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SCRIVERE IL VOLGARE FRA MEDIOEVO E RINASCIMENTO ATTI DEL CONVEGNO DI STUDI Siena, 14-15 maggio 2008
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SCRIVERE IL VOLGARE FRA MEDIOEVO E RINASCIMENTO

ATTI DEL CONVEGNO DI STUDI

Siena, 14-15 maggio 2008

SCRIVERE IL VOLGAREFRA MEDIOEVOE RINASCIMENTO

a cura diNadia Cannata e Maria Antonietta Grignani

PaciniE d i t o r e

Ricerca

Testi e Culture in Europa

cinque

In copertina: Anonimo, Antiche Pitture di S. Michele del Sotteraneo in Borgo, di Pisa, acquaforte e bulino. Collezione Valentino Cai, Pisa.

Nell’occhiello: Madonna della Misericordia, particolare, Basilica di S. Pietro, Tuscania (VT).

© Copyright 2009 Pacini Editore SpA

ISBN 978-88-6315-080-3

Realizzazione editoriale e progetto grafico

Via A. Gherardesca56121 [email protected]

Rapporti con l’UniversitàLisa Lorusso

Responsabile di redazioneFrancesca Petrucci

Fotolito e StampaIndustrie Grafiche Pacini

L’editore resta a disposizione degli aventi diritto con i quali non è stato possibile comunicare e per le eventuali omissioni.

Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633.Le riproduzioni effettuate per fi nalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifi ca autorizzazione rilasciata da AIDRO, Corso di Porta Romana n. 108, Milano 20122, e-mail [email protected] e sito web www.aidro.org

Finito di stampare nel mese di Maggio 2009presso le Industrie Grafiche della Pacini Editore S.p.A.Via A. Gherardesca • 56121 Ospedaletto • PisaTelefono 050 313011 • Telefax 050 3130300Internet: http://www.pacinieditore.it

INDICE

PREMESSA pag. vii

I. Manoscritti, testi, questioni editoriali

Il Ritmo cassinese: cultura grafi co-libraria e qualche proposta di correzioneMaddalena Signorini » 1

Bartolomeo Sanvito copista del Casanatense 924Michela Cecconi » 27

Trascrizione, edizione e commento di testi di lingua cinquecenteschi: alcune questioni editorialiNadia Cannata » 43

Il Dulpisto di Antonio Vignali (1540)Silvio Giachetti » 55

II. Editoria e lingua

L’editore Niccolò Zoppino e la questione della lingua Luigi Severi » 69

Comporre il volgare in tipografi aAntonio Sorella » 81

La lingua degli avvisi a stampa (secolo XVI)Laura Ricci » 97

Girolamo Gigli e i «Criminalisti del ben parlare»Giada Mattarucco » 115

III. Donne e scrittura

In corso di stampa: Governare l’alfabeto. Donne, scrittura e libri nel MedioevoLuisa Miglio » 125

Ancora sulle donne, il volgare e la grammatica nel CinquecentoHelena Sanson » 137

Intorno a Isabella MorraMaria Antonietta Grignani » 149

L’itinerario poetico di Vittoria ColonnaMaria Serena Sapegno » 161

Michelangelo, Vittoria Colonna e la scrittura azzurraRomeo De Maio » 173

Bonsignore Cacciaguerra e Vittoria Colonna nell’esperienza neostoicaRaffaella Ragone » 177

IV. La scena di Roma: lingua, storia, teatro

Forme e strutture della nascente drammaturgia volgare: il lavoro di StrascinoMarzia Pieri » 185

Roma e le sue lingue nelle commedie del RinascimentoClaudio Giovanardi » 199

Vicende linguistiche di Roma. Nuovi acquisti e punti criticiPietro Trifone » 213

“Ulterius non extendo”. Due testimonianze inedite del sacco di Roma del 1527Emma Condello » 225

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PREMESSA

Il progressivo affermarsi di una scrittura in volgare fra Medioe-vo e Rinascimento o, per meglio dire, lo spazio progressivamente conquistato in Italia dal volgare è un capitolo affascinante della nostra storia culturale che interessa molte e diverse discipline senza esaurirsi in alcuna di esse.

Di particolare interesse per questo processo sono state alcune categorie di scriventi, principalmente i laici, i mercanti, gli homini sanza lettere, le donne, che – dapprima quasi presenze sporadiche se non addirittura clandestine nei luoghi della comunicazione più canonici – sono progressivamente emersi dal silenzio, dalla forzata discrezione in cui erano chiusi con un fl usso costante e sempre cre-scente di testimonianze, via via più ricco di voci: il volgare scritto, affacciatosi inizialmente di straforo nelle formule giuridiche e nelle sottoscrizioni, nelle scritte avventizie e nelle scritture private, iniziò le sue vicende occupando spazi fi sici per così dire di riporto, ma in seguito, in quanto lingua dei ceti emergenti, fu strumento di espres-sione aperto anche ad altri usi, e in un giro d’anni relativamente breve conquistò un posto nell’espressione artistica, e infi ne anche nel canone della letteratura mutandone per sempre la composizio-ne e la storia.

In questo senso l’affermazione di una cultura del volgare ri-guarda tanto la storia della letteratura e dei suoi generi, quanto la storia della lingua, la paleografi a e la storia del libro manoscritto e a stampa. Al tempo stesso – è forse appena il caso di dirlo – essa ha interessato la storia tout court, che mai come negli ultimi anni ha avuto a cuore le vicende delle culture cosiddette subalterne, o quan-tomeno non egemoni, la storia delle donne e di quanti, tradizional-mente, furono esclusi o rimasero ai margini della cultura uffi ciale.

Gli studi raccolti nel presente volume svolgono un percorso teso ad illuminare questa impostazione pluridisciplinare.

Si parte dal Ritmo cassinese, testo diffi cile e a tratti oscuro, ag-giunto su una carta bianca contenuta in un codice biblico, del quale Maddalena Signorini offre uno studio paleografi co che – tramite l’analisi della beneventana in cui è scritto e l’interpretazione del suo canone – è in grado di illuminare anche alcune zone d’ombra del-l’edizione. Michela Cecconi studia la mano giovanile di Bartolomeo Sanvito alla quale ha attribuito la preziosissima testimonianza del codice 924 della Biblioteca Casanatense di Roma, latore di lezioni d’autore non attestate negli autografi . Luisa Miglio offre uno studio

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paleografi co e storico delle diverse tipologie ed espressioni della scrittura delle donne fra Medioevo e Rinascimento, a corredo di un suo recente volume in cui ha pubblicato 66 lettere, scritte da donne toscane nel Quattrocento, che rappresentano altrettanti testi di lingua oltre che una testimonianza preziosa del rapporto fra le donne e la cultura scritta nel primo Rinascimento, rapporto che – sotto un diverso punto di vista – è illustrato nei lavori dedicati al petrarchismo di Isabella Morra e alla scrittura di Vittoria Colonna, oggetto rispettivamente del contributo di Maria Antonietta Grignani, che torna su un tema da lei già affrontato e degli studi, anch’essi di lungo respiro, che Maria Serena Sapegno, Romeo de Maio e Raffael-la Ragone hanno dedicato alla Marchesa di Pescara.

