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Scuola di Dottorato in Scienze Economiche e Statistiche...

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1 Scuola di Dottorato in Scienze Economiche e Statistiche Dottorato di Ricerca in Direzione Aziendale XIX ciclo Alma Mater Studiorum - Università di Bologna La relazione tra identità e pratichenei luoghi di lavoro. Uno studio sul campo in un laboratorio di ricerca pubblica nella NanoScienza e Tecnologie. Damiano Russo Dipartimento di Scienze Aziendali Marzo 2009
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Scuola di Dottorato in Scienze Economiche e Statistiche Dottorato di Ricerca in Direzione Aziendale XIX ciclo

Alm

a Mater S

tudiorum - U

niversità di Bologna

La relazione tra identità e pratichenei luoghi di lavoro. Uno studio sul campo in un laboratorio di ricerca

pubblica nella NanoScienza e Tecnologie.

Damiano Russo

Dipartimento di Scienze Aziendali

Marzo 2009

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UUNNIIVVEERRSSIITTÀÀ DDEEGGLLII SSTTUUDDII DDII BBOOLLOOGGNNAA

AALLMMAA MMAATTEERR SSTTUUDDIIOORRUUMM

DIPARTIMENTO DI SCIENZE AZIENDALI

DOTTORATO DI RICERCA IN DIREZIONE AZIENDALE

XIX CICLO

Settore/i scientifico disciplinari di afferenza: SECS – P/10

TITOLO TESI

La relazione tra identità e pratiche nei luoghi di lavoro. Uno studio sul campo nei laboratory di ricerca pubblica

nelle NanoScienza e Tecnologia.

Presentata da

DAMIANO RUSSO Coordinatore Dottorato Relatore Prof. FEDERICO MUNARI Prof. FEDERICO MUNARI

Esame finale anno 2009

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ad Alessandra e alla mia famiglia.

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Quando andai a trovarlo dopo che gli avevo proposto di leggere il mio primo

paper, ‘’Multiple professional identities. One big happy family?”, scritto in

collaborazione con Maria Rita Tagliaventi e Elisa Matatrelli, questo fu il suo

commento:

<<After that I have read your paper I am not surprised by the

results because I already know them. Although I have been

impressed by how they have helped me to rationalize things that I

already know>>

Yves Geerts, head of Polymer Chemistry Laboratory ULB, 30-10-2007,

Bruxelles.

Mi auguro che ogni ricercatore che leggerà questa tesi possa avere alla fine la

stessa sensazione.

D.R.

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INDICE

INTRODUZIONE …………………………………………....………………….……..9

1 IL PROBLEMA TEORICO ………………...……………….....………………….13

1.1 L’IDENTITA’ NEGLI STUDI ORGANIZZATIVI…….….………..…… …....15

1.1.1 L’identità come entità oggettiva negli studi organizzativi………....……..18

1.1.2 L’identità come entità soggettiva negli studi organizzativi……………...21

1.1.3 L’identità ‘delle organizzazioni’……….…………………………………24

1.1.4 L’identità ‘nelle’ organizzazioni: la ‘work identity’........………………..27

1.2 LA PLURALITA’ DELLE IDENTITA’ E LA QUESTIONE

DELLA GESTIONE DEI CONFINI…………...……………………………….31

1.2.1 Confini all’interno della concezione di sé………………………………..32

1.2.2. Confini tra identità multiple all’interno di un’organizzazione….….……34

1.3 I QUESITI DI RICERCA………………………………………………………..37

2 – IL CAMPO D’INDAGINE: I LABORATORI DI RICERCA SC IENTIFICA

NELLA NANOSCIENZA E TECNOLOGIE…….…… …………….…………..39

2.1 I LABORATORI DI RICERCA COME LUOGO DI LAVORO ……………42

2.2.1. La lezione impartita dal filone dei Laboratory Studies.

Critiche e nuove prospettive d’indagine nei laboratori di ricerca..………50

2.2.2. Il laboratorio e la dimensione organizzativa della ricerca……………….57

2.2 LE PRATICHE E L’IDENTTA’ NEI LABORATORI DI RICERCA.

COSA CAMBIA NELLA ‘TRIPLE HELIX’?...................................................60

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2.3 LE NANOSCIENZE E LE NANOTECNOLOGIE: UNA NUOVA SFIDA

ORGANIZZATIVA NON SOLO PER LA SCIENZA …………….………….67

2.4 RIFLESSIONI CONCLUSIVE………………………………………….…….71

3. IL CONTESTO EMPIRICO: LE NANOSCIENZE E TECNOLOGIE

IN EMILIA ROMAGNA……………………………………… …………….….72

3.1. LA SCELTA DEI PARAMETRI E LA METODOLOGIA IMPIEGATA……74

3.2. LE CONCENTRAZIONI DI PERFORMANCE LEGATE

ALLE NANOSCIENZA-TECNOLOGIE E INDUSTRIE NELLE

AREE METROPOLITANE ITALIANE……………………………………..86

3.2.1 L’eccellenza scientifica misurata attraverso la concentrazione e

l’impatto delle pubblicazioni…………………………… ………....…….86

3.2.2 L’inventiva dei ricercatori e lo sviluppo tecnologico…… ……………....90

3.2.3 Sostenibilità dei gruppi di ricerca e competitività a livello europeo……93

3.2.4 L’impenditorialità………………………………..........………………….94

3.3. ANALISI IN PROFONDITA’ DELLA COMPOSIZIONE E DELLA

VARIETA’ DEGLI ISTITUTI DI RICERCA COINVOLTI A LIVELLO

LOCALE………………………………………………………………………97

3.3.1. La produttività degli Istituti di ricerca Pubblica nelle Nanoscienze

Tecnologie e Industrie…………………………………… ……………....98

3.3.2. L’intensità delle pubblicazioni tra Istituti di ricerca localizzati nella stessa

area metropolitana………………………………………………….……..104

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3.4. DISCUSSIONE DEI RISULTATI…………………………………………..111

4 METODO……………………………………………………………….....………114

4.1 LA RICERCA QUALITATIVA…………………………………...…………114

4.1.1 Il paradigma della ricerca qualitativa…………….…………..…..…….116

4.1.2 La costruzione della teoria sul campo…………………………………118

4.2 L’UNITA’ DI OSSERVAZIONE: IL LABORATORIO DI RICERCA…....120

4.2.1 Il processo di lavoro nei gruppi di ricerca……………………………..122

4.3 LA RACCOLTA DELLE EVIDENZE EMPIRICHE E LE

TECNICHE UTILIZZATE……………………………….………..………..125

4.4 – L’ANALISI DELLE EVIDENZE EMPIRICHE………..…………………129

5 LE EVIDENZE EMPIRICHE ………………………….…………………..132

5.1 LA NATURA DEL LAVORO DELLA RICERCA……..…………………..134

5.2. L’IDENTITA’ PROFESSIONALE: CHE COSA SIGNIFICA ESSERE

UN RICERCATORE…………….………………………….……………....139

5.2.1. – I DISCORSI PROFESSIONALI………………….…..……………...141

5.3. - LE COMBINAZIONI RICORRENTI DI DISCORSI NELLA

PRATICA QUOTIDIANA: ESEMPI DI MODI DIFFERENTI DI

ESSERE RICERCATORE E PROFILI D’IDENTITA’………………….145

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5.4. - IDENTITY BOUNDARY WORK TRA RICERCATORI…………..……156

5.4.1 Compatibilità tra profili di identità professionali differenti:

integrator vs administrator……………………………………………..…….158

5.4.2. Incompatibilità tra profili di identità

integrator vs lone rider……………………………………………………….161

6 DISCUSSIONE e CONCLUSIONI…….…………………………………......164

6.1. IL CONTRIBUTO TEORICO……...……………….………….…..……….166

6.2 LIMITI E RICERCHE FUTURE ….……………………………….…..……170

6.3 IMPLICAZIONI MANAGERIALI………………………………………… 170

6.4 CONCLUSIONI……………………………………………………………..172

BIBLIOGRAFIA ………………………………………………………..………….175

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INTRODUZIONE

Questo lavoro di ricerca si pone come obiettivo quello di comprendere l’interazione

reciproca tra differenti identità nei luoghi di lavoro. Tale tematica appare rilevante alla

luce dei cambiamenti in atto nella società contemporanea che rimettono in discussione il

modo di pensare alle organizzazioni. Le organizzazioni moderne manifestano più che in

passato il bisogno di integrare in maniera efficiente il lavoro di professionisti con

conoscenze eterogenee e identità differenti e talvolta contrastanti. Team

multidisciplinari composti da ingegneri, tecnici e professionisti del marketing nella

ricerca e sviluppo (Clark e Fujimoto, 1991), team distribuiti globalmente che legano

individui di culture e nazionalità diverse (Jarvenpaa et al.) o l’incremento dei

finanziamenti per progetti di ricerca che premiano la multidisciplinarità, sono solo

qualche esempio di questo trend. Contemporaneamente un altro fenomeno a cui si sta

assistendo è la tendenza crescente dei ‘knowledge workers’ di cambiare più

organizzazioni durante la loro vita professionale (Evans, Kunda & Barley 2004; Barley

& Kunda, 2006) rendendo i termini “lavoratori temporanei” o “lavoratori a progetto” di

uso comune nel linguaggio quotidiano. La breve affiliazione dei lavoratori con una

singola organizzazione è legata a cause molteplici e spesso simultanee. Nei Paesi

industrializzati le cause che hanno influito maggiormente sono state la diffusione del

lavoro temporaneo come accordo contrattuale e il cambiamento dei valori dei

professionisti, sempre più alla ricerca di esperienze di lavoro più stimolanti e meglio

remunerate. Indipendentemente dai driver, questi fenomeni forniscono dei validi

presupposti per poter pensare che l’identità professionale, sentita dagli individui al di là

della loro associazione con una specifica organizzazione, sia probabilmente diventata un

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punto di riferimento più forte per i lavoratori. Di conseguenza, anche la coesistenza di

identità professionali multiple diventa un problema gestionale rilevante. In letteratura,

tra i vari livelli di identità collettive, quello dell’identità professionale è stato poco

investigato dagli studiosi di organizzazione (Morgan Robert & Caza, 2006) che si sono

concentrati prevalentemente sui concetti di identità e identificazione organizzativa.

Tuttavia questo trend, alla luce dei cambiamenti in atto nei luoghi di lavoro, sembra

destinato a dover essere invertito o perlomeno riequilibrato. Inoltre per comprendere i

comportamenti degli individui nei contesti di lavoro appare più appropriato parlare di

‘work identity’ piuttosto che focalizzarsi su un livello di identità predominante. Per

‘work identity’ si intende l’insieme di tutte le identità (organizzativa, professionale, del

gruppo di lavoro, etc.) presenti e attivate quotidianamente nei luoghi di lavoro.

In particolare nel capitolo 1 viene presentato e discusso il problema teorico affrontato in

questa tesi attraverso un’analisi analitica e critica della letteratura che ha trattato il tema

dell’identità nelle sue varie sfaccettature. Dall’analisi della letteratura che ha

considerato l’identità come una entità soggettiva emerge un gap che merita di essere

esplorato. La letteratura sull’identity work ha esplorato come gli individui gestiscono i

confini tra le loro identità multiple e come l’identità è negoziata ai confini tra gruppi o

sub-unità di un’organizzazione. Tuttavia sono passati in secondo piano i confini tra

individui con identità diverse all’interno dello stesso gruppo di lavoro. Sebbene il tema

delle pluralità di identità sia stato ampiamente esplorato (Mead, 1934), in gran parte

della letteratura i gruppi di lavoro sono stati considerati omogenei al suo interno e in

aggiunta una visione monolitica e idealtipica delle professioni è ancora prevalente

(Barley e Kunda, 2001). Sulla base di queste osservazioni, adottando una prospettiva

costruttivista, è stato condotto uno studio sul campo in un laboratorio di ricerca

pubblico attivo nelle NanoScienze e Tecnologie per investigare come in un contesto

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interdisciplinare e popolato prevalentemente da lavoratori precari, i ‘knowledge

workers’ influenzano reciprocamente le loro percezioni e le pratiche di lavoro attraverso

le interazioni. I laboratori di ricerca pubblica attivi nelle NanoScienza e Tecnologie

sono stati ritenuti un campo d’indagine appropriato per condurre uno studio sul campo

di questo tipo. Le ragioni di questa scelta sono spiegate nel capitolo 2 e sono legate sia

alla natura intrinseca di un laboratorio di ricerca in generale e sia al caso particolare

delle NanoScienza e Tecnologie. Inoltre in linea con quanto detto dagli esponenti del

filone dei ‘Laboratory Studies’ a proposito dell’importanza del contesto esterno per la

produzione di conoscenza scientifica si è ritenuto necessario constatare attraverso

un’analisi multidimensionale la magnitudine nel campo delle nano Scienze e Tecnologie

sia del laboratorio considerato e sia del contesto metropolitano in cui il laboratorio è

inserito. I risultati di questa analisi sono al centro del capitolo 3. Questo capitolo non

consente solo di caratterizzare e descrivere meglio il laboratorio studiato ma è

fondamentale anche rispetto alle esigenze di una ricerca qualitativa. Questa approccio

più di altri è ritenuto in letteratura adatto per studiare tematiche inerenti l’identità dal

momento che da una prospettiva costruttivista l’identità è ritenuta principalmente una

domanda e per questa ragione è difficile da misurare. Le caratteristiche di una ricerca

qualitativa e la metodologia impiegata per rispondere alle domande di ricerca

individuate sono l’oggetto del quarto capitolo.

Nel quinto capitolo vengono mostrate le evidenze empiriche emerse dall’indagine.

Nello specifico viene mostrato come i ricercatori che interpretano la loro professione in

maniera differente sono coinvolti, attraverso le interazioni e la pratica del loro lavoro, in

un processo continuo di confronto di identità che plasma e riformula la loro identità

sociale di ricercatore. Le evidenze raccolte inoltre mostrano che tra le differenti

interpretazioni che i ricercatori forniscono della loro professione alcune definizioni di sè

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come ricercatore tendono ad essere più resilienti e intrusive di altre. Nel capitolo finale

vengono discusse in maniera critica le evidenze empiriche rispetto al contributo teorico,

alle implicazioni per l’identity management, ai limiti di questo studio e alle potenziali

direzioni future di ricerca che si possono delineare.

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CAPITOLO 1

IL PROBLEMA TEORICO

<<A sense of identity serves as a rudder

for navigating difficult waters.>> (S.

Albert, B.E. Ashforth, J.E. Dutton

2000:13)

What the identity literature offers is not a

single concept or theory but a diverse set

of idea, modes of analysis, questions and

propositions. It is this richness that may

be of use of to organizational theory.

(Albert e Whetten, 1985: 293).

INTRODUZIONE. Cosa succede quotidianamente ai confini tra identità diverse

presenti all’interno di uno stesso gruppo di lavoro?

Questa domanda potrebbero porsela i group leaders o i middle managers o chiunque in

contesti lavorativi diversi si ritrovi all’interno di un’organizzazione nella posizione di

dover gestire e coordinare il lavoro di più individui, con conoscenze e competenze

professionali diverse e legati da interdipendenze reciproche. Una vasta letteratura ha

riconosciuto la rilevanza del problema della gestione delle identità multiple nelle

organizzazioni. Tuttavia questi soggetti troverebbero risposte parziali. Infatti il

problema della gestione dei confini tra identità multiple è stato affrontato solo in

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relazione alle interazioni tra membri di gruppi differenti oppure alle l’interazioni tra

differenti concetti di se a livello individuale. Sono passate in secondo piano invece le

interazioni tra individui di uno stesso gruppo soprattutto da una prospettiva che vede

l’identità come un’entità soggettiva. L’identificazione di questo gap permette di

posizionare questo trattato all’interno della letteratura e di definirne il potenziale

contributo.

