinvolgente visivamente, se-condo questa nuova disposizione il componimento tornadunque sulla pagina con nuovi connotati di performatività,come testo nuovo e carico di aspettative nei confronti dichi legge (a cui si richiede un impegno che l’arte di balestriniha sempre manifestato e preteso, sotto ogni punto di vista).

La poesia vocalizzata da Stratos e danzata da Magli sfidaancora oggi, anni dopo la sua unica manifestazione cometesto completo, le possibilità combinatorie e interpretativerichiamando un pubblico solitamente silenzioso e passivo,quello dei lettori, a un corpo a corpo ingaggiato al limitedella classificazione come semplice poesia. Quello che lascrittura di balestrini, di per sé peculiare in questo senso,eredita dall’esperienza subita al Teatro Out/Off è l’esa-sperazione della necessità della partecipazione degli altri aquell’azione, altrimenti insopportabilmente solitaria, cheè la letteratura.

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in "Smerilliana 16" (2014),a c. di E. D'Angelo e T.Ottonieri

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Edoardo SanguinetiCome agisce Balestrini(1963)

Il nome di Balestrini è oggi legato, con un certo sapore di scandalo, soprattutto alleprime sperimentazioni di una poesia ex machina: e diciamo subito che sarebbe assaiingiusto insistere sproporzionatamente sopra questo aspetto del suo lavoro, e da questovoler dedurre la sua intiera immagine di scrittore, come sarebbe ingiusto, per contro,mettere questa zona della sua attività, pudicamente e prudentemente, tra buone parentesi.La verità è che la poesia elettronica è, di tutte le sue ricerche, almeno in un senso ideale,ma certo anche secondo una tutta empirica cronologia, il naturale esito estremo.

In effetti, Balestrini ha composto versi che tendevano al collage e, più oltre, e piùallusivamente, alla poesia ex machina, assai prima di impiegare direttamente questistrumenti specifici: si è servito, a partire già dalle sue primissime prove, di una condizionedi discorso per cui la parola era, ad un tempo, sospesa dai normali rapporti sintattici etrattata come elemento bruto, ostentatamente gravida, nei continui effetti di parlato, delsuo peso pratico, e proprio di pratica alienazione, compromessa dal consumo immediato,e rimontabile, per ciò stesso, in un patetico calcolo combinatorio. Chi guardi oggiall’intiero tracciato di Come si agisce, può ristabilire, per quel tanto di fedeltà alle date chelo scrittore ha dimostrato, in essenza, nell’atto di esporre il suo lavoro come un tuttocoerentemente svolto, i morbidi trapassi verificabili, di volta in volta, dall’una all’altrafase, in un continuo processo di chiarimento, sino all’esplicita e clamorosa rivelazionecontenuta nelle pagine ultime. E si voglia qui anche indulgere per un attimo alla eventualediffidenza dell’ingenuo lettore, e interrompere l’esplorazione del libro alle soglie delleprove concrete ed elettroniche, e, per estrema cautela, ancora al di qua di quelle Tavoledei poemi che sono pure la chiave di volta della lettura, poiché proiettano, sopra tutto loscheletro del libro, la configurazione interna di ognuno dei singoli testi. Si resti insomma,per ipotesi, alla sezione che ha per titolo Lo sventramento della storia, e si tenti didegustarla secondo i modi più pacificamente tradizionali: si sarà costretti a cercare unappoggio in quelle tante dichiarazioni tutte scoperte ("giacché ogni struttura di valori oggiè una struttura falsa è una struttura / falsificante”), che ci riportano, immancabilmente,dai contenuti alle forme, dalla "struttura di valori” che il libro intende sottoporre agiudizio (e a "sventramento”), alla struttura formale che regola l’esercizio di quelmedesimo “sventramento": alle strutture sventrate, appunto, proprie di Balestrini. Inutiledire che nella medesima pagina potremo leggere di “un avvenimento puramentelinguistico". Se i campioni minimi che abbiamo scelto sono scelti bene, dedurremo cosafacilmente verificabile per tutto il volume: il carattere drammaticamente e ironicamentecritico del testo.

Cerchiamo subito il significato ultimo del libro. Al limite, si può dire che questovolume così concluso tende a presentarsi, intrinsecamente, come estensibile all’infinito: èun’apparenza necessaria al sistema del testo. Si vorrà poi anche dire che è, interiormente,nelle sue parti e frammenti, sostituibile e modificabile: e in quest’apparenza è il suosignificato. Perché appunto, a voler scolasticamente risolvere Come si agisce in una seriedi tesi (il che pare essere proprio di ogni libro che ha davvero un significato), la primarubrica potrebbe consacrarsi alla capacità di significato espressivo indiscriminatamenteconferibile, per puro gesto, alla totalità del dicibile, una volta che intervenga unostraniamento dal contesto pratico, perché il lacerto possa essere, come sopra si diceva,sospeso e rimontato. Il fenomeno invera i vecchi propositi di poetica dell’autore, daltempo in cui apparve l’antologia dei Novissimi, allorché Balestrini scriveva: “Le strutture,ancora barcollanti, prolificano imprevedibilmente in direzioni inaspettate, lontanodall’impulso iniziale, in una autentica avventura. E da ultimo non saranno più il pensieroe l’emozione, che sono stati il germe dell’operazione poetica, a venire trasmessi per mezzodel linguaggio, ma sarà il linguaggio stesso a generare un significato nuovo e irripetibile”.Si capisce come Giuliani evocasse allora, in proposito, i collages di Schwitters. L’operaesprimerebbe così, in senso diagnostico, quella totalità di suggestione, automatica e

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sradicata, che il fatto verbale, oggi, storicamente possiede, denunziando intanto che lasuggestione non è raggiungibile se non per via di automazione e sradicamento. Si svela ilcarattere di mistificazione magica di tutti i linguaggi presenti, attraverso la semplicesospensione della loro praticità concreta, e in ferma conservazione della loro praticitàideale, e cioè, , direttamente, dei valori semantici. Si opera così la trasformazione magica,esattamente al modo in cui, per ottenere un sogno, è sufficiente ed è necessario dilatare ecomporre i residui diurni (che è poi, teste Vico, il modo che la fantasia tiene nei confrontidella memoria).

Di qui, come è ovvio, tutta l’ambivalenza dell’opera: essa dimostra, per un verso,che tutto il dicibile è trasformabile in sogno (ossia in poesia), cui la ragione assista, come èbuona regola (anche con l’intervento di buone macchine razionali, se occorre al caso); maper altro verso essa toma a confidare, ancora una volta, sopra la categoria romantica delladilatazione e della composizione, riprendendo il mito al suo punto estremo, e precisa-mente al punto del suo sventramento. Da un lato si dimostra così l'incapacità di resistenzadi tutto ciò che, nella nostra mente, è coscienza di realtà; dall’altro lato, su questa stessaincapacità di resistenza, si instaura una speculazione estetica. Balestrini interrompe, comeconviene, la composizione del libro, al punto in cui il lettore, posto che abbia ripercorsoadeguatamente le fasi operative e appreso di conseguenza l’insegnamento che essecomunicano, può continuare per proprio conto. E avrà imparato, appunto, “come siagisce". Ma chi intanto discorre di opera aperta trova nuovo esempio, e, nel profondo,nuova categoria: perché l’apertura è qui, non più l’accidente in sostanza, e cioè un criterioformale e formativo, ma il contenuto stesso del libro, la sostanza di tutti i suoi accidenti. Eciò comporta il superamento della categoria originaria, nella misura in cui essa eracostituita come relativa e compresente (idealmente e di fatto) alle opere chiuse dellatradizione: avventura contro ordine. Il libro di Balestrini, più radicalmente ormai, e piùsemplicemente, ignora la possibilità stessa della chiusura formale: è una calcolatacombinazione che viene proposta, esplicitamente, come scelta tra le infinite combinazionipossibili del materiale linguistico, in un universo tutto formato di mere possibilità ecombinazioni linguistiche. La macchina, a questo punto, può certamente aiutare, ma nonpuò, altrettanto certamente, far meglio del poeta, in materia di arte combinatoria.Abbiamo voluto precipitare le cose, sino a ricercare, prima di una vera descrizione, unsignificato. Ora si può anche dire che il metodo seguito qui era assolutamenteindispensabile: l’opera di Balestrini tende infatti a consumarsi, per natura, nella suadescrizione. Se Balestrini incontra, a un certo punto, una paralisi provvisoria della facoltàpoetica, siamo di fronte a un imbarazzo tutto interno, al solito, al sistema. La descrizionedell’imbarazzo, si potrebbe persino suggerire, è la finalità interna dell’opera, unateleologia che l’autore, per avventura, poteva anche ignorare, nel momento in cui siponeva al lavoro, ma che l’opera, per sé medesima, conosceva da sola, e prima del suoautore. Nell'ex machina in cui Balestrini va a parare, chi non sentirà allora la vecchiapresenza del deus? Il divino furore del poeta, giusta i primitivi e sacri canoni tipologici, siconverte nell'infinita possibilità tecnica dello strumento elettronico, eletto a stimoloimmaginativo e a esecutore manuale, e esattamente in proporzione alla capacità del poetadi interiorizzare, con il dio, la macchina che lo assiste e che sbriga il lavoro servile.

Ma occorre, di fronte al calcolo combinatorio del poeta, per buona simmetria,combinare bene gli elementi della nostra diagnosi. Perché tutta l’interpretazione diBalestrini è e sarà condizionata, non meno del significato che potrà scaturire da dueelementi di una sua combinazione, da un prima e da un dopo. Si capisce infatti che semuovo a parte subjecti, e guardo a questa novissima poetica del dilatare e del comporre,mi trovo un Balestrini che taglia i suoi fiori asettici di radici quadrate, secondoun’immagine che è già classica, e posso evocare tutti i mostri delle avanguardienovecentesche, e anzi, volendo, ripartire da Vico: e riuscirò anche a non fargli toccare maiterra. Potrò stabilire che tutto questo che si è detto si svolge in laboratorio, e potrò anchenon avvedermi, con le migliori intenzioni, del fatto che sono io che, in laboratorio, svolgoqueste operazioni di descrizione, interpretazione e giudizio che mi istituiscono eautorizzano, tutto criticamente specializzato, a discorrere di “un avvenimento puramentelinguistico”. Eppure avrei il sacrosanto timore, in tale ipotesi, che il deus ex machina diBalestrini prendesse della mia diagnosi allegra vendetta, dilatandomi e combinandomi,dopo avermi fatto a brani. Così, per sfuggire allo strazio, e per avvertire il mio errore

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combinatorio, sarà sufficiente che io mi provi a ripetere l’operazione muovendo a parteobjecti, e cioè muovendo da quella tale disponibilità indifesa verso la magia del sogno chel’opera massicciamente e minacciosamente testifica, non più per sé, ma per l’universo dilinguaggio in cui siamo chiamati ad agire. E qui è il sugo della faccenda: perché allopsicologo domanderemo, volendo, e posto che egli sappia risponderci, le cause del nostromolto sognare, ma è domanda assai più imbarazzante, e difficile a indirizzarsi, quella chemetta in questione il fenomeno per cui, piaccia o non piaccia, l'esperienza del reale in cuisiamo immersi, ivi compresa, per supremo sintomo, la nostra capacità di pensiero, sirende passibile di fruizione soltanto se vissuta autenticamente come residuo. Che ioimpieghi i residui nel sogno o le parole in poema, è cosa che non modifica in ' nulla laqualità dell’esperienza: il fatto dice qualcosa che non mette in causa né i sogni né i poemi,immediatamente, ma, piuttosto, la realtà. Al più potremo dedurre che i fantasmi del sognodicono qualcosa di vero, nella misura in cui il libro è, come deve essere, allegoria delmondo.

Non si dovrà con questo nascondere il fatto che il volume conserva tutto il naturalesegno del suo peccato di esistere, se entrambe le possibilità di combinazione del giudiziopossono rimanere logicamente in piedi: che è l’ambiguità di cui sopra. E sarebbe molto seanche per questo fatto si potesse ripetere: è interno al sistema. Ma qui, veramente,cessano le responsabilità di Balestrini, il quale, almeno al riguardo, il sistema se lo ètrovato tutto pronto, nelle condizioni storiche. Chi voglia fare di lui una figura di quellache ormai si definisce come la nuova avanguardia, ha buon giuoco: purché avverta la forzadi simile condizione storica, e tutto quel registro che essa implica e impone. Il limitestorico sarà poi, nel suo caso, che il processo romantico della fantasia rimane nonsuperato e non superabile, se non in quanto, precisamente, è superato ancora nella formadella fantasia. E sia pure, come sappiamo, di una fantasia ex machina. Su questo siamo ingrado di precedere molte inevitabili recriminazioni, e fare di più: dire come sopravviva,nello sventramento, tutta quella fiducia romantica nella magia della parola straniata esospesa, nella parola disinteressata, e cioè dilatata e combinata. Ma si rovesci ancora:perché tutto sopravvive nell’informe di così energico sventramento.

Ricordo le prime poesie di Balestrini, che lessi, nel 1957, sopra il “Verri”. Oggi, arileggerle in volume, si sente che vengono tanto prima del diluvio delle prove ultime, e chequel diluvio invocano, proprio come complici della forma della fantasia, come ancoraremote, per insistere su questi termini, dall’informe dello sventramento. Balestrini ègiunto davvero in fondo, senza esitazioni, a quel vicolo cieco che, fatalmente, lo attendeva.Ed è fortuna che del suo libro si possa dire, comunque abbia a prolificare in qualità diduro esempio, che non apre nuove strade: appunto per questo può riuscire, oggi, allegoriaamaramente credibile del nostro mondo.

(in: Ideologia e linguaggio, cit.)

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ALBERTO ARBASINO

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Luca ScarliniLirica

Arbasino ha con il melodramma una dimestichezza che si radica nella suainfanzia e che lo ha visto coinvolto a livelli diversi, ma sempre con grande capacitàdi intervento, di volta in volta come narratore, critico, regista (in un unico caso: laceleberrima, contestatissima Carmen strutturalista realizzata a Bologna nel 1967)e anche come librettista sui generis. E come se il teatro in musica fosse stato lospecchio di tutta la definizione del suo universo espressivo, instabile,perennemente in bilico tra narrazione e riflessione saggistica, appassionato discatole cinesi e cortocircuiti arte-vita, che ha trovato in alcune occasioni proprionell’opera il proprio punto di riferimento centrale. Lo scrittore lombardo è quindiin primis il diarista di una riscoperta che lui stesso ha paragonato per impatto aquella dei primitivi per i Preraffaeliti: uno shock culturale profondo, che hacambiato il destino estetico di una generazione. Così infatti scriveva a margine diuna Sonnambula del Covent Garden: «la novità di questi anni è stata invece lariscoperta del melodramma del primo Ottocento proprio sul piano del gusto,preparata da Gui e Rossini a Glyndebourne ed esplosa con un trasporto pari alleeiaculazioni di tre generazioni fa per la pittura antecedente a Raffaello»1.L’affermazione si riferiva alla situazione britannica, ma vale anche per l’analogofenomeno italiano di poco precedente, che lo scrittore ha precocementeindividuato e raccontato e di cui prima di lui era stato solitario profeta BrunoBarilli, spesso citato nelle sue pagine, che esaltava controcorrente la «musicavermiglia» del Trovatore2. In questo sono già esplicite le pagine dei racconti checompongono l’opera prima Le piccole vacanze, in cui i protagonisti parlano delMaggio Musicale Fiorentino e della Giuditta di Vivaldi 3, oppure di Gian CarloMenotti e Leonard Bernstein4 e quelle davvero magnifiche e degne di riesame, deLa narcisata, frenetica cavalcata fonetica nel jet-set romano e vera e propriacaccia al flatus vocis gergale come mezzo di rappresentazione del reale, in cui i varipersonaggi alludono freneticamente al melodramma come loro primo punto diriferimento linguistico. Il lavoro (il cui titolo era stato suggerito da Pasolini)prende un ironico andamento melodrammatico già dal sottotitolo: Una notte deldemi-monde e in seguito le citazioni davvero si sprecano. Si fa accenno aimmaginari bozzetti di Léger e Dubuffet rispettivamente per II Flauto magico eAida5, secondo il gusto inventato dal Maggio Musicale Fiorentino negli anniTrenta e ancora in voga al tempo, di abbinamenti tra pittori di grido e titoliclassici, oppure, in seguito, la nobildonna Ferri Fazzi viene segnata da unapassione per i trittici (ne possiede uno di Simone Martini, ma anche non si separamai da una confezione dello stesso nome delle celebri calze Mille Aghi) e quindinon può che tornare per assonanza ritmica e tematica, che da una

1 Alberto Arbasino, Grazie per le magnifiche rose, Feltrinelli, Milano 1965, p. 91.

2 Bruno Barilli, Il paese del melodramma, Adelphi, Milano 1999, p. 18; tra le numerosecitazioni da libri di Barilli reperibili nelle opere di Alberto Arbasino, si veda tra l’altroGrazie per le magnifiche rose, cit., p. 398 e p. 468.

3 A.A., Luglio, Cannes, in Le piccole vacanze, Einaudi, Torino 19712, pp. 181-206.

4 A.A., Racconto di Capodanno, ivi, pp. 243-254: p. 253.

5 A.A., La narcisata, Einaudi, Torino 1973, p. 14.

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rappresentazione all’Opera del Trittico pucciniano6. Ma il gioco delle traccemoltiplica e divide; i riferimenti sono davvero troppi per tentare di categorizzarli evai meglio un percorso obliquo che il rischio di una catalogazione astratta.