La novità di un’arte della poesia e della scrittura esercitata da chi fi no ad un secolo prima non aveva espresso per iscritto quasi null’altro se non il dolore per distacchi forzati o assenze di fi gli e mariti, prosa sì, ma certo non letteraria, è interessante in sé, in forza di indiscusse qualità letterarie, né interessante e importante solo per gli studi di genere, per dare legittima voce ad un Rinascimento al femminile la cui storia è oscura almeno quanto è stato sotto i rifl et-tori il Rinascimento degli uomini. La conoscenza di questa poesia è indispensabile anche per la comprensione del canone poetico che essa stessa pose in discussione proprio nel momento in cui ne entrò a far parte di diritto. Helena Sanson illustra poi un ulteriore tassello, essenziale per la comprensione storica di questo quadro, che riguarda l’educazione linguistica che le donne ebbero, il grado di accesso loro consentito alla norma della lingua, e – cosa ancora più importante – la valutazione di quali fossero gli esatti limiti entro i quali era ritenuto accettabile che le donne utilizzassero il volgare, inteso tanto come parola che come lingua scritta.

Forse si potrebbe dire che la storia del volgare in Italia raccon-ta, in un certo senso, quanto sarebbe rimasto nel silenzio se non si fossero operate forzature o magari vere e proprie rotture nella tra-dizione. Analogamente, la storia della nostra lingua non è, evidente-mente, riducibile alla storia dell’affermazione del modello toscano o toscano-centrico, così come la storia della nostra letteratura nel Ri-nascimento ha abbracciato materia più grande della sola poesia pe-trarchista, del trattato in forma di dialogo o della novellistica. Nadia Cannata si occupa dei problemi editoriali legati all’edizione di testi teorici sulla lingua i quali, forse anche a causa del loro appartenere ad un fi lone per così dire ‘perdente’ della teorizzazione linguistica del primo Cinquecento, non avendo dignità di testi fi niti pongono problemi spinosi al fi lologo che intenda conservarli a dispetto del-la loro marginalità. Silvio Giachetti pubblica uno studio preparato-

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PREMESSA

rio in vista dell’edizione di un altro testo marginale e incompleto, ma molto interessante per la storia del dialogo del Rinascimento, il Dulpisto di Antonio Vignali, altrimenti noto come lo sboccato e irriverente autore della Cazzaria. Di teatro parla Marzia Pieri, spe-cialista del genere e studiosa di lunga esperienza del teatro senese trapiantato a Roma e in particolare dello Strascino, autore partico-larmente interessante in questo contesto perché la sua attività, tutta anteriore al Sacco, si colloca – come lei stessa scrive – in quella fase di sviluppo della letteratura volgare in cui oralità, scrittura e stampa si affi ancano senza gerarchie defi nite, e in un’epoca in cui il teatro non è ancora formalizzato.

Un’intera sezione del volume è poi dedicata al rapporto fra editoria nel Cinquecento e questione della lingua, argomento più spesso evocato che studiato a fondo, anche per l’oggettiva diffi coltà e fatica di raccogliere testi tanto numerosi quanto dispersi e spesso marginali, e di analizzarne la facies linguistica con il dettaglio che tale analisi impone. In questo ambito, Luigi Severi si occupa dell’atti-vità di Nicolò Zoppino, uno dei più importanti e prolifi ci editori del primo Cinquecento, ferrarese di origine, ma stampatore in Venezia; Antonio Sorella studia la fi sionomia linguistica e le scelte operate nel concreto da compositori e correttori attivi a Venezia nella secon-da metà del Cinquecento; Laura Ricci illustra la lingua degli avvisi a stampa, esempi embrionali di prosa giornalistica e di informazione pubblica della prima età moderna, e infi ne Giada Mattarucco, con una proiezione nel tempo verso il Settecento, dimostra che a distan-za di secoli il fuoco delle dispute linguistiche non era spento, come pure bruciava ancora – a Siena come altrove – il presunto obbligo di accettare l’assioma della centralità fi orentina.

La sezione conclusiva del lavoro è dedicata a Roma, teatro di avvenimenti di straordinario rilievo per la storia della cultura del nostro Paese, anche fra Quattro e Cinquecento: al romanesco sono dedicati i contributi di Claudio Giovanardi e Piero Trifone, che qui si occupano della lingua della commedia romana del Cinquecento e di alcuni punti critici negli studi più recenti sulla lingua di Roma, studi a cui entrambi hanno contribuito generosamente nel corso dell’ultimo decennio; Emma Condello, infi ne, pubblica due inedite testimonianze del Sacco, una in volgare e l’altra in latino, anch’esse altrimenti destinate all’oblio il cui interesse, storico, paleografi co e linguistico le ha restituite alla nostra memoria.

Il volume prende avvio dal convegno Scrivere il volgare fra Medioevo e Rinascimento tenutosi il 14-15 maggio 2008 a Siena, allestito a chiusura del Progetto di ricerca di interesse nazionale Scrivere l’italiano: usi pratici, scritture femminili, tentativi di ca-

IV. LA SCENA DI ROMA: LINGUA, STORIA E TEATRO

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ROMA E LE SUE LINGUE NELLE COMMEDIE DEL RINASCIMENTO

Claudio Giovanardi

1. Nella bella introduzione al secondo tomo dedicato alla comme-dia cinquecentesca nella collana einaudiana, Guido Davico Bonino tratteggia con grande fi nezza il quadro culturale e politico entro il quale nasce e prospera la commedia rinascimentale a Roma. Egli afferma

Anche a Roma, quella che sarà destinata a diventare la commedia regolare nasce in ambito cortigiano. Come a Ferrara, come a Mantova e ad Urbino […] la commedia a Roma è inglobata, sin dal suo primo apparire, nell’ambito del potere: ma come una delle componenti, e una soltanto, di una fenomenologia dello spettacolo che […] è assai composita e spesso disordinata1.