Nelle pagine successive viene presentata inizialmente una lettura analitica della

letteratura che ha trattato il topic dell’identità nell’ambito degli studi organizzativi. In

particolare verranno discussi aspetti inerenti la rilevanza del topic dell’identità per gli

studi organizzativi e le implicazioni legate al punto di vista assunto dai ricercatori per

studiare questa tematica. Successivamente invece viene proposta una lettura critica sul

tema delle identità multiple e delle problematiche legate alla gestione dei confini. Il

capitolo si conclude con una sintesi di quanto emerso dalla review della letteratura e

con la presentazione delle domande di ricerca affrontate nell’ambito di questo trattato.

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1.1. - L’IDENTITA’ NEGLI STUDI ORGANIZZATIVI

A partire dagli anni ottanta lo studio dell’identità nei contesti organizzativi ha

conquistato una crescente attenzione da parte degli studiosi di scienze sociali in

generale, affermandosi come un campo di ricerca multidisciplinare.

Psicologi, sociologi, antropologici, politologi, studiosi di marketing, etc. mossi da

interessi distinti hanno partecipato e alimentato il dibattito contribuendo ad arricchire e

ad approfondire la conoscenza intorno a questa tematica. A prescindere dal background

disciplinare e dalla prospettiva epistemologica assunta, l’aspetto condiviso nella gran

parte dei contributi è l’assunzione che ci sia una relazione tra l’identità e i

comportamenti degli individui.

L’identità è essenzialmente la risposta alla domanda “Chi sono io?” (Mead, 1934) o nel

caso dei gruppi sociali “Chi siamo noi?” e le organizzazioni sono prima di tutto degli

spazi fisici e sociali dove quotidianamente gli individui trovano, negoziano,

costruiscono le loro risposte svolgendo il proprio lavoro.

In questo senso l’interesse crescente può essere compreso considerando che i contesti

organizzativi rappresentano un terreno fertile per studiare l’identità rispetto a numerosi

livelli di analisi – individuale, professionale, gruppo di lavoro, organizzativo, etc – e al

tempo stesso l’identità può essere ritenuta come una valida dimensione di analisi per

comprendere sia i comportamenti dei membri delle organizzazioni a livello micro e sia

gli aspetti informali dei processi organizzativi a livello macro. Come è ben spiegato

dalle parole di Albert e Whetten riportate nella nota introduttiva, il contributo degli

studi che esplorano l’identità per la Teoria organizzativa non va interpretato come

risposta ad un’unica esigenza applicativa o teorica. Al contrario, il valore di questa

letteratura può essere pienamente compreso solo considerando la versatilità che la

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caratterizza e il potenziale nel suggerire nuove domande di ricerca. L’identità è stata

considerata infatti come un concetto, un costrutto, una metafora o una domanda e può

essere riferita a tutti i livelli di analisi. E’ stata studiata come uno stato o come un

processo in relazione a tematiche eterogenee. Motivazione, commitment, leadership,

imprenditorialità, lealtà, potere, conflitti tra gruppi o cambiamenti organizzativi come

fusioni e acquisizioni sono solo alcuni esempi. In particolare il topic dell’identità si è

conquistato uno spazio sempre più rilevante nella letteratura di natura organizzativa e

manageriale specialmente dopo il 2000. Questa evidenza trova conferma nel trend di

pubblicazioni collegate al topic dell’identità edite su riviste internazionali di

management e organizzazione ad alto fattore impatto tra il 1990 e il 2008 (Fig.1.1).

Inoltre nel corso degli anni non è aumentato solo il numero delle pubblicazioni. Al

tempo stesso anche la popolarità degli articoli pubblicati su questo tema, misurabile

attraverso le citazioni ricevute, ha seguito un trend crescente come viene mostrato in

Fig.1.1. E’ interessante notare che già nel 2000 questo trend era stato ipotizzato.

S. Albert, B.E. Ashforth e J.E. Dutton nell’articolo introduttivo dello special topic

forum ‘Organizational identity and identification: charting new waters and building new

bridges’ pubblicato su Academy Management Review nel 2000 spiegano perché

l’identità avrebbe acquisito sempre maggior peso negli studi organizzativi. Gli autori

spiegano che l’identità è diventato un problema centrale delle organizzazioni in

relazione sia alla complessità sempre più alta che le caratterizza e sia per i cambiamenti

dell’ambiente esterno. L’appiattimento delle gerarchie, la diffusione del lavoro nei

team, l’outsourcing delle competenze secondarie, la crescita del lavoro temporaneo e

dei percorsi di carriera non gerarchici, il bisogno di integrare profili e competenze

diverse, e tanti altri driver hanno contribuito a indebolire di significati e valori le

strutture burocratiche e hanno messo in primo piano gli individui e le strutture cognitive

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che si costruiscono tra i membri di un’organizzazione per stabile cosa questa fa e dove

si vuole arrivare.

Figura 1.1 – Trend delle pubblicazioni1 “identity-related” nelle principali riviste2 di Organizzazione e Management.

Fonte: mie elaborazioni su Social Sciences Citation Index - Web of Science

(15/01/2008)

Nella letteratura che ha trattato il topic dell’identità ci sono due aspetti che la

caratterizzano a prescindere dall’eterogeneità dei contributi avanzati. Il primo riguarda

la considerazione che la maggior parte delle pubblicazioni sono di natura teorica.

1 Le pubblicazioni collegate al topic dell’identità sono state identificate nel database Social Sciences Citation Index di Web of Science. Per identificarle è stata impiegata la seguente stringa nel campo topic: <<identity AND management>>. La ricerca delle pubblicazioni è stata limitata solo ad una serie di riviste ritenute ad alto valore d’impatto nell’ambito del management e degli studi organizzativi. 2 Le riviste considerate sono: Academy of Management Journal (0, 32); Academy of Management Review (6; 42); Administrative Science Quarterly (14; 19); Human Relations ( 24; 49); Journal of Management Studies (3; 47); Organization (7; 28); Organization Science (8; 41); Organization Studies (4; 46). Il primo valore tra parentesi si riferisce al numero di paper pubblicati tra il 1990 e il 1999. Il secondo valore si riferisce al numero di paper pubblicati tra il 2000 e Febbraio 2008.

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Questo aspetto lascia intuire che sebbene nella comunità scientifica sia ampiamente

condiviso il valore di studiare l’identità, a livello empirico si potrebbe dire che i

ricercatori abbiano trovato non poche difficoltà nel vedere pubblicati i propri lavori.

Secondo, le differenti scelte metodologiche, le divergenze e talvolta le incompatibilità

tra i vari approcci teorici possono essere pienamente comprese considerando il punto di

vista assunto dal ricercatore rispetto alla natura dell’identità. In altre parole se è ritenuta

un’entità oggettiva oppure soggettiva. Al primo caso corrisponde una letteratura di

stampo positivista, prevalentemente influenzata dalla prospettiva teorica della Social

Identity Theory e della Self-Categorization Theory e che ha come epicentro la

Psicologia organizzativa. Al secondo punto di vista invece è possibile ricondurre una

letteratura emergente sviluppatasi prevalentemente intorno ai concetti teorici

dell’“identity work” e dell’ “identity regulation” e che ha coinvolto in modo differente

sia cognitivisti che costruttivisti.

1.1.1 L’identità come entità oggettiva nello studio delle organizzazioni

Nei contributi che hanno adottato questo punto di vista l’identità potrebbe essere

rappresentata con la metafora di un oggetto, con una forma, un colore, delle funzioni e

altre caratteristiche facilmente riconoscibili e con gradi diversi di utilità per una

organizzazione. Come ogni qualsiasi oggetto, l’identità è ritenuta essere

prevalentemente stabile, fissa, monolitica e durevole nel tempo. I cambiamenti non sono

frequenti o facili ma possono accadere solo a prezzo di alti costi sia per gli individui che

per le organizzazioni.

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Concettualizzare l’identità come un elemento esistente e oggettivo delle organizzazioni

ha portato i ricercatori a vederla come una potenziale risorsa organizzativa e ad

approfondire aspetti inerenti la misura e le relazioni causali tra costrutti legati

all’identità e altre variabili organizzative oggettive. Alcuni esempi di tali variabili

includono la demografia organizzativa, vista come antecedente delle credenze dei

membri, i patterns di decisioni e azioni passate o le affermazioni dei top manager

assunti per riflettere un’identità esistente.

Negli studi empirici le unità di analisi vengono trattate separatamente e ci si riferisce

all’identità in termini di salienza, importanza, o rilevanza rivelando le difficoltà nel

poter compiere misure esatte. Gli strumenti psicometrici e le mappe cognitive hanno

avuto una notevole diffusione per l’analisi dei dati, raccolti prevalentemente attraverso

questionari o studi di laboratorio. Da un punto di vista teorico invece questa letteratura

poggia le sue fondamenta nel paradigma positivista.

Il problema centrale che trae spunto dal positivismo è comprendere come l’identità

influenza la percezione dei membri dell’organizzazione e come questa a sua volta

orienta le azioni sia al livello individuale che organizzativo. Secondo questa prospettiva

infatti l’identità è vista come un fatto sociale e la principale implicazione che ne

consegue è che può essere modificata e gestita rispetto a scopi ben precisi. In altri

termini l’azione che l’identità influenza può essere gestita e controllata. Per questa

ragione una delle critiche che è stata mossa a questo approccio è stata proprio quella di

aver posto maggiore enfasi sugli interessi manageriali rispetto a quelli dei lavoratori.

Tra gli approcci teorici che assumono questo punto di vista, quello della Social Identity

Theory3 (SIT) può essere ritenuto indubbiamente come il più influente negli studi

organizzativi (Ashforth e Mael, 1989; Hogg e Terry, 2000; Haslam 2004). La SIT è

3 Termine coniato da Turner e Brown, 1978, per semplificare le varie descrizioni delle idee impiegate da Tajfel.

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stata impiegata per esaminare a livello macro come, attraverso le relazioni interpersonali

e intergruppo, gli individui comprendono e posizionano se stessi e gli altri in termini di

categorie sociali definite come caratteristiche prototipiche (Turner, 1985).

Secondo questa prospettiva l’identità è un concetto “relational and comparative” (Tajfel

e Turner, 1985: 16) e gli individui orientano le loro azioni per affermare la definizione

di sé nel tempo e nei contesti (Steele, 1988). In particolare il concetto di sé include sia

una componente individuale, idiosincratica e distintiva ( tratti fisici o psicologici,

abilità, etc.) e sia una sociale legata all’appartenenza a vari gruppi sociali (famiglia,

religione, gruppo di lavoro, organizzazione, etc.). Questo filone teorico trae origine dai

lavori in laboratorio degli psicologi sociali che negli anni settanta scoprirono che la

semplice categorizzazione sociale delle persone in gruppi distinti può produrre

comportamenti inter-gruppo rispetto ai quali i soggetti favoriscono i membri del proprio

gruppo a discapito di quelli di altri gruppi. Tale scoperta ebbe grande rilevanza perché

mise chiaramente in evidenza tre aspetti delle identità sociali che hanno guidato negli

anni la ricerca in quest’ambito. Il primo riguarda l’evidenza che le identità sociali sono

create dalle categorizzazioni sociali. Queste sono intese come etichette, socialmente

costruite attraverso interazioni personali e simboliche, che gli individui imparano ad

attribuirsi in maniera conscia (Tajfel, 1972a; Turner, 1975). In tal senso le categorie dei

gruppi sociali (i.e. nazionalità, sesso, etnia, affiliazione politica, gruppo di lavoro,

organizzazione, etc.) rispetto ai quali un individuo prova un senso di appartenenza

contribuiscono a fornire la definizione di chi uno è nei termini delle caratteristiche

prototipiche che definiscono la categoria stessa.

Il secondo aspetto invece riguarda l’assunzione che gli individui hanno un bisogno

basilare nel percepirsi in una luce positiva nei confronti degli altri che ritengono

rilevanti. Per questa ragione, spiegano gli studiosi, i membri dei gruppi sono motivati ad

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adottare comportamenti che gli consentono di raggiungere e mantenere un confronto in-

group / out-group che favorisca l’in-group e di conseguenza se stessi.

Infine le evidenze empiriche suggeriscono che le identità sociali sono contestuali. In

termini processuali questo vuol dire che le identità sociali diventano salienti e possono

avere implicazioni motivazionali, cognitive e comportamentali solo quando l’in-group

entra in contatto con l’out-group. Questi tre aspetti hanno portato i ricercatori a

considerare le identità sociali come descrittive, prescrittive e valutative.

1.1.2 L’identità come entità soggettiva negli studi organizzativi

Osservare l’identità da questa prospettiva porta i ricercatori a considerare gli individui

come attori attivi e di conseguenza l’identità nei contesti organizzativi come un

potenziale problema (Gabriel, 1999) e un progetto piuttosto che un qualcosa dato per

scontato.

Da questo punto di vista l’identità potrebbe essere ben rappresentata dalla metafora di

una partita di calcio. I calciatori improvvisano e costantemente definiscono il loro ruolo

e le loro interazioni ma all’interno di regole più ampie (lo schema di gioco, le regole di

gioco, il fair play, etc.). Così non è da escludere per esempio che un portiere possa

essere lo specialista nel tirare i calci di rigore anche se fare goal non è la caratteristica

distintiva del suo ruolo oppure che si possa assistere alla sostituzione di un calciatore

che si rifiutava di giocare nella posizione indicata dal suo allenatore. Come osserva

Kunda “Members are active participants in the shaping of themselves and of others.

They may – at various times – accept, deny, react, reshape, rethink, acquiesce, rebel,

conform, and define and redefine the demands and their responses. In other words, they

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create themselves within the constraints imposed on them” (Kunda, 1992: 21). Per

queste ragioni la relazione tra l’identità e i comportamenti non è prescrittiva in senso

assoluto ma è dinamica e può essere meglio compresa in termini di processo piuttosto

che di stato. L’identità da una prospettiva soggettiva appare ‘inevitabilmente’

socialmente costruita ed è definita dal significato che gli individui accettano e

costruiscono attraverso le loro interazioni. In questo senso a livello cognitivo è il

bisogno di stabilità di significato ad orientare i comportamenti degli individui. Per

quanto riguarda i gruppi sociali, l’assunzione di base, influenzata dalla prospettiva

interpretivista, è che gli individui si sforzano di raggiungere alcuni livelli di

convergenza sul significato intorno alla loro identità. In termini generali, il problema

centrale diventa quindi quello di comprendere come i membri delle organizzazioni

costruiscono collettivamente una comprensione del “chi siamo noi?” e quali tattiche

adottano per reagire alle relazioni di agenzia o per raggiungere a livello cognitivo un

“equilibrio ottimale” (Kreiner, et al. 2006) tra le varie concezioni di sé (Mead, 1934) o

per preservare un’immagine positiva (Dutton, Dukerich, 1991).

A livello empirico data l’assunzione che le identità non sono oggettive e facilmente

manipolabili, lo scopo delle indagini non è tanto finalizzato a stabilire relazioni causali

ma piuttosto si focalizza, a livello micro, sulla scoperta dei significati e delle strutture

dei significati che sono negoziati tra i membri delle organizzazioni. In linea con questa

esigenza i ricercatori hanno cercato di raccogliere dati che gli consentissero di far

emergere il punto di vista dei ‘nativi’ e di rappresentare l’identità attraverso le parole e i

simboli utilizzati dagli individui stessi. Le tecniche prevalentemente impiegate sono

state quelle qualitative come le osservazioni etnografiche, le interviste in profondità, la

raccolta di documenti ufficiali e non o la trascrizione dei discorsi.

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A livello teorico, concentrarsi sui processi di costruzione e negoziazione dell’identità e

sulle tattiche ha portato i ricercatori a porre grande enfasi sui concetti di “identity work”

e “identity regulation” (Alvesson & Willmott 2002)..

Il termine “identity work” è stato coniato da Snow e Anderson che lo hanno definito

come : “range of activities that individuals engage in to create, present, and sustain

personal identities that are congruent with and supportive of the self-concept” (1984:

1348). In altre parole “identity work” è una metafora per descrivere un’attività cognitiva

continua che coinvolge gli individui nel costruire una comprensione di sé che sia

coerente, distintiva e positivamente valutata in relazione alle molteplici e talvolta

conflittuali concezioni di sé che incontra nel corso delle attività lavorative e non. In

questo senso l’enfasi è posta sul divenire piuttosto che sull’essere. Le tensioni possono

emergere ogni volta che la percezione di sé non corrisponde all’identità progettata e

inducono ad una trasformazione.