Fatto fondamentale della sua opera è indubbiamente l’incontro con laCallas, ascoltata precocemente in memorabili serate milanesi dei primi anniCinquanta e poi inseguita intorno al globo. Come ognun sa, la totalità dellecitazioni della cantante nelle opere di Arbasino (inclusi gli scritti di occasione ed’elzeviro, spesso nostalgici e dolciastri, degli ultimi anni) andrebbe a costituire diper sé un libro a parte, ma è soprattutto in un caso che il nesso diviene centrale.L’Anonimo lombardo ha, nel riepilogo dei valori novecenteschi che stenta ancora adecollare seriamente al di fuori delle consuete polemiche salottiere che il 2000 hainnescato con precisione dinamitarda, il peso e la grazia a un tempo di un’operanecessaria, in cui il meccanismo strettissimo di relazione tra il melodramma e latrama fitta delle storie mixa magistralmente immagini e fantasmi otto-novecenteschi. Nel libro ci sono pagine categoriche nel descrivere una serie diemozioni davvero soverchiami e che non possono che essere preliminari aiturbamenti dell’eros. In tal senso è davvero memorabile il brano iniziale che narrail sorgere di una attrazione sulle note della Medea di Cherubini da cui varrà lapena di citare uno dei passi più riusciti e noti: «mi accorgevo appena che la Callasormai entrata spiegava il suo canto che non potevo cogliere se non nei solititermini di “arcano”, di “misterioso”, di “sortilegio” e minuti e minuti passavanosenza che i miei occhi riuscissero a lasciare i suoi al suono di una marciatrionfante, non sapevo se esultare o tremare, sfilava l’esercito portatore del vellod’oro e lui mi faceva cenno che non lo fissassi così ma le mani a un certo puntocominciano a cercarsi, anche se uno non ha mai letto Pompes Funèbres che ha lastessa trama della Norma»7. E poi in seguito ancora più categoricamente: «è permerito di registi o scenografi già ammirati per lavori fatti al cinema o in prosa, o lafama di qualche cantante celebre di cui si son sentiti ottimi dischi... ecco, ci si trovaattirati alla Scala, una sera tutt’altro che impegnativa perché ci si va conl’intenzione di venire via appena ci si stufa. Ci sono rimasto e ci siamo tornati; ed ètutta una generazione ventenne che ha preso questa strada ignota ai padri e aglizii: i gruppi “avanzati” si lasciavano prendere dai melodrammi dati con gusto e conspirito, e loro hanno aperto la via a quelli che andavano ancora alla rivista, e siappassionavano alle figure delle “Divine” con un vero culto della personalità e inquesto senso la Callas è erede naturale della Osiris»8. E in varie recensioni neglianni seguenti: «delirante, sconvolgente, la figlia di Minosse arde diespressionistiche violenze provando che la sua condizione naturale è il gruppo delLaocoonte, dell’Eracle furente, è l’eccesso»9, oppure affermando con orgoglio icongegni del suo gran meccanismo narrativo: «e una volta di più mi congratuloper aver legato tanti anni fa coi nessi maniaci dell’Anonimo lombardo un congegnodi Romanzo sul Romanzo travestito da romance di Amore-che-non-osa-dire-il-proprio-nome all’intero viluppo melodramma-Medea-Callas, anche parecchi anniprima delle srììanie operistiche della frangia scadente della nostra café societyletteraria»10. Ed è testimonianza diretta e di grande potenza di un continuomovimento stilistico che nel palcoscenico melodrammatico trova il propriospecchio più efficace.

Sulla stessa linea, ma con ancor maggiore forza, sta ovviamente Fratelli

6 Ivi, p. 61.7 A.A., L’Anonimo lombardo, Feltrinelli, Milano 1959, pp. 20-21.8 Ivi, pp. 109-110.

9 A.A., Grazie per le magnifiche rose, cit., p. 94.10 Ivi, p. 196.

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d’Italia, dove l’opera lirica è davvero onnicomprensiva e fagocita il libro in ununico, continuo, rimando. La sgangherata gang itinerante di amici gay chechiacchierano in continuazione e riducono la storia appunto a conversazione,come in una squisita conversation piece debordata nell’assoluto, non fanno altroche vedere opera, sentire opera, amare opera (e per sovrammercato percepire ilmondo sub specie operistica). Il melodramma è davvero quindi il termine diparagone delle loro esistenze e non per caso il romanzo si apre di nuovo con laCallas, che tutti insieme hanno deciso di andare a vedere in Grecia per cedere poirapidamente il posto alla Sutherland (che Arbasino definì altrove «la vittoriana»11

evidenziandone efficacemente le peculiarità e le differenze rispetto al modellocallasiano) in scena a Napoli per una belliniana Beatrice di Tenda. Ma la musica èdavvero ovunque: «il grammofono va continuamente nella casa. Opere, quasisempre, le più romantiche di tutte, o musicals degli anni scorsi a Londra» 12 e inseguito diventa così pervasiva da essere davvero il linguaggio più normale diespressione e da offrire il destro a giochi, allusioni e addirittura quiz. «Mai sentireun disco per più di mezzo minuto: a pochi centimetri per volta. Sempre lì con lapuntina sui solchi, avanti e indietro, come un aratro, per cascar giusto su una fraseo su un accordo: rovinandoli, si capisce»13. E il repertorio si estende e diffondedavvero a macchia d’olio, parlando di titoli nuovi (Klaus, il compositore tedescoche parla del suo nuovo lavoro, rimanda in parte a Hans Werner Henze, che altempo in cui si ambienta la narrazione, era in scena a Spoleto con cospicuosuccesso con il bel melodramma neoromantico Die Prinz von Homburg) evedendone di antiche e moderne in un continuo percorso on the road tra città eamicizie. E ovvio che il gran romanzo, di cui recentemente Adelphi ha mandato inlibreria la versione definitiva (salvo ulteriori interventi), trovi un clamorosocontrocanto proprio nelle pagine di Grazie per le magnifiche rose, regesto sommodegli scritti spettacolari edito nel 1965, da troppi anni assente dal mercato e di cuiè auspicabile una ristampa con cospicui apparati. Si tratta di uno specchio, doppio,in cui le pagine vanno e vengono, acquisendo via via definizione saggistica onarrativa, com’è evidente ad esempio per il capitolo Palais de danse con lerecensioni dedicate al Festival di Spoleto vicinissime a quelle consacrate al festivalnei Fratelli d’Italia14, ma soprattutto è evidente per quello che resta l’episodio piùstrepitoso di osmosi tra le due opere, che dà occasione a un vero e propriomanifesto estetico. L’argomento è un Trovatore estivo all’Opera di Roma (unavera e propria spedizione punitiva), che offre il destro a una presa di posizione,ribadita con lievi differenze nei due volumi. Scrive infatti Arbasino15: «Perfinoall’Opera capitiamo, stranamente aperta, e fanno dei Puritani e dei Trovatori sottoogni immaginazione. Non manca niente: soprano grassa, tenore vecchio, baritonosenza voce, abbietta zingara vestita da Brighella. Si arriva lì magari di corsa conl’intenzione di andar via subito per finir la serata alla Stazione, ma non si riescepiù a venir via. Così ha da essere l’opera: una corrida! Ruote di carro, fuochi dicarta rossa, pance sporgenti in fuori, elmi da pupi siciliani, penne di struzzoaltissime su tutte le teste, parrucche d’oro con l’orecchio sordo fuori dai boccoliper sentire il suggeritore, protagonisti addormentati su pelli d’orso, scenografiedaMefistofele, comprimari che fanno la Manon e la Carmen, comparse che

11 Ivi, p. 94.

12 A.A., Fratelli d’Italia, Feltrinelli, Milano 1963, p. 65.

13 Ivi, pp.261-262.

14 A.A., Palais de danse, in Grazie per le magnifiche rose, cit., pp.168-194.

15 A.A., Fratelli d’Italia, cit., p. 351; con alcune lievi differenze la pagina è reperibile in Grazieper le magnifiche rose, cit., pp.12-13.

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arrivano dalla Turandot e dall’Aida e nel pubblico falpalà e tacchi alti, belletti databaccaio, parrucche da uomo e da donna, ordinarie in raso bisunto, cheespongono l’ascella col pelo, onorificenze da Principessa della Czarda. Che opera!Che spettacolo! Che città!».

Le citazioni, d’altra parte, si moltiplicano nella sua produzione, in un giococontinuo e soggetto a sempre nuove diramazioni, rigorosamente a tema oclamorosamente fuori tema. Per cui, ad esempio e senza alcuna pretesa dicompletezza, una poesia giovanile poi pubblicata ne «Il caffè» si intitolaironicamente con un rimando alla Adriana Lecouvreur di Cilea Poveri fiori 16, neLa bella di Lodi il carcere in cui è rinchiuso lo sventurato Garbagnati Franco«fuori, sembra il castello del Trovatore»17, in Super-Eliogabalo i riferimenti sonoonnipresenti, nell principe costamele azioni del protagonista vengono paragonatea quelle del Principe Igor18, nel superbo romanzo pop-decostruzionista Specchiodelle mie brame la conclusione è un controcanto dal Don Giovanni con il corodelle nozze di Zerlina e Masetto a commentare con malizia quelle improbabili eanglosiciliane tra Judy e Michele19 oppure, in quel radicale contro-ritratto deglianni Settanta («un decennio poco amato»; così recitava il sottotitolo) che è Unpaese senza, l’invivibilità di Roma viene stigmatizzata con un passo del libretto diFaustini per L'Ormindo di Cavalli, dove si afferma categoricamente: «Che città,che città, / che costumi, che gente / sfacciata ed insolente!»20.

Quindi il melodramma è allo stesso tempo lessico comune e luogo delladismisura, sentimentale ed espressiva. Sullo sfondo di questo proclamaarticolatissimo e di grande lucidità, in cui la provocazione camp si unisce a unaprecisa indicazione critica, sta in realtà un riferimento preciso: la svolta storicistadi Visconti, geniale recupero e reinvenzione di una tradizione nei suoi elementicostitutivi e modello per un lunghissimo periodo (almeno un trentennio, ma gliechi continuano a risuonare, anche se in genere ad opera di tristi epigoni) dellamessinscena operistica euro-americana. Il regista è in un certo senso destinatarioocculto di molte riflessioni dello scrittore lombardo sull’opera e certamente ne èstato per lungo tempo punto di riferimento per un discorso critico sul recuperoalla modernità delle convenzioni melodrammatiche. Arbasino recensore lo segueda vicino: in un primo momento adotta totalmente la sua visione in occasionedella rivoluzione scaligera del triennio 1954-1957 di cui è evento centrale Latraviata, e poi ne parla diffusamente in occasione del Macbeth spoletino del 1958in cui il grande costumista-scenografo Piero Tosi aveva preparato una «saga di forimuscosi e atri cadenti» dipinti su tulle e ispirati al romanticismo storico piùflamboyante, su cui aleggiava il fantasma di Hayez (com’è noto consulente perVerdi dei costumi della prima fiorentina dell’opera), indicando, con un’esattezzacondivisa in Italia all’epoca solo da Fedele D’Amico e pochi altri, gli elementicostitutivi della rivoluzione-rivelazione viscontiana. In tal senso sonofondamentali le pagine su un altro importante repêchage, Il duca d’Albadonizettiano che nel 1959 fu in un certo senso il culmine del percorso storicistico,con uno spettacolo che era basato sulla scelta filologica radicale di recuperare lescene ottocentesche originali in un magazzino romano, lavorando assolutamente«dall’interno» alla ricostruzione di un mondo espressivo a lungo travisato enegletto. «Ripescate nei magazzini di Parravicini, le scene originali di Ferrario peruna rappresentazione dell’82 all’Apollo [di Roma,n.d.a.], sono un vero capolavoro

16 A.A., Poveri fior, in Matinée. Un concerto di poesia, Garzanti, Milano 1983, pp. 27-30.

17 A.A., La bella di Lodi, Einaudi, Torino 1972, p. 87.18 A.A., Il principe costante, Einaudi, Torino, 1972, p.62.19 A.Arbasino, Specchio delle mie brame, Einaudi, Torino 1974, pp. 132-133.

20 A.A., Un paese senza, Garzanti, Milano 1980, pp. 140-141.

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di quella riproduzione pedante della realtà architettonica nel gustotardoottocentesco da “opera” che si può considerare, come la Galleria di Milano,orrido o meraviglioso o tutt’e due insieme. [...] Affondando nelle più tarlatepeluches di Scribe e Delavigne, Visconti e Filippo Sanjust hanno disegnato unmonumentale sipario blu e oro, gonfio di frange e drappeggi e una serie di costumidi colori bellissimi e sfacciati, carichi di squillanti pennacchi rosa-salmone ogiallo-limone o carnicino o verde tenero e poi adottato una illuminazioneperfettamente ottocentesca, ferma, con pochi riflettori, l’idea piuttosto dellecandele e del fumo, del gaz, infatti le fiammelle della ribalta proiettano una forteluce giallognola sulle facce in primo piano, lasciando al buio quelle dietro: allaDaumier»21 A questa dichiarazione ideologica, seguirà poi il distacco con unarecensione acida alle Nozze di Figaro romane trasferite in terra di Spagna, inomaggio alla riscoperta filiazione con l’ambientazione originale del testo diBeaumarchais22 e infine una vera e propria frattura con questa eredità culturale neLa maleducazione teatrale, dove in preda a furori strutturalisti afferma: «la scuolaviscontea rappresenta piuttosto l’estetica Liberace in Italia: eseguire Liszt con unfrac d’oro su un pianoforte d’argento, interrompendosi di tanto in tanto concommenti estemporanei rivolti al pubblico»23, dichiarazione rafforzata poco dopoda un velenoso inciso chiara-mente indirizzato alla scuola storicista, in Off Off,dove nell’elenco finale delle nequizie della scena italiana postbellica deplora «ilmelodramma come nei negozi di passamanerie» e le «squallide ricognizioni nelbric-à-brac della Porta Portese del melodramma»24. La presenza di Visconti ècomunque forte e di lui si parla tra ammirazione e sarcasmo, solo per restare alleopere narrative, ne I blue jeans non si addicono al signor Prufrock25, ne Lanarcisata, nei Fratelli d’Italia e in Super-Eliogabalo, rispettivamente in un elencodi mondanità romane: «fa venire Luchino, la Lilla e la Lola, scegliti un belBalenciaga nero da Alfredo mode...»26, sotto il camuffamento semi-trasparente diOttorino Ghislieri, «quarant’anni di carriera, e per il melodramma “habillé”sempre il più bravo di tutti»27 e infine negli sterminati elenchi d’arredamentodell’imperatore pop: «lì uno psicodramma hippy con regia di Visconti, scene ecostumi di Zeffirelli, musiche di Giordano e Cilea»28. In un certo senso è propriolui insieme alla Callas il nume tutelare di questo intensissimo percorsomelodrammatico.

A questi primi due capitoli che vedono lo scrittore coinvolto come narratoree saggista (anche se i confini, come si sa, sono labili e le pagine, come dimostrato,sono inquiete e cercano sempre nuova collocazione), va segnalato quello più vicinoalla scena, che è il meno conosciuto e che ha visto Arbasino impegnato comeregista e «librettista» (le virgolette sono d’obbligo) estemporaneo. La carriera inscena si limita per le messinscene d’opera (è da registrare in campo teatralesempre nello stesso anno un Prova inammissibile di John Osborne, protagonistiTino Carraro e Nora Ricci) alla celeberrima Carmen strutturalista (con doviziosecitazioni da Barthes) del 1967. Questa rappresentazione dava corpo alle sue Notesulla Traviata, contenute ne La maleducazione teatrale edita l’anno precedente,in cui lo scrittore affermava: «un’impostazione praticamente coerente, non

21 A.A., Grazie per le magnifiche rose, cit., pp. 170-171.22 Ivi, pp. 384-387.23 A.A., La maleducazione teatrale. Strutturalismo e drammaturgia, Feltrinelli, Milano, 1966, p. 23.24 A.A., Off Off, Feltrinelli, Milano 1968, p. 281.25 In Le piccole vacanze, cit., p.5826 La narcisata, cit., p. 28.27 Fratelli d’Italia, cit., p. 9528 Super-Eliogabalo, Feltrinelli, Milano 1969, p. 119.

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potrebbe essere che questa: scene semicircolari, o magari poligonali (evitando ognitaglio obliquo o di sbieco). [...] Un oggetto grande e ingombrante dovràingombrare - pesantemente semantico il centro della scena in ciascun attodeterminato tematicamente dall’atto stesso: tavola da pranzo nel primo; divanorotondo con palma in mezzo nel secondo (padiglione o serra), scala tortile (ma nonsono tanto sicuro) nel terzo (dopotutto è un arnese molto secondo Impero); e illetto naturalmente nel quarto»29. Il discorso critico indotto dalla messinscena eraquindi assolutamente antistoricistico e antiviscontiano: le scene di Gregotti e icostumi di Giosetta Fioroni puntavano ad una rappresentazione d’attualità coninfiniti riferimenti al tempo presente (fece scandalo l’apparizione di Dancairo eRemendado vestiti di tute argentate, con capelli alla Beatles e lo stesso accadde perla presentazione del torero Escamillo in vesti di Superman). In piena diffusione delmodello viscontiano, che egli stesso aveva contribuito a storicizzare, l’autorepuntava su diversi parametri: «cercando di farne una rappresentazione stilizzata,semantica, funzionale a tutti i livelli, un Barthes portato all’estremo, colori,persone, gesti usati come puri segni: una realtà né veristica, né pacchianamentecubistica o comunque astratta, ma diventata simbolo, emblema»30.