Il disordine, spiega ancora Davico Bonino, nasce dalla forte discontinuità che caratterizza la politica culturale di ciascun papa rispetto al predecessore2. Un grande incremento al teatro in volgare fu dato da papa Leone X de’ Medici (1513-1521), assai attento alla funzione pubblica delle feste e degli spettacoli munifi ci3. Roma è, in questi anni, la Corte per eccellenza, affollata di umanisti e lette-rati provenienti da ogni parte d’Italia e d’Europa. L’ambientazione scenica nelle piazze cittadine risponde a un desiderio di autocele-brazione del potere papale e, al tempo stesso, si fa ingrediente del complesso disegno di restaurazione umanistica accarezzato dai due papi medicei4. Il primo “colpo” messo a segno da Leone X fu sen-za dubbio la collaborazione con Bernardo Dovizi da Bibbiena che fruttò la messa in scena della Calandra nel dicembre del 1514. Se-guirono negli anni I Suppositi di Ariosto (1519) e la Mandragola di

1 Cfr. Il teatro italiano. II. La Commedia del Cinquecento, a cura di G. Davico Boni-no, Torino, Einaudi, 1977, t. II, p. XIV.2 A conforto delle parole di Davico Bonino, che risalgono ormai a più di trent’anni or sono, si vedano le considerazioni di Marzia Pieri sul senese Strascino in questi Atti. 3 Sul teatro e la festa a Roma resta importante il lavoro di F. Cruciani, Teatro nel Rinascimento. Roma 1450-1550, Roma, Bulzoni, 1983. 4 Per quanto riguarda l’ambientazione scenica delle commedie nelle piazze cittadi-ne, cfr. M. Pieri, La nascita del teatro moderno in Italia tra XV e XVI secolo, Torino, Bollati-Boringhieri, 1989, pp. 81-104.

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Machiavelli (1520). Sotto il pontifi cato di Clemente VII (1523-1534) l’evento teatrale di maggior rilievo è rappresentato senza dubbio dalla prima redazione della Cortigiana dell’Aretino (1525), nella quale si prefi gura l’imminente decadenza di Roma che cadrà sotto i colpi terribili inferti dal Sacco del maggio 15275. Si tratta di una commedia innovativa perché dotata di una trama debole, con una struttura aperta, ma fondata su una notevole spinta al plurilingui-smo e all’incrocio stilistico6. Altrettanto fuori dagli schemi è un’altra commedia ambientata a Roma, il Pedante, scritta dal romano Fran-cesco Belo nel 1529 e maltrattata da Davico Bonino, che la giudica rozza e mal riuscita, seppure fondata sulla satira linguistica7. In real-tà ciò che Davico non ha colto è che il Pedante rappresenta uno dei pochi reperti di romanesco cortigiano del Cinquecento, di quella lingua, cioè, che Bembo aveva giudicato inesistente8. Per completa-re il quadro delle commedie cinquecentesche ambientate a Roma occorre ricordare gli Straccioni di Annibal Caro, del 1543, quando a Roma regnava papa Paolo III Farnese, ispiratore della commedia cariana secondo i principi di riforma e moralizzazione religiosa che aveva tentato di imporre. Ma la commedia (unica opera teatrale del Caro) non fu mai rappresentata9. Ho ampliato lo sguardo oltre i confi ni del Cinquecento, sino a giungere al 1627, anno di pubbli-cazione di un testo assai singolare, Li diversi linguaggi, commedia scritta dall’autore romano Virgilio Verucci; mi è sembrato opportuno considerare l’opera del Verucci il punto di approdo di un percorso di ricerca teatrale che, sia pure in epoche e secondo suggestioni culturali e linguistiche diverse, vede in Roma un particolarissimo sfondo su cui si dipanano vicende e protagonisti che parlano lingue

5 Come ricorda Pieri, cit., p. 106, il Sacco di Roma e il trattato di Bologna sono due eventi ravvicinati che contribuiscono a spegnere la fi amma della commedia rinascimentale.6 Cfr. P. Trifone, L’italiano a teatro. Dalla commedia rinascimentale a Dario Fo, Pisa-Roma, Istituti editoriali e poligrafi ci internazionali, 2000, pp. 44-45.7 Cfr. Davico Bonino, cit., pp. XXXII-XXXIII. Sul Belo è da vedere G. Ferroni, Le comme-die di Francesco Belo e il realismo dell’irrazionale, in Id., Mutazione e riscontro nel teatro di Machiavelli e altri saggi, Roma, Bulzoni, 1972, pp. 141-191.8 Per la complessa vicenda legata alla lingua cortigiana romana, mi sia consentito rinviare a C. Giovanardi, La teoria cortigiana e il dibattito linguistico nel primo Cinquecento, Roma, Bulzoni, 1998, pp. 29-74.9 Sulla vicenda testuale degli Straccioni, cfr. R. Bragantini, La prosa volgare del Cin-quecento. Il teatro, in Storia della letteratura italiana, vol. X, a cura di C. Ciociola, Roma, Salerno, 2001, pp. 807-808. Si veda anche G. Ferroni, Gli “Straccioni” del Caro e la fi ssazione manieristica della realtà, in Id., Mutazione e riscontro, cit., pp. 195-230.

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non ancora omologate, non ancora del tutto piegate al modello to-scano-centrico imposto dal Bembo e dai suoi sodali10.

2. Gli autori considerati mostrano temperamenti e qualità letterarie certamente non uniformi. La loro scelta di ambientare la scena a Roma, tuttavia, fi nisce col produrre alcune soluzioni comuni che mi propongo di tratteggiare nelle righe che seguono. Gli aspetti sui quali vorrei richiamare l’attenzione sono quattro:

a) presenza di una microtoponomastica cittadina che in taluni casi ritorna nelle diverse commedie facendo pensare ad una sorta di tradizione di loci stilizzati;

b) tendenza a dare un giudizio “politico” su Roma, in senso positivo o negativo, quasi precorrendo il destino che spetterà poi a Roma capitale, ancor oggi al centro di accese dispute in favore o contro;

c) prese di posizione in merito alle scelte linguistiche operate nelle varie commedie;

d) caratterizzazione linguistica che, con diversa intensità, tende a restituire in qualche misura i connotati della lingua cortigiana su base romana, una varietà che alcuni teorici cortigiani come Equicola e Calmeta candidarono al ruolo di lingua-modello della letteratura e della conversazione colta nel dibattito intellettuale del primo Cin-quecento11.