Il concetto teorico di “identity regulation” enfatizza invece il ruolo dei discorsi nei

processi di formazione, mantenimento e trasformazione dell’identità. I discorsi sono

considerati come dei ‘device’ dell’identità perché è attraverso i discorsi che gli individui

parlano di loro stessi come entità separate e indipendenti. Inoltre i discorsi forniscono

dei frames utilizzati dagli individui per definire i ruoli e le posizioni soggettive che li

legano alle strutture sociali. Negli studi organizzativi i contributi che hanno considerato

questo concetto teorico si sono concentrati prevalentemente su tematiche inerenti le

relazioni di potere, come le tattiche che gli individui adottano per esimersi da relazioni

repressive, e il controllo normativo4.

4 Rispetto a quest’ultimo punto è bene sottolineare la differenza tra i concetti di cultura e identità. Mentre

la cultura fornisce il sistema di regole che definisce un sistema sociale (Fiol, 1991; Smircich, 1983),

l’identità fornisce la comprensione contestuale di quelle regole che governano la comprensione degli

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In letteratura questi due concetti sono stati trattati sia separatamente che in maniera

complementare. Nel primo caso è possibile riconoscere un filone di ricerche di natura

cognitivista mentre nel secondo caso di natura costruttivista. Da quest’ultima

prospettiva l’identità può essere compresa quindi come “something over which

struggles take place and with which stratagems are advanced “ (Jenkins 1996, pag 25)

Alla luce di queste considerazioni si può intuire come un vantaggio nell’assumere il

punto di vista costruttivista per studiare le organizzazioni sia quello di poter considerare

la relazione tra il concetto di sé, il lavoro e l’organizzazione in maniera dinamica, senza

doverli necessariamente considerare come livelli di analisi distinti.

1.1.3 L’identità delle organizzazioni

Nell’ambito degli studi organizzativi che hanno trattato l’identità il topic più battuto è

stato quello dell’identità organizzativa e l’articolo di Albert e Whetten del 1985,

“Organizational Identity” è riconosciuto in maniera diffusa come quello seminale.

L’idea per scrivere questo paper venne ai due autori nel 1979 quando una riduzione del

3% nei finanziamenti pubblici destinati alle Università americane fu percepita dai

membri di queste organizzazioni come l’inizio di una profonda crisi.

individui in relazione al più ampio sistema sociale. Altri concetti utilizzati in letteratura e che è bene

distinguere dall’identità sono l’immagine e la reputazione. L’immagine riguarda come i membri

dell’organizzazione interpretano che ‘gli altri’(esterni) vedano l’organizzazione (Duttone Dukerich, 1991;

Hatche Schultz, 2002) mentre invece con il termine reputazione ci si riferisce alla stima che i portatori di

interesse nutrono per l’organizzazione (Fombrun, 1996)

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Albert e Whetten, in quell’anno colleghi all’Università dell’Illinois, furono

profondamente colpiti dall’alta partecipazione e dalla frequenza dei meeting che si

susseguirono nelle settimane successive alla diffusione della notizia, e dai discorsi dei

propri colleghi, preoccupati per le conseguenze del taglio di bilancio per l’immagine

dell’Università. La ricerca di una spiegazione per la reazione dei loro colleghi portò

Albert e Whetten a trattare il concetto di identità organizzativa in maniera scientifica e a

definirlo come un insieme di credenze, valori ed obiettivi percepiti collettivamente dai

membri di una organizzazione e soddisfacenti tre criteri: centralità, distinzione e

durevolezza.

Per il criterio della centralità i valori che definiscono l’identità organizzativa sono legati

alla natura e al successo dell’organizzazione stessa e sono il punto di partenza su cui si

basano le relazioni con l’esterno e le decisioni. Il criterio della distinzione implica la

capacità di questi valori di distinguere l’organizzazione dalle altre, senza però

costringerla in una classificazione troppo ristretta (ambiguous classification); infine il

criterio della durevolezza sottolinea la sostanziale inalterazione nel tempo della

definizione.

Questi tre criteri sono ritenuti il punto di partenza per gli studiosi dell’identità, ma sono

stati messi comunque in discussione. Ad esempio, per i ricercatori che adottano un

approccio funzionalista i valori centrali, distintivi e durevoli sono definiti in modo

univoco dal top management. Per chi adotta un approccio interpretativo l’identità

organizzativa è ciò che viene condiviso tra tutti i membri dell’organizzazione

(Dukerich, Golden, Shortell, 2003). Per alcuni autori l’identità non può essere

considerata durevole in senso stretto, come la sua definizione originaria impone, ma

come un costrutto dinamico e relativo (Gioia e Thomas, 1996; Gioia, Schultz e Corley,

2000). Il concetto di identità “fluida” rende possibile l’adattamento dell’interpretazione

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e del significato dei valori che compongono l’identità, in funzione dei cambiamenti

ambientali ai quali è costretta l’organizzazione. Questa “instabilità” che caratterizza la

definizione di identità, secondo Gioia, Schultz e Corley (2000), genera delle

conseguenze positive per l’organizzazione, perché permette all’organizzazione di

adattarsi alle necessità ambientali più agevolmente.

L’identità organizzativa è stata collegata inoltre ad altri costrutti. In particolare la

combinazione tra questo concetto e la Social Identity Theory ha dato vita ad un filone di

ricerche sul tema dell’identificazione organizzativa che per molti anni ha capitalizzato

l’attenzione degli studiosi di organizzazione. L’identificazione infatti è il processo

attraverso il quale un individuo lega il modo in cui vede se stesso al successo e ai valori

dell’organizzazione, della comunità o di un’entità di riferimento e può avvenire

attraverso il riconoscimento della similitudine dei valori dell’organizzazione con quelli

personali o per emulazione, cioè attraverso l’incorporazione di quegli stessi valori nel

proprio concetto di sé (Pratt, 1998). In tal senso la ragione di tanto interesse è motivata

dall’idea che l’identità organizzativa e il processo di identificazione sono fonti di

vantaggio competitivo per le organizzazioni (Stimpert, Gustafson e Sarason, 1998) e

che il grado di identificazione organizzativa di un individuo è direttamente collegata con

la sua percezione dell’attrattività dell’organizzazione a cui appartiene perché influenza

la sua auto-stima (Dutton, Dukerich, Harquail, 1994). Tuttavia l’attrattiva della

percezione dell’identità organizzativa varia a seconda della durata e dell’intensità del

rapporto di lavoro che lega l’individuo e l’organizzazione; con il passare del tempo in

una organizzazione, infatti, le persone tendono sempre più a vedere sé stesse come

membri di un’organizzazione (Dukerich, Golden, Shortell, 2002). Dal momento che

questa condizione non è più reale in molti contesti organizzativi, è ragionevole pensare

che gli individui con prospettive lavorative brevi all’interno di un’organizzazione

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percepiranno una domanda più forte di identità professionale rispetto a quella

organizzativa. Per questo motivo il trend sembra destinato a dover essere invertito o

perlomeno riequilibrato.

1.1.4 – L’identità nelle Organizzazioni: la ‘work identity’

Parlare di identità nelle organizzazioni vuol dire in realtà considerare tutte insieme una

molteplicità di identità individuali e sociali che quotidianamente orientano l’agire degli

individui nei luoghi di lavoro. L’identità organizzativa, professionale, del gruppo di

lavoro e qualsiasi altra, quotidianamente sono presenti nel lavoro degli individui sia

rispetto ai contenuti delle pratiche che alla posizione che questi occupano all’interno

dell’organizzazione. In questo senso appare riduttivo parlare dell’identità considerando

solo l’identità organizzativa o quella professionale o qualsiasi altra, specialmente in

relazione a tutti quei contesti lavorativi popolati da lavoratori temporanei o in quelli

come gli ospedali, i laboratori di ricerca, le redazioni giornalistiche, i teatri, etc. dove

tradizionalmente i valori professionali possono entrare in conflitto con le logiche

dell’efficienza compromettendo le performance delle organizzazioni.

A tal proposito un concetto teorico che consente di sintetizzare le molteplici

sfaccettature dell’identità attivata nelle organizzazioni complesse e di considerarle

contemporaneamente, è quello della ‘work identiy’. Walsh e Gordon (2007)

definiscono la ‘work identity’ di un individuo come “a work based self-concept,

comprised of a combination of organizational, occupational and other identities, that

affects the roles people adopt and the corresponding ways they behave when

performing their work”. In altre parole la ‘work identity’ emerge in relazione alle

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pratiche di lavoro e può essere vista come la risposta che unisce le domande “Chi sono

io”? e “Che cosa faccio quotidianamente?”. Un aspetto ampiamente condiviso in

letteratura è che la relazione tra identità e pratiche di lavoro sia regolata da un principio

di congruenza.

Nella Social Identity Theory la congruenza tra identità e pratiche di lavoro è data per

scontata ed è mediata dalla presenza delle categorie sociali fornite dai ruoli

organizzativi. Questi ultimi infatti forniscono delle posizioni oggettive per i membri

delle organizzazioni. In tal senso gli individui sono perfettamente in grado di

distinguere tra cosa costituisce il proprio lavoro e cosa no e i cambiamenti nelle pratiche

sono dovuti prevalentemente ad avanzamenti di carriera o alla necessità di migliorare le

performance per confermare lo status. Questo modo di vedere la relazione tra identità e

pratiche appare essere più adatto per contesti burocratici, dove il lavoro è scandito da

processi altamente standardizzati e dalla presenza di mansionari.

Anche dalla prospettiva soggettivista la congruenza tra identità e pratiche di lavoro è

ritenuta come una fonte di equilibrio ma è mediata dal bisogno di stabilità di significato.

La possibilità di cambiamenti o aggiustamenti nell’identità o nella pratica non sono

stimolati solo da eventi esterni eccezionali. Al contrario possono accadere ogni volta

che gli individui percepiscono una minaccia per la coerenza tra la definizione di sé, i

contenuti (quello che fanno) e i processi (come lo fanno) del lavoro (Pratt et al., 2006).

In questi casi le dissonanze percepite tra i significati potranno essere ridotte

modificando la work identity oppure le pratiche di lavoro (Elsbach, 2003). Pratt,

Rockmann, and Kaupfmann (2006) descrivono a livello empirico questo processo

definendolo “work identity integrity”. Gli autori dimostrano come in un contesto dove

gli individui possono beneficiare di poca discrezionalità è molto più probabile che

l’identità si adatti alle pratiche di lavoro piuttosto che il contrario. Wrzesniewski e

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Dutton, in un contributo teorico del 2001 introducono il concetto di job crafting5 e

aggiungono che è più probabile che le pratiche di lavoro possano essere mutate per

allinearsi ad un identità desiderata non solo in presenza di alta discrezionalità ma anche

di basse interdipendenze. A differenza dei contributi precedenti, Doolin (2002)

considera la discrezionalità non come una caratteristica intrinseca dei processi di lavoro

ma come un significato associato ad un valore professionale. Attraverso un caso

empirico, l’autore mostra come una riduzione della discrezionalità dovuta ad un

cambiamento organizzativo generi a livello individuale un processo di “identity work”

che induce gli individui a ridefinire il concetto di sé come professionista e come

membro dell’organizzazione. In particolare, l’aspetto interessante è che all’interno della

stessa comunità professionale (i medici di base) l’autore osserva tre reazioni distinte in

risposta alla stessa minaccia. Alcuni accettano la nuova condizione, adattano le pratiche

di lavoro e di conseguenza la loro identità professionale. Altri si rifiutano di modificare

le pratiche di lavoro e così facendo riescono a preservare l’identità. Infine altri

rispondono al cambiamento segmentando le proprie pratiche di lavoro e di conseguenza

la propria identità professionale.

Quello che emerge dai diversi punti di vista offerti da questi contributi è che la

discrezionalità e le interdipendenze che legano il lavoro degli individui in uno specifico

contesto organizzativo, rivestono un ruolo importante nei processi di costruzione e

negoziazione di identità perché gli individui modificando le pratiche possono esaltare o

limitare i valori professionali per cercare un equilibrio con i vincoli organizzativi.

Anche se i valori professionali sono percepiti come durevoli, le evidenze empiriche

presenti in letteratura (Albert & Whetten, 1985; Ibarra, 1999; Alvesson & Willmott,

2002; Doolin, 2002; Kosmala & Herrbach, 2006, Pratt et al. 2006) rivelano che la

5 Il processo di job crafting è definito dagli autori come “the physical and cognitive changes individuals make in the task or relational boundaries of their work”

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relazione tra identità e pratiche di lavoro è reciproca e di conseguenza la ‘work identity’

non può essere considerata come un’entità monolitica, sia nei contesti caratterizzati da

alta che da bassa discrezionalità almeno per due ragioni. Primo, l’identità si forma lungo

il tempo ed è soggetta ad un processo di costruzione, adattamento, ricostruzione. In

particolare l’inclinazione a modificare la propria ‘work identity’ non è costante lungo la

vita professionale di un individuo ma è più probabile che sia soggetta a cambiamenti

durante la fase iniziale della carriera (Ibarra, 1999; Pratt, Rockmann, & Kaupfmann,

2006). Secondo, come è ben mostrato nel lavoro di Doolin (2002), l’interazione tra i

valori professionali e i vincoli organizzativi possono generare all’interno di una stessa

organizzazione differenti interpretazioni riguardo la concezioni di sé come lavoratore

anche tra i membri di una stessa comunità occupazionale. La molteplicità delle identità

all’interno di un’organizzazione pone inevitabilmente il problema della gestione dei

confini (Albert & Whetten, 1985; Ashforth & Mael, 1989; Golden-Biddle & Rao, 1997;

Pratt & Rafaeli, 1997).

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1.2 LA PLURALITA’ DELLE IDENTITA’ E LA QUESTIONE DEL LA

GESTIONE DEI CONFINI

L’idea della pluralità di identità è ampiamente accettata in letteratura (James, 1920;

Mead 1934) ed è legata alla possibilità di avere più di una risposta, sia a livello

individuale che collettivo, per le domande “Chi sono io?” e “Chi siamo noi?”.

Nell’ambito degli studi organizzativi la questione della pluralità delle identità pone

l’accento direttamente sui confini sia in termini di riconoscimento che di gestione di

identità differenti. I confini possono essere considerati come uno spazio fisico,

temporale o cognitivo che permette di delimitare un dominio rispetto ad un altro. In

questo senso forniscono un criterio per stabilire cosa includere e cosa escludere (i.e.: in-

group versus out-group). Oppure per distinguere i membri di una comunità in base al

principio della distanza dal centro. Wenger (1991) definisce questo processo come di

legittimazione periferica e spiega come nelle Comunità di Pratiche i membri si

posizionano in maniera differente in relazione alla loro esperienza. Inoltre i confini

possono essere visti non come un criterio ma come un territorio di negoziazione. A tal

proposito la letteratura sulle comunità di pratiche ha messo bene in evidenza come le

interazioni tra membri di comunità diverse attivano un processo di negoziano che porta

alla costruzione di un terreno comune (Betchky, 2003) creato attraverso l’introduzione

di artefatti, metalinguaggi, etc. che regolano lo scambio.

Rispetto ad una prospettiva soggettiva, i confini non sono imposti ma è l’individuo a

stabilire intenzionalmente il grado di permeabilità e ad avvertire l’esigenza di attivare

un processo di “identity work”. In questo senso i confini non sono solo un criterio ma

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anche uno spazio per attivare un processo di formazione, mantenimento e ricostruzione

del concetto di sé.

In letteratura i confini tra identità multiple sono stati investigati sia rispetto a come gli

individui gestiscono le differenti identità che ritengono di possedere (Ashforth & Mael,

1989; Sveningsson & Alvesson, 2003; Kreiner, Hollensbe, & Sheep, 2006a and 2006b;

Ashforth e Johnson, 2001) e sia all’interno di un’organizzazione in termini di differenti

concezioni dell’identità organizzativa (Pratt e Foreman, 2000).