Infine, ma è davvero solo una forzatura per comodità di trattazione, giacchél’opera arbasiniana è unita e davvero tout se tient, la scrittura per musica. Va dettoinnanzi tutto che la destinazione di queste pagine non è esplicitamente operistica,segue invece le fortune e i fasti del cabaret romano di fine anni Cinquanta, creandoun modello di teatro musicale moderno, che ha le proprie radici nella librettisticabuffa del primo Ottocento, riscoperta e apprezzata come equivalente dei mirabiligiochi di parole di Lear o Carroll (e non a caso proprio lo strepitoso finale dellturco in Italia chiude L’Anonimo lombardo). Destinatari di questi incantevolipezçi erano Laura Betti, per le due antologie Giro a vuoto e Potentissima signora(tra le tante songs è impossibile non citare almeno Seguendo la flotta, cheindimenticabilmente inizia con «Ossigenarsi a Taranto / E stato il primo errore /L’ho fatto per amore / di un incrociatore»... e via di seguito31), per la musica diFiorenzo Carpi, Luciano Chailly, Gino Marinuzzi jr. e Mario Peragallo, e GiancarloCobelli con degli incisi molto divertenti per La piccola vedette lombarda.Altrettante testimonianze di una stagione altissima di intrattenimento letterario incui furono coinvolti Pasolini, Calvino, Moravia, Parise e chi ne ha più più ne mettae che varrebbe decisamente la pena di recuperare e ristudiare complessivamente.Infine, last but not least, è da citare l’unico esplicito progetto per un musical«patriottico e antifascista» firmato insieme al regista Mario Missiroli: Amatesponde!. Il testo, concepito come controcelebrazione del pomposissimo Centenariodell’Unità Italiana nel 1961, era stato pensato per una compagnia destinata a nonrealizzarsi (Asti, Betti, Cobelli) e venne pubblicato nel 1962 su «Paragone». Inquesta sfrenata cavalcata nella storia del Belpaese un attonito trio familiare(composto dalla Mimi, dall’Ida e dall’Eugenio) assiste nel proprio lindo salottoborghese all’irrompere della storia (tutto succede sempre lì fino al delirio) e nesegue gli esiti fino agli estremi limiti. L’Italietta viene passata a fil di spada da unaserie di malvagi couplets in cui davvero la rima diventa uno strumento diribellione politica, unendo in una sola dimensione cose apparentemente remote einvece vicine, vicinissime, talvolta quasi identiche, fino a sovrapporsi o annullarsi.Tra i tanti momenti riusciti di questo micidiale divertissement, o se si preferisceoperetta (ma nel senso lugubre che il termine acquisisce nel titolo della omonima

29 Esercitazioni. 1. Note sulla Traviata, in La maleducazione teatrale, cit., pp. 90-105.

30 Nello Ajello, Arbasino toreador, in «L’Espresso», 5 marzo 1967, pp. 14-15.31 Ora in Matinée, cit., pp. 83-84.

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pièce di Gombrowicz) vai la pena di citare almeno un passo del Cotillonimperiale32.

«Indigene:Badrone badrone Sì belle e sì buone Venute da terre Civili e lontane Invece di guerre Vi offriamo banane Vi offriamo perbacco Colonia e tabacco Tabacco di Harar La Sfinge:Tutto puoi colonizzar Dai baobab alle zanzar!Ida e Mimi: Wunderbar! Wunderbar!».

Una dimostrazione chiarissima, evidente, di un appuntamento mancatodello scrittore lombardo come librettista con il melodramma contemporaneo, cheavrebbe dato frutti certamente di grande interesse, concludendo il ciclo che avevavisto cospicue iniezioni di librettistica passare con grande autorevolezza infunzione ironica o drammatica nelle pagine dei romanzi.

in “Riga” 18 (2001), a c. di M.Belpoliti e E.Grazioli

32 A.A. e Mario Missiroli, Amate sponde!, Einaudi, Torino 1974, pp. 68-69.

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A.A.

Addio alla Marescialla

L’IGNOTA: Me ne torno a danzare a Berlino! a Berlino!

(Come tu mi vuoi)

Bombardata, distrutta, schiacciata sotto i piedi, impoverita e divisa, unacapitale fra le più grandi s’è vista strappar via duramente ogni prerogativa, unadopo l’altra. Ma se il potere politico e il prestigio scientifico e il centro degli affarisono trasferiti lontano, sembra che Berlino brilli anche più di prima come capitaledi straordinari spettacoli; e praticamente, in una zona franca dove ogni altra formadi prova-di-forza politica o militare rimane sospesa fra i due blocchi, lacompetizione propagandistica è soprattutto viva sul terreno dei colpi-di-manoculturali, a partire da teatri e musei (oltre che, si capisce, su quello delle vetrinepiene: ma è anche naturale che qui il settore orientale, più Noi Vivi che non DolceVita, lasci perdere gli elettrodomestici e le minestre in scatola, e puntiessenzialmente sulle meraviglie della Collezione di Pergamo e sulle Res Gestaedella Vedova Brecht).

Arrivando quindi per qualche giorno in questa Troia non da Troiane diEuripide ma di Troilo e Cressida secondo John Erksine o Christopher Morley, eguardando subito ai programmi dei teatri, si può anche perdere la testa di frontealla ricchezza delle offerte: mai meno di venti o venticinque spettacoli, tuttiinsieme, tutti non male, e parecchi molto promettenti, sia nel campo greco, sia inquello troiano. Soltanto l’ignoranza linguistica riesce a tener lontani dal DeutschesTheater che fu di Max Reinhardt, dal-l’Hebbel e dallo Schiller, dal Komodie, dalTribüne, dal Gorki, dal Renaissance, dallo Schlosspark, dal Kurfürstendamm,confinandoci con riluttanza alle sale d’opera. Non ci escluderà comunque dalBerliner Ensemble: col pretesto che intanto un testo di Brecht lo si può conoscere,bene o male, “anche troppo,” e comunque passa volentieri in secondo pianodavanti ai giochi di palcoscenico.

La competizione lirica pare poi sfrenata fra la Stàdtische Oper di BerlinoOvest, che rinfresca pulitamente e con mano leggera i suoi classici, e la KomischeOper di Berlino Est, dove trionfa invece il più selvaggio scatenamentoespressionistico. Sembra invece estranea ai ripensamenti estetici la grande Operadi Stato di Berlino Est, e va avanti con le sue Aide e i suoi Franchi Cacciatori nellapolvere.

1. Leporello, un’altra cena

All’Opera Municipale, ancora nella sua sede provvisoria, un exteatroned’operette d’anteguerra, avevo cominciato a vedere del Mozart limpido e vivo, inedizioni 'ne varietur’ tipo Lezioni di Stile. Nessuno tende a strafare. Il canto e igesti incantevolmente composti in un giustissimo equilibrio, costante, fra le voci e

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l’orchestra; la misura della grazia non eccede il necessario; e alla fine niente risultasacrificato, neanche i ‘pianissimo’ di Cherubini, che si sentono perfettamente.Scene e costumi nello spirito di quel pacato barocco 'internazionale’ che diffondevanelle Corti periferiche, dalla Danimarca al Piemonte, l’Esprit de Versailles: masenza eccessi di grandiosità o sofisticazione. Nelle Nozze di Figaro, sale tenute suuna dimensione ragionevolmente umana, sale dove sembra possibile vivere. E nelCosi fan tutte, elementi mobili e 'trasparenti’ disposti dentro una cornice nera edorata che simula una scena dentro la scena: la mia Dorabella, la mia Fiordiligi,Elisabeth Grümmer, Dietrich Fischer-Dieskau, Joseph Greindl, Ernst Haefliger,Rita Streich...

Alla stessa Opera Municipale ho avvicinato per la prima volta due opereindispensabili per intendere il punto di vista dei compositori nella grandiosa crisidel Gusto cominciata agli inizi del secolo, quando l’arte europea si libera delrutilante decorativismo ereditato dopo le bicchierate simbolistiche degli anniOttanta e Novanta, volta le spalle ai gioielli falsi di Moreau e di Wilde, ai ferribattuti di D’Annunzio, al post-impressionismo dei nipotini piti fremebondi diWagner e Debussy, e sulle rovine del Liberty nascono insieme, serie e magre, lapittura di Klee e di Mondrian, le sillabazioni di Valéry e di Gide, e l’architetturamoderna: nascondendo ormai il proprio decadentismo nell’intimità piti profonda,come il Principe Ignoto della Turandot – “Ma il mio mistero è chiuso in me!” – ocome Lenin nel vagone piombato. Proust, ancora tutto dentro la Belle Époque,spaventevolmente a bagno nel cromatismo dei Sinfonisti dell’Ultimo Giorno,abituato ai programmi di Franck e Saint-Saëns e Reynaldo Hahn, si era subitoaccorto di questo “giro di vite” estetico; e aveva già fatto fin troppo, da parte sua.Sia pure con un accompagnamento di gentili dileggi: nella Recherche la“efflorescence prodigieuse” dei Balletti Russi non rivela soltanto il genio diStravinski e Nijinski e Bakst, ‘lancia’ anche definitivamente in società laprincipessa Yourbeletieff con la sua immensa aigrette, e Mme Verdurin col suosalotto, come se le due sublimi creature fossero state portate dai russi nei lorobagagli; e il loro successo diventa sempre più rapido. Sorride la leggibilità,allegoricamente volgare, del Genio Contenuto in una Fodera di Vizi: quando il veromotivo immediato della presenza chez Mme Verdurin di un sottosegretario alleBelle Arti, tre ambasciatori, e numerose duchesse, per una serata definita'parisienne’ dal grosso pubblico e dai 'giornalisti filosofi,’ altro non è che larelazione fra Charlus e Morel, e il vivo desiderio di Charlus di dar la massimarisonanza possibile ai successi artistici di Morel, e di ottenergli la Legion d’Onore;così come la relazione fra Mlle Vinteuil e una cert’altra signorina mettono in motouna serie d’iniziative geniali che conducono alla rivelazione degli spartiti diVinteuil, a una sottoscrizione, all’erezione di un monumento sotto il patronato delMinistero della Pubblica Istruzione: i rapporti personali colpevoli servono dunquecome scorciatoie grazie alle quali il mondo raggiunge talune opere senza i détoursdell’incomprensione e dell’ignoranza (che peccato che Proust non abbia potutodescrivere l’Età della Callas e il Grande Ritorno delle Checche al melodrammaverdiano...). A Richard Strauss arriva, però: per osservare come tanta gente dotatadi un gusto istintivo e sicuro per la cattiva musica, arriva a mortificarselo, graziealla Cultura Sinfonica; ma appena Strauss sembra accogliere nel suo ÉblouissantColoris Orchestral dei motivi volgari, con un’indulgenza degna di Auber, tuttiimmediatamente trovano nella sua autorità l’alibi per incantarsi sconciamente perSalome, senza scrupoli e con una doppia gratitudine, trovandovi tutti i piaceri dicui s’erano privati in Les Diamants de la Couronne. Non è neanche necessarioriprendere le sue osservazioni specifiche sui Balletti Russi per accorgersi cheProust aveva già capito tutto: la prova migliore la dà proprio nella concezionebasica dell’intera Recherche, dove la tenerezza per la Paillette Riempitiva non

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interferisce mai con la decisione strutturalistica di fare quel certo ‘buon uso’ delTempo.

Arrivando però al ‘test’ teatrale del Moses und Aron di Schönberg, ci sirende conto che quel grande amore di Proust e nostro, Stravinski, potrebbe esserestato un falso bersaglio. Dal Sacre che faceva delirare Oriane e Marcel, alle ‘novitàassolute’ che ci sconcertano ogni autunno a Venezia, tutti i capolavori della suastraordinaria carriera di Trasformista, più che di Libertino, non sono poi tantimeravigliosi punti d’arrivo, in fondo a tanti vicoli ciechi, al di là dei quali non sipotrebbe far altro che comporre dei nuovi piccoli Petrushka, piccoli Pulcinella,piccoli Oedipus Rex, piccole sinfonie più o meno concertanti, e poi, battere il nasocontro il muro?

2. Mosè e Aronne

La musica ‘nuova’ di Arnold Schönberg, cosi diversa dalle sue prime cose(quella Verklàrte Nacht che è ancora puro Vinteuil, quel Pierrot Lunaire chedoveva piacere a Puccini), e cosi difficile, severa, priva di buon gusto e densapiuttosto di un delirante ascetismo, come un Bach rapinoso del nostro tempo,come un nuovo Brahms di cui si possa dire che “come l’austera Cordelia,nascondeva le sue emozioni più preziose piuttosto che esporle alla gente” o “comeGrillparzer, si sforzava per un Effetto, non sugli altri ma su se stesso,” apre a vivaforza una porta per cui potrà uscire e avviarsi al lavoro una quantità di compositorisuccessivi. E si capisce bene come mai Thomas Mann, che a differenza di Proustconosceva di prima mano l’autore del Moses und Aron, abbia puntato tanto suSchönberg nella composizione del Doktor Faustus; e per compiere un tour deforce fra i più incredibili – la descrizione di partiture musicali che non esistono! –si sia fatto assistere da Adorno che non lo ammira poi molto, l’autore del Moses,quantunque riconosca benevolmente qualche sintomo d’involuzionetradizionalistica nella “grandiosa ingenuità” della sua lotta contro le OmbreInformi delle Forze che Distruggono l’Individualità. “Ho in mente qualche cosadi religioso-satanico, di pio-demoniaco, di strettamente legato e delittuoso, cheschernisca talvolta l’arte e risalga all’elementarità primitiva... che rinunci allasuddivisione delle battute e magari dell’ordine tonale (glissando di tube); inoltre,qualche cosa di quasi ineseguibile praticamente: antiche tonalità ecclesiastiche,cori a cappella, che debbono essere cantati in atmosfera non temperata, di modoche sul pianoforte non se ne trovi né un suono né un intervallo...” (Romanzo di unromanzo). Sembra che manchi molto poco a un ultimo passo: l’applicazione delleimpazienze di Eduard Hanslick contro Richard Strauss (e contro i “giovinastripittorici e poetici che si stanno moltiplicando,” discendenti di Berlioz, Liszt,Wagner: “Il virtuosismo nell’orchestrazione è diventato un vampiro che insidia ilpotere creativo dei compositori...” “Questa cosa ripugnante non è pittura tonale,ma piuttosto un cumulo di sgorbi lucenti, un’orgia tonale franante, metà baccanalee metà sabba di streghe...”) nientemeno che agli eredi diretti e legittimi delsublime Requiem Tedesco.

La ‘success story’ dell’affascinante Moses und Aron è ormai notoria: e delresto assai simile a quella di parecchi altri Trionfi Postumi del nostro tempo,dall'Uomo senza qualità all’Angelo di Fuoco, al Gattopardo. Schönberg fra il ’28 eil ’33 compone la musica dei primi due atti e completa il libretto, ispirato all’Esodoe corredato d’inquietanti didascalie: “processioni di cammelli carichi, asini, cavalli,con portatori e carri, entrano da ogni lato, portando offerte d’oro, grano, orci divino, otri d’olio, animali per il sacrificio... i macellai immolano le bestie, buttanopezzi di carne alla folla: fra lotte e contese, gli astanti afferrano lacerti sanguinanti,e li divorano crudi... i capi tribù ammazzano il giovane, montano a cavallo e

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s’allontanano... scorre il vino da ogni parte... ubriachezza generale... le vergini folliporgono i coltelli ai sacerdoti ebbri, e questi le afferrano per la gola, affondando icoltelli nei loro cuori, le vergini raccolgono il sangue nei vasi, li porgono aisacerdoti, e questi lo versano sull’altare... nella folla, distruzioni e auto-immolazioni... carri distrutti, giare fracassate, tutto viene lanciato attorno: spade,lance, scuri, vasi, arnesi... chi si trafigge con la spada, chi si butta nel fuoco, e poicorre bruciando per la scena... un’Orgia di Eccesso Sessuale.” Nel ’33 Schönbergfugge il nazismo, si riconverte alla religione ebraica, si rifugia in America, e nontocca più la sua opera: forse bloccato alle soglie del duetto risolutivo come Pucciniallo ‘scioglimento’ della Turandot. Se ne occupa invece, e intensamente, ThomasMann: tanto da “scrivergli addosso” il suo capolavoro. Ma Schönberg non ne èaffatto contento. Muore nel ’51. E il Mosè comincia a farsi strada da solo. Né operané oratorio, incompleto e giudicato irrappresentabile, viene invece eseguito neiteatri d’opera in approssimazioni sempre più soddisfacenti che durano le loro treore e risultano passabilmente ‘compiute’. Rivela anche una vitalità sconcertante.Diventerà infine un bestseller: sale esaurite, e pubblico che zufola all’uscita verticidi dodecafonia diventati paradossalmente orecchiabili.

Si capisce che le difficoltà d’esecuzione sono pazzesche: un monologotragico programmaticamente ostile ai Mass Media, due titanici protagonisti quasisempre in scena, pochi comprimari che non devono fare quasi niente, unapartitura impervia, numerosi cori continuamente impegnati, accavallandosi, versidi profonda nobiltà, quelle didascalie dissennate... Lo stesso autore prevedeva chesi sarebbe forse riusciti a presentarla tutt’al più in forma di oratorio – se pure siarrivasse a sopprimere tutti gli ostacoli di natura musicale.