2. 1. Nella prima versione della Cortigiana (1525) Roma è la vera protagonista della commedia. Nel testo di Pietro Aretino i riferimen-ti alla microtoponomastica cittadina sono numerosi. Troviamo veri e propri odonimi: Borgo Vecchio, Corte Savella12, Transtevere, Torre di Nona, Dietro Banchi; nomi di monumenti: S. Piero, la Ritonda,

10 Cito qui di seguito le edizioni di cui mi sono servito per il presente lavoro: La Calandra. Commedia elegantissima per Messer Bernardo Dovizi da Bibbiena, a cura di G. Padoan, Padova, Antenore, 1985; F. Belo, Il Pedante, in La commedia del Cinquecento, a cura di G. Davico Bonino, tomo II, Torino, Einaudi, 1977, pp. 7-86; P. Aretino, La cortigiana, prima redazione del 1525, in Teatro di Pietro Aretino, a cura di G. Petrocchi, Milano, Mondadori, 1971, pp. 654-753; A. Caro, Commedia de-gli straccioni, in Commedie del Cinquecento, a cura di A. Borlenghi, vol. II, Milano, Rizzoli, 1959, pp. 122-211; V. Verucci, Li diversi linguaggi, in L. Mariti, Commedia ridicolosa. Comici di professione, dilettanti, editoria teatrale nel Seicento. Storia e testi, Roma, Bulzoni, 1978, pp. 106-206.11 Di nuovo rinvio a Giovanardi, La teoria cortigiana, cit. Per l’Equicola si veda La redazione manoscritta del “Libro de natura de amore” di Mario Equicola, a cura di L. Ricci, Roma, Bulzoni, 1999.12 Corte Savella era la sede della prigione papalina.

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il Coliseo, el Barco, la Botte di Termine, Ponte Sisto; nomi di locali evidentemente famosi all’epoca: l’Osteria de la Lepre, l’Ostaria de la Luna. Vengono anche citate località nei dintorni di Roma con intento ludico: «el cardinale de Bacano, e Monsignore della Storta, e l’arcivescovo delle Tre Capanne» (p. 666)13. Tanto puntiglio topogra-fi co è probabilmente da ascrivere a uno sforzo di verosimiglianza da parte dell’autore, come testimonia anche l’interessante inserimento di antroponimi popolari con una veste di romanesco di prima fase, quali Rienzo Capovacina, Lielo Caporione de Parione, Rienzo di Jacovello14. Si tratta di una spia della permanenza, almeno a livello popolare, di tratti del romanesco arcaico, quello stesso romanesco che, in modo assai più compiuto, il Castelletti, qualche decennio più tardi, metterà sulla bocca della serva Perna nelle Stravaganze d’amore15.

Nel Pedante del Belo le indicazioni topografi che sono indub-biamente più contenute. Tuttavia già nel Prologo ecco riaffi orare Banchi, già visto nell’Aretino, luogo di sinistra fama, come detto chiaramente nel testo: «ricordatevi che questo posto non è Banchi ove si tiene el mercato delle usure e simonie e di stupri e adultèri» (p. 7). Oltre a ciò, per due volte un personaggio esprime l’intenzio-ne di recarsi in un luogo ben individuato: «Vuole ch’io vada sino a casa d’una certa Filippa che abita in Treio»16, afferma la serva Ceca (p. 20); «Voglio andare in Campo de fi ore» soggiunge Malfatto (p. 23). Si può pensare che la conclamata romanità del Belo possa aver indotto l’autore ad un uso parco di toponimi, nella consapevolezza della condivisa conoscenza dello scenario locale con il pubblico cittadino.

Negli Straccioni di Annibal Caro le citazioni di luoghi, strade, piazze si trovano subito nella prima scena; ricompaiono nomi già

13 La Valle di Baccano sorge nel territorio di Campagnano circa 40 km a nord di Roma. La Storta sorge sulla via Cassia, appena oltre il grande raccordo anulare. Tre Capanne è il nome di una località, sempre nella zona Cassia, di cui si ha testimo-nianza in documenti rinascimentali.14 Per l’antroponimo Jacovella, cfr. F.A. Ugolini, Per la storia del dialetto di Roma nel Cinquecento. I Romani alla Minerva, un’improbabile “Madonna Jacovella” e un pronostico di un conclavista, in «Contributi di Dialettologia umbra», 3 (1983), pp. 3-99.15 Sul romanesco della serva Perna, cfr. F.A. Ugolini, Per la storia del dialetto di Roma. La “vecchia romanesca” ne “Le stravaganze d’amore” di C. Castellet-ti (1587), in «Contributi di Dialettologia umbra», 2 (1982), pp. 57-109. L’edizione moderna della commedia del Castelletti è la seguente: C. Castelletti, Stravaganze d’amore, a cura di P. Stoppelli, Firenze, Olschki, 1981. 16 Treio è il nome antico di Trevi, rione nel centro di Roma.

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presenti nell’Aretino e nel Belo: Ripa, Ponte, Campo di Fiori, Corte Savella, piazza Farnese, via Giulia. Talvolta, in specie nel perso-naggio di Demetrio, giunto per la prima volta a Roma, riconosciamo gli accenti entusiasti del turista affascinato dalla bellezza della città: «Oh bel palazzo! Oh bella piazza! Oh bella Roma!» (p. 131); e ancora: «Messer Gisippo andiancene a spasso ch’io voglio pur veder Roma, poiché ci sono» (p. 140). Nella scena fi nale del secondo atto Miran-dola (un pazzo) e Lispa (furbo di Campo di Fiori) danno vita a un duetto tutto intessuto di giochi di parole e di frasi proverbiali in cui compaiono monumenti e luoghi di Roma. Ne riporto qualche passo: «Mirandola: Che disegno è il vostro? Lispa: Metter Monte Mari den-tro de Roma. Mirandola: Perché fare?. Lispa: Per esser a cavaliero a Castel Sant’Angelo. Mirandola: Oh che il canchero vi mangi! Voi comincerete pur a ’ntenderla. Mettetevi anco di sopra il Coliseo, e la Rotonda, per gabbioni da piantare artiglierie. E per cannoni condu-cetevi le colonne di Traiano e d’Antonino» ( p. 164).