1.2.1 Confini all’interno della concezione di sé

Kreiner, Hollensbe, & Sheep nel 2006 affermano che dal momento che sia gli individui

che i contesti sociali sono dinamici, inevitabilmente anche la loro relazione deve essere

considerata come tale. In altre parole dal momento che gli individui tendono a

preservare aspetti distintivi e al tempo stesso a sviluppare un senso di appartenenza

attraverso l’affiliazione con i gruppi sociali è ragionevole pensare che si possa

sviluppare un processo di “identity work” proprio ai confini tra identità individuale e

sociale (Tajfel, 1978; Meyer, Becker, & Van Dick, 2006).

Gli autori mostrano inoltre empiricamente attraverso il caso dei preti, come le tensioni

tra identità individuali e sociali possano emergere quando gli individui percepiscono

una distanza troppo grande o quando avvertono un’intrusione eccessiva da parte

dell’identità sociale nei confronti di quella individuale. Le tensioni possono essere

ridotte attraverso varie tattiche che consentono di raggiungere un equilibrio ottimale tra

l’integrazione e la differenziazione.

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Gli individui inoltre possono attivare il processo di “identity work” ai confini tra le loro

identità sociali multiple. In relazione a questo aspetto in letteratura è stato introdotto il

concetto di “nested” e “cross-cutting identities”. Le prime sono categorizzazioni di se

come membro di differenti contesti organizzativi rappresentati da livelli distinti e

ordinati secondo un principio gerarchico che va da un livello più basso che include il

gruppo di lavoro ad uno più alto che riguarda l’organizzazione in cui l’individuo lavora

(Ashforth & Johnson, 2001; Meyer et al., 2006). Una differenza sostanziale tra i livelli

di ordine più basso e quelli di ordine più alto è che nei primi le identità sono meno

astratte e più soggettive.

Tuttavia anche se le identità sociali sono ordinate a livello cognitivo secondo un

principio di salienza le tensioni ai confini tra identità non possono essere escluse perché

gli individui non scelgono in maniera razionalmente assoluta l’identità migliore da

vestire in relazione al contesto specifico. Piuttosto fanno riferimento alle identità sociali

in maniera simultanea (Stryker, 1968; Van Dick, Wagner, Stellmacher, & Christ, 2005),

e in tal senso le tensioni possono emergere quando identità sociali di ordine diverso non

sono tra di loro allineate in termini di valori, credenze, etc. (Ashforth & Mael, 1989;

Pratt & Foreman, 2000). Nel caso di sovrapposizione di contenuti invece i confine

tenderanno ad essere meno netti (Russo, 1998; Alvesson & Robertson, 2006).

Nel caso in cui non ci sia dipendenza tra le identità sociali e almeno una di esse è

informale (Zabusky & Barley, 1997; Russo, 1998; Meyer et al., 2006) si parla invece di

‘cross-cutting identities’. Gli studi organizzativi in questo caso si sono concentrati

prevalentemente sulla relazione tra identità organizzativa e professionale. In questo caso

le tensioni che possono essere percepite dagli individui sono dovute ai differenti valori

che caratterizzano la membership nelle organizzazioni e nelle comunità professionali.

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Nel primo caso rispondono a principi basati sul controllo amministrativo mentre nel

secondo sul controllo collegiale (Zabusky & Barley, 1997; Russo, 1998; Johnson,

Morgeson, Ilgen, Meyer & Lloyd, 2006; Walsh & Gordon, 2007). Le poche evidenze

empiriche presenti in letteratura rivelano che le tensioni tra valori professionali e

organizzativi non possono essere facilmente evitati dal momento che molte professioni

come quelle della ricerca, della medicina o del giornalismo non potrebbero essere

esercitate senza la membership in una organizzazione (i.e.. Russo, 1998; Meyer et al.,

2006). A livello manageriale i concetti di ‘nested identities’ e ‘cross-cutting identities’

sono stati interpretati come la facoltà dei manager di poter rendere salienti, per esempio

attraverso i discorsi o i simboli, le identità di ordine superiore ogni volta che se ne crei il

bisogno in modo da prevenire conflitti o aumentare la possibilità di raggiungere un

obiettivo comune (Hennessy & West, 1999)

1.2.2. Confini tra identità multiple all’interno di un’organizzazi one.

Negli studi organizzativi la presenza di identità multiple all’interno di una stessa

organizzazione sono state spiegate dalla presenza di differenti unità o gruppi all’interno

di un’organizzazione (Pratt & Rafaeli, 1997; Glynn, 2000; Pratt & Foreman, 2000).

Albert e Whetten (1985) affermano che le organizzazioni si possono distinguere in

ideografiche e oleografica a seconda di come i membri percepiscono le parti di un

organizzazione rispetto all’insieme. Un’organizzazione può essere definita come

oleografica quando le differenti parti che la compongono condividono un’identità

condivisa (i.e. la chiesa). Mentre sono ideografiche quando differenti unità posseggono

identità specifiche (i dipartimenti di un’ Università). Di conseguenza è molto più

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probabile che conflitti tra gruppi emergono nel caso delle organizzazioni ideografiche

che per queste ragioni pongono maggiori problemi da un punto di vista gestionale. Gli

autori inoltre considerano anche un caso estremo di organizzazioni ideografiche che

definiscono identità ibride. In questi casi si osserva la presenza di gruppi che detengono

valori che normalmente non sono allineati tra di loro.

Pratt e Raphaeli (1997) analizzano la coesistenza di due differenti interpretazioni sulla

professione di infermiere in una unità riabilitativa di un ospedale. A seguito di uno

sciopero provocato da un ridimensionamento del personale, le infermiere del turno

notturno che si percepivano come fornitrici di cure intensive, e quelle del turno diurno

che si definivano come prestatrici di cure per ricondurre i pazienti alla vita normale, si

confrontano sul perché condividono lo stesso contesto lavorativo dal momento che

pensano di fare cose diverse e di servire pazienti diversi. Il dibattito si risolve

includendo nella definizione dell’unità riabilitativa entrambi i valori professionali

riconosciuti dai due gruppi di infermiere. Glynn, invece, (2000) descrive la disputa tra i

musicisti e i managers dell’orchestra sinfonica di Atlanta. Anche in questo caso,

entrambi i gruppi di attori promuovono valori organizzativi allineati con la loro

professione. I musicisti protendono per una visione dell’orchestra ispirata

dall’eccellenza artistica e in questo senso vorrebbero che l’orchestra si arricchisse di

altri musicisti. I manager, invece, sono influenzati da logiche di profitto e vedono nuove

assunzioni di musicisti come un problema. Le divergenze vengono risolte alla fine

grazie alla decisione di un manager di proporre lo spostamento del focus sulle core

capabilities dell’orchestra da sviluppare. Pratt e Foreman (2000) analizzano questa

tematica da un punto di vista manageriale. Secondo gli autori il management

dell’identità riguarda il modo in cui le identità multiple di ordine inferiore compongono

l’identità organizzativa di ordine superiore. In particolare gli autori propongono quattro

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strategie per gestire le identità multiple a seconda del grado di pluralità e di sinergia tra

le identità dei gruppi presenti nell’organizzazione. In particolare parlano di

compartimentalizzazione nel caso in cui le organizzazioni conservano tutte le identità

presenti senza creare delle sinergie tra di loro e di aggregazione quando al contrario

vengono supportate e generate delle sinergie tra le identità presenti. Altre possibilità a

disposizione dei manager sono quelle di integrare identità multiple in una nuova oppure

decidere di eliminare definitivamente alcune identità.

I contributi presenti in letteratura sull’identity work ai confini tra differenti identità di

gruppo presentano due aspetti in comune. Primo, i conflitti tra gruppi si accendono solo

in concomitanza di crisi organizzative o periodi di cambiamenti strutturali mentre nel

quotidiano tendono a coesistere. Secondo, i conflitti tra i gruppi con identità diverse

sono risolti rendendo rilevante o introducendo delle modifiche all’identità di ordine

superiore.

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1.3 I QUESITI DI RICERCA

Dall’analisi critica della letteratura che ha trattato il topic dell’identità negli studi

organizzativi emergono alcuni spazi di ricerca rilevanti e, in parte, inesplorati.

Sebbene da un punto di vista soggettivo l’identità è assunta essere non monolitica in

realtà in alcuni casi è ancora trattata come tale. Anche se è ampiamente condiviso che

l’identità sia soggetta ad un continuo processo di costruzione, negoziazione e

riformulazione generato dall’interazione tra individui con differenti definizioni di sé

(Wharton, 1992; Kuhn, 2006; Walsh e Gordon, 2007), il tema delle identità multiple da

una prospettiva cognitiva è stato esplorato guardando le interazioni tra membri di gruppi

differenti oppure le l’interazioni tra differenti concetti di se a livello individuale. Sono

passate in secondo piano invece le interazioni tra individui di uno stesso gruppo. Una

ragione potrebbe essere la difficoltà per il ricercatore di rintracciare elementi distintivi

oggettivi che segnalino la presenza di identità multiple all’interno dello stesso gruppo in

assenza di crisi o di cambiamenti rilevanti. Ad ogni modo nella letteratura cognitivista,

gli individui di uno stesso gruppo sono visti come omogenei e di conseguenze le

interazioni tra di loro appaiono come cristallizzate e non costituiscono nel quotidiano

una fonte di potenziali problemi per l’Identity Management perché per ridurre o

eliminare i conflitti sarà sufficiente rendere più saliente un’identità di ordine superiore.

Di conseguenza anche la ‘work identity’ è ampiamente considerata in maniera

monolitica e in letteratura prevale un’idea di professione che sa di idealtipo (Barley,

Kunda, 2001).

In questo quadro quello che emerge è che lo studio dei processi di ‘identity work’ ai

confini tra individui di uno stesso gruppo con differenti definizioni di se rappresenta un

gap che merita di essere colmato. In particolare l’intento di questo studio è quello di

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scoprire quali sono i processi di ‘identity work’ ai confini tra co-workers nella pratica

quotidiana del loro lavoro.

Concludendo, i quesiti di ricerca al centro di questa tesi sono:

1) Quali sono i pattern di lavoro e interazioni attivati all’interno di un gruppo di lavoro

costituito da individui con differenti auto-categorizzazioni?

2) Quali caratteristiche organizzative favoriscono la coesistenza di “work identity”

multiple all’interno di un gruppo di lavoro?

3) Come individui di uno stesso gruppo ma con differenti auto-categorizzazioni

costruiscono, confrontano, negoziano e ricostruiscono la loro identità sociale attraverso

la pratica e le interazioni quotidiane?

I laboratori di ricerca attivi nelle nanotecnologie sono considerati come un setting ideale

per rispondere a queste domande. Nei laboratori lavorano i gruppi di ricerca che

possono essere visti come delle forme elementari di collaborazione scientifica e

produzione di conoscenza. I membri lavorano face-to-face, condividono gli spazi, i

materiali, le tecniche, gli strumenti, i problemi scientifici, le ipotesi e in un certo senso il

loro destino e la reputazione professionale. Nel caso specifico delle NanoScienza e

Tecnologie i gruppi sono caratterizzati dalla presenza di individui con background di

conoscenze diverse ma complementari.

Le ragioni di questa scelta vengono spiegate nel dettaglio nel capitolo successivo.

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CAPITOLO 2

IL CAMPO D’INDAGINE:

IL LABORATORIO DI RICERCA

NELLE NANOSCIENZE E TECNOLOGIE

“This is an age of organization. Almost within the

lifetime of some of us the industries, with the

exception of agriculture, have passed in large

degree from the individualistic to the corporate

form. Almost every conceivable calling, from the

midwife’s to the undertaker’s, is organized. Since

Science is a product of human activity its methods

must necessarily be influenced by the spirit of the

time.” H.P. Armsby (1920: 33 – Science)

INTRODUZIONE. Come è anticipato nella nota introduttiva l’applicazione del metodo

scientifico per produrre nuova conoscenza ha una dimensione organizzativa nota fin

dall’inizio del secolo. Tuttavia dopo più di ottant’anni sappiamo ancora troppo poco

sui processi organizzativi che coinvolgono questa pratica di lavoro e la ragione

principale va ricercata nella considerazione che il contesto di lavoro dei laboratori è

stato poco esplorato. Ma quali opportunità il contesto di lavoro dei laboratori offre per

uno studio organizzativo? Perché studiare la relazione tra identità e pratiche di lavoro

nei laboratori pubblici di ricerca scientifica? E perché proprio in quelli legati al campo

della NanoScienza e Tecnologie? Sarebbe stata la stessa cosa scegliere laboratori in

altre aree tematiche o in altre Istituzioni di ricerca? In questo capitolo il lettore potrà

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trovare le risposte per questo genere di domande e conoscere le motivazioni alla base

di questa scelta empirica.

Inizialmente il setting dei laboratori di ricerca come luogo di lavoro viene presentato

attraverso le sue caratteristiche distintive che emergono da un confronto con altri

contesti lavorativi. Tale descrizione è integrata da un’analisi critica della letteratura di

stampo sociale che in qualche modo è entrata in contatto con questo contesto

organizzativo. Dall’analisi emerge chiaramente la rilevanza e il valore di questo

contesto organizzativo in termini di opportunità di indagini sui processi di produzione

di conoscenza. Tuttavia il laboratorio di ricerca rispetto ai processi organizzativi

attivati al suo interno continua ad essere visto come un’entità omogenea dai connotati

misteriosi. In gran parte ciò è dovuto ad uno scarso interesse mostrato dagli studiosi di

organizzazione nei confronti di questo contesto. Tra i pochi che si sono avventurati

nell’impresa di studiare le organizzazioni dei laboratori, molti sono caduti nella

trappola di finire per parlare di organizzazione della Scienza più che di organizzazioni

che operano nei laboratori. All’interno della letteratura sociale un contributo di sicuro

valore è arrivato dal filone di studi denominato ‘Laboratory Studies’ che ha messo in

evidenza con forza come i laboratori di ricerca non siano solo unità di analisi ma bensì

costituiscono un campo d’indagine. La lezione impartita da questo gruppo di sociologi

della Scienza è il punto di partenza e la base per provare a pensare a nuove strategie

esplorative più adatte per lo studio di queste specifiche organizzazioni.

Studiarle non è solo un’opportunità speculativa per scrivere qualche pubblicazione

interessante su un tema caldo come la produzione di conoscenza. Piuttosto studiare le

organizzazioni di ricerca sta diventando un bisogno crescente e un esigenza delle stesse

organizzazioni di ricerca sempre più caratterizzate da un’alta complessità

organizzativa. A livello micro la rilevanza della dimensione organizzativa è discussa

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soprattutto rispetto alla tensione tra il sistema di controllo amministrativo e quello

collegiale che caratterizzano tipicamente i contesti di lavoro popolati dai ‘knowledge-

workers’. Inoltre la dimensione organizzativa viene discussa anche rispetto

all’influenza delle Istituzioni (Università, Governo, Industria) presso cui sono

localizzati i laboratori di ricerca mettendo in evidenza quali sono le principali

differenze e implicazioni rispetto alla relazione tra identità e pratica. Sebbene in

letteratura ci siano molti studi che hanno spiegato come le Istituzioni influenzano i

processi di produzione scientifica, solo pochi lo hanno fatto a livello micro rispetto alle

pratiche e all’identità. Per sopperire a questa mancanza vengono utilizzati estratti di

interviste in profondità condotte con ricercatori affiliati con Istituti di natura diversa

per integrare la conoscenza su questo argomento.

Nella seconda parte del capitolo invece vengono descritti i principali attributi

caratterizzanti le NanoScienza e Tecnologie e le implicazioni organizzative legate

all’emergere di questo nuovo campo organizzativo.

Infine viene discussa la rilevanza delle specificità di questo contesto per uno studio

sulle identità multiple nelle organizzazioni e come uno studio di questo tipo può aiutare

ad accendere luce sulle organizzazioni di ricerca nei laboratori scientifici.

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2.1. IL LABORATORIO COME LUOGO DI LAVORO In linea con le domande di ricerca riportate nel capitolo precedente, il laboratorio

pubblico di ricerca scientifica è considerato prima di tutto un luogo di lavoro dove si

possono osservare i processi organizzativi che regolano la vita dei gruppi dei ricerca nel

quotidiano. Ciò vuol dire che nell’ambito di questo trattato il laboratorio di ricerca non

corrisponde ad una organizzazione reificata e nemmeno rappresenta un’unità di analisi.