Sopprimendo tutto il lato Theda Bara della situazione, e approfittando di ungenerico astrattismo da Jeu de Cartes nel Gran Teatro Naturale d’Oklahoma (mache pretende di non rinunciare a un suo pittoresco), l’Opera berlinese hasemplificato molti problemi di messa in scena. Nel primo quadro (roveto ardente),per esempio, pendono dall’alto dei finti mobiles di Calder, fettine di lamierainfilate negli spaghi, e ondeggiano lievemente in un lume fucsia-ciclamino. Inquanto ai cori, una metà abbondante è registrata su nastro, con la sua inevitabilefastidiosità metallica, e un effetto da Stereorama: gli altoparlanti sono disposti nellucernario, dietro le barcacce, e in altri posti barocchi; vien quasi da rimpiangere lefronde tropicali e gli incensi odorosi caldeggiati dall’autore.

La direzione di Scherchen è superba: non per nulla nel gran romanzo diMann ha più di un merito, insieme a Klemperer e a Bruno Walter, nel rivelare la“musica del futuro” dll’immaginario Adriano Leverkühn. E attraverso questoarrovellarsi tormentoso dell’orchestra e dei cori viene fuori efficacemente, se nonun Apocalypsis cum figuris, l’ansia di esprimersi di Mosè, che non riesce a farsiascoltare dal suo popolo, l’incontro con Aronne che Dio gli manda con fini divolgarizzazione e di editing, perché spieghi le sue idee in termini facili all’Uomodella Strada, e la lunga controversia fra l’intransigenza dell’uno e il possibilismodell’altro. Ma la disputa in realtà più che religiosa è politica, più che politicasembra retorica, e oltre che retorica diventa linguistica. Schematizza due posizionifin troppo note. Aronne è un simbolista, usa l’Immagine, abusa dell’Icona, amal’Allegoria, adora la Visione, predilige la Metafora. Parla di Vitello d’Oro cosi comealtri potrebbero dire Gita al Faro, Pelle di Zigrino, Balena Bianca, Folle de Chaillot.Andrebbe quindi d’accordo con Sant’Agostino (”un segno è una cosa che, oltre laspecie ingenerata dal senso, richiama di per sé anche altra cosa”), nonché colPetrarca, il Marino, il Montale. E infatti canta, con voce di tenore lirico: mentre alsuo antagonista il Canto è negato: come se il “mi manca la voce” su cui s’insiste nelMosè precedente di Rossini avesse funzionato da Tanto Tuonò Che Piovve nei

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confronti di questo Mosè dodecafonico, basso-baritono incatenato alla ParolaRitmica.

Questo Mosè è un wittgensteiniano addirittura truculento. Per lui, ilSimbolo è Degradazione: dalle Tavole della Legge alla Terra Promessa (per nonparlare dei Miracoli...) è ostilissimo addirittura al Segno. E non per nulla siesprime come voce recitante: come Monsieur Jourdain, e come Moravia,qualunque cosa dica, gli viene fuori in prosa. Barthes lo ridurrebbe a una catena disintagmi. Jakobson lo assegnerebbe alla categoria metonimica. Si trova cosid’accordo con Erodiade, in quell’altra disputa semiologica-biblica esemplarmentesceneggiata da Oscar Wilde. Erode svapora nelle Associazioni Sostitutive (come iromantici, i simbolisti, i lirici russi, i film di Bergman, i simboli onirici di Freud, lacritica tematica, il discorso aforistico). La sua Parola Parlante sbanda dal nessoconvenzionale al nesso esistenziale. Appena vede la luna: “Non ha uno stranoaspetto, la luna, stanotte? Sembra una donna pazza, una donna pazza in cercad’amanti dappertutto. È anche nuda. È tutta nuda. Le nuvole cercano di velare lasua nudità, ma lei non consente. Vuole mostrarsi nuda nel cielo. Vacilla attraversole nubi come una donna ebbra... Sono sicuro che cerca degli amanti. Non vacillaforse come una dorma ebbra? Sembra una donna pazza, no?” E invece Erodiade(come gli epici eroici, i romanzieri realisti, i film di Griffith, gli epigrammi diMarziale, e il ‘New York Times’): “No; la luna somiglia soltanto alla luna, tutto qui.Andiamo dentro... Non hai niente da fare, qui fuori.” (Ma Mosè fa un passo piùavanti: il Linguaggio è veicolo d’impossibilità...)

Il Popolo d’Israele compare e agisce non più accomodato in un emiciclouniversitario come nell’orrido Roi David di Honegger alla Scala, ma stavolta issatosu un’impalcatura alla Léger e dedito alle più varie occupazioni su diversi livelli,come nelle grandi composizioni fiamminghe che ritraggono le attività di villaggiinteri. Di là in alto si sviluppano i contrasti e le invettive a proposito del Diovecchio e di quello nuovo, visibile oppure invisibile, sull’andare o no nel deserto,col rischio di non trovare abbastanza locuste da mangiare; e in sostanza si discutea lungo se sia opportuno o no, in genere, lasciar perdere gli interessi mondani perconcentrarsi sul Sacro e sull’Essenziale. Ma com’è poi l’Essenziale? Quando Mosèse lo sente spiegare nei termini di buon senso di Aronne, frananell'Incomunicabilità più sconfortata...

I costumi sono delle tuniche a righe e a triangoli, di diversi coloricontrastanti, qualche volta di tipo pinguino, altri tipo i marziani alla Fiera diMilano. E i miracoli non sono mostrati; il pubblico vede solo un bastone, li perterra, e poi un’olla; e gli deve bastare questa negazione del Vedete Per Credere.Però le masse ebraiche si convincono, sotto lo sguardo seccato di Mosè, che vienefuori, da una caverna quasi-platonica, non si rende conto che anche la Caverna èima metafora, ha visto il Sole in tutta la sua Gloria (altra metafora?), insomma hacontemplato la divina purezza della verità metafisica, e quindi trova molto cheapla propaganda religiosa a base d’immaginette (”o si crede, o non si crede! e menosciocchezze!” gli scappa detto quando non ne può più); e il primo atto termina conuna pittoresca marcia di guerra contro il Faraone, in forma di Doppio Canone, acui segue un Interludio di Smarrimento in forma di Doppia Fuga.

Il secondo atto è anche abbastanza infelice da guardare, perché gli sfondiviola e zafferano sono proiettati con la lanterna delle diapositive pubblicitarie negliintervalli al cinema, e si paventa quindi la lode al cognac o l’invito al gelato. Ma senon si bada al vitello d’oro (che è poi un gattone a geroglifici), e si passa sopraall’ebbrezza dei sacerdoti (un Palio di Siena fatto dagli allievi di Brera) eall’esibizione delle odalische in calzabraga (puro Chelo Alonso), la grandiosa danzapagana è un pezzo di Grand Opéra fra i più impressionanti; e continua a montare,a montare, nel duetto dopo il ritorno di Mosè, di una monumentalità wagneriana,

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di una ‘rifinitura’ bachiana, su cui s’inserisce non il Mar Rosso di Rossini ma ilCoro della Trasmigrazione (mentre sulla scena si frana nel film biblico povero).

L’ultimo atto, in cui Mosè dovrà trionfare rimproverando ad Aronne le suedebolezze per il Significante rispetto al Significato, viene rappresentato, piuttostocuriosamente, cosi: l’orchestra va via, la sua fossa rimane al buio, e mentre i nastrimagnetici srotolano come ‘background music’ la registrazione dei cori del primoatto, Scherchen rimasto solo con la sua lampadina dirige il recitativo dei cantanti,che declamano in proscenio la rimanenza non musicata del libretto. Ne viene fuoriil disperato rimpianto di Mosè per non essere un grande compositoredell’Ottocento: se fosse Beethoven, sarebbe in grado di Comunicare la Verità moltopiù direttamente che Henry B. Luce, molto più pulitamente di Aronne, con tutte lesue parafrasi plastiche, le sue circonlocuzioni figurative, i suoi canonischönberghiani.

3. Casa Faninal

Anche Capriccio, altro affascinante figlio del Requiem Tedesco (nel quintomovimento, “Ihr habt nun Traurigkeit,” si sentono già la Marescialla, la Contessa,oltre che i Kiniertotenlieder e Das Lied von der Erde figli della Rapsodia perContralto: come sembra ormai remota l’incompatibilità proclamata da Hanslicktra le Father-Figures di Brahms e di Wagner...) è il testamento di un grandemusicista; ma qui, trattandosi di Richard Strauss, non è più il caso di parlare di uncoetaneo del Floreale, Strauss è il Floreale medesimo. E il suo Carteggio conHofmannsthal riesce almeno come le Memorie di Alma Mahler a definirlo comegran personaggio: un Uomo Senza Principii musiliano e affarista, consuperficialità grossolane e doppi fondi inquietanti; e il suo attivismo fragoroso; e lasua mancanza di problematiche addirittura macchiettistica; e la moglie Paulineche gli spende tutti i soldi, dispettosamente, in parrucchieri e gioielli; e lediscussioni su Mommsen coi colleghi, a tavola; e l’incontro folgoratorio con la suaBelle Dame Sans Merci, la resa di fronte alla Marescialla del Rosenkavalier,quando Hofmannsthal gli presenta questa testa di Medusa infinitamenteseducente e ornata di tutte le grazie più irresistibili del Passato... e ‘congela’ unmusicista tutt’altro che ‘pietrificato’ (lo riconosce lo stesso Hanslick); anzi, dopotutto, le sue ‘rotture’ nel senso dell’avvenire le stava compiendo – con l’OrgiaColoristica o il Vampirismo Orchestrale, o con la Sensualità Patologica Extra-musicale – nei poemi sinfonici o ricorrendo magari paradossalmente alla solitaSalome di Wilde...

Strauss non sarà mai più lo stesso dopo l’incontro con quella figura rococoche veramente – alibi affascinante e insidioso! – “riassume tutto un passato” o“compendia e conclude un’intera epoca” (tanto per sputtanare i clichés della criticadi second’ordine). Abbagliato da tanto Settecento chic cade cioè pesante come ilsuo Barone Ochs “che ogni mattina ha reso omaggio dietro un paravento al bagnodella Principessina Brioche” nella stessa trappola che una fata assai simile, Orianede Guermantes, spalancava davanti al Proust ‘antiquario’ di Pastiches et mélangese che il narratore della Recherche elude proprio salvandosi in un Tempo che non èquello dei calendari o degli almanacchi, neanche quello degli storici o dei filosofi –tanto meno quello dei Laudatores Temporis Acti: come il Balzac di M. deGuermantes o la vetrata di Gilbert le Mauvais – ma piuttosto uno spaziosoggettivo dove la ‘durata’ è un’incognita, forse non esiste, comunque non èchiaro: perché insomma non si è mai capito se l’Immobile è un’apparenza e ilMoto è la realtà, o non piuttosto (plotinianamente) viceversa...

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Confondendo invece il fine dell’arte col riepilogo del passato, l’autore dellaDonna senz’ombra sembra voltare le spalle al moto fluido e incessante dellaRealtà. Nato dieci anni prima dello ‘stilita’ Schönberg, diciotto prima del‘punteggiatore’ Stravinski, gioca svogliato (o entusiasta) sia con la Tradizione siacon la Musica Nuova, troppo epicureo (o troppo debole) per abbracciare Luna, erinnegare l’altra, o comunque per riflettere sul proprio Dovere Artistico. Siedeappagato di fronte a quella mera apparenza che potrebbe essere l’Immobilitàsecondo i nemici di Bergson: il Mistico e il Telespettatore, ugualmente convintiche “in eo vivimus et movemur et sumus,” vuoi parlando di Dio, vuoi del SecondoCanale.

Cosi raggiunge lo scopo di soddisfare industrialmente una smisurataclientela middle-class e middle-brow, sia luterana sia cattolica, che domanda solod’essere confermata, vittorianamente, nelle più tranquillanti (e ‘medie’) certezze,da lui raggiunte attraverso l’Eccesso Sistematico, poi proiettate all’indietro in unoStatus Quo Ne Varietur decorosamente agghindato. E naturalmente nons’interrogherà mai, come Schönberg, su che tipo di musica sia giusto comporre,ancora prima d’incominciare a comporla (tanto più, con l’intenzione d’imporreNuove Forme alla Musica Vecchia). Cioè, la questione morale travestita daquestione musicale. Né si chiederà mai, come Blanchot, perché mai uno scrive; sequello che scrive vuol dire veramente qualche cosa. Se l’ufficio dell’opera sia di“trasformazione e negazione’’ nel mondo in cui entra, tentando di riconoscere “ilpaese dove quest’opera trascina autore e lettore...” Se cioè il compito dell’artista –non aver nulla da dire, però esser tenuto a dirlo, volente o no – ha il sensoessenziale di ricondurlo al Silenzio Originario. Cioè, all’Apprentissage de la Mort.Dove si ricongiungerebbe con Kafka e Beckett, Gadda e Céline e Borges, giunti allamedesima conclusione per vie tutte diverse. E con Webern. E con l’ ‘accattone’Stravinski, che ha avuto il coraggio di buttar via tutto, chiudersi le porte alle spalle,e andar mendicando di casa in casa: cosi ha ricostruito la sua eredità; e questo glidà il diritto di dichiarare che la musica di Strauss lo soffoca, perché è una enormemassa senza muscoli.

Ma il lato inquietante di Strauss coincide con la sua ambiguità: mentrepropone così sontuosamente le sue Profonde Sintesi fra il Comico e il Tragico,nello Spirito del Diciottesimo Secolo, telescopando ogni greve ironia attraverso leOpere nell’Opera, si rende mai conto – o no – di stare introducendo nellaPomposità Absburgica più d’uno spiffero di Bittersweet alla Noel Coward?

Nel Carteggio, Hofmannsthal appare come il Prodotto Tipico di una Civiltàal Tramonto, fin troppo squisita: timido, solitario, altero, nervoso, estetizzante,carico di sensibilità a scapito della vitalità. Strauss: vigoroso, estroverso,impulsivo, permaloso, scaltro, un po’ terra-terra culturalmente ma dotato di ungran buon senso istintivo, capace di grandi entusiasmi, pieno di grande vitalità, enon privo di un suo spirito sveglio, pronto a riconoscere la necessità di “scapparvia tutti subito dagli urli erotici di Wagner.”

Le continue influenze reciproche fra i due sono uno spettacolosingolarissimo. Vivono lontani: Hofmannsthal difficilmente esce dalla sua Torred’Avorio; Strauss ha pianificato da bravo businessman la sua esistenza: per seimesi all’anno viaggiare come direttore d’orchestra guadagnando tanti soldi; per glialtri sei mesi, d’estate, riposarsi a Garmisch vestito da campagna, e dedicarsi allacomposizione. Ognuno ha un’idea chiarissima dei pregi e dei limiti propri edeË’altro: non se ne risparmiano le analisi e i rinfacci. Hofmannsthal, più giovanedi parecchi anni, non esita a trovar banale e volgare il gusto di Strauss, e adirglielo; e Strauss se lo lascia dire. Però sono d’accordo sul fatto che l’istintodrammatico più potente appartiene al musicista; il poeta con le sue preziosità ha ilfiato corto, non può farci niente. Hofmannsthal arriva a riconoscere d’essere

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ignorantissimo in fatto di musica, non fa che ripeterlo: però è sorprendentementesua l’idea che sia necessario ricamare un valzer via l’altro nella partitura delRosenkavalier-, un’intuizione di genialità incomparabile, anche se potevasembrare bizzarro riempire di valzer e non di minuetti un’opera che è il trionfo delSettecento. (Reciprocamente: i versi più felici dei libretti obbediscono a misuremetriche fissate dal musicista.)

È patetico vedere come tutte le volte che i due si accingono a una nuovaopera si propongano in buonissima fede di fare “almeno stavolta” un qualche cosad’allegro, di leggero, addirittura di operettistico. “Dopo tutto,” asserisce Straussnel 1916, “io sono l’unico compositore al mondo dotato di humour, di senso dellaparodia, di voglia di divertirmi. Perciò mi sento destinato a diventare l’Offenbachdel ventesimo secolo, e voi dovrete essere il mio poeta.” Poi, si sa, il poeta nonresisteva all’amore per le strutture complicate e per i simbolismi fantasiosi; e ilmusicista soffriva troppo ad arrestarsi nell’elaborazione dei temi. Nasceva invecedell’operina un luna-park raffinatissimo nei particolari ma d’una macchinositàmai vista. “Come al solito il sinfonista nel vostro cuore ha prevalso suldrammaturgo!” rinfacciava Hofmannsthal, che da parte sua non aveva arretrato difronte a nessun doppiofondo pensabile, nella struttura del libretto:“Contrappunto, sviluppi tematici, elaborazioni orchestrali, che sono la linfa vitalenella sinfonia, diventano il veleno funesto dell’opera... il testo viene oscurato, icantanti devono sacrificar tutto al volume... e l’aria, che voi stesso definite 'l’animadell’opera,’ agonizza e soccombe...” E al tempo del Rosenkavalier (opera chedoveva durare “non più della metà dei Maestri Cantori’’), a proposito del coro deiservi di Faninal, nel secondo atto: “Era scritto per squillare burlescamente, nel piùtrasparente stile alla Offenbach; non avete fatto che opprimerlo con una musicapesantissima, e cosi si distrugge completamente il senso delle parole.”

Nemici della semplicità, ostili alla concisione, avversari della naturalezza, idue recitano sublimi scene del più toccante donchisciottismo ogni volta che sipongono programmi di chiarezza e secchezza, sia musicale sia drammatica,ripetendo con convinzione che ciascuno nella propria sfera sarà capacissimo diottenere tutto quello che vuole. Non di rado, in questi duetti, prendono il tono didue personaggi della loro Ariadne auf Naxos: il poeta si comporta come lasognatrice Arianna, sempre con gli occhi tesi verso lontani orizzonti, mentre ilmusicista fa la parte della prosaica Zerbinetta, coi piedi ben puntati per terra:sembra .difficile rovesciare più doppiamente il dilemma fra Aronne e Mosè...