Ma il dato più interessante in tema di microtoponomastica è senza dubbio rappresentato dalla commedia Li diversi linguaggi del Verucci, il quale ripropone i toponimi che già erano stati usati dai suoi predecessori: viene nominata Banchi, una sorta di “icona” delle commedie cinquecentesche ambientate a Roma, poi troviamo il Pellegrino, la Retonna, l’Ostaria de Porta Settignana, la Longara, Corte Savella. Possiamo dunque concludere che all’altezza crono-logica della commedia del Verucci (1627) si era creata una sorta di itinerario letterario, una mappa di loci teatrali consegnati alla me-moria degli autori e tali da poter essere usati come elementi di un repertorio consolidato.

2. 2. Per quanto riguarda l’immagine “politica” di Roma, già nel-l’Argumento della Calandra, opera del Bibbiena che è conside-rata il capostipite della moderna commedia rinascimentale17, vi è un accenno alla decadenza di Roma: «La quale già esser soleva sì ampla, sì spaziosa, sì grande che, trionfando, molte città e paesi e fi umi largamente in se stessa riceveva; e ora è sì piccola diventata che, come vedete, agiatamente cape nella città vostra. Così va il mondo» (p. 66). La “città vostra” è Urbino, dove l’opera fu rappre-sentata per la prima volta nel 1513. Dopo questo passo il solo altro richiamo a Roma è nella scena fi nale, laddove il servo Fessenio afferma: «Tanto meglio, quanto Italia è più degna della Grecia, quanto Roma è più nobil che Modon, e quanto vaglion più due

17 Si veda l’introduzione di Padoan in La Calandra, cit., pp. 1-34.

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riccheze che una» (p. 185). Quindi in qualche misura la commedia si apre e si chiude con Roma, che trionfa nel facile paragone fi nale con il piccolo centro del Peloponneso18.

Ma è nella prima redazione della Cortigiana che si concentra il fuoco di fi la dell’Aretino contro la corte romana. In un clima pre-sago dell’imminente catastrofe del Sacco le invettive contro la città eterna sono svariate e insistite. A ben poco serve che in apertura Roma sia proclamata più bella di Siena (dal personaggio Sanese), dal momento che nel séguito della commedia è tutto un succedersi di accuse e di ingiurie contro la città e in particolare contro la vita di corte e il clero. La prima è quella pronunciata da Pescatore, che non a caso è un fi orentino: «Preti becchi, sodomiti, ladroni… Che male-detta sia Roma, la corte, la chiesia e chi ci sta e chi li crede» (p. 679) e più avanti «io voglio irmi con Dio di questa Roma porca, e forse forse ch’un dì, s’io trovo un di qua in Firenze… basta basta” (p. 679). Poi tocca a Rosso, un servo di Parabolano: «Che cose ladre se fanno in questa Roma porca! Dio è pur paciente a non gli mandare un dì qualche gran fl agello» (p. 734). Valerio, altro servo, ricorda la cattiva sorte che spetta a chi viene a cercare fortuna a Roma: «Quanta più ventura che senno avete avuto, quanti de più qualità de voi ne ven-gono a Roma acconciatamente che, disfatti e fracassati, ritornono a casa loro» (p. 752). Lo stesso Valerio ribadirà più avanti le nequizie della corte: «O corte, quanto se’ tu più crudele che l’inferno! E che sia el vero, l’inferno punisce li vizii, e tu li adori e reverisci» (p. 741) Una presa in giro delle affettate galanterie cortigiane si trova nel gustoso siparietto tra Mastro Andrea e Messer Maco nella scena II del II atto. E ancora l’intera V scena del II atto è una tirata polemi-ca contro le atmosfere di corte che si conclude con un impietoso ritratto del cortigiano tratteggiato da Flaminio, altro cameriere di Parabolano: «Dipoi fatto un cortigiano, è fatto un invidioso ambizio-so misero ingrato adulatore maligno iniusto eretico ipocrito ladro giotto insolente e busardo, e se minor vizio che ‘l tradimento si tro-vasi [trovasse], direi che ’l tradimento è il minor peccato che ci sia» (p. 689). Persino nell’explicit non si perde occasione per un’ultima stoccata alla burocrazia romana: «Brigate, se la favola è stata longa, io vi ricordo ch’in Roma tutte le cose vanno a la longa» (p. 753).

Pochi i riferimenti a Roma nella Commedia degli Straccioni di Annibal Caro. Giordano, personaggio romano, ricorda ad un certo punto il Sacco di Roma, evento ancora ben vivo nella memoria col-

18 Modone è un piccolo centro greco situato sulla costa ionica del Peloponneso. Era un’importante base navale della Repubblica di Venezia.

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lettiva della città. Barbagrigia, altro personaggio romano, dà invece un giudizio su una caratteristica morale dei romani: «e dove corre l’onore avete a sapere che questi romaneschi sono molto schizzino-si»19 (p. 174).

2.3. Non sembra certo casuale il fatto che l’ambientazione romana delle commedie abbia come corollario la rifl essione, spesso polemi-ca, sul tipo di lingua da usare o, come diremo oggi, sulle strategie comunicative più appropriate. Possiamo prendere le mosse dalla celeberrima presa di posizione del Bibbiena nel prologo della Ca-landra, ove compare l’esaltazione del volgare contro il latino e della prosa contro la poesia (in funzione antiariostesca):

Non è latina [la lingua usata]: però che, dovendosi recitare ad infi niti, che tutti dotti non sono, lo autore, che di piacervi sommamente cerca, ha voluto farla vulgare; a fi ne che da ognuno intesa, parimenti a ciascuno diletti. Oltre che, la lingua che Dio e Natura ci ha data non deve, appresso di noi, essere di manco estimazione nè di minor grazia che la latina, la greca e la ebraica […]. Bene è di sé inimico chi l’altrui lingua stima più che la sua propria (p. 62).