Al contrario, considerare il laboratorio di ricerca come un luogo di lavoro offre

l’opportunità di vederlo in maniera più ampia come un campo d’indagine,

coerentemente con il filone dei Laboratory Studies (Latour e Wolgar 1979; Knorr-

Cetina 1982; Gilbert e Mulkay 1984; Lynch 1985; Traweek 1988; Latour 1987; Amann

and Knorr-Cetina 1989).

Rispetto ad altri luoghi di lavoro un qualsiasi laboratorio si distingue specialmente per

una caratteristica. Sia la struttura fisica che quella organizzativa sono concepite

principalmente per poter rendere possibile l’esecuzione di particolari tipi di esperimenti.

Un laboratorio è costruito ad hoc, (rispetto alla forma, alle dimensioni e ai materiali

utilizzati), per fornire condizioni controllate specifiche, ritenute necessarie, per eseguire

determinati esperimenti scientifici, prove o misure sofisticate. Al tempo stesso anche le

organizzazioni di ricerca nascono come un’esigenza per rendere possibile da un punto di

vista sociale, tecnico ed economico lo sviluppo e la realizzazione di esperimenti

complessi.

La centralità degli esperimenti nella natura di questo contesto lavorativo è anche la

sensazione che può percepire chi entra per la prima volta in un qualsiasi laboratorio.

Oltre alla denominazione, tutto quello che può vedere non si trova lì o succede per caso.

A partire dalle tecnologie e attrezzature presenti, alla disposizione dei macchinari nei

locali fino ai vestiti che indossano gli individui che ci lavorano e quello che fanno, tutto

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è legato da una logica comprensibile solo in relazione alle tipologie di esperimenti in

corso o a quelli programmati nell’immediato futuro.

Come in altri luoghi di lavoro, le strutture fisiche e organizzative di un laboratorio di

ricerca sono interdipendenti rispetto alle pratiche di lavoro “…because organizational

structures are, by definition, descriptions of and templates for ongoing patterns of action

(Barley e Kunda, 2001:76). Tuttavia più che in altri siti i pattern di lavoro e di

conseguenza le strutture organizzative e fisiche sono soggetti a cambiamenti nel tempo.

Non potrebbe essere diversamente dal momento che al cuore delle pratiche di lavoro in

un laboratorio c’è il supporto, la progettazione e l’esecuzione degli esperimenti che, per

loro natura, sono destinati a cambiare nell’oggetto o nel fine in maniera continuativa. Si

potrebbe dire che i pattern di lavoro e le strutture organizzative si formano, vengono

modificate e si ricostruiscono lungo il confine che corre tra le scoperte passate e le

nuove domande di ricerca. A livello macro i cambiamenti del contesto lavorativo

possono essere indotti dal progresso scientifico e/o da nuove esigenze espresse dalla

società che orientano le decisioni rispetto agli esperimenti da eseguire. A livello micro

invece i pattern di lavoro in un laboratorio possono cambiare in seguito all’introduzione

di una nuova tecnologia o di un nuovo individuo all’interno di un gruppo di ricerca

oppure spontaneamente in virtù di scoperte rilevanti che portano all’emergere di nuove

linee di ricerca. È vero infatti che le strutture fisiche ed organizzative determinano i

confini fisici e virtuali delle pratiche di lavoro rispetto a ‘ciò che non si può fare’ ma è

anche vero che nessuna struttura può limitare o garantire quali scoperte possono essere

conquistate all’interno di un laboratorio o di una rete di laboratori.

Un esempio che può aiutare a chiarire questo punto proviene proprio dal campo della

NanoScienza. L’emergere di questo nuovo campo di ricerca ha stimolato nel corso degli

ultimi anni una nuova concezione di laboratorio, quella del meta-laboratorio. La

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principale differenza consiste nel fatto che il laboratorio non è più pensato come mono-

user ma diventa facilities multi-user. Un caso concreto di facilities multi-user è

costituito per esempio dalla Molecular Foundry del Lawrence Berkeley National

Laboratory in California. In particolare, la storia della Molecular Foundry è affascinante

perché è legata a circostanze spontanee generate da un bisogno di cambiamento nei

pattern di lavoro. L’inizio di questa storia coincide con la scrittura di una lettera6

indirizzata all’allora Presidente degli Stati Uniti d’America, Bill Clinton, da parte di sei

scienziati, affiliati con Università americane diverse e ritenuti dalla comunità scientifica

‘guru’ in discipline scientifiche differenti. In questa lettera gli scienziati raccoglievano

le loro impressioni sugli scenari futuri che avrebbero caratterizzato la Scienza e

dichiararono che secondo loro per continuare ad essere alla frontiera della scoperta

scientifica non potevano più continuare a lavorare separatamente. Per questa ragione

avevano bisogno di un nuovo tipo di struttura che gli consentisse di far dialogare le

differenti discipline che rappresentavano. La risposta a questa richiesta si concretizzò

nella costruzione di un edificio costituito da sei piani, ognuno corrispondente a sei

differenti domini disciplinari e famiglie di facilities tecnologiche. I ricercatori di tutto il

mondo hanno accesso a questa struttura e possono condurre i loro studi utilizzando lo

stato dell’arte della tecnologia e il supporto tecnico da parte di personale altamente

specializzato. Per accedere è necessario sottomettere un proposal che riguardi un

progetto di ricerca già finanziato e soprattutto che coinvolga almeno due piani

dell’edificio. In questo modo vengono favorite non solo le interdipendenze tra differenti

‘knowledge communities’ ma anche tra differenti tecnologie. Se a livello macro il

principale cambiamento ha riguardato la creazione di una nuova costruzione e la nascita

di una nuova organizzazione per gestirla, a livello micro questa nuova filosofia di

6 La lettera originale firmata da tutti e sei i guru è esposta nella sala d’ingresso di questa struttura.

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laboratorio ha promosso l’emergere di nuovi pattern di lavoro per i ricercatori. Per

esempio, chi frequenta questi meta-laboratori non ha più bisogno di conoscenze

altamente specialistiche sull’uso di determinate strumentazioni perché beneficia del

supporto tecnico di professionisti altamente specializzati. Piuttosto è portato a

sviluppare conoscenze generaliste che gli consentono di identificare e sviluppare

problemi interdisciplinari. In altre parole i ricercatori ridurranno il tempo di lavoro

dedicato all’apprendimento sull’utilizzo di uno strumento a favore dello studio dei

problemi scientifici.

La frequenza dei cambiamenti nei pattern di lavoro e la centralità degli esperimenti

nell’interdipendenza che lega in maniera dinamica le pratiche di lavoro con le strutture

organizzative, mettono in primo piano un altro tratto distintivo di questo contesto

lavorativo. Gli individui sono coinvolti in continui processi di apprendimento nello

svolgimento delle loro pratiche di lavoro quotidiane dal momento che queste ultime

sono orientate alla produzione di nuova conoscenza. Per questa ragione, come in altri

contesti simili (Ospedali, società di consulenza, aziende hi-tech, etc.), i lavoratori sono

stati definiti in letteratura come ‘knowledge workers’ e i laboratori nel corso degli

ultimi anni sono divenuti teatro di numerosi studi sociali attratti dalla potenzialità di

poter investigare, da prospettive disciplinari diverse, i processi di produzione e

riproduzione di nuova conoscenza nel luogo dove questa viene ‘fabbricata’ per

definizione. Gli studiosi di Management dell’Innovazione si sono concentrati

prevalentemente su tematiche inerenti la gestione della conoscenza come per esempio

strategie per la protezione o per la misura del valore della proprietà intellettuale dei

laboratori. Il contributo degli Economisti Industriali si è rivolto prevalentemente alla

comprensione del ruolo e del peso dei laboratori di ricerca nel processo d’innovazione

di un sistema economico. Gli Istituzionalisti invece si sono interrogati sulla genesi delle

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Istituzioni di ricerca, sulla riproducibilità di particolari casi di successo (Silicon Valley)

in altri contesti geografici e sulla relazione tra i finanziamenti (pubblici e privati) ai

laboratori di ricerca e i processi di produzione di conoscenza. I Sociologi, da parte loro,

sono entrati in contatto con i laboratori per approfondire tematiche legate alla creazione

di conoscenza all’interno delle comunità e al trasferimento di conoscenza tra comunità

diverse (Boland and Tenkasi,1995; Carlile, 2002). In particolare tra i sociologi della

Scienza, un contributo molto rilevante è stato dato da un gruppo di studiosi che, a

partire dalla fine degli anni ’70, hanno dato vita ad un filone di studi denominato non a

caso ‘Laboratory Studies’. La caratteristica distintiva di questi studi è stata quella di

condurre indagini etnografiche nei laboratori di ricerca scientifica per comprendere

come si costruisce un fatto scientifico. Più di ogni altro filone questo si è identificato

con i laboratori e nel caso specifico quelli di ricerca scientifica. È bene sottolineare che

un aspetto comune alla gran parte dei contributi empirici presenti in letteratura è

sicuramente quello di aver riposto grande attenzione soprattutto ai laboratori di ricerca

scientifica, sia pubblica che privata, piuttosto che ad altre tipologie. Una ragione può

essere compresa alla luce del legame diretto tra i laboratori scientifici e la Scienza, e

della rilevanza del ruolo della Scienza nella società.

Chi non è mai salito o si è ritagliato solo un ruolo da comparsa su questo grande

palcoscenico, sono stati gli studiosi di organizzazioni. Nell’ambito di questi studi per

lungo tempo l’organizzazione nei laboratori di ricerca o più semplicemente

l’organizzazione della ricerca è stata considerata prevalentemente come un qualcosa di

differente rispetto a quella dell’impresa. Sebbene nel corso degli ultimi quarant’anni

siano fiorite più di una teoria sulle imprese, ad oggi non ne è stata ancora proposta una

sui laboratori. Si potrebbe pensare che gli studiosi di organizzazione siano stati

scoraggiati in questo intento dagli economisti che hanno supportato una visione della

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conoscenza scientifica come di un bene pubblico da finanziare a prescindere (Nelson,

1959). In ogni caso e indipendentemente dalle ragioni quello che si registra nella

letteratura sociale dice che, ad oggi, gli studi sui laboratori come organizzazioni sono

costituiti solo da un numero esiguo di contributi (Joly e Mangematin, 1996; Owen-

Smith 2001). Questa evidenza è sorprendente se si pensa ad un altro aspetto che

accomuna i vari contributi emersi da altri ambiti disciplinari. Sociologi della Scienza,

Economisti, studiosi di Management dell’Innovazione, Istituzionalisti, hanno concluso

moltissimi dei loro paper sottolineando la rilevanza delle strutture organizzative

nell’ambito dei processi di produzione di conoscenza scientifica.

Nella letteratura sociale, i laboratori di ricerca scientifici sono stati definiti e trattati

metodologicamente in maniera diversa per ragioni legate non solo alla natura

disciplinare dei contributi pubblicati ma soprattutto alla prospettiva, cognitiva o

socialmente situata, adottata dai ricercatori per studiare la conoscenza.

Da una prospettiva cognitivista la conoscenza è vista come reificata negli oggetti ed è

studiata rispetto a due dimensioni distinte e antitetiche. Una si distingue per la sua

natura tacita, scivolosa, difficile da afferrare, mentre l’altra per essere esplicita e di

conseguenza facilmente trasferibile attraverso codici alfanumerici. Da questa

prospettiva i laboratori di ricerca scientifica sono stati percepiti principalmente come

entità istituzionali legate principalmente al mondo della Scienza. Il legame con la

Scienza ha condizionato in maniera sostanziale le strategie di ricerca impiegate dai

ricercatori che hanno assunto questa prospettiva. Questo aspetto si evince dalla

constatazione che i laboratori di ricerca nell’ambito della letteratura cognitivista sono

stati esplorati soprattutto attraverso l’adattamento di parametri comportamentali e regole

non scritte propri della cultura della Scienza senza che ne siano stati sviluppati di

alternativi. Per esempio, i sistemi di incentivazione e ricompensa sono stati trattati

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considerando come variabili rilevante il prestigio degli scienziati in gran parte basato sul

meccanismo delle citazioni, definite da Merton (1973) come ‘le monete della Scienza’.

Oppure la produttività di un laboratorio scientifico è stata investigata, misurata e

valutata prevalentemente rispetto all’output centrale della Scienza, le pubblicazioni

scientifiche.

Nel corso degli ultimi venti anni i dati ricavabili dalle pubblicazioni scientifiche sono

stati al centro di numerosi studi empirici, si è sviluppato un ambito disciplinare dedicato

alle analisi bibliometriche e addirittura sono nate organizzazioni come ISI-Thompson

dedicate esclusivamente alla vendita di informazioni di natura bibliometrica.

La ragione di tanto interesse è motivata dalla ricchezza di informazioni ricavabili dalle

pubblicazioni. Tali informazioni sono ritenute di valore in base all’assunzione che una

pubblicazione scientifica possa essere ritenuta un potente e valido parametro oggettivo

perché a livello aggregato rende i ricercatori capaci di sintetizzare sia la dimensione

tacita che esplicita della conoscenza prodotta in un laboratorio in un determinato

periodo. Tuttavia anche se i dati estratti dalle pubblicazioni scientifiche si sono rivelati

adatti per molteplici fini, non si prestano invece per studiare l’organizzazione di un

laboratorio. Infatti attraverso i dati relazionali relativi alle co-authorship gli studiosi

sono riusciti a mettere in luce le strutture organizzative delle collaborazioni scientifiche

(Chompalov et al. 2001) ma non di un laboratorio. In termini generali, dalla prospettiva

cognitivista le organizzazioni dei laboratori di ricerca vengono descritte in maniera

statica e attraverso variabili costruite ad hoc nell’intento di identificare le determinanti

delle performance. Inoltre un aspetto comune a tutta questa letteratura riguarda la natura

della relazione tra laboratorio di ricerca scientifica e la Scienza. Il laboratorio è stato

visto dagli studiosi sociali che hanno adottato una prospettiva cognitivista

principalmente come un passaggio obbligatorio e diretto per entrare nel mondo della

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Scienza e per poterla investigare. Questa visione funzionale e strumentale ha contribuito

a posizionare i laboratori di ricerca all’interno degli studi sociali in secondo piano

rispetto alla Scienza. Ne è conseguito che nei pochi tentativi compiuti dagli studiosi di

organizzazioni di parlare di organizzazione dei laboratori si sono rivelati in realtà dei

contributi utili per approfondire l’organizzazione della Scienza.

Un quadro radicalmente diverso emerge invece dalla prospettiva dell’apprendimento

socialmente localizzato. Assumendo questo punto di vista sia la dimensione tacita che

quella esplicita della conoscenza appaiono incastrate in maniera indissolubile nella

pratica del lavoro quotidiano. (Brown e Duguid, 2001) I ricercatori che hanno adottato

questa prospettiva non hanno avvertito l’esigenza di dover trattare separatamente le due

dimensioni della conoscenza perché ponendo il focus delle loro indagini sulle pratiche

hanno avuto la possibilità di considerare sia la conoscenza tacita che esplicita

contemporaneamente.

Da questa prospettiva i laboratori di ricerca non vengono visti come ‘misteriose’ entità

istituzionali ma bensì vengono considerati come luoghi di lavoro. Guardare ai laboratori

come a dei luoghi di lavoro offre l’opportunità di esplorare i processi e i pattern di

lavoro in tempo reale, mentre accadono. È in questo senso che si possono comprendere

i titoli di libri come ‘Laboratory life’ (Latour e Woolgar, 1979) o ‘Science in action’

(Latour, 1987) che suonano come urla per promuovere una visione della Scienza

dinamica e umana. Anche i ricercatori che hanno adottato questa prospettiva hanno

riconosciuto il valore delle pubblicazioni scientifiche come output della Scienza.