Hofmannsthal sermoneggia. “In tutto quello che potremo fare insieme,”scrive nel 1912, “il criterio finale di giudizio può solo essere la sensibilità estetica, ese permettete m’incarico d’ora in poi d’essere io solo il guardiano e tutore del latoestetico a nome di tutt’e due.” “Ho paura del vostro opportunismo,” insiste,qualche anno dopo, “perché il pericolo nel quale continuate a ricascare nonostanteogni periodico tentativo di tirarvi su, è la totale indifferenza alle esigenze della vitaintellettuale.”

Strauss d’altra parte lasciava molto fare al poeta, si fidava molto del suofiuto straordinario per ogni atmosfera teatrale, della sua abilità nell’evocare conprecisione pungente il ‘colore’ di certi periodi, del suo genio nel mettere a postoogni particolare psicologico e drammatico in un’azione complessa perfettamenteunitaria (senza contare il leggendario gusto figurativo di Hofmannsthal, e la suabravura nel curare la parte visiva dello spettacolo, che a Strauss non importavaniente).

Così, preso per mano dal poeta innamorato dei momenti più decadenti e piùmorbidi del passato, il musicista finiva per soccombere alle nostalgie rococo latentiin fondo alla sua spettrale anima monacense, e lentamente voltava le spalle allastrada faticosa della musica del futuro, per cui stavano avviandosi gli Schönberg e i

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Webern ansiosi di “respirare l’aria di un nuovo pianeta...”

Le congratulazioni reciproche fra i due per la sapienza e l’intelligenzadimostrate nella stesura del Rosenkavalier non cessano praticamente mai, neidiciotto anni fra la composizione dell’opera e la morte di Hofmannsthal: è difficileimmaginare un contrasto più piccante coi malumori di Verdi, quando ripete achiunque d’essere “fra i maestri passati e presenti il meno erudito di tutti,” se sivanno a ritrovare nei Copialettere le analoghe situazioni Verdi-Boito, prima ditutte la quarantennale ricerca di un buon libretto per opera buffa. Boito cherazzola nel più vieto Dugento alla caccia di grullerie da mettere in bocca a Bardolfoe a Pistola, che ghiotto pendant per le preoccupazioni di Hofmannsthal relative acori di elfi buoni e di elfi malvagi, a certe conchiglie giganti che “devono suonareesattamente come un telefono occupato” nella Maria Egiziaca.

Se poi si trova capriccioso il giudizio di Hofmannsthal per cui la differenzatra Wagner e Puccini sarebbe che il primo compone tante opere ‘uniche’ mentre ilsecondo ripete ogni volta la medesima opera, neanche Boito scherza quandodefinisce la Walkyria come “un’azione insulsa che cammina più lentamente di untreno omnibus, fermandosi ad ogni stazione.”

Però è difficile trovare nei rapporti fra Poeta e Musicista un esempio piùimpressionante di musicista che non capisce niente di musica, e ha Insogno di unoscrittore che gli spieghi assolutamente tutto, come nel caso Proust-Hahn.

A nessuno al mondo l’autore della Recherche ha voluto bene più che aReynaldo Hahn. Venezuelano, ricco, viziato, con una bella voce di tenore, moltogattone di temperamento, Hahn aveva diciannove anni ed era un piccolo idolo dimolti salotti Verdurin quando incontrò Proust, di tre anni più vecchio. E bastaguardare le lettere che Proust gli ha indirizzato per ritrovare intatto, più intimo egiovanile, il tono di Un amour de Swann. Si firma ogni volta con un nome diverso:Poney, Hibuls, Binibuls, Buchnibuls; per divertire Reynaldo, fa di tutto: versi,disegnini buffi, prese in giro di signore alla moda, commenti a versi di Mallarmé,indiscrezioni sulle polemiche di Léon Daudet... Ma la parte più singolare delcarteggio riguarda proprio la musica: è singolare notare come qui lo scrittorevedesse subito più chiaro e più lontano del musicista.

Veramente sembrano quasi incredibili gli sforzi di Proust per convincere ilsuo amichetto che il Pelléas è un’opera importante, che Debussy e più tardiStravinski sono i veri musicisti dell’avvenire; mentre Hahn, senza mai capirniente, gli ride in faccia, lo tratta da dilettante incompetente, e proclama lagrandezza di Gounod, di Massenet (e per bene che vada di Saint-Saëns).

Quando poi si tratta di scrivere a sua volta un’opera, e non più delleromanze da salotto, Hahn finisce per produrre la celebre Ciboulette, rappresentatanel ’23 e piuttosto divertente: però è un’operettaccia, da epigono pigro diOffenbach, e con un odore di Belle Époque putrefatta che in nulla la distingue daVéronique, Monsieur Beaucaire, Les mousquetaires au couvent, Coups deroulis... Soltanto un’operettaccia.

Andando poi avanti a sentire il Rosenkavalier, ci si rende conto come nonsia affatto, o non sia soltanto, quella scaltra e felice combinazione consacrata dalLuogo Comune Critico fra i talenti di un esteta decadentissimo rotto a tutti i frou-frou del Gusto, e di un grosso borghese eupeptico e soddisfatto che beve tantabirra e va in montagna in braghe di cuoio e fa a macchina tanta musica grossa eopaca, come viene viene. Più si considera Strauss da vicino, più lo si considerasconvolgente... Filisteo? Nasce a ridosso di Wagner, come Berg a ridosso diSchönberg, e Ravel a ridosso di Debussy: come se le mutazioni della musicamoderna dovessero effettuarsi attraverso coppie imbarazzanti di 'gemelli...’ Parte

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imbullonando i ponti monumentali di ghisa e i palazzi di giustizia guglielmini e lecattedrali-stazioni dei grandi poemi sinfonici. Già oltre la soglia sonora cheimmette nel cerchio diabolico esplode o putrefa il tristanismo ‘Liberty’ con untessuto di parole-e-musica grandioso come negli affreschi di Mahler e sottile comenelle miniature di Debussy; e gli stupidi che si scandalizzavano per i Valzer nelSettecento potrebbero forse domandarsi “ea Micene?” ogni volta che la sua Elektrane mette in moto uno col nominare Oreste (forse più Metonimia che nonMetafora...): mentre la sua Salome s’abbiglia degli equivalenti sonori non tanto diMoreau ma dell’oro falso e dei gioielli pailletés come fiori di smalto in Der Kuss eDie Jungfrau di Gustav Klimt... Sembra calarsi nel più galante rococo? Ma è lastessa ‘Secession’ alto-borghese di Musil; e tra un pastiche e l’altro, dall’Ariadne alCapriccio, un po’ farà il Tiziano e un po’ il Tiepolo e il Guardi: comunque, il pittore‘coloristico’; finché dopo tanti godimenti del “suono per il suono” (che mascheranoforse alla superficie “artisticamente composta,” o pantagruelica alla Makart, degliinquietanti crepacci psicanalitici) finisce ottantenne con un suo Falstaff privatoche non è affatto la ‘catastrofe’ riscontrata da Walter Benjamin nelle Ultime Operedei Grandi Maestri (“per cui le opere compiute pesano assai meno di questiframmenti ai quali lavorano per tutta la vita: essi tracciano il loro cerchio magiconell’opera frammentaria”), ma risulta una gran bella conclusione per una Vitad’Artista: i grigi perlacei e i marroncini morandiani del Secondo Concerto d’Oboe edelle Metamorfosi...

Alla luce poi di quello che si è venuto imparando negli anni recenti sullaVienna di Musil e Klimt e Freud e Mahler e Wittgenstein e Broch e Berg eSchönberg e di alcune fondamentali Scuole Viennesi di filosofia, economia, diritto,come diventa chiaro che il Rosenkavalier appartiene alla medesima civiltàintellettuale – le lezioni d’astronomia di Alma Mahler... – con un’infinità di nessiprofondi, non soltanto esteriori, con l’Uomo senza qualità-, metamorfosi, in tutt’edue, del Rococo in Secessione, e viceversa: nello spasimo più acuto dell’ArtNouveau, i due austriaci stanno lavorando nello stesso senso di Beardsley e diGaudi, con gli stessi Tannhäuser e le stesse ringhiere; risentono sia delpointillisme di Seurat sia delle sgargianti toilettes di Sargent; si protenderebberofino alle nostalgie senili di Matisse per i verdi ireos di ferro nelle stazioni del Métrodi Guimard...

“Che cosa strana è il Tempo – Lasciamo passare la vita, non è nulla – Poi, aun tratto, non sentiamo che lui – Ci è attorno, è in noi!...” Questi versi dellaMarescialla potrebbero spettare a Oriane de Guermantes, naturalmente, origuardare il Barone di Charlus: ma la Marescialla appartiene alla specie delleDiotime e delle Bonadee, piuttosto (l’ambiente è lo stesso, la casa è identica, unpalazzo Leinsdorf); e gratta gratta il generale Stumm von Bordwehr e troverai ilbarone Ochs von Lerchenau, gratta Tuzzi e verrà fuori un Faninal, mentre ilnegretto, quello, è sempre lo stesso, per Musil e per Strauss-Hofmannsthal, con lestesse funzioni di ‘chiudere’ una situazione piccante con uno sberleffo o unammicco. Ma in realtà la relazione fra il Rosenkavalier e l’Uomo senza qualità è lastessa che meno oscuramente collega Madame Bovary al Bouvard et Pécuchet:l’opera ‘chiusa,’ delle due, occulta trame profondamente affini a quelle che l’opera'aperta’ ostentatamente propone nell’étalage delle sue Soluzioni di Continuità.

Nei primi anni dell’ultima guerra, arrivato a un’età gravissima, e chiuso inuno chalet in montagna insieme a Clemens Krauss, lontano da un mondoprofondamente cambiato dai tempi quando le Salome scandalizzavano i borghesiaggrappati all’Undecimo Co-mandamento Vittoriano, “Mai lasciarsi scoprire,” e ilLinguaggio Ornamentale che-non-ha-nulla-da-dire inaugurato da Dante GabrieleRossetti intorno al 1850 non era ancora franato nei “palmy days” dello Yachting

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Style, e le estetiche musicali non si erano ancora impennate sulla manutenzionedella tonalità, Richard Strauss aveva avuto più di un lungo inverno per ripensarealle fasi d’una carriera fra le più doviziose dell’intera storia della Musica. Davantialle cime alpine che gli avevano ‘ispirato’ tanti anni prima tante contemplazionipaesaggistico-romantiche, complete di campanacci di vacche, yodel di montanarisvizzeri, e tutto, cominciava forse a rivolgersi, a settantotto anni, domande ben piùcriticamente consapevoli, e definitive, sulla natura della Musica e della Poesia,sulla essenza del Bello a teatro, come in un dialogo di Valéry. Cosi finalmentegiungeva ad affidare il senso delle sue meditazioni a un’operazione estetica similea quella tentata da Verdi col Falstaff, però più chic, anche se il titolo ricadeinvolontariamente sul Tutto nel Mondo è Burla: una “conversazione sulla musica”in forma d’opera da camera in un atto (ma lunga due ore e un quarto). Questa èappunto Capriccio.

Qui il favoloso vecchio già catalogato in tutte le enciclopedie per aver fattoprorompere dall’interno l’orchestra romantica, gonfiandola artificialmente in garacon Mahler e travolgendola nel parossismo della Danza dei Sette Veli e nelledissonanze dell’Elektra, lo strumentatore maniaco che nei poemi sinfonici dellamaturità aggiungeva strumenti sopra strumenti, i più rari e inconsulti, come peresplorare ogni possibilità dell’orecchio educato, si libera in pubblico d’ogniornamento che sappia anche lontanamente di princisbecco, proprio come quandoSalome butta in faccia a Erode uno dopo l’altro tutti i suoi veli e tutti i gioielli‘fantasia’ comprati dal tabaccaio, e rimane con niente addosso; o anche comequando la Marescialla capisce perfettamente a tempo il momento di tirarsi daparte per lasciar fare l’amore ai più giovani, tra di loro. Cosi Strauss nelle operesupreme riduce la sua orchestra a dimensioni più magre ancora di quelle prescritteda molti colleghi ‘avanzati’; ma ha l’eleganza finale di farlo senza scenderedall’Olimpo rococo e viennese che è soltanto suo. Quando s’apre il sipario siamosempre in una delle incantevoli familiari residenze ereditate dalle Nozze di Figaro,tutte un finto-marmo; e nella Contessa che graziosamente siede al centro di ungruppo di poltroncine bianche e dorate – puro Ritz – abbiamo il piacere diriconoscere ancora una volta la Marescialla.

Subito il musicista Flamand e il poeta Ulivier s'avvicinano a corteggiarla:uno sostiene che “prima la musica, dopo le parole”; l’altro, come l’abate Casti, che“prima le parole, e poi la musica” – “Musik oder Dichtkunst?” – e intorno aisimboli fin troppo trasparenti la disputa si svolge con squisita eleganza, sucitazioni di Gluck, Piccinni, Corneille, Goldoni, Couperin, Rameau, Me-tastasio,accortamente infilati da Krauss nel suo libretto. Olivier recita un suo sonetto, eFlamand fa eseguire un suo sestetto. Abbiamo una minuscola orchestra in scena,come nel Don Giovanni, e l’espediente del teatro nel teatro, come nell’ Ariadneauf Naxos. Accordi di clavicembalo, lezioni di canto come nel Barbiere diSiviglia-, considerazioni sui Sentimenti, sul Cuore... Arriva il Direttore del Teatro,“che rappresenta lo spirito pratico,” e discorre solo di quel che può piacere alpubblico: trucchi, macchinismi, viscontismi, tempeste, apparecchi del tuono e“musiche sull’acqua” (e va vicino a certe boutades del Teatro alla Moda, peròStrauss e Krauss non citano Benedetto Marcello...). Arrivano, portando argomenti,il Regista e la Ballerina, la Grande Attrice, entusiasta, e il Conte, fratello dellaContessa, scettico e possibilista: e sono, intorno all’incomparabile ElisabethGrümmer, Haefliger e Brauer, la Wagner e la Otto, e Joseph Greindl che si èappena tolto la barba del Mosè. Finalmente entrano due tipi di cantanti italianiall’estero spassosamente sgangherati, con una certa malignità alla TéophileGautier.

Il loro duetto è uno dei parecchi 'numeri’ che interrompono il continuumsonoro tessuto di citazioni melodrammatiche delle epoche più varie, come

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sottofondo orchestrale alla conversazione pétillante e melodiosa. E l’esibizionedella soprano mediterranea gigiona e golosa, che emette torrenti di trilli fra untortino e l’altro divorati sotto gli occhi scandalizzati del maggiordomo (lei glisottrae rosoli e vinsanti per versarli in segreto al suo tenore) avvia al pezzomirabolante: un concertato clamorosissimo, travolgentissimo, con quattro gruppidi cantanti in scena che agiscono in diversi punti, allegri o arrabbiati, oindifferenti, mangiando e bevendo un’infinità di cose, come negli strepitosi finali“a sette” del Re Teodoro di Paisiello, e con in più tutti gli ah ah del “che baccano”nel Ballo in Maschera.

Il concertato termina tuttavia su una sentenza piuttosto dura, nei riguardidell’opera italiana. “Ci siamo divertiti abbastanza,” dicono, pressappoco, i padronidi casa, “ma adesso basta, mandateli fuori” (e la povera gaglioffa viene trascinatavia in lacrime dai lacchè, con le sue finte cavatine di Donizetti e una seggiolaimpigliata nello strascico). Poi, mentre tutti escono a cambiarsi per il pranzo, e laconversazione è finita, senza conclusioni, un drappello dei soliti servi entra arimettere in ordine il salone, ballettisticamente, come in casa Faninal. Ma il finale,quando la Contessa rientra in abito di gala, sorridente e splendida, indecisa più diprima fra la Poesia e la Musica, ma felice d’essere corteggiata da tutt’e due, e disentirsi più primaverile della Marescialla, stranamente riconduce per sue certefantomatiche vie all’ultima scena del T'ristano: solo, naturalmente, gli straziimportanti di Wagner sono qui diluiti (“Liberty vo cercando...”) in un’auradolcemente, teneramente sentimentale...

4. Il caso Turandot

L’Opera Comica di Berlino Est volta invece le spalle alla compostezzanell’allestimento, alla puntualità senza sbavature nella caratterizzazione deipersonaggi, alle lezioni di stile fatte con musicalità, omogeneità, leggerezza,eleganza. Ha lasciato indietro i sicuri terreni della convenzione, e con la scuola diFelsenstein si abbandona alle più stimolanti eccitazioni dell’esperimento: dallavagotonia del realismo agli espressionismi più simpaticotonici. Con un’inesaustaricchezza d’invenzioni, Felsenstein riesce a ficcare ima quantità d’oggettiincredibili nella sua interpretazione d’ogni opera; ma anche i suoi allievi nonarretrano di fronte all’Eccesso. Basta entrare nella hall del loro bel teatro rococo,crema e oro, con tante divinità di stucco che pendono dal soffitto; salire le scale;esaminare le diapositive a colori delle produzioni più cospicue, attaccate su tutte lepareti disponibili. Tutto un decadentismo isterico, e tanta tanta roba in scena,dappertutto: si vede meglio naturalmente nei Fra Diavoli e nei Racconti diHoffmann, ma anche la loro Traviata dev’essere ghiotta: l’entrata dei toreri incasa di Flora è puro Baden Baden, mentre il banchetto del primo atto è puroPalazzo del Ghiaccio, coi suoi Pattinatori di Waldteufel. L’Otello invece paresemplicissimo, con poche scene essenziali e giapponesi.