Anche il Belo prende partito a favore del volgare. Nel prolo-go del Pedante la scelta della lingua materna si giustifi ca con la volontà di «compiacer ai più». Al tempo stesso viene sferrato un attacco al latino dei pedanti, che risulta sgrammaticato e inutile. Ma è sicuramente nelle pagine della prima Cortigiana di Pietro Aretino che più si confi gura il nesso tra l’ambientazione romana e il credo linguistico dell’autore. Già nel Prologo si legge: «e mi vien da ridere perch’io penso che inanzi che questa tela si levassi dal volto di questa città, vi credevate che ci fussi sotto la torre de Babilonia e sotto ci era Roma» (p. 657). Roma è dunque una babele linguistica, una città storicamente votata a un modello plurilingue; ne è testimonianza in qualche misura la maschera di Pasquino, il poeta anticuriale per eccellenza, il quale «cicala d’ogni tempo gre-co, corso, francese, todesco, bergamasco, genovese, veneziano, e da Napoli» (p. 659). Come paradosso di contaminazione linguistica Aretino sostiene che la sua commedia «è per padre toscana e per madre de Bergamo» (p. 657) e prende le distanze da certo fi oren-tinismo di maniera: «Però non vi maravigliate s’ella non va su per sonetti lascivi, umidi, liquidi cristali, unquanco, quinci e quindi, e

19 Questa battuta è riportata nel Grande dizionario della lingua italiana, a cura di S. Battaglia, Torino, Utet, 1961-2002, vol. XVII, come una delle prime attestazioni del vocabolo romanesco (s. v.).

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simili coglionerie. Cagion che madonne Muse non si pascono si non d’insalatucce fi orentine» (p. 657)20. Lo stesso Petrarca, autorità indiscussa in fatto di lingua poetica, deve la propria fortuna alla felice contaminazione della propria lingua con quella di monna Laura, conosciuta ed amata ad Avignone21. E in ogni caso, se Petrar-ca rappresenta il modello di riferimento per la lingua scritta, «circa al parlare non c’è pena niuna, salvo che se non se dicessi el vero. E il Milanese può dire micca per pane, e il Bolognese sippa pro sia» (p. 659). L’elogio dei geosinonimi, il rifi uto dei toscanismi più vie-ti, la rivendicazione del plurilinguismo dei classici, l’apertura alla distinzione diamesica tra scritto e parlato: come non riconoscere in questi temi un concentrato delle posizioni espresse dai teorici cortigiani nel dibattito sulla questione della lingua all’inizio del Cinquecento?22 Anche le date hanno un loro signifi cato: la prima redazione della Cortigiana, s’è detto, risale al 1525, anno fatidico per le sorti della nostra lingua letteraria. Ma già all’altezza della seconda redazione, posteriore di nove anni (1534), il rapido muta-re degli eventi storici e culturali aveva probabilmente reso irrime-diabilmente invecchiate le considerazioni linguistiche del 1525 e aveva indotto l’Aretino a sconfessare la precedente redazione e ad autorizzare soltanto la messinscena della seconda.

A distanza di oltre un secolo il plurilinguismo è al centro di una commedia “ridicolosa” seicentesca, Li diversi linguaggi, del roma-no Virgilio Verucci23. Naturalmente siamo in un contesto culturale radicalmente diverso rispetto alla Roma dell’Aretino, ma la sottile polemica antitoscana non pare sopita. La commedia, stampata nel 1627, consta di dieci personaggi ciascuno dei quali parla una pro-

20 La polemica contro l’affettazione fi orentineggiante non è infrequente negli autori del primo Cinquecento. Basti ricordare l’Equicola della Dedicatoria ad Isabella d’Este (la si può leggere in Ricci, op. cit., pp. 209-215) e Pierio Valeriano nel suo Dialogo della volgar lingua (lo si veda in M. Pozzi, Discussioni linguistiche del Cinquecento, Torino, Utet, 1988, pp. 39-93).21 La polemica sul plurilinguismo dei classici trecenteschi fu uno dei cavalli di bat-taglia dei teorici cortigiani. Cfr. Giovanardi, La teoria cortigiana, cit.; C. Giovanardi, I cortigiani dopo Fortunio e Bembo. Il caso di Giovanni Filoteo Achillini, in Prose della volgar lingua di Pietro Bembo, a cura di S. Morgana - M. Piotti - M. Prada, Atti del Convegno di Gargnano del Garda (4-7 ottobre 2000), Milano, Cisalpino-Mon-duzzi, 2001, pp. 423-442; G.F. Achillini, Annotationi della volgar lingua, a cura di C. Giovanardi, Pescara, Libreria dell’Università editrice, 2005. 22 Si vedano, al riguardo, Giovanardi, La teoria cortigiana, cit.; C. Giovanardi, Sozio-linguistik und italienische Sprachgeschichte: einige Betrachtungen zur Debatte im 16. Jahrhundert, in «Sociolinguistica», 13 (1999), pp. 17-26, Ricci, cit.23 Sulla commedia “ridicolosa” cfr. L. Mariti, Commedia ridicolosa, cit.

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pria lingua. L’unico parlante romano è Giorgetto, fi glio di Pantalone. Non è certo un caso che nel Prologo la dichiarazione d’intenti sulla lingua (anzi sulle lingue) della commedia sia affi data proprio al ragazzo romano:

So bene che di dieci che siamo, siamo tutti de diversi paesi e chi parla in un modo, chi in un altro: e di qui l’autore ha voluto dar nome all’opera Li diversi linguaggi, per la diversità del parlare dei recitanti. E non è gran maraviglia, perché, essendo questa città di Roma un comun ricetto di tutte le nazioni del mondo, non è gran cosa che in essa vi sia gran diversità di linguaggi. Ma non vi immaginate però di aver a sentire un Francese, un Veneziano, un Bergamasco, un Napolitano o un parlar fiorentino o matricciano o ceciliano o perugino o bolognese, giusto giusto come è il parlare della loro patria, perché, oltre che difficilmente sarebbe inteso dalli ascoltanti per esser lingue scabrose e difficili, con tutto questo, mentre uno di questi tali che sia delli sopradetti paesi si trova fuori della sua patria, si sforza di pigliare il parlar commune e più usitato di tutti gli altri e insomma il più bello e dilettevole come è questo romano, è ben vero che sempre ritengono li accenti e le pronunzie dei paesi loro (p. 106).

Dalle affermazioni di Giorgetto si evince che le lingue sono rappresentate in modo edulcorato, sfumato, sia perché risulterebbe-ro altrimenti incomprensibili, sia per un effetto di mimesi di ciò che avviene realmente quando un forestiero arriva a Roma: si sforza di parlare la lingua comune, diremmo oggi sovraregionale, che, si badi bene, è però identifi cata con il romano, non con il toscano. In realtà nella commedia vi è una rappresentazione piuttosto ben caratteriz-zata per ciascun dialetto messo in campo. La notazione interessan-te è che la lingua meno connotata è proprio quella di Giorgetto, una lingua media dove affi orano consueti tratti fonomorfologici che potremmo defi nire “canonici” nella rappresentazione di una lingua super partes con una coloritura romana (e prima cortigiana). Vice-versa il fi orentino di Lavinia, che è l’altra fi glia di Pantalone e quindi sorella di Giorgetto, è una lingua aulica di forte impronta letteraria. Ma sarà casuale che Giorgetto romano e Lavinia fi orentina sono fratelli? O non è piuttosto un modo per suggerire la grande vicinan-za che c’è tra le due parlate che si confi gurano quasi come varietà diafasiche della medesima lingua?