Tuttavia negli studi empirici le pubblicazioni scientifiche sono state trattate

diversamente nei due approcci. Da questa prospettiva le pubblicazioni diventano

processi di azione e coincidono con i pattern di lavoro piuttosto che rappresentare prove

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statiche sulla produzione di conoscenza avvenuta. Questo vuol dire che anche i dati che

i ricercatori raccolgono negli studi empirici per esplorare lo stesso fenomeno (la

produzione di conoscenza) variano a seconda dell’approccio adottato. Per esempio,

Latour e Woolgar (1979), nel celebre, Laboratory Life, seguono per due anni l'attività di

un gruppo di ricerca presso il Salk Institute di La Jolla, California. Qui, raccolgono dati

analizzando taccuini di laboratorio, protocolli sperimentali, bozze di resoconti e stesure

provvisorie di papers scientifici, registrano le conversazioni che avvengono durante gli

esperimenti e nell'ambito dei meeting del gruppo di ricerca. Questo esempio rende

chiaro che mentre da una prospettiva cognitivista raccogliere dati sulle pubblicazioni

può costituire un punto di partenza, nel caso di quella socialmente situata collezionare

dati sulla storia di una pubblicazione rappresenta invece un punto di arrivo.

I principali interpreti di questo approccio nel caso dei laboratori di ricerca scientifica

sono stati gli esponenti del filone di studi denominato ‘Laboratory Studies’. Di seguito

vengono discussi i punti chiave del contributo di questo filone di studi.

2.1.1. La lezione impartita dai ‘Laboratory Studies’, critiche e nuove prospettive di

indagine nei laboratori di ricerca

Il filone dei Laboratory Studies ha in primo luogo dimostrato come non vi siano

differenze epistemologicamente rilevanti tra la ricerca della conoscenza che avviene in

un laboratorio e quella che avviene, ad esempio, nell'aula di un tribunale. Anche nel

processo di ricerca scientifica, tutto appare almeno in linea di principio negoziabile:

“che cos'è una cellula e che cos'è un artefatto, chi è un buono scienziato e che cos'è un

metodo appropriato, se una misurazione sia sufficiente o se occorrano diverse

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ripetizioni” (Knorr-Cetina, in Jasanoff et al., 1995, p. 152). Ad essere coinvolti in

queste negoziazioni non sono solo gli scienziati, ma le agenzie che li finanziano, i

fornitori di strumenti e materiali e i policy makers. A tal proposito Knorr-Cetina (1982)

introduce la nozione di ‘arena transepistemica della ricerca’ per enfatizzare la pluralità

di attori diversi che intervengono nella costruzione di un problema scientifico. L’autrice

spiega che già la decisione su quale tema di ricerca approfondire non è esclusivamente

individuale e indipendente. Gli scienziati, infatti, nell’identificare un problema

scientifico non possono fare a meno di formulare contemporaneamente strategie per

poter accedere alle risorse necessarie per studiare un dato fenomeno. Da questo punto di

vista, la prospettiva degli studi di laboratorio è sotto molti aspetti completata e

sviluppata dalla cosiddetta actor-network theory, una proposta teorica e metodologica

elaborata da un gruppo di studiosi facenti capo ai francesi Bruno Latour e Michel

Callon. La proposta è quella di considerare il fatto scientifico non come un punto di

partenza a cui associare fattori sociali, ma come il risultato di una complessa rete di

alleanze. Un fatto scientifico non può solidificarsi in quanto tale senza il sostegno e la

cooperazione di tutta una serie di ‘alleati’, non solo all'interno ma anche fuori del

laboratorio.

Un enunciato o un risultato scientifico può procedere verso lo status di fatto o verso

quello opposto di artefatto solo se una complessa rete di attori – “a cominciare dai

colleghi che citano il risultato oppure che lo criticano se lo passano di mano in mano

come una palla in una partita di rugby” (Latour, 1987, trad. it. 1998, p. 158). Per

rappresentare questa rete di sostegno Latour mette in discussione la stessa distinzione

tra attori umani e non umani. Un collega ricercatore, un rimando bibliografico in un

paper, un'apparecchiatura in grado di ottenere un'immagine al microscopio, un'azienda

disposta ad investire in una ricerca, un virus che si comporta in un certo modo, un

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gruppo di potenziali utenti per un'innovazione tecnologica, sono tutti alleati che

concorrono a quel processo che trasforma una serie di risultati sperimentali e asserzioni

o un prodotto tecnologico in una scatola nera: un fatto scientifico o un prodotto

tecnologico.

Un ulteriore elemento significativo nella costruzione del fatto scientifico è rappresentato

dalla dimensione retorica: strategie discorsive, tecniche di rappresentazione degli

oggetti studiati, forme di presentazione dei dati. Il risultato finale di questo processo è

l'articolo pubblicato su una rivista scientifica, in cui la serie di progressivi aggiustamenti

del ricercatore viene rettificato, ripulito da ogni traccia di contingenza e infarcito di

iscrizioni in modo da poter essere considerato un risultato solido e incontrovertibile.

Così, Knorr Cetina distingue tra il ragionamento ‘informale’ che caratterizza il

laboratorio e il ragionamento “letterario” che informa la stesura del paper scientifico. Il

paper, lungi dall'essere un fedele “rapporto” della ricerca compiuta, è invece un sottile

esercizio retorico che “dimentica molto di ciò che è accaduto in laboratorio” e lo

ricostruisce selettivamente. Ad esempio, il ricercatore può trovarsi a studiare un certo

problema o ad adottare un certo metodo per ragioni relativamente casuali o dettate dalla

disponibilità di certe risorse. Nel paper, il processo verrà razionalizzato e ogni mossa

del ricercatore sarà fatta discendere organicamente da specifici obiettivi fissati in

partenza.

Il grande merito di questo filone di studi è stato quello di essere stato il primo a riuscire

a rompere una visione monolitica dei laboratori di ricerca mettendo in luce ciò che

succede al suo interno nella realtà di tutti i giorni.

Con oltre venti anni di anticipo rispetto al resto della letteratura di natura sociale che si è

interessata di innovazione tecnologica sotto varie sfaccettature, gli esponenti di questo

filone hanno dimostrato che non solo le aree di confine tra comunità epistemiche

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diverse sono eterogenee ma anche l’ambiente in sé, dove la conoscenza scientifica e

tecnologica sono prodotte e impiegate, non è uniforme e amorfo (Gaffard, 1991).

L’ambiente infatti è strutturato in base a relazioni di prossimità formatesi nel corso del

tempo come conseguenza di eventi e decisioni degli attori. Alla stessa conclusione sono

arrivati molto tempo dopo gli studiosi di geografia economica, gli economisti industriali

e gli istituzionalisti interessati a comprendere la genesi dei cluster tecnologici. Nel

rispondere a domande come: ‘dove e quando nasce un distretto, o un cluster o un campo

organizzativo hi-tech?’ tutti non hanno potuto fare a meno di evidenziare l’importanza

del contesto locale nel processo di produzione di conoscenza. Richard Florida a tal

proposito ha affermato (2005) che “The World is Spiky” per sottolineare che il

progresso scientifico e tecnologico non sono avvenuti in maniera casuale o uniforme in

tutto il mondo ma sono legati inevitabilmente a determinati fattori contestuali. Al tempo

stesso è interessante evidenziare che sebbene ci siano stati numerosi studi che abbiano

cercato di identificare le determinanti del successo della Silicon Valley nella Bay Area

di San Francisco e numerosi siano stati anche i tentativi di replicare in altre parti del

mondo questo modello, ad oggi il caso della Silicon Valley è ancora ritenuto, sia dai

policy makers che dagli studiosi, come unico nel suo genere. Da punti di vista differenti,

il messaggio che la produzione di conoscenza, sia scientifica che tecnologica, sia

influenzata da dinamiche e forze contestuali ha trovato conferme nella vasta letteratura

sull’innovazione. Ma se questo è condivisibile, allora per investigare i processi di

produzione di conoscenza non si può fare a meno di ritenere i laboratori di ricerca come

l’oggetto focale dello specifico contesto investigato. Per questa ragione i laboratori di

ricerca scientifica rappresentano un contesto ideale per studiare i processi di produzione

di conoscenza. Inoltre grazie al filone dei ‘laboratori studies’ non sono più percepiti

come entità collegate con il mondo della Scienza ed estranee rispetto a quello esterno

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ma bensì come uno tra i principali attori dello sviluppo sociale a livello locale.

Dimostrare inoltre che i processi di produzione di conoscenza all’interno di un

laboratorio di ricerca scientifica avvengono nello stesso modo che in altri contesti ha

consentito agli studi empirici futuri di poter estendere le conclusioni ottenute nei

laboratori ad altri contesti di lavoro ‘knowledge-intensive’.

CRITICHE. Tuttavia anche se il focus delle indagini è stato posto sui processi di lavoro,

la visione dinamica della ‘Scienza in azione’ proposta dai ‘Laboratory Studies’ viene

ridotta ad una dimensione individuale e per questo motivo non contribuisce a riempire il

vuoto lasciato scoperto dagli studiosi di organizzazione. La principale critica che può

essere mossa nei confronti di questo filone di studi riguarda proprio la considerazione

che la dimensione organizzativa dei luoghi di lavoro sia rimasta decisamente in ombra

nelle loro indagini. Come nella maggior parte dei contributi presenti in letteratura, anche

nel caso dei Laboratories Studies i laboratori di ricerca come organizzazioni sono finiti

in secondo piano rispetto al fatto scientifico e alla Scienza. In particolare un’altra

critica, collegata a quella esposta precedentemente, riguarda la considerazione che in

questo filone di studi i laboratori di ricerca rispetto alle relazioni interne restano ancora

profondamente omogenei. Questo è dipeso da una scelta metodologica guidata da

interessi di ricerca specifici. È vero che gli esponenti dei ‘Laboratory Studies’ si sono

distinti con le loro analisi etnografiche attraverso la raccolta di dati molto ricchi sui

processi in divenire. Tuttavia questi dati sono stati successivamente analizzati solo

assumendo una prospettiva degli scienziati a livello individuale. I pattern di lavoro sono

emersi chiaramente dalle analisi condotte ma sono stati collegati solo ad attori esterni al

laboratorio. Di conseguenza le strutture organizzative sono rimaste nascoste proprio

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perché i pattern di lavoro degli individui che lavorano in uno stesso gruppo non sono

stati collegati tra loro.

NUOVE DIREZIONI DI RICERCA. Dalla lezione impartita dagli esponenti dei

‘Laboratories Studies’ si possono raccogliere alcune indicazioni preziose per delineare

future prospettive e strategie d’indagine per far emergere i processi organizzativi attivati

nei laboratori di ricerca.

Primo, esiste in letteratura uno spazio poco esplorato ma di grande valore in termini di

opportunità conoscitive che riguarda lo studio delle organizzazioni che operano nei

laboratori di ricerca.

Infatti, se è stato dimostrato che le differenze tra diverse culture epistemiche non

influenzano in maniera sostanziale le dinamiche sociali attraverso cui la conoscenza

viene prodotta perché non sono le uniche ad avere un peso sull’output finale. Allora si

può affermare che le evidenze emerse a livello empirico nelle organizzazioni attive nei

laboratori di ricerca possono essere estese anche ad altri contesti lavorativi.

Di conseguenza il contesto lavorativo di un laboratorio di ricerca è di assoluto valore

per condurre studi organizzativi che hanno la possibilità sia di contribuire alla teoria

delle organizzazioni e sia ad accendere luci sul contesto di lavoro specifico dei

laboratori di ricerca.

Secondo, la produzione di conoscenza è un fenomeno localizzato che non riguarda solo

gli attori direttamente coinvolti ma tutti quelli che .

I laboratori di ricerca non vanno considerati come un luogo ‘sacro’ dove viene

fabbricato un bene pubblico intangibile, la conoscenza. Nei laboratori prima di tutto ci

sono delle organizzazioni che acquisiscono spessore, si sviluppano o spariscono in

relazione al contesto esterno più ampio perché la produzione di conoscenza può essere

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influenzata da tutti gli elementi presenti in un ambiente. Da questo punto si evince che

lo studio dei laboratori come organizzazioni non può prescindere dallo studio

dell’organizzazione del contesto geografico in cui il laboratorio è inserito. Per troppo

tempo i confini del contesto esterno dei laboratori sono stati definiti solo in relazione

allo specifico ambito disciplinare. La conseguenza diretta che ne è derivata è stata

quella che l’organizzazione dei laboratori di ricerca è stata confusa con l’organizzazione

della Scienza.

Questa considerazione è dimostrata anche dall’uso diffuso che è stato fatto dalle

pubblicazioni scientifiche come fonte di dati empirici. Si può essere sicuramente

d’accordo con l’assunzione che le pubblicazioni scientifiche sintetizzino sia la

conoscenza tacita che esplicita prodotta in un laboratorio come hanno sottolineato i

cognitivisti. Tuttavia alla luce di quanto hanno detto gli esponenti dei ‘Laboratory

Studies’ le pubblicazioni rispetto ai processi di lavoro rappresentano una sintesi che

appare troppo estrema e riduttiva. Le pubblicazioni come output finale in realtà non

riguardano solo aspetti scientifici (‘quello che è successo’ all’interno di un laboratorio)

ma bensì anche aspetti non-scientifici (il contesto esterno). Da questo punto di vista le

pubblicazioni scientifiche come fonte di dati perdono di ricchezza informativa.

Sulla base di queste considerazioni e alla luce delle critiche che sono state mosse nei

confronti degli studi precedenti si ritiene che per poter investigare le organizzazioni nei

laboratori di ricerca sia assolutamente necessario provare a mettere in pratica nuove

strategie di ricerca. In particolare la proposta che viene avanzata in questo trattato è

innanzitutto quella di spostare il focus delle analisi future dal mondo della Scienza verso

quello della Ricerca. Quello che accade quotidianamente all’interno di un laboratorio,

supportare, pianificare ed eseguire gli esperimenti non è ancora Scienza o perlomeno

non è solo Scienza. Per troppo tempo gli studiosi sociali sono stati indotti nel

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considerare i termini Scienza e Ricerca alla stregua di sinonimi. In realtà questi due

termini indicano culture tra di loro collegate ma profondamente diverse come si evince

dalle parole di Bruno Latour in un recente articolo pubblicato su Science.

“Science is certainty; research is uncertainty. Science is supposed to be cold, straight,

and detached; research is warm, involving and risky. Science puts an end to the

vagaries of human disputes; research create controversies. Science produces objectivity

by escaping as much as possible from the shackles of ideology, passions and emotions;

research feeds on all of those to render objects of inquiry familiar.” (Latour,

1998:208). La scelta di spostare il focus dalla Scienza alla Ricerca è condivisibile anche

da un altro punto di vista. La ricerca non è più un’attività individuale ma bensì è

collettiva e nel corso degli anni questo aspetto è emerso in maniera sempre più evidente.

Per avere un’idea di ciò basta pensare all’esperimento condotto al CERN di Ginevra lo

scorso 10 Settembre 2008 per ricreare le condizioni del ‘Big Bang’ dove sono stati

coinvolti oltre tremila fisici di tutto il mondo. La dimensione organizzativa della ricerca

nei laboratori è un ulteriore stimolo per gli studiosi di organizzazioni. Questo argomento

viene approfondito nelle pagine successive.

2.1.2 Il laboratorio e la dimensione organizzativa della ricerca

Il lavoro nella ricerca ha acquisito nel corso degli anni una notevole complessità

organizzativa generata da drivers diversi sia sociale che tecnici. A livello macro,

l’organizzazione della ricerca è legata inevitabilmente sia al ruolo che la produzione di

conoscenza scientifica riveste nella società e sia all’emergere di nuove tecnologie e

pattern di lavoro per produrla.