La sala è larga, bassa, con un ampio ordine di palchi e una vasta galleria.Una poltrona costa pochissimo, cinque o seicento lire, e gli spettatori sono quasitutti giovani, coi loro abiti blu e un gran traffico di pettinini. Anche una giacca dasmoking a fili d’oro, come i teddy-boys qualche anno fa. Gli spettacoli comincianoverso le sette e mezza, e sono finiti per le dieci.

Sono capitato in una sera di Turandot, cosi l’apparato del palcoscenico eratutto sul barbarico: grate ritorte, tipo Klee in ferro battuto, al posto del sipario;quinte di finto marmo verde prolungate fino a coprire i palchi di proscenio; e ungrosso gong carico di emblemi appeso sopra l’orchestra, come se si fosse allaLocanda della Settima Felicità nelle baracconate con Ingrid Bergman. Il cielo,appena s’illumina perché comincia, è un cielo molto à la page: conosce Dubuffet. E

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le masse rantolano come in ima Buona terra diretta da Brecht. Le guardie che letormentano arrivano invece dritte dall’ Aleksandr Nevskij, ancora con su le loroarmature da Ordine Teutonico, e tutte quelle medesime cose di cattiveria coldebole.

L’opera, si sa com’è. Pepa con le più sanguinose efferatezze (“Ha inizio – lacerimonia! andiamo – a goderci l’ennesimo supplizio!” “Ma se la spogli nuda – ècarne! carne cruda!”) il banale aneddoto della Presentazione Mal Capita, su cui sibasavano innumerevoli jokes di commessi viaggiatori, nonché l’indimenticabiletrasmissione “Insomma, Lei chi è?” – gemma dell’EIAR negli anni trenta. Però fraun’eiaculazione e l’altra provocate dalle fantasie masturbatone di OctaveMirabeau, nasconde il personaggio-chiave del ‘mito personale’ di Puccini: quelGran Cancelliere Ping che giustappone vis-à-vis Torre del Lago (”E potrei tornarlaggiù – presso il mio laghetto blu – tutto cinto di bambù”) alle Voci Interne chegli sussurrano: “Ungi, arrota – che la lama – guizzi, sprizzi – fuoco e sangue.” Nellibretto, Adami e Simoni cercano di trasferire con qualche moderato dileggio(“Dormi!... Oblia!... Liù!... Poesia!...”) il Giardino dei Supplizi sul terreno del‘Corriere dei Piccoli’: “O Divina! – Nella luce – Mattutina – Che dolcezza – Sisprigiona – Dai giardini – della Cina!” E la musica di Puccini, spesso è orientalecome quei motivetti alla Shanghai Lil che fanno “tipitipitin, tipitìn, tipitipitòn,tipitòn” tutte le volte che compare una governante cinese nei film di Lana Turner.Però ha i suoi momenti affascinanti, e un bellissimo Inno alla Luna che potrebbeandare come Inno Olimpico a Tokyo nel 1964 meglio ancora dell’Inno al Sole diMascagni alle Olimpiadi di Roma.

Mal suonata e mal cantata, la sua figura non la fa. Ma non è sul latomusicale, evidentemente, che si concentrano le attenzioni in questo teatro. Contantissimi mezzi a disposizione, è chiaro che al regista Joachim Herz importavapiuttosto metter su uno spettacolone sgargiante che evidentemente è laconseguenza d’una smodata infatuazione per il film I Vichinghi, però si vedeabbastanza volentieri, come un gagliardo banchetto con tante portate di tanticolori, anche se il Principe Ignoto pare Achille Togliani abbigliato da PasqualinoMaragià, e i tre Ping Pang e Pong, esageratamente truccati da clowns, fanno deilazzi da Toni e Giacomino. Finisce il primo atto, “quando rangola il gong la mortegongola!” e su e giù per il foyer in una folla di mangiatori d’insalata di patate alprezzemolo, di fette di pasticcio di carne, di bastoncini di marzapane ricoperti dicioccolato; girano intorno al loro bell’albero di Natale; da bere, solo del vinobianco e dell’orrendo caffè da stazione svizzera.

Il primo quadro del secondo atto è presentato come una satira gogolianadella burocrazia, coi tre pagliacci in vesti d’Arlecchino che s’affannano tra scrittoialtissimi in una stazione della Transiberiana addobbata con qualche pittura surotolo di seta. Come secondo quadro, esattamente l’interno di San Marco, con unpo’ di Budda al posto dell’iconostasi, e i sacerdoti dell’Aida che danno un party peril Grande Inquisitore del Don Carlos, presentandogli jongleurs kabuki e giochi difoulards interessanti per quanto un po’ lunghi.

Si sa cosa succede a questo punto: una specie d’antico tote calcio cinese, conla differenza che per vincere basta far tre, chi perde però finisce male, e il monte-premi è indivisibile, trattandosi della figlia dell’Imperatore. La ricchezzadell’apparato qui è inverosimile: colpi di xilofono, esercizi di acquasantiere, edenigmi in astucci da torrone. Ma le modalità del quiz sono le stesse di “Lascia oraddoppia”: soltanto, al posto del notaio siedono i tre clowns, facendo dellesmorfiacce invereconde; e invece di urlare “la risposta è esatta!” si suona l’InnoOlimpico tutte le volte.

Quando finalmente appare Turandot, si presenta ima cantante che non è némagra né giovane, con tendenza per di più ad assumere toni furbetti da Lilia Silvi.

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Subito si ha l’impressione che per l’esagerata difficoltà degli enigmi lei abbiadovuto star lì ad aspettare moltissimi anni prima di trovare un pretendenteabbastanza fortunato, perdendo anche un po’ di voce, a furia di cantare da sola. Sicapisce perciò anche troppo lo smarrimento e la confusione del povero principeCalaf, che dopo tutta la fatica e i rischi si trova davanti un’anziana signora chepotrebbe essere la sua mamma, appesantita da troppi castagnacci, e per un“giuramento atroce” e un “fosco patto” si vede costretto all’Amore.

All’inizio del terzo atto, Andrea Chénier all’assedio di Poitiers. Quandoentra troppa gente, subito la Kovaticina. Lo spogliarello delle tentatrici, puroDodo d’Hambourg. Però il “Nessun dorma” è con estrema precisione uno di quegliincubi politici moderni, quando per esempio Mao li tiene su tutti per tutta la nottea dare la caccia alle zanzare o alle rondini. L’entrata di lei in portantina, invece, èsenza dubbio l’arrivo di Sofonisba da Massinissa, in Scipione l'Africano. E il finaleè la solita incoronazione del Boris. Ma anche in uno spettacolo così ambizioso, sivede troppo da che parti vengono le luci: si può risalire quasi sempre addirittura alsingolo riflettore.

[inverno 1960-’61]

(da: Grazie per le magnifiche rose, Milano, Feltrinelli,1965)

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GIORGIO MANGANELLI

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Niente da dire

Nel cuore di chi si occupa di letteratura, o perché si dà arie di scrivere, o si dice pago del leggere, si nasconde una profonda invidia per la musica.

I libri sono fatti di parole, le parole hanno significati, codesti significati si rintracciano nei vocabolari, magari nelle note in calce. Se uno scrive una parola disusata, o incontra una parola del tutto inedita, qualcuno – un diavolo, un angelo andato a male per ragioni di donne o per il bere – gli dice: «Ma questo è nonsense!». Se io leggo parole che non capisco, debbo far sosta, e cercare di informarmi. Se leggo Conrad devo sapere che cosa è la «tuga», se leggo Montale non posso ignorare la «re-dola» e se leggo Alice nel paese delle meraviglie, che mai, che mai sarà il Giabbervocco? Ma la musica! Ecco, tutti sanno da sempre che la musica non significa niente, e nessuno se ne scandalizza. Ogni tanto, qualcuno ten-ta di trovare nella musica un messaggio storico, come se fosse letteratura, ma è una burla che non riesce. La musica non ha niente da dire, e di quel niente fa le sue meraviglie.

Il letterato ascolta la musica come qualcosa che sta al di là di qualsiasi letteratura, qualcosa a cui la letteratura aspira – ed ecco le forme metriche, ecco il gioco della rima, e le assonanze, e le allitterazioni; una sestina del

(titolo originale: Musica per lamia penna, in «Il Messaggero Più», 15 settembre 1989).(titolo originale: "Musica per la mia penna", in «Il Messaggero Più», 15 settembre 1989).

(tiolo originale: "Musica per la mia penna", in «Il Messaggero Più», 15 settembre 1989; poi in "Una profonda invidia per la musica",Roma, L'orma, 2014).

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Petrarca è forse quanto di più simile alla musica sia sta-to scritto, o forse, ma non ne sono sicuro, qualche riga di Finnegans Wake.

La musica può giocare con la matematica, e questo è stupendo. Prendiamo ad esempio le variazioni: sono qualcosa di straordinario, anche se lo dico un po’ tri-vialmente. Che un tema possa essere insieme custodito e manipolato in modo irriconoscibile, possa essere se stesso e altro, è procedimento affascinante per chiun-que sia irretito nelle bassure delle parole, dove i docenti insegnano a evitare le “ripetizioni”. E la musica è tutto un gioco del ripetere.

Penso a certe stupende variazioni di Haydn per pia-noforte, ecco, ho controllato, è l’Andante in fa minore H XVII 6. Penso alle Variazioni su un tema di Händel, di Brahms, op. 24; e naturalmente non oso neppure nominare il nome supremo di quel facitore di musi-chette italo-viennese che fornì il tema a Beethoven… E, poi, la fuga.

L’arte della fuga, la più sfrenata delizia, una costru-zione di fantasmi, manipolata con una suprema meti-colosità matematica. Non indugerò su Bach, perché di Bach ho paura, ma oso accostarmi alla lucida, apparen-temente inoffensiva grazia delle fughe mozartiane, la numerica letizia, l’ilarità drammatica e astratta: il fuga-to della Jupiter, quello che chiude il primo dei quartetti mozartiani dedicati a Haydn (questa volta non mi al-zerò per andare a vedere qual è il numero dell’opera) e, poi, naturalmente, il concerto (farò una telefonata per farmi ricordare il numero), il K 459.

Nella musica incontro la massima libertà e la massi-ma devozione alle strutture pitagoriche; giochi stellari. Per questo un poco diffido delle sinfonie, uso le opere

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come deliziosi scacciapensieri, al più come grandi ro-manzi, ma la delizia è per me la musica da camera, e forse un primo brivido, un brivido da primo amore, l’ho provato con un quartetto di Mozart, il K 421, uno dei pochi numeri che so a memoria.

E i quartetti di Beethoven? Stupendi, si sa, ma non saranno un po’ concettosi?

Non sarà forse l’assoluta assenza di idee che rende oggi la musica di Mozart così irresistibile?

Un grafico celeste, un inferno matematico. Cioran ha scritto che la musica di Mozart fa sperare nell’aldilà; è importante che si tratti solo di speranza – o di paura, come nel Requiem, Beethoven non ha mai scritto un Requiem perché ha scritto solo dei Requiem?

E nella musica da camera ci sono certi musicanti mi-nori che fanno delizie; prendete i fiati: c’è qualcosa di più elegante e intangibile?

Come parlare una lingua fatta solo di vocali. Prendete un musicista minore, Reicha, un tale del primo Otto-cento, uno slavo a Vienna, che scrive quintetti per fiati.

Capolavori? Ma va. Delizie, squisitezze, finezze, ma-lizie; chi può dire se sono grandi o meno grandi inven-zioni? Può esistere un vero capolavoro? Ecco: finisco; ma vorrei ricordare gli Adagi per corno di bassetto di Mozart. Musica sottomarina. Addio.

(1989)

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Introduzione

La musica non faceva parte ancora – vent’anni fa – dell’universo di riferimento abituale degli intellettuali italiani. Non era concepita come luogo di un qualsi-voglia pensiero, degno di nota. Non se ne parlava mai, se non in privato. D’altronde cosa leggere, di musica, nei sacri testi dei padri spirituali? Croce? Gramsci? Un bel niente. Oscillava la musica – nella geografia cultu-rale – tra il mondo delle infatuazioni generiche, degli hobbies (a occupare il famigerato “tempo libero”), il gentile territorio del galateo (andare al concerto, suo-nare il pianoforte erano, tutto sommato, ancora se-gni di buone maniere) e la dolce maniacalità di alcuni originali à tout prix che si abbonavano ai concerti e comperavano dischi.

Già. I concerti…

A Roma costituivano – e in parte costituiscono an-cora – un curioso pendant domenicale della messa di mezzogiorno: il pubblico vi partecipava con sentimenti misti, tra il reverenziale e il trasfigurato, non senza tut-tavia una forte componente passionale e sportiva, spe-cialmente quando venivano comparate interpretazioni diverse di un testo noto e amato, come una sinfonia

Paolo TerniINTRODUZIONEa: G.Manganelli, Una profonda invidia per la musica,Roma, L'orma, 2014

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di Beethoven. E l’arte di ottenere bis consentiva l’eb-brezza di piccoli, anche gioiosi, momenti di gloria… Nei confronti di Beethoven, in generale, l’atteggiamen-to era cordiale: in fin dei conti, negli intervalli, bastava evocarne qualche tratto biografico, scelto a caso tra le pagine di Romain Rolland, tutte Genio e Sordità, per non sfigurare… Gli altri autori erano soprattutto mol-to rispettati (da Bach a Brahms, ma con particolare ri-guardo ai sinfonisti di area germanica, fino a Bruckner, e ai grandi russi): Mahler è stato, per anni, un vero e proprio casus belli, con minacciosi movimenti di trup-pe guidate dal wagneriano critico del «Messaggero» (il grande Teodoro Celli); rarissimi Debussy o Ravel (me-glio Respighi, Le fontane di Roma!) Stravinskij poi!… Qualche timido tentativo verso musiche meno frequen-tate suscitava noia e sbadigli se la proposta era di area tonale; il classico urlo «buffoni!», invece, accompagnato da tosse e varia otorinolaringoiatria, se di dodecafoni-ci, politonali, o addirittura post-darmstadtiani dovevasi incautamente trattare… L’odio maggiore, tuttavia, lo suscitava la laconicità dei testi di Anton Webern…

Ma, al di là di queste pratiche, il mondo della musica, in quanto tale, era visto come un inaccessibile hortus conclusus, abitato da un linguaggio separato e misteri-co la cui conoscenza tecnica era presupposto intran-sigente: chiunque tentasse una qualsiasi esternazione, pur amando e conoscendo la musica, sentiva l’obbligo di cautelarsi con avvertimenti come «non me ne in-tendo, ma…». A dire il vero non conosco altro cam-po, dalla letteratura al cinema, alla filosofia, ove si sia praticata con tanto rigore una vera e propria conventio ad excludendum, suffragata e avallata però, non ca-

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sualmente, dalla corrispettiva, simmetrica timidezza, dallo spontaneo autocensurarsi di pur eccelsi uomini di cultura tranne pochissime, forti personalità come Gabriele Baldini e Giorgio Vigolo… E qui, in questa separatezza, rigidamente praticata, nelle sue cause, nel suo non-detto risiedono forse le ragioni dell’enigma musicale italiano…

E l’opera? Le follie di questo mondo sono state mi-rabilmente evocate da Alberto Arbasino: si rimanda il lettore ai suoi testi, soli capaci di restituire quei furo-ri variamente kitsch ove l’abito da sera, confezionato magari secondo i dettami di Franca Valeri – in Piccola posta (risposta a Fleur du mal di Isernia…): «Viola! Ce l’avrai uno scendiletto, una coperta, una tenda!» – e indossato da collettivi di mature Saraghine laziali, s’in-trecciava con la tonaca – rossa, come i confusi sembian-ti – di qualche seminarista germanico appena appena scampato ai derniers outrages minacciatigli da maturi commendatori in vena di varia esternazione…

Aduso alla pratica di un normale associare pensiero e musica (come altrove ho tentato – a tratti – di docu-mentare), impudicamente propenso a parlarne, non mi rassegnavo al non-discorso dei miei numerosi amici – scrittori, storici, critici – specialmente in occasione di qualche riunione einaudiana quando Massimo Mila, con la civiltà, il garbo e l’understatement che ne carat-terizzavano il tratto umano, proponeva titoli, magari eminenti, regolarmente accolti con la insolita prati-ca (per quei luoghi) del silenzio-assenso… E la non-discussione mi sembrava quasi peggiore del rifiuto di pubblicazione.

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Mi chiedevo quali fossero le ragioni profonde di siffatta amputazione: non mi si rispondeva. E gli stessi cosid-detti «operatori culturali», chiamati a pensare riforme, finivano pur sempre col mettere in circolazione idee mi-serrime già fossili all’atto stesso della loro formulazione. Ne sono esempi tristissimi le prime iniziative adottate nelle scuole dell’obbligo: una lodevole iniziazione dei ragazzi alla pratica del flauto dolce, della chitarra e di qualche battuta di canto corale, ma accompagnata da esempi commentati in termini esclusivamente biografi-ci, paesaggistici o meteorologici (le Quattro stagioni!…), nel vuoto più assoluto dell’ascolto musicale in quanto tale (e non quale didascalia di noio sissime alterità): in parole povere la migliore buona volontà non riusciva a sopperire alla reale incapacità di far ascoltare, diretta-mente, il linguaggio della musica, il suo dire di per sé.