2.4. La domanda che viene spontaneo porsi a questo punto è come si sostanzia linguisticamente la presa di distanza dal toscano lettera-rio che, in modo certamente diverso, accomuna tutti gli autori consi-derati. Naturalmente la compagine linguistica di ciascuna commedia presenta delle peculiarità di stile e di capacità mimetica che sono incommensurabili. Nel caso del Pedante del Belo, siamo ben al di là

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della semplice screziatura “italianista”; si tratta piuttosto di una com-media scritta con una lingua alternativa al toscano, da identifi care con quel romanesco smeridionalizzato e parzialmente toscanizzato di cui tanto si è discusso in anni recenti24. Negli altri casi, in effetti, non si può parlare di un vero e proprio progetto linguistico alter-nativo al toscano, ma della sottolineatura, ora più marcata ora più debole, di alcune scelte, soprattutto morfologiche, non consentanee al classicismo fi lo-trecentista.

Per dar conto della fi sionomia linguistica delle nostre comme-die, mi limito, in questa sede, a illustrare alcuni tratti fonologici e morfologici ricorrenti nei testi selezionati. In particolare vorrei riprendere i tratti che Laura Ricci indica come «fenomeni di con-vergenza tra l’uso delle koinè regionali e il latino (in opposizione alla lingua letteraria)»25. Naturalmente vi è una diversa intensità nel manifestarsi di tali tratti, più compatti nel Belo assai meno negli altri26.

Partiamo dalla morfologia verbale, uno degli aspetti più visitati nel dibattito linguistico del primo Cinquecento:

1) conservazione di -ar- sia nei nomi sia nel futuro e nel con-dizionale della I classe: adirarà, chiamarò, trovarebbe, adirarei (Belo), andarò, publicarei (Aretino), avviarò, scontarà, tagliaremo (Verucci); 2) presenza dell’articolo plurale li (Belo e Verucci); 3) desinenze etimologiche nella 4a persona dell’indicativo presente: possemo, rimanemo, semo (Bibbiena), caminamo, avemo (Belo), affl igemo, distogliemo, volemo (Caro), ce voltamo, avemo, facemo (Verucci). Non rintraccio esempi della desinenza -e nei congiuntivi presente e imperfetto della I classe, ma le “anomalie” desinenziali del congiuntivo non sono poche. Troviamo le desinenze -i, -ino nel presente in abbi, vadi (Bibbiena), venghi, debino, faccino (Belo), abbi (Caro), possi, abbino, voglino (Verucci). Per il congiuntivo im-perfetto ricordo ancora le desinenze -i, -ino: avessin (Bibbiena), cer-cassi ‘cercasse’, facessino (Belo), avessi ‘avesse’, fussino (Aretino). Ma la morfologia verbale è ricca di forme che si discostano dalla

24 Per una ricostruzione del dibattito sul romanesco quattro-cinquecentesco e per le varie fasi del processo di toscanizzazione rinvio a P. Trifone, Storia linguistica di Roma, Roma, Carocci, 2008, pp. 35-59. 25 Si veda la pregevole analisi linguistica dell’autrice relativamente alla lingua del Libro de natura de amore di Mario Equicola: Ricci, cit., pp. 117-169.26 Ricordo che un’analisi dell’elemento romanesco presente nelle commedie del Belo è stato condotto da A.R. Romani, Fermenti di dialetto romanesco in commedie erudite del Cinquecento, in «Ariel», 18.1 (2003), pp. 95-119.

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norma bembiana. Per il congiuntivo imperfetto ricordo le uscite in -vo della 5a persona: potessevo ‘poteste’, fossivo ‘foste’, avessivo ‘ave-ste’, dessivo ‘deste’ (Belo), e quelle in -ino della 6a persona: fecessino ‘facessero’, avessino ‘avessero’, dicessino ‘dicessero’, uscissino ‘uscis-sero’ (Belo), fussino ‘fossero’ (Aretino). Per il condizionale sono fre-quenti le forme in -ia magari in alternanza con quelle in -ei, -ebbe: aria (ma arei), doverria, potria (Bibbiena), basteria (e bastaria), saria (ma sarebbe), vorria, faria (Belo), putiria (Aretino), bisogne-ria (Caro), averia, farria, sarria (Verucci). Per l’indicativo presente segnalo le desinenze -eno, -ono alla 6a persona: vedeno (Bibbiena), accorgeno, portono, allevono, dilettono, lasciono, parlono, penso-no, sputono (Belo). Soprattutto in Belo e Verucci compaiono altri tratti della morofologia verbale che, uniti a quelli or ora ricordati, appaiono marcati in senso localistico: temi verbali har-, poss-, ser-; forma sonno ‘sono’; presenza di vibrante geminata in forme come griderrei, ritroverrò, sarria; desinenza -ssemo nella 4a persona del passato remoto: remissemo ‘rimettemmo’. Non mancano esempi di accentuata polimorfi a, come nel caso della 4a persona dell’indicati-vo presente di essere: in Belo abbiamo semo, simo e siamo; le ultime due forme si alternano in altrettante battute consecutive di Rita a testimonianza non di un’incertezza normativa dell’autore, ma della volontà di segnalare un cambio di registro col passaggio da un tono informale ad uno più distaccato.

Per quanto riguarda la fonologia, dei tratti indicati dalla Ric-ci richiamo: 1) mancato dittongamento delle vocali aperte in silla-ba tonica (più frequente, come ovvio, per la vocale velare): bono, pò (Bibbiena), nova27, vole, ma appena sopra vuole, mei ‘miei’ ma priego (Belo), ovo (Aretino), vol ‘vuole’, vòi, dol ‘duole’ (Verucci); 2) conservazione della e protonica: ce, de, me, se, te, ve, despetto, de-spiacere, recorda, respondi, menestra, scemonito (Belo); me, se, te, centorino ‘cinturino’, resolviti, sofesticarie ‘sofi sticherie’ (Verucci). Il trattamento della e e della o atone mostra tuttavia una serie di oscil-lazioni che testimoniano di un non ancora sicuro assestamento del-la norma fonologica. Ultimo punto signifi cativo, tra quelli riassunti dalla Ricci, è rappresentato dal tipo e dalla terminazione di alcuni avverbi: forsi, fuora, insiemi, mo’ mo’ ‘or ora’, mo’ (Belo); dereto, forsi, mo (Verucci).