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Nella storia si possono identificare due momenti chiave che hanno determinato dei

cambiamenti radicali nella dimensione organizzativa della ricerca. Questi sono

l’ingresso degli Stati Uniti d’America nella seconda guerra mondiale e la fine della

Guerra Fredda. Il primo evento decretò l’inizio di una nuova era per la Scienza e la

ricerca. La Scienza non era più qualcosa di paragonabile alla magia, legata alla volontà

e alle scelte individuali di una stretta cerchia di individui ritenuti ‘geni’, ma diventava

una leva strategica per sostenere la sicurezza nazionale. Fu proprio in coincidenza di

questo drammatico evento che per la prima volta gli statisti di tutto il mondo si posero

il problema di come organizzare il lavoro degli scienziati7. Con la fine della guerra

fredda il ruolo della Scienza nella Società cambiò nuovamente perché non fu associato

solo alla sicurezza nazionale ma soprattutto alla competitività economica. La

conoscenza e le informazioni vennero riconosciute come leve dello sviluppo economico

(Drucker 1994; Gibbons et al. 1994; Stehr 1994) e in questo panorama il legame tra

Scienza e Industrie è diventato sempre più critico per disegnare i mercati in tutti quei

settori knowledge-intensive. Inoltre anche gli scienziati stessi iniziano ad essere

coinvolti direttamente nei processi economici e nel corso della loro carriera alcuni

diventano protagonisti anche di iniziative imprenditoriali.

Nel corso degli anni contemporaneamente anche i tipi di produzione di conoscenza sono

cambiati contribuendo ad accentuare la complessità di coordinare e gestire il lavoro nei

e tra i gruppi di ricerca. A tal proposito Gibbons et al. (1994) hanno distinto tra due

modi di produrre la conoscenza definiti Mode 1 e Mode 2. Nel primo caso il processo di

produzione di conoscenza è confinato all’interno di uno specifico frame work

disciplinare. Il progresso scientifico è per lo più lineare e i gruppi di ricerca tendono ad

7 << All other minds need to be guided away from the useless and toward the useful. That can be done only by the application of scientific method to science itself through the purely scientific process of organizing effort>>. Hon. Elihu Root before the Advisory Committee on Industrial Research of the National Research Council (Science, 29 Novembre 1919).

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essere omogenei in termini di competenze ed esperienze. Nel secondo caso il progresso

scientifico non è visto come lineare, i problemi di ricerca vengono individuati in aree

transdisciplinari e i gruppi di ricerca combinano competenze ed esperienze eterogenee e

per questa ragione è necessario un più alto livello di coordinamento e di interdipendenze

tra i ricercatori. Un esempio di produzione di conoscenza Mode 2 è rappresentato dal

campo della NanoScienza. Per avere un quadro completo sulla complessità

organizzativa è necessario considerare non solo come è stata riconfigurata la ricerca

dopo cambiamenti macro legati ad eventi storici o al progresso scientifico e tecnologico.

Altre fonti vanno ricercate al livello micro nella natura intrinseca di questo contesto

lavorativo. I laboratori di ricerca, al pari degli ospedali o delle redazioni giornalistiche,

possono essere considerati organizzazioni complesse perché sono governati da due

sistemi di controllo distinti (Hall, 1969). Da una parte i ricercatori sono membri di

un’organizzazione basata su un sistema di controllo amministrativo. Da un’altra

condividono la membership nella comunità occupazionale, basata su sistemi di

controllo collegiali (Van Maaneen e Barley, 1984). Nel caso specifico della Scienza,

Crane (1972) descrive le organizzazioni di ricerca come attraversate trasversalmente da

“invisible colleges” definiti come gruppi informali e non strutturati, composti

semplicemente da scienziati che si trovano, in un certo periodo, a tentare di risolvere un

particolare problema scientifico. Hagstrom (1965) invece ha descritto il lavoro nella

Scienza mettendo in evidenza le tensioni tra il bisogno di lavorare in gruppo e le norme

di indipendenza e individualismo definendo questa condizione come “the organized

disorganization of Science”. L’autore spiega inoltre che non si tratta di una patologia ma

piuttosto di una condizione durevole con cui si confrontano tutti i gruppi di ricerca

perché i ricercatori non possono fare a meno delle organizzazioni per svolgere il proprio

lavoro. Un aspetto comune alla letteratura manageriale che ha trattato tematiche inerenti

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la gestione dei laboratori di ricerca o la carriera di un ricercatore è stato quello di

considerare questi due sistemi di controllo in contrapposizione e in maniera separata.

Questo approccio ha portato gli studiosi ad applicare logiche basate sul principio

dell’efficienza tipica dei sistemi amministrativi ai processi di lavoro attivati nei

laboratori. Sebbene l’efficienza sia riconosciuta come importante, si ritiene che da sola

non possa rappresentare le dinamiche organizzative di un laboratorio che richiedono la

compresenza di logiche basate anche sul principio dell’appropriatezza.

2.2. LE PRATICHE E L’IDENTTA’ NEI LABORATORI DI RICERCA. COSA

CAMBIA NELLA ‘TRIPLE HELIX’?

L’organizzazione della ricerca è influenzata in maniera sostanziale anche dalla natura

istituzionale del contesto in cui è inserito. A seconda che si tratti di Università, centri

del Governo o unità R&D delle Industrie si possono riconoscere delle differenze sia nei

pattern di lavoro attivati e sia nella work identity dei ricercatori.

Nel contesto degli studi organizzativi solo poche evidenze empiriche hanno considerato

la relazione tra identità e pratiche nei laboratori di ricerca.

Goldberg e Kirschenbaum (1988) a tal proposito affermano che esiste un ‘imperativo

organizzativo nella Scienza’ dal momento che i ricercatori non possono fare a meno di

appartenere ad organizzazioni di ricerca per fare la Scienza. Inoltre gli autori si

concentrano nel comprendere i processi di attaccamento dei ricercatori ad una

particolare organizzazione e rilevano che questi cambiano in relazione al sito di lavoro

istituzionale. La fedeltà degli scienziati nelle Università è legata alla soddisfazione con

condizioni di lavoro generale e non è necessariamente connessa al lavoro di ricerca.

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Contrariamente nei centri di ricerca del governo o dell’Industria i ricercatori sviluppano

relazioni funzionali con l’organizzazione basata sul lavoro di ricerca.

Barley e Zabusky (1997) con uno studio etnografico in un’organizzazione di ricerca

industriale (ESA) mostrano che ci possono essere quattro distinti pattern di

identificazione che possono essere associati con la posizione strutturale che gli

scienziati hanno nell’organizzazione. In particolare gli autori mostrano come gli

scienziati che fanno da broker tra l’organizzazione e la comunità scientifica sviluppano

un’identità liminale. In altre parole non si identificano né con l’organizzazione e né con

la comunità scientifica.

Per rilevare le differenze tra i tre contesti istituzionali rispetto alla relazione tra work

identity e pratiche di lavoro e riuscire in tal modo a caratterizzare meglio il caso oggetto

di questo studio, si è deciso di integrare le evidenze empiriche presenti in letteratura con

degli estratti di interviste in profondità fatte con ricercatori di Istituzioni diverse, sia

italiane che estere, sulla natura del loro lavoro. Di seguito vengono discussi i punti

salienti.

Fare ricerca all’Università ha in sé il fascino di poter offrire un maggior contributo

teorico beneficiando più o meno della stessa libertà di idee e di autonomia di un Istituto

di ricerca. Le principali differenze però ruotano intorno alla pratica della formazione

che influenza l’organizzazione del lavoro. Seppure in entrambi i contesti sia considerata

come parte integrante della Scienza, necessaria per alimentarla e riprodurla, nella realtà

la formazione viene agita e organizzata in maniera differente influenzando le pratiche e

gli ambienti di lavoro.

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I must say it is not so different country by country. I would say it is different

institution by institution […] it’s simple. It depends if you can filter the people or

not. Here at the University we should enrol all the students in the first year so

there is no exams to enter so they can freely enter and of course there is an

elimination but this takes time and at the end we reach a certain level. It’s

completely different here. In our University there are groups which are local, this

is Brussels and the surrounding of Brussels. At M.I.T. people are coming from all

over the world or in Max Plank Institute because Max Plank Institute is not a

University, it’s a research Institute a bit like CNR, but people gather from a large

part of Europe to go there because it’s really an excellent place so it gives a

different environment actually. (field notes da intervista con un group leader

belga, Ottobre 2007 ULB Brussels )

Nelle Università la formazione è riconosciuta a livello istituzionale come lavoro,

retribuito e legato ad un percorso di carriera gerarchico che conferisce lo status

professionale di professore. Nella quotidianità viene attivata prevalentemente attraverso

cicli di lezioni frontali, interazioni con gli studenti durante e oltre l’orario di ricevimento

settimanale e con momenti periodici dedicati alla valutazione dell’apprendimento. Tutte

attività programmate con largo anticipo che entrano nelle agende dei ricercatori

riducendo il tempo per la ricerca. Negli Istituti pubblici invece il tempo dedicato alla

formazione può coincidere con quello per la ricerca però non è riconosciuto a livello

istituzionale. Non si possono rilasciare titoli e al tempo stesso non conferisce né

avanzamenti di carriera, né status. Nella pratica di tutti i giorni inoltre non segue un

programma strutturato come all’Università e per quanto riguarda il sistema di

valutazione l’unico documento scritto può essere considerato la reccomendation letter,

prodotta solo per l’occorrenza. Il sistema di valutazione basato su verifiche periodiche

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viene sostituito dalla consapevolezza del ‘saper fare’. La mancanza di punti di

riferimento oggettivi può diventare causa di tensioni a livello individuale. In questo

senso contribuisce a ridefinire il significato associato alla formazione nei due contesti

allineandolo con obiettivi diversi. Questo aspetto emerge chiaramente dai discorsi degli

studenti che fanno esperienza del passaggio tra le due realtà.

Guarda, mi sarei aspettato un po’di più però…. È un po’ così che si vive qui.

Vieni lanciato e devi sistemarti un po’. (field notes da intervista con laureando)

No.. no nel senso che speravo in un qualcosa di leggermente più.. di essere

leggermente più seguito, da quel punto di vista.. Nel senso che a me all’inizio

han detto “Bene, questo è il progetto: vai!”.. Eh, come? Tipo i nanotubi di

carbonio io non li avevo mai visti prima, non c’ho mai lavorato e qui nemmeno

nessuno, però sono in un progetto europeo e a me han detto “Bene, quelli sono i

tuoi materiali”.. “eh, Come?!!”. Però poi è servito perchè mi son dato una

scantonata, quindi dall’altro lato c’è il fatto che adesso sono un pochino più

conscio di quello che potrei.. posso fare… No nel senso, io quando sono arrivato

qua m’han detto: “Ecco il progetto, vai, fai”, e io non sapevo neanche dove

mettere le mani, come prendere il piglio.. adesso che ho un pochettino di

esperienza in più se uno mi mette in un campo completamente nuovo magari so

come muovermi fin dall’inizio. (field notes da intervista con dottorando del terzo

anno)

Negli Istituti Pubblici l’attività formativa è orientata principalmente a insegnare a

lavorare in un laboratorio. Questo vuol dire non solo acquisire conoscenze e/o

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competenze tecniche ma anche imparare a gestire le risorse ( fare buoni d’ordini,

manutenzione, etc.), a interagire con altri ricercatori nell’attività sperimentale e a

comunicare all’esterno i risultati scientifici. Tutti aspetti strettamente legati tra di loro e

con una forte dimensione relazionale (fornitori, tecnici, ricercatori più esperti nel

gruppo e all’esterno, supervisor). Qui la formazione non ha orari predeterminati ma può

essere attivata in qualsiasi momento perchè costruita socialmente in laboratorio

attraverso il coinvolgimento nelle attività del gruppo (esperimenti, progetti, seminari,

congressi, etc). Così può capitare di vedere non solo un senior che insegna come usare

la strumentazione scientifica ad un junior nei tempi morti di un esperimento ma anche

un junior che svela ad un Post Doc appena arrivato i trucchi per prendere confidenza

con un microscopio su cui ha lavorato per ore e ore per la sua tesi di laurea.

Sulla base di queste considerazioni si può dire che mentre nelle Università la ricerca è

funzionale per ottenere posizioni e può in seguito diventare una pratica parallela rispetto

alla formazione, negli istituti pubblici invece la formazione è sempre funzionale alla

ricerca e contribuisce a rafforzare lo status di scienziato senza crearne altri.

Nei centri di ricerca privati invece non è la pratica della formazione a determinare dei

processi di categorizzazione. Non condiziona i tempi della ricerca come in un Istituto

pubblico e in più di tanto in tanto vengono organizzate iniziative formative per i

dipendenti come all’Università ma con l’unica differenza che sono gestite da

professionisti esterni. A livello macro le pratiche di lavoro possono sembrare simili

rispetto a quelle attivate in un Istituto pubblico. Anche qui i ricercatori fanno

esperimenti in laboratorio, pubblicano articoli, partecipano a congressi, interagiscono

con ricercatori dell’Università e Istituti nell’ambito dei progetti di ricerca, etc.. A livello

micro invece quello che cambia è la relazione tra le pratiche di lavoro e il significato

attribuito al “risultato scientifico”. Nei centri di ricerca privati di solito il prezzo da

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pagare per una condizione contrattuale migliore è proprio quello di entrare in conflitto

con quelli che Merton (1984) ha definito come i valori normativi della Scienza8.

Quest’aspetto emerge chiaramente considerando i significati associati agli output della

ricerca e alle relazioni con l’esterno.

E poi ho trovato che…, abbiamo trovato che quello che dovrebbe essere una cosa

molto onesta come la discrezione di tutti i problemi di una pubblicazione, di una

pubblicazione pubblica in realtà non sempre lo è. Ma questo dipende proprio dal

fatto che le persone lavorano sia nel pubblico che nel privato e sono vincolati dal

privato con quello che diciamo “obblighi”, specialmente in Giappone sono

maestri di questo qua. Loro non solo non dicono tutte le condizioni soprattutto dei

processi tecnologici, che già è abbastanza grave perché senza alcuni dettagli è

difficile ripetere il lavoro e verificare se è vero. Ma specialmente negli ultimi

tempi, negli ultimi dieci anni ho trovato che mettono volutamente errori dentro per

non far ripetere i processi tecnologici. perché a parte la tecnologia per esempio

che loro nascondono ci sono informazioni sul materiale finale che sono veri. […]

C’è anche un altro motivo perché loro fanno questo che può essere interessante

per Sony, Toshiba e Toyota, specialmente quelli che lavorano per Toyota sono

terribili, sai poi c’è pure un’altra cosa che se io sono l’unico che sa fare quel

materiale poi tutti quelli che sono interessati a fare le misure su quel materiale

chiedono a me di prepararlo e poi io faccio automaticamente parte di tutto il

8 Secondo Merton il funzionamento della scienza è garantito da quattro «imperativi istituzionali»: a) Universalismo: asserzioni o risultati scientifici vengono giudicati indipendentemente da caratteristiche inerenti al soggetto che li ha formulati quali la classe, la razza, la religione. b) Comunitarismo: i risultati e le scoperte non sono proprietà del singolo ricercatore ma patrimonio della comunità scientifica e della società nel suo complesso. Lo scienziato non ottiene riconoscimento per la propria attività se non rendendola pubblica e mettendola quindi a disposizione degli altri. c) Disinteresse: ogni ricercatore persegue l’obbiettivo primario del progresso della conoscenza, ottenendo indirettamente il riconoscimento individuale. d) Scetticismo organizzato: ogni ricercatore deve essere pronto a valutare in modo critico qualunque risultato, inclusi i propri, sospendendo il giudizio definitivo fino all'ottenimento delle necessarie prove. Nell'enunciare questi principi, Merton sottolinea a più riprese come essi vadano considerati validi dal punto di vista istituzionale e non dal punto di vista delle motivazioni individuali di ciascuno scienziato.

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lavoro e la mia attività di pubblicare pubblicazioni aumenta. (field notes da

intervista con ricercatore senior CNR)

[…] in the context of research collaborations like in an European Integrated

Project, researcher from companies sometimes are a little bit more reserved.

Sometimes they are not open, don’t tell as much as they know about a topic they

perceive of industrial relevance. (field notes da intervista con group leader

spagnolo del CSIC – Barcellona Aprile 2007)

Le pratiche del lavoro di ricercatore nei due contesti attivano comportamenti differenti

perché nel caso del privato la ricerca è legata ad una logica di profitto, finalizzata e

giustificata da un’innovazione o miglioramento di un prodotto. In questo senso i risultati

scientifici ottenuti nel privato pongono maggiori problemi in termini di proprietà

intellettuale e molto spesso il successo o il fallimento è stabilito più dal mercato che

dalla comunità scientifica. In un laboratorio pubblico è molto difficile sentir parlare di

risultati negativi perché il processo di scoperta non è costretto da vincoli stringenti.9 Un

esperimento non riuscito può far scattare la curiosità e lasciar spazio alla serendipity

fornendo uno spunto per altri esperimenti e altri risultati non previsti.