Collegai, in quei tardi anni Settanta, queste sconsolate considerazioni ai risultati di alcune belle ricerche con-dotte in casa editrice Einaudi intorno alla lettura (dal caso della biblioteca modello di Dogliani alla stesura e pubblicazione, in due edizioni successive, di una Gui­da alla formazione di una biblioteca pubblica e privata1, ove, in premessa, evocavo «la rabbia di vedere tanti libri resi sordi e muti per paura di lasciarli parlare [e quella] del poco sforzo che non si fa […] per dare a tutti gli strumenti dell’intelligenza e la forza della parola»).

1 Guida alla formazione di una biblioteca pubblica e privata, con scritti di Salvatore Accardo, Giulio Einaudi, Delio Cantimori e Paolo Terni, Einaudi, Torino 1969, e Guida alla formazione di una biblioteca pubblica e privata, nuova edizione interamente riveduta e aggiornata a cura di Paolo Terni, Ida Terni e Piero Innocenti, Einaudi, Torino 1981.

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La Guida creò, di fatto, le condizioni del mio incontro con Giorgio Manganelli. Era diventata base operativa di un progetto molto ambizioso, tendente a istituire un numero cospicuo di biblioteche-centri culturali nel Mezzogiorno. Tra i gruppi che partecipavano al pro-getto vi era il Movimento di collaborazione civica, presieduto da Ebe Flamini, mia amica di lunga data e compagna dello stesso Manganelli. Finii così col gode-re della fortuna di poter frequentare Giorgio non solo professionalmente ma diventandone amico.

Ripenso così con struggentissima nostalgia alle cene organizzate da Ebe – grande cuoca e gastronoma – per assecondare i davvero smodati appetiti del Nostro, al-trettanto grande “forchetta”, ma con aspetti davvero curiosi, come quando scoprì le grigliate di carne di pe-cora che andavano degustate (si fa per dire) in remote bettole delle montagne abruzzesi… O la ricerca dell’a-maro più amaro possibile, con la conseguente scoper-ta di un amaro di Udine la cui atroce evidenza («Sì, è proprio amaro!») divenne per lui una sorta di emblema, generosamente elargito – a furor di bottiglie – ai suoi fedeli commensali.

A tratti esplodevano barocchissime tempeste verbali: aggettivi sornioni e pungenti; avverbi – come gaddiane saette – che non risparmiavano nessuno (tranne Ida, mia moglie, cui era devotissimo).

Tutte queste persone non ci sono più e ne sento dura-mente, certo in maniera molto differenziata, la violenta mancanza: la mancanza di una circolazione di affetti generosi, caldi, di infinite, infungibili, complicità, di un mondo cordialmente ilare.

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Tra queste complicità proprio la musica: Giorgio, in quel convivio rotante che si celebrava nelle nostre case, incominciò a scrutare attentamente la mia discoteca, a commentare fulmineamente un testo, a farmi intuire che aveva già una cospicua collezione di dischi, ad ac-cennare a qualche sua ultima scoperta nei covi dei disco-mani maniacali (l’Allegretto di Mary e la boutique mu-sicale della signora Letizia, al Pantheon), ove il cogliere con lo sguardo un acquisto quasi furtivo da parte di un concorrente suscitava ansie, invidie e odii siderali…

Ogni tanto mi telefonava in casa editrice, apparente-mente per avere notizie librarie, ma non v’era dubbio che, all’impronta, mi avrebbe chiesto se, facciamo con-to, io conoscessi Johann Nepomuk Hummel o il Lucio Silla di Mozart…

D’altra parte, la stessa Guida includeva una sezione in-titolata La storia della musica nei dischi, da me curata con la consulenza di Gioacchino Lanza Tomasi e di Au-relio Gariazzo: ne parlai con Enzo Forcella, di recente nominato direttore di Rai Radio 3, che mi propose di presentarla in un ciclo di trasmissioni come ipotesi di “discoteca ideale”, accompagnata da ascolti significati-vi. Da queste trasmissioni, guidate da Paolo Donati, e dalla loro risonanza, oltre allo scoprirmi “radiofonico” nacque in me una grande eccitazione: intravedevo fi-nalmente una possibilità, usando la radio, di svellere, mediante lunghi colloqui, la fortezza delle relazioni – allora pudicissime e silenziose, come si è detto – tra grandi scrittori, pensatori, uomini politici, attori, pittori, registi e l’ambito della musica. Enzo Forcella accettò l’idea e mi mise a disposizione modi, mezzi, tempi e collaboratori: il ciclo – inaugurato nel 1980 –

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ebbe come titolo La musica e i dischi di… e, nel corso di un quinquennio, ebbi così la meravigliosa possibilità di dialogare alla radio con decine di interlocutori come Aldo Trionfo, Carmelo Bene, Luca Ronconi, Giorgio Manganelli, Natalia Ginzburg e Primo Levi, Giorgio Bassani e Carmelo Samonà, Rossana Rossanda, Luigi Pintor, Fabrizio Clerici, Bruno Zevi, Federico Zeri, Lui gi Magnani e tanti altri…

Cercai subito di stanare Giorgio Manganelli: avevo immaginato un lungo percorso di tattiche seduttive e mi sorprese invece l’immediatezza con la quale accettò. Vi era in lui, anzi, come un’urgenza nel voler parlare di musica: quasi fosse davvero più curioso di me stesso… E ricordo quei pomeriggi; in un suo appartamento nel quartiere Nomentano, noi due intenti a delineare la struttura dei nostri futuri incontri: man mano venen-dosi così a creare un quadro di riferimento, un ambito rivelato, ove poter mettere in scena, come liberandoli, i frammenti sparsi, le idee fulminee e geniali, le battute, le lunghe sequenze che – altrove, alle cene, con la pecora e l’amaro – ogni tanto emergevano, anzi sprizzavano, dal fastoso suo conversare perdendosi poi dietro a un’im-precazione, a una qualche angoscia momentanea…

I nostri cinque incontri radiofonici ebbero luogo dal 14 al 18 luglio 1980: sono qui fedelmente trascritti, senza il minimo ritocco o intervento sui parlati di Giorgio Manganelli, così come li riporta la registrazio-ne originale. (Dai miei personali parlati – professio-nalmente subalterni e maieutici, com’è ovvio – ho eli-minato quei saluti, quelle formule di circostanza, quei convenevoli magari necessari in radio ma di nessun ulteriore interesse.)

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La trascrizione rivela così una sorta di pedinamento che l’autore conduce dietro alle proprie idee: le si scor-gono sul loro nascere, le si vede man mano assumere una precisa identità verbale; il discorso viene progressi-vamente organizzandosi sotto ai nostri occhi, non sen-za qualche esitazione, qualche bellissima variazione…

E troveremo mille lampi, mille visions fugitives da la-sciare senza fiato come «la variazione che in letteratura è così difficilmente, preziosamente trasferibile»; «una minaccia pedagogica»; «ci devono essere delle macerie specifiche per costruire la città dell’impossibile»; «l’im-portante è che l’angoscia coesista col gioco»; «mi sento assassino potenziale di musicisti» o, über alles, «l’onta del significato»…

Nel farsi del discorso di Manganelli – felicissime soprat-tutto l’icastica perfezione delle invenzioni lessicali, la loro lapidaria, fulminea capacità di restituire, intatta, l’urgenza del pensiero, e la implacabile, quasi divinatoria, pregnan-za delle scelte musicali – viene così a formularsi un per-corso immaginario, un attraversamento del labirinto ove le stazioni a nome Wagner, Haydn, Mozart, Schubert, Mahler, Ives, Verdi o Bach diventano, di volta in volta, appercezioni non solo del mondo di ciascuno degli au-tori invocati ma, per il loro pretestuoso tramite, di tutto l’infinito e l’assoluto, di tutto lo spazio-tempo che investe di sé il sublime, ineffabile gesto della musica finalmente indagato senza provincialismi musicologici: da qui al suo libro più musicale, ossia al rapinoso, struggentissimo Ru­mori o voci, l’itinerario è già tutto tracciato…

Del testo che segue vorrei non dire altro, ma non pos-so. Non posso, in particolare, non riconoscervi – alla rilettura – i grumi essenziali di un reticolo teorico che,

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qui formulati, si sono poi tradotti per me (come, spero, accada per i nuovi lettori) in principi catalizzatori di un personale, ampio processo di rielaborazione teorica: in-somma, di un nuovo pensiero… Gliene sono (e sarò), come si dice, eterno debitore.

(2001)

Post scriptum

Mi si propone oggi di rivedere l’Introduzione che allo-ra (2001) concepii per il testo – qui riproposto – delle mie conversazioni radiofoniche con Giorgio Manganel-li, nel caso fossero necessari aggiornamenti o modifiche. Ma non mi pare ve ne siano di un qualche rilievo. Cer-to, il mondo della musica e del suo consumo ha vissu-to alcune variazioni rispetto al quadro di inizio secolo: ma riguardano i cosiddetti supporti e le modalità degli ascolti che ne derivano. E nulla è davvero cambiato cir-ca il minimo peso specifico – quasi irrilevante! – della presenza musicale nel pensiero critico e negli odierni italici discorsi (2014), anche se oggi sembra “elegante” buttar lì ogni tanto, nelle conversazioni o negli articoli di giornale, qualche nome di compositore o qualche titolo musicale… Semmai vi sarebbe da descrivere un ulterio-re peggioramento: l’antica necessità – nell’assenza reale di strumenti adeguati – di eseguire Scarlatti, Couperin o Bach al pianoforte si è trasformata oggi in colpevole, pigra consuetudine, senza alcuna legittimazione pratica o culturale; e l’antico vezzo di far seguire, in concerto, un testo di Mozart da un brano jazz o da una qualche “can-zone” – allora innocuo divertimento, appena puerile – è oggi assurto a maniera, seriosamente praticata, senza la

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T. …ma questa tua sensibilità così intensa verso il mon-do della forma deriva dalla tua esperienza di scrittore?

M. Non so se derivi da quello. Certamente il proble-ma della forma è un problema che esiste in assoluto. Che poi lo abbia adoperato – scusate se io mi chiamo scrittore, ma dato che qui, nel gioco che stiamo facen-do, a me spetta questa parte, io sarò costretto a questa impudicizia…

T. (Risata)

M. …in quanto io sono scrittore – o mi fingo di es-serlo come l’attore finge di essere Amleto – io ho un compito che è di rapporto da una parte con quello che io chiamo forma e dall’altra con… quello che dovrei dire, dovrei definire… (è forse un discorso che ripren-derò) …la abolizione del significato. Cioè, se io dico ad esempio che il K 465 è una musica altamente angoscio-sa io la riporto nello schema del discorso psicologico. Quello che invece proprio per l’appunto sento di non poter fare, di dover non fare è questo: cioè il K 465 mi presenta un discorso che adopera un materiale che io posso definire, in altra sede, psicologico, ma lo rovescia completamente, lo monda totalmente. Non accade più nulla di angoscioso e io mi trovo solo di fronte ad una angoscia della struttura, ad un’angoscia della forma che non è più assolutamente dotata di capacità di pedago-gia dolorosa. Non mi può più trasmettere sofferenza. Mi trasmette quella misteriosa fascinazione, quella mi-steriosa… ilarità dell’enunciazione – si parlava prima di Haydn – che è compatibile con qualunque grado di “materiale dolente”, in virgolette, ch’io possa adopera-

[ . . . ]

re [...]

TERNI

MANGANELLI

da: "Una profonda invidia per la musica"

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Terza puntata

Terni Nella puntata precedente abbiamo potuto analiz-zare il gioco di rimandi tra Haydn e Mozart ove si sono man mano definiti modi di essere sempre più formal-mente pregnanti del genere del quartetto d’archi. Mi è parso anche di percepire, nel modo con il quale Giorgio Manganelli ci ha illustrato questo gioco, una sorta qua-si di invidia del letterato scrittore verso il mondo della musica. Non so se ho capito male. Che ne dici?

Manganelli No, no, certamente è vero. Esiste una specifica invidia dello scrittore verso il musicista che è l’invidia di una condizione particolare che a lui sembra infinitamente più libera e più inventiva, più natural-mente fantastica. E qui vorrei proprio premettere due parole su uno dei problemi che lo scrittore ha di fronte a sé. Lo scrittore ha il problema di scrivere adoperando qualche cosa che si può presentare e descrivere come un significato e deve contemporaneamente liberarsi del significato. E questa macchinazione che porta all’a-bolizione del significato conservandone le strutture in qualche modo – è il discorso che s’è fatto prima anche per il K 421 di Mozart – questo è il tema più angoscio-so, diciamo, del letterato. E direi è l’eterna ambiguità della letteratura che non si sa mai se vuole o non vuole

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dire niente. Lo scrittore sa benissimo che la letteratura non vuole dire niente: ha ben altro da dire che non dire… E questa condizione il letterato la trova nella musica realizzata con una condizione particolarmente felice. Mi viene in mente di poter utilizzare un esem-pio, in parte paradossale. La musica ha rapporto non solo coi suoni ma ha ovviamente rapporto con le pause che non sono la stessa cosa delle pause di un discorso letterario. Ha rapporto coi silenzi e direi un rapporto coi silenzi in cui i silenzi funzionano esattamente come le note musicali. Non sono un’altra cosa. Non sono una interruzione o uno iato, né uno spazio: sono una nota particolare il cui grado è caratterizzato dal mani-festarsi come assenza. Ora lo scrittore si trova sempre di fronte ai problemi della… della… come potrei dire?… metabolizzazione dell’assenza. E questo problema che è, nel caso dello scrittore, aggravato dalla sua ambigui-tà, dalla sua compromissione col significato, nel caso del musicista è praticamente assente quando riesce a toccare quel livello perfetto di forma che mi pare ci sia, ad esempio, in un testo che mi è particolarmente caro.

T. Ti riferisci all’Andantino della sonata in la maggiore D 959 di Franz Schubert di cui ascolteremo un fram-mento finale nella interpretazione di Ingrid Haebler al pianoforte.

(Ascolto)

M. All’ascoltatore non sarà sfuggita quella sorta di stan-chezza delle note che genera l’alone del silenzio, che è in qualche modo protettivo, in qualche modo più in tenso e portante nei confronti della nota. E questa

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mi pare una straordinaria sottigliezza sia del testo, sia dell’esecuzione. È un testo di Schubert. È la prima volta che parliamo di Schubert in questa trasmissione, ed è un musicista particolarmente interessante e inquietan-te. Il pezzo che noi abbiamo ascoltato presenta proprio alcuni degli elementi tipici di Schubert: la straordinaria raffinatezza; la straordinaria esattezza del gesto con cui cattura poche e modula pochissime note, e la capacità di toccare un materiale popolare, un materiale… direi un’iconografia tradizionale, semplice, trasformandola in un’icona, trasformandola in qualche cosa di una im-mobilità, di un’intensità strepitosa. E quindi è questo un altro dei fascini di questa maga musicale, di questa magalda: la capacità di usare il volgare, la volgarità. È così difficile in letteratura adoperare la volgarità ed è così necessario! Noi stiamo in questo periodo… direi che siamo in un periodo in cui è molto… c’è una gran-de lite intorno all’uso della volgarità. Sarebbe interes-sante leggere sotto questa prospettiva alcune delle opere che hanno… alcuni degli autori che hanno traversato la nostra letteratura, basta pensare a Pasolini per certi riguardi (con questo adesso stiamo uscendo decisamen-te dal nostro discorso)… Ritorniamo al tema di come adoperare la volgarità. Possiamo ricordare che nell’Ot-tocento uno scrittore come Dickens sapeva adoperare la volgarità, è vero; però devo dire che Dickens non ha un atteggiamento schubertiano nei confronti della volgarità: ha un atteggiamento affascinante che lo può accostare ad un altro scrittore di una volgarità celestia-le, che è Dostoevskij, ma non me lo porta verso quello spettro del rarefatto che coabita col volgare, direi forse solo in Schubert e in Mahler…

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T. Ma scusami Giorgio, tu fai un discorso che in qualche modo (forse ho capito male) contraddice quella spe cie di visione ideale che avevi del musicista supremamente esentato dall’uso del significato, come l’architetto degli archi trionfali, tanto per intenderci…

M. Sì.

T. …in realtà, questo rapporto col volgare è ambiguo perché nell’utilizzo del volgare di cui parli, esempli-ficandolo con Schubert… viene fuori una desiderata contaminazione.

M. Non c’è nessun significato al momento in cui viene recepito: è questo il punto affascinante… questo mo-tivo che era nato, diciamo, nell’ambigua ambizione di avere un significato, nel momento in cui viene appro-priato dal musicista, viene catturato dal musicista, per-de ogni significato.

T. Senza contaminazione…

M. Senza contaminazione. Deve mantenere solo… di ciamo della sua condizione originaria noi sentiamo ancora sopravvivere una certa… una certa violenza di-namica, una certa intensità dinamica. È da questo che noi ne riconosciamo l’origine. Ma in questo non viene assolutamente a venire intaccato il principio dell’assen-za di significato da cui il musicista non è esentato, ma da cui deve liberarsi!