Insomma, buona parte della patina linguistica cortigiana si ri-trova, con diversa intensità, nei nostri commediografi romani o ro-

27 A p. 19 c’è un equivoco tra Prudenzio e Malfatto su nove che Prudenzio intende come ‘nuove’ e invece Malfatto capisce come il numerale.

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mano-centrici. Il quadro linguistico andrebbe in effetti completato con la messa in rilievo di altri fenomeni che accentuano, soprattut-to in Belo e in Verucci, ma non solo, la marcatezza localistica dei testi. Ne cito alcuni: mancanza di anaforesi: agionge, agiognerete, ogna ‘unghia’, conseglio, consegli; forme epitetiche: mene, sorema ‘mia sorella’, soreta; diversi tratti del consonantismo: fricativizza-zione (lassamo), assimilazione (vedello), palatalizzazione del nesso -sj- (roscia), affricazione della fricativa dopo nasale (panza), raffor-zamento delle consonanti intervocaliche (raggionamenti, robba).

Per quanto riguarda il lessico, in attesa di indagini più appro-fondite, si possono segnalare alcune voci connotate da un sento-re municipale, o, comunque, substandard. Per esempio scanfarda ‘donnaccia’ del Bibbiena28, oppure l’esclamazione me l’hanno fre-gata! ‘rubata’ del Caro, dal quale ricavo anche la polirematica a la carlona ‘in modo approssimativo’29. Ma i reperti lessicali più in-teressanti sono indubbiamente quelli che si trovano in Belo e in Verucci. Nel Pedante compaiono vocaboli che presentano i prefi ssi a-, ari-, tipici del romanesco anche odierno: adimando, avantando ‘vantando’, m’aricomando ‘mi raccomando’. Voci di colorito locale sono: adormiti ‘addormentati’, brache ‘pantaloni’, cacciare ‘togliere’, foglietta ‘mezzo litro’, fraschetta ‘sciocchina’, giottoncello ‘birbante’30, imbasciata ‘ambasciata’, non ci intoppassimo ‘non ci imbattessimo’, mozzicarla ‘morderla’, oprire ‘aprire’, si rintoppa ‘si para’, roscia ‘rossa’, tata ‘papà’, scuriata ‘frusta’31, sdelacciare ‘slacciare’, non ce sta ‘non c’è’. Da Verucci ricavo: callamaro ‘calamaio’, ferraiolo ‘mantello’, pennarolo ‘astuccio portapenne’, saccoccia ‘tasca’, schina ‘schiena’, tagliacantone ‘bravaccio’.

3. Veniamo ad alcune brevi considerazioni fi nali. Innanzi tutto, alla fi ne di questa prima rassegna, emerge un dato a mio avviso assai si-gnifi cativo: l’ambientazione romana delle commedie rinascimentali e post-rinascimentali, sia dal punto di vista scenografi co sia lingui-stico, è in qualche misura consustanziale alla scelta dell’antitosca-nismo letterario e del plurilinguismo. A proposito della lingua della

28 Nel Grande dizionario della lingua italiana, cit., vol. XVII la prima attestazione della voce è proprio quella del Bibbiena.29 Si veda, per il romanesco, F. Ravaro, Dizionario romanesco, Roma, Newton Compton, 1994, s. v. carlona.30 Si veda F. Chiappini, Vocabolario romanesco, Roma, Il cubo, 1992 (I ed. 1933), s. v. jotto-a.31 Questa è una voce di origine settentrionale: cfr. Grande dizionario della lingua italiana, cit., vol.XVIII, s. v.

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Calandra Giorgio Padoan ha usato un’immagine molto suggestiva: «La Calandra si presenta insomma come una architettura rinasci-mentale costruita con marmi trecenteschi cinti da complementari materiali cinquecenteschi, senza che sia avvertibile dissonanza alcu-na»32. Per completare l’immagine andrebbe aggiunto che nelle no-stre commedie i materiali cinquecenteschi spesso non sono autocto-ni toscani, ma di diversa provenienza e che, pertanto, si dovrebbe parlare di un marmo policromo. In secondo luogo si può osservare che l’effetto ipnotico generato dall’anatema bembiano, relativo alla mancanza di scrittori in lingua cortigiana, ha impedito anche ai mo-derni di guardare oltre il proprio naso: in effetti questo fi lone tea-trale sembra uno specimen interessante di un modello alternativo alla lingua letteraria canonizzata dal Bembo e dagli altri grammatici cinquecenteschi. E questo “luogo” letterario alternativo non poteva essere se non il teatro, la cui lingua è stata defi nita da Pietro Trifone con il concetto assai penetrante di “oralità spettacolare”33. Nel teatro si ha la riproduzione spettacolarizzata del parlato conversazionale; in tal senso il cortigian-romanesco parlato dalle persone colte della corte pontifi cia tornava particolarmente utile a chi cercasse un mo-dello linguistico medio, modicamente aperto ai regionalismi. Una lingua in grado di non perdere il contatto con la norma letteraria e, al tempo stesso, di scendere qualche gradino ulteriore verso il dialetto e i livelli diafasicamente meno controllati, facilitata in ciò dalla particolare confi gurazione del romanesco ormai smeridiona-lizzato. Anche Roma sembra dunque caratterizzarsi come un polo di resistenza linguistica e culturale contro la commedia regolare rina-scimentale, affi ancandosi in qualche misura a Siena, ove imperava il teatro “popolare” della Congrega dei Rozzi34. Insomma, se non proprio di un Rinascimento dal basso35, oserei dire che le commedie cinque- e seicentesche ambientate a Roma offrono un vivido esem-pio di un Rinascimento dal mezzo.

32 Cfr. Padoan, cit., p. 21.33 Cfr. Trifone, L’italiano a teatro, cit., p. 11.34 Per il teatro senese rinascimentale si vedano: Commedie rusticali senesi del Cin-quecento, a cura di B. Persiani, Siena, Università per Stranieri, 2004 e P. Trifone, La retorica del villano. Lingua e società nel teatro popolare senese, in Id:, Rinascimen-to dal basso. Il nuovo spazio del volgare tra Quattro e Cinquecento, Roma, Bulzoni, 2006, pp. 165-184.35 Mi riferisco a Trifone, Rinascimento dal basso, cit.


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