T. Ecco, sì.

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M. Questo è il punto fondamentale. Il dramma del musicista non è diverso da quello dello scrittore…

T. Ma può liberarsi più facilmente.

M. Il musicista si trova, diciamo, di fronte a uno stru-mento che è molto più… che agisce molto più pronta-mente coi suoi incantesimi per mortificare il significa-to, mentre lo scrittore, purtroppo, deve… deve portar-selo dietro e deve ucciderlo passo passo!…

T. Vorrei un altro esempio schubertiano di questo rap-porto col volgare. Mi citavi una volta con curiosità la Melodia ungherese D 817 per pianoforte. Vogliamo ascoltarla? È nella esecuzione di Vladimir Aškenazi…

(Ascolto)

M. In questo pezzo Schubert adopera un tema popolare ungherese, come lui fa molto spesso, e su questo tema modula tutta una serie di variazioni; manipola questo tema, alternando i modi maggiore e minore in una squisitezza di inseguimenti, di rinnegamenti reciproci. Io non sono un tecnico, posso essere approssimativo in questo rapporto con particolari molto specifici…

T. I modi?

M. …coi modi, sì ecco. A me sembra che il modo mag-giore rappresenti un po’ quella che è la figura retorica dell’ipotiposi e il modo minore la reticenza. Comun-que il modo minore allude ad un silenzio successivo e il modo maggiore invece è un’asseverazione, prende

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Due risvolti di copertina

Improvvisi per macchina da scrivere (1989)

La macchina da scrivere nasce dai capricciosi amori di un cembalo estroso e di unamite mitragliatrice giocattolo. I suoi connotati più suasivi sono la tastiera e ilmacchinoso frastuono. Per codesto amore, il cembalo ha deposto le sue arie, e lamitragliatrice i suoi infantili, innocui furori. Le lettere che leggete sui testi sonoquanto resta degli antichi melodrammi, delle favole pastorali in cui il cembalo,complice consenziente, venne coinvolto. Fu un amabile dono di nozze.Incidentalmente, per questo la macchina da scrivere racconta volentieri romanzi eprogetta epistolari.Nell’anima del dattilografo — inteso nel senso più ampio — si nasconde un solistadei tasti; è consanguineo del pianista, del clavicembalista, di tutti coloro chevivono di e per una tastiera.Sommamente invitante è la tastiera; davanti ai tasti neri, alle lettere bianche, ledita si innervosiscono, come danzatori prima del ballo. Così accadeva quando ilcembalista sedeva, solo, davanti alla tastiera. Non cercava né pentagramma, németronomo; solo una tastiera voleva, e un pubblico silenzioso. Precipitosamenteesatte percorrevano le dita i tasti candidi e notturni: improvvisavano. Pergenerazioni l’aria del mondo rabbrividì di delizia a quelle volatili improvvisazioniche non ascolteremo mai. Se Mozart avesse potuto imprimere su di un mobile rullopentagrammato i capricci di una mano danzante!Improvvisazione: la macchina da scrivere ha questo dono difficile: cattural’improvvisazione. Vi furono improvvisatori pianisti, violinisti, cantanti, anchepoeti: ne resta solo la stupita testimonianza di qualche spettatore. Altri improvvisòdiscorsi: ne vennero catastrofi. Ma la minima, umile macchina da scrivere è oggi lanaturale tastiera dell’improvvisatore. Esigua, futile e svelta è l’improvvisazione: unpo’ furba un po’ sciocca, un gioco patetico, insulto soave, graziosa villania; infine,istantaneo, già scomparso, è il rintocco di un riso già dimentico di ciò di cui si èriso.

Rumori o voci (1987)

Se avete una intima inclinazione per il baccano, il bordello, il fracasso, il frastuono,la gazzarra e il putiferio, non dovete supporre di essere un pervertito auditivo; nonvi toccherà un inferno di silenzio, sussurri, fievoli fiati; ma piuttosto significheràche ospitate una occulta e forse disattesa vocazione per le chiacchiere, ipettegolezzi, il commerage del cosmo. Frastuonando cianciano gli asteroidi,ammiccando bisbigliano i satelliti, brontolano le indaffarate meteore. Se un pocodi inclinazione ai valori perenni della civiltà sapiens indugerà in voi, certo saretedegustatori del diavoleto, ovvero diavolio, o meglio pandemonio, ma anche ilsemplice, nonnesco inferno è termine non inesatto per dir grandissima cagnara; eappena si notino certe delicatezze come boato e rintocco, detonazione e sospiro,conflagrazione e crepitio, chioccolio e bisbiglio, che tutt’insieme paiono alludere aduna storia di bella ed intima drammaticità. E chi smusica, miei cari? Chi daltramenio trapassa all’uggiolio e al roucoulement? Chi, altrimenti, sarabanda etracotando in un rombazzo scroscia, fa trambusto e subbuglio e infine schianto?Ma che è mai, che è mai codesto finimondo? Non sarà, per l’appunto, se stesso?

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da: Rumori o voci (1987)explicit

[…] Ma a te non sta di fronte una dialettica verbale, una eloquenza purchessia, maun agglomerato vocale che non conosce inizio o conclusione. E dunque ascoltacome la tua intenzione, pia e virtuosa, si trasformi in una impennata di voce, unavoce monotona, aspra, irta, iterativa, che via via verrà misurandosi con l’altra chetu hai scelto, insensato senso. Non diresti che questa, che abbiamo detto altravoce, eccepisce? Direi che non v’è dubbio. Articolando suoni infimi, echi erintocchi sordi, la voce resiste, con più furbizia che onestà, ma non credo chel’inonestà sia estranea a questa invasione delle voci, e forse anzi tutte le voci sonoinoneste. Eccepisce con strenua, sorniona sordidezza, sordamente, sommessa;querula e, lo osasse, litigiosa; certo blandamente, anche flebilmente accusatoria,quasi gemendo come disattesa, disamata, disertata, derelitta; fingendo, se qui èlecito distinguere finzione da recita, una sussurrata e corrucciata blandizie;sperimentando elaborate cadenze, delicati capricci vocali. Cui tu farai diniego, osolamente farai mostra di calcolata indifferenza. Ma ora odi una voce acre,dispettosa, non ancora pronta alla furia, ma colma di ira, e insieme trattenuta dauna sorta di paura di te, o paura d’altro che la voce conosce, ma non tu, non io;altro che sarà pur sempre in qualche modo voce. Ed ora ascolta: l’ira si impenna, ilfurore vocale percorre istantanei cieli, dovunque si libra uno stormo di volatilivocali. La voce, furibondo uccello, scende disegno di sillabe per l’aria, in forma dibecco infinito, assalta quella che ora è viltà vana, reticenza astuta, e ferisce a fondole viscere d’aria dell’ostinato diniego. Infine sperimenti di silenzio; il cielo è colmodi suoni morti, piume sonore di volatili, uccisi rintocchi; si celebra la morte delsuono. La voce è spenta. Una goccia. Una porta. Un vento disperde una polvere dirantoli e strida. Ascolta: può essere che la notte abbia una fine? Che tu vengaassolto da questo tuo acquattarti, esentato dal diniego, che la mappa delle vocivenga dichiarata illegale, e dolcemente, fermamente sottratta alla acuzie delle tuemani? Può essere. Io dovrei parlarti, io nonvoce, della lacerazione della notte, edella progettazione dell’alba, del barlume. Scinde il silenzio un grande, nobilestridore. Questo ora vorresti sapere, vero? Che è mai questo frastuono? Questosubito fragore, quale mai hai udito? Questo urlare della notte, scheggiata in unamoltitudine di notti, perle, gocce dì notte? Che è questo rombo, farnetico,frastuono, quale rissa governa il mondo, dilata lo spazio? E che vuoi che sia questobiscanto, questo bailamme, questo stridore e fracasso, questo sibilo dell’aria,questo brivido sonoro? E che vuoi che sia, mio caro nottambulo, mio sedentariodelle tenebre, se non questo, questo appunto — la resurrezione dei morti?

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Nel suono della prosa: le Operette morali (1985)

[...] Se c'è un libro con cui ho avuto un rapporto prediletto, insistente atanti livelli, tanto da non sapere neanche più sondarli, queste sono le Operettemorali di Leopardi. Un libro che io trovo di sterminata sottigliezza, di unafantasia linguistica e intellettuale straordinaria, un libro che racchiude tutte lecontraddizioni del mondo leopardiano, la sua squisitezza, la sua voluttuositàlinguistica e la sua asceticità, la sua astrazione e la sua esattezza tattile, la suaprecisione minuta. Ed è un libro nella cui prosa io mi perdo, con unastraordinaria delizia; resto completamente ipnotizzato, invaghito e come inpreda a un entusiasmo di tipo veteroellenico, da questo tipo di prosa che ècontemporaneamente dotta e stranamente fantastica: una delle più mirabilidella letteratura italiana, nel suo incrocio di delirio e di sintassi... Devo dire chenon riesco ad amare il Leopardi poeta come amo il Leopardi prosatore, credo chesia un esempio forse insuperato di pregnanza, di pertinenza, d'incrocio ditensioni. Questa strana sonorità che ha qualcosa dello strumento musicale, dellegno, direi, della cassa armonica... E direi che quel suono opaco, fondo, dellaprosa di Leopardi ha un incanto che forse nemmeno quella manzoniana per meriesce a raggiungere.

Uno dei brani che, all'interno della raccolta delle Operette morali, mi èpiù caro, è quello in cui il Tasso, parlando con il genio, e il genio rispondendogli,parlano della noia. Ecco, questo testo mi pare straordinario per una condizioneche è essenziale al mondo linguistico leopardiano, ossia, per la felicità nellacontemplazione del dolore. Quando vedo questa minuta esattezza dei modilinguistici avverto che non è solo una precisione filologica, ma è proprio unalucidità felice... direi che il desiderio della felicità, il desiderio puro della felicità,che si identificherebbe con la noia, cioè l'assenza di felicità, è contemplata conuna forma di intrinseca e alta felicità linguistica; e forse questo Leopardi è ilsommo e il culmine di una certa idea del linguaggio, che finisce con lui, e cheforse ha tutta la letteratura italiana alle sue spalle (penso al modo obiettivo everbalmente affascinato in cui Leopardi, nella Crestomazia della prosa italiana,adopera i testi, per verificare l'intensità dell'esperienza linguistica italiana).

Di questa forma di felicità intrinseca del linguaggio leopardiano puòessere forse un esempio un altro testo che amo molto, l'Elogio degli uccelli.Leopardi era innamorato di questo tema mitico dell'uccello, della sua canorità; echiaramente vede nell'uccello un esempio di gioia, che lui trasforma in unmomento di felicità sintattica straordinaria; e così, in un altro testo, che partedallo stesso mito, il Cantico del gallo silvestre, ascoltiamo di nuovo, questa voltatrascritta in qualche modo, la voce canora e vocale dell'uccello. A illustrare lavarietà di registri e timbri della prosa delle Operette, è forse utile giustapporre, aquesto modo concitato e veloce del Leopardi più alacre, un modo rallentato, e dicui un esempio che mi sembra illustre è un frammento del Dialogo di FedericoRuysch e delle sue mummie.

[da un’intervista orale resa nell’ambito del programma radiofonico della RAIRadiotelevisione italiana “D’uno scrittoio l’altro”, a cura di Tommaso Pomilio; con lieviadattamenti redazionali. Ora in Quel libro senza uguali: le Operette morali e ilNovecento italiano, a cura di Novella Bellucci e Andrea Cortellessa, Roma, Bulzoni,2000)

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La letteratura come menzogna (1967)

[...] Lavorare alla letteratura è un atto di perversa umiltà. Colui che maneggiaoggetti letterari è coinvolto in una situazione di provocazione linguistica. Irretito,irrigato, immerso in una trama di orbite verbali, sollecitato da segnali, formule,invocazioni, puri suoni ansiosi di una collocazione, abbagliato e ustionato dafulminei, erratici percorsi di parole, voyeur e cerimoniere, egli è chiamato a dartestimonianza sul linguaggio che gli compete, che lo ha scelto, l’unico in cui glisia tollerabile esistere; unica condizione stabile e reale, sebbene affatto irreale eimpermanente; unica esistenza, anzi, riconoscendosi lo scrittore nient’altro cheun’arguzia del linguaggio stesso, una sua invenzione, forse i suoi genitaliectoplastici.

Avvolto nelle spire, nella sfera del suo linguaggio, non solo lo scrittore nonè contemporaneo agli eventi che sono riusciti a procurarsi una cronologia nonincompatibile con la sua biografia; ma nemmeno è contemporaneo a quegli altriscrittori con i quali convive, se non quando anch’essi siano in qualche modocoinvolti nel medesimo linguaggio: condizione, questa, metafisica, e non storica.Accade anzi, che, per la vessatoria esigenza dei linguaggi, e la loro rapinosainstabilità, e la naturale infedeltà dei mondani, lo scrittore viva in discontinuacontemporaneità con se medesimo. Dunque, non gli eventi storici, non ilsalvacondotto delle storie letterarie ci danno accesso alla letteratura ma ladefinizione del linguaggio che in essa si struttura.

Come accade ai testimoni, lo scrittore «non sa» : ma il suo è un modoaltamente specifico di non sapere. Ignora totalmente il senso del linguaggio incui è coinvolto, donde la sua potenza, la sua capacità di viverlo come magma,coacervo di impossibili, falsi, menzogne, illusionismi, giochi e cerimonie. Etuttavia è anche un uomo che duramente opera su una materia ostile ed ostinata.Con il linguaggio, definitivo ed illusorio, instabile ed aggressivo, deve costruireun oggetto la cui compatta, dura perfezione chiuda una dinamica ambiguità. Nonlavora secondo estro o fantasia, ma secondo ubbidienza; cerca di capire che cosavuole da lui il linguaggio, dio barbaro e precipitosamente oracolare. La suadevozione è fanatica e inadeguata. Durante la lavorazione dell’oggetto verbale, èvincolante codesta condizione di dotta ignoranza. Egli sa fare perfettamente solociò che non conosce. L’oggetto che nasce dalla complicità della sua scienza edella sua ignoranza gli è totalmente impervio. Sa che è un ordigno, fabbricatosecondo le regole, uniche e inderogabili, con cui si fabbricano gli ordigni: ma egliignora affatto in quali e quanti attentati, da quali mani, verrà lanciato questoesplosivo inesauribile; e solo lo assiste la clandestina, odiosa speranza che, coltempo, esso finirà con l’offendere tutti. Dunque, l'autore non sa, non deve saperesul suo lavoro neppure quanto ne sanno gli altri. Di più : egli ha l’oscurasensazione che quell’ambiguo essere che egli ha dato alla luce con la calliditascorporale e l’eroica nescienza delle madri, venga stuprato da ogni volontà dicapire quel che vuol dire. E sebbene sappia di averlo destinato allo stupro findall’inizio, il pensiero che si voglia spiegare «che cosa vuol dire» lo riempie diistintivo orrore. Un naturale impeto lo porterà a dire sempre di no, o addiritturaa non capire quel che gli altri «capiscono». L’oggetto letterario è oscuro, denso,direi pingue, opaco, fitto di pieghe casuali, muta costantemente linee di frattura,è una taciturna trama di sonore parole. Totalmente ambiguo, percorribile intutte le direzioni, è inesauribile e insensato. La parola letteraria è infinitamenteplausibile: la sua ambiguità la rende inconsumabile. Proietta attorno a sé un

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alone di significati, vuol dire tutto e dunque niente. Nella sua fragile,incorruttibile carne non nasconde alcun tumore di Weltanschauung.

(Paragrafo di periferica iracondia: da codesto selvatico, lucido «nonsapere» si deduce che lo scrittore non rientra nel misto sindacato degliintellettuali. Mai lo scrittore venne più insolentito di quando lo si volle includere,a protezione del suo decoro sociale e storico, in questo risibile quinto stato.Meglio chiamarlo «buffone». Ovviamente, la figura abbastanza repulsivadell’intellettuale è una invenzione umanistica, ed oggi rappresenta la reazionegenteel).

L’opera letteraria è un artificio, un artefatto di incerta e ironicamentefatale destinazione. L’artificio racchiude, ad infinitum, altri artifici; unaproposizione metallicamente ingegnata nasconde una ronzante metafora;dissecandola, metteremo in libertà dure parole esatte, incastri di lucidi fonemi.Nel corpo della proposizione, le parole si dispongono con disordinato rigore,come astratti danzatori cerimoniali: tentano l’ipallage che le colloca in reciprocoafelio, il chiasmo che le dispone in immobilità speculare; si allineano nellascandita processione dell’anafora, osano la vertigine dell’ossimoro, la mitedisubbidienza dell’anacoluto; la tmesi mima l’attacco schizofrenico,l’homeoteleuton è pura ecolalia. Reciprocamente, ad una struttura demenzialecorrisponde l’articolazione di una retorica. La perorazione paranoica si integranel monologo maniaco depressivo. Obiettivo costante delle invenzioni retoriche èsempre il conseguimento di una irriducibile ambiguità. Il destino dello scrittore èlavorare con sempre maggior coscienza su di un testo sempre più estraneo alsenso. Frigidi esorcismi scatenano la dinamica furorale dell’invenzionelinguistica.

Le immagini, le parole, le varie strutture dell’oggetto letterario sonocostrette a movimenti che hanno il rigore e l'arbitrarietà della cerimonia; edappunto nella cerimonialità la letteratura tocca il culmine della rivelazionemistificatrice. Tutti gli dèi, tutti i demoni le appartengono, poiché sono morti: eappunto lei li ha uccisi. Ma, insieme, ne ha tratto la potenza, l’indifferenza,l’estro taumaturgico. La letteratura si organizza come una pseudoteologia, in cuisi celebra un intero universo, la sua fine e il suo inizio, i suoi riti e le suegerarchie, i suoi esseri mortali e immortali: tutto è esatto, e tutto è mentito.

E qui si raccoglie e salda la provocazione fantastica della letteratura, la suaeroica, mitologica malafede. Con le sue proposizioni «prive di senso», leaffermazioni «non verificabili», inventa universi, finge inesauribili cerimonie.Essa possiede e governa il nulla. Lo ordina secondo il catalogo dei disegni, deisegni, degli schemi. Ci provoca e sfida, offrendoci un illusionistico, araldicopelame di belva, un ordigno, un dado, una reliquia, la distratta ironia di unostemma.


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