Si… quello succede sempre quando uno… spesso diciamo studenti e ricercatori un

pochino più inesperti fanno delle bellissime cose e non se ne accorgono di farle. Cioè il

vedere un risultato spesso sfugge ed è normalissimo. Uno cerca di fare una cosa va a

cercare un determinato risultato non lo ottiene e l’esperimento è andato male. Più o meno

funziona così. Poi in realtà se sei bravo e se sei fortunato puoi vedere dietro un

esperimento andato male c’è un altro che andato bene in realtà. Perché magari i motivi

9 e.g.: materiali da usare, parametri fissi da rispettare, etc. tutti necessari nel privato perché consentono di ottenere le certificazioni di qualità)

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per cui è andato male sono più importanti di quelli per cui l’esperimento sarebbe andato

bene. Io ti dico tutti i paper più importanti che ho fatto sono nati da cose del genere

tranne uno. Io mi ricordo solo di uno o due paper importanti che avevo pensato ad un

esperimento ed è andato come mi sarei aspettato. Per tutto il resto, io avevo pensato ad

un esperimento, è andato più o meno a come pareva a lui e il risultato è stato più

interessanti di quello che avevo programmato.

Le differenze nei significati e il modo in cui vengono agite le pratiche di lavoro possono

aiutare a spiegare le differenze nella work identity dei ricercatori nei tre contesti diversi.

Nel caso dei centri di ricerca privati come nelle Università i ricercatori possono

acquisire con l’avanzamento di carriera uno status aggiuntivo. In questo caso quello di

manager o project manager. Inoltre come hanno dimostrato con uno studio etnografico

Zabusky e Barley (1997), un’altra possibilità per gli scienziati industriali è quella di

entrare in uno stato di identità liminale, ovvero non si identificano né con

l’organizzazione e né con la comunità scientifica. In entrambi i casi la work identity di

scienziato viene indebolita se non annullata.

2.3. – Le NanoScienze e Tecnologie: una nuova sfida organizzativa non solo per la

Scienza

Le NanoScienze e le Nanotecnologie10 (NanoST) rappresentano un settore emergente e

nel corso degli anni si sta ritagliando uno spazio importante nella società in generale. I

policy maker dei Paesi più industrializzati hanno riversato grande attenzione e

10 L’idea da cui trae origine la nanotecnologia, intesa come vera e propria corrente di pensiero tecnologico, venne espressa per la prima volta nel 1959, dal premio Nobel per la fisica Richard Feynman. In un memorabile discorso tenuto al California Institute of Technology avanzò l’ipotesi che, in un futuro non remoto, si potessero costruire dispositivi e materiali con precisione atomica, basandosi sul fatto che “non si conoscono principi della fisica che impediscano di manipolare le cose un atomo alla volta.”

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aspettative nelle NanoST. Basti pensare che dal V Programma Quadro le NanoST sono

state riconosciute come un’area di finanziamento a se stante. Nel 2006 l’ufficio brevetti

europeo (EPO) ha creato delle etichette specifiche per classificare i brevetti come

Nanotech (Scheu, 2006). Lo stesso fermento, come documentano Bonaccorsi e Thoma

(2007) con un’analisi sulle pubblicazioni ‘nano’, è stato registrato anche nella comunità

scientifica. Sono nate riviste dedicate come Nano Letters o Nature Nanotechnology e si

sono moltiplicate in tutto il mondo le conferenze dove le NanoST fossero il topic

principale. Tra tutti si sono sviluppati anche i movimenti dei più scettici preoccupati per

gli effetti che la capacità di manipolare la materia al livello dei singoli atomi o molecole

può comportare per la società.

Tra le varie definizioni di NanoTecnologie che si possono trovare in letteratura o sui siti

web istituzionali, quella più efficace nella sua semplicità l’ho sentita dire da uno

scienziato, durante un discorso sugli effetti delle Nanotecnologie sull’ambiente. “Le

Nanotecnologie mettono in pista tutte le conoscenze!11”. Questa affermazione non vuol

dire che per lavorare nelle Nanotecnologie sono necessarie ‘tutte le conoscenze’

disciplinari ma piuttosto che ognuna di loro non può fare a meno di non coinvolgere le

altre. Nella breve storia della NanoScienza si è potuto assistere ad una prima fase di

transizione. “Dopo aver dimostrato come si manipolano e si studiano le proprietà delle

singole nanoparticelle o delle singole molecole, ci si dirige risolutamente verso una

nuova fase in cui l’accento è sulla funzionalità dei materiali nanostrutturati e sulla loro

integrabilità su varie scale spaziali in sistemi funzionali più grandi ed eventualmente

interrogabili. Questo passaggio conduce, in maniera ancora più decisa, verso la

creazione di una nuova interdisciplina o metadisciplina in cui si integrano le varie

11 Dr. A. Gatti, Università di Modena e Reggio Emilia – field notes raccolta durante un Workshop, CNR Bologna Gennaio 2008.

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discipline tradizionali”12. La Nanoscienza infatti non è un settore scientifico a parte,

distinto dagli altri ma bensì un nuovo approccio alle discipline tradizionali. La

mancanza di una scuola, intesa sia come un corpo sociale che riproduca se stesso e sia

come un contesto sociale di trasmissione e di educazione, non permette di poter

considerare quest’area di ricerca alla stregua di una singola disciplina13. Gran parte di

ciò che oggi viene definito Nanoscienza o Nanotecnologia, prima era considerato

semplicemente chimica supramolecolare, fisica quantistica, biologia molecolare, scienza

dei computer o scienza dei materiali. Apparentemente l’aspetto che accomuna tutte le

discipline attive in quest’area di ricerca è la condivisione della scala di misura

dell’oggetto di ricerca che è compresa tra 100 e 1 nanometro14. Tuttavia l’idea che la

dimensione comune degli oggetti di ricerca possa essere da sola un terreno

sufficientemente fertile per l’integrazione di diverse discipline è fuorviante. La

lunghezza della scala dell’oggetto non è mai stato il principale criterio seguito per

definire un campo di ricerca. Se i chimici, i fisici e i biologi si trovassero a parlare di un

certo tipo di molecola, essi potrebbero avere qualche idea comune sull’oggetto di

ricerca perché hanno condiviso una comune educazione di base. Come professionisti,

però, ognuno ha una differente comprensione rispetto a cosa sia una molecola e a quali

siano le sue caratteristiche essenziali. I chimici potrebbero analizzare la molecola in

termini di gruppi funzionali o luoghi di reattività, i biologi potrebbero cercare

un’informazione biologica o una funzionalità biologica, mentre i fisici potrebbero essere

interessati alla struttura spaziale o alle proprietà elettromagnetiche. Ogni disciplina

conserva la propria prospettiva cognitiva sugli strumenti e sui problemi da risolvere

(Knorr Cetina, 1999) e trova nella NanoScienza nuovi spazi e opportunità di ricerca per

12 Carlo Taliani, “Le nanotecnologie e i rapporti Usa-Ue”, La Chimica e l’Industria, Maggio 2002, pg. 22-23 13 Il termine disciplina (dal lat. Disco = Imparare) si riferisce ad un corpo di conoscenza insegnato in una scuola. 14 1 nanometro corrisponde a 1 miliardesimo di metro.

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sperimentare collaborazioni di natura trans-disciplinare e condividere problemi

scientifici. In questo senso le pratiche di lavoro rappresentano un buon punto di

osservazione per studiare le collaborazioni tra ricercatori con differente background

disciplinare. E’ la condivisione di pratiche infatti a consentire l’acquisizione e la

trasmissione di conoscenza tacita da singoli attori o da gruppi ad altri attori o ad altri

gruppi di attori (Brown e Duguid 2001).

E così potrà accadere per esempio che un fisico chieda ad un ingegnere meccanico di

realizzargli un portacampione e si senta rispondere che è impossibile realizzarlo perché

il progetto disegnato dal fisico sfida le leggi della meccanica. E così l’ingegnere

chiederà al fisico perché ha bisogno di un portacampione fatto proprio in quel modo e

molto probabilmente riuscirà a trovare una soluzione che rispetti le leggi della

meccanica e le necessità del suo collega fisico. Nella pratica quotidiana le differenze

vengono smussate e l’interazione tra mondi diversi è caratterizzata non solo dalle

incomprensioni e dagli scontri ma anche dal confronto e dall’apprendimento.

Da un punto di vista organizzativo gli aspetti che caratterizzano la NanoST portano a

vedere i laboratori come luoghi di negoziazione di significati, valori e conoscenze

differenti. All’interno dei gruppi di ricerca o attraverso le collaborazioni esterne del

gruppo, interagire e condividere problemi scientifici con ricercatori di background

differenti entra a far parte della normalità del lavoro di ricerca. Alla luce di questi

aspetti il lavoro nella Scienza si arricchisce da un punto di vista organizzativo di nuovi

attributi e complessità. Le NanoST non sono l’unico campo di ricerca multidisciplinare

ma può essere considerato come tipico perché in un sia in termini di problemi scientifici

che di applicazioni non conosce barriere disciplinari.

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2.4. RIFLESSIONI CONCLUSIVE

Sulla base di quanto detto i laboratori di ricerca pubblici attivi nelle NanoScienze e

Tecnologie appaiono un contesto ideale per studiare i processi di identity work ai

confini tra individui con work identity diverse per diverse ragioni.

Primo, nei laboratori lavorano i gruppi di ricerca che possono essere visti come delle

forme elementari di organizzazioni finalizzate alla produzione di conoscenza.

All’interno dei gruppi, i membri lavorano face-to-face, condividono gli spazi, i

materiali, le tecniche, gli strumenti, i problemi scientifici, le ipotesi e in un certo senso il

loro destino e la reputazione professionale. È importante sottolineare che a seguito delle

riforme che nel corso degli ultimi anni hanno modificato la struttura organizzativa del

CNR, i gruppi sono diventati sempre più indipendenti e il loro destino e sopravvivenza è

in gran parte legato alla loro capacità di trovare finanziamenti tramite progetti di ricerca.

Secondo, sia i processi di produzione di conoscenza che la presenza di un doppio

sistema di controllo rendono il laboratorio di ricerca come un contesto caratterizzato da

frequenti tensioni e negoziazioni tra gli individui. Questo aspetto è ideale per studiare

l’identità da una prospettiva soggettivista.

Terzo, trattandosi di un laboratorio attivo nella NanoScienza e Tecnologia, il contesto

empirico consente di considerare gruppi eterogenei per definizione e di esplorare le

interazioni tra di loro.

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CAPITOLO 3 15

IL CONTESTO DELLA RICERCA:

LE NANOSCIENZE E TECNOLOGIE IN EMILIA ROMAGNA

‘Gli strumenti in questo laboratorio,

fisicamente in questo laboratorio sono solo

un sottoinsieme di quelli a cui possiamo

accedere perché poi ci sono persone fuori da

questo laboratorio che possono collaborare

con noi e che in cambio vorranno il proprio

nome sull’eventuale pubblicazione’

field notes da intervista con un PostDoc.

INTRODUZIONE. Perché tra tutti i potenziali laboratori scientifici coinvolti nelle

NanoScienza e Tecnologie in Italia sono stati scelti proprio quelli dell’Istituto per lo

Studio dei Materiali Nanostrutturati del C.N.R. di Bologna?

Dopo aver chiarito nel capitolo precedente le ragioni alla base della scelta del setting

dei laboratori di ricerca attivi nelle NanoScienza e Tecnologie a livello generale, nelle

pagine successive si entra nel merito del contesto empirico specifico investigato.

La decisione di condurre questa ricerca nei laboratori dell’Istituto per lo Studio dei

Materiali Nanostrutturati del C.N.R. di Bologna non è stata in nessun modo una scelta

casuale né tanto meno dettata unicamente da un’opportunità. Si potrebbe pensare che

la denominazione dell’Istituto garantisca che all’interno si sviluppino esperimenti e

progetti di ricerca focalizzati nelle NanoScienze e Tecnologie. Tuttavia questa

15 Le analisi presentate in questo capitolo fanno parte del lavoro sviluppato nell’ambito del progetto di ricerca “Il distretto c’è ma non si vede. Il caso del distretto Bologna Nanotech”, coordinato dal Professor Gianni Lorenzoni e supportato dalla Fondazione della Cassa di Risparmio di Bologna.

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motivazione nell’ambito di una ricerca qualitativa non è ritenuta una condizione

sufficiente. Al contrario questa scelta può essere compresa e condivisa solo in relazione

al contesto geografico regionale in cui i laboratori sono inseriti e al ruolo che rivestono

nel processo di evoluzione delle NanoScienze e Tecnologie a livello locale. Come è

anticipato nella nota introduttiva dalle parole di un ricercatore intervistato, il

laboratorio inteso come luogo di lavoro non è da considerarsi unicamente come la

struttura fisica che ospita la strumentazione e gli uffici dei ricercatori quotidianamente.

In realtà i confini del luogo di lavoro dei ricercatori sono determinati dalla rete di

laboratori collegati tra loro dalle pratiche di lavoro sviluppate dai gruppi di ricerca. In

altre parole la produzione di conoscenza scientifica è influenzata non solo dalla

tecnologia di proprietà dei gruppi di ricerca ma bensì da tutta quella a cui i ricercatori

hanno libero accesso attraverso le collaborazioni scientifiche. Questa considerazione è

supportata da una vasta letteratura (Latour e Callon, 1992; Jaffe et al. 1993; Feldman

1994;Audretsch 1998; Acs 2002) che ha messo bene in evidenza come la prossimità

geografica piuttosto che i collegamenti distanti tra Università, Centri di ricerca del

Governo, Industrie, Venture Capital e altri soggetti istituzionali influenza positivamente

le performance dei singoli soggetti e di conseguenza lo sviluppo economico e il

processo innovativo di una specifica area geografica in un determinato ambito

tecnologico.

Per questa ragione i casi di successo possono essere considerati come tali e vanno

ricercati all’interno di un contesto più ampio che Powell e Di Maggio(1983) hanno

definito come campo organizzativo.

Attraverso un’analisi comparativa a livello nazionale sulle performance con contenuto

Nanotech registrate nelle principali aree metropolitane, nelle pagine seguenti viene

spiegato e dimostrato perché il caso oggetto di studio è stato ritenuto un contesto ideale

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in linea con le esigenze caratteristiche della ricerca qualitativa. In particolare nella

prima parte del capitolo vengono descritti i singoli indicatori di performance e la

metodologia utilizzata per costruirli mentre nella seconda parte vengono presentati i

risultati ottenuti. L’analisi è stata condotta rispetto a due direzioni tra di loro

complementari. Per determinare la magnitudine di ogni area metropolitana si è tenuto

conto infatti sia dei processi di agglomerazione attraverso la misura delle

concentrazioni di performance e sia dell’intensità delle relazioni tra soggetti

istituzionali diversi. Infine il capitolo si conclude con una discussione dove viene messo

in evidenza a livello generale come le forze che agiscono a livello macro influenzano il

micro e in maniera più specifica viene chiarito perché i risultati ottenuti sono

interessanti nell’ambito di un trattato sulla relazione tra identità e pratiche.

3.1. LA SCELTA DEI PARAMETRI E LA METODOLOGIA IMPIEG ATA

L’analisi comparativa è stata condotta sulla base di una triangolazione tra molteplici

punti di vista (scientifico, tecnologico e economico) ottenuti attraverso fonti dati

multiple e tra loro complementari. In questo modo si è ritenuto di poter offrire una

rappresentazione soddisfacente del fenomeno oggetto di studio. Nello specifico gli

indicatori sono stati costruiti sulla base delle pubblicazioni scientifiche, delle

applicazioni dei brevetti, delle partecipazioni nei progetti europei nel VI Programma

Quadro e della presenza di nuove imprese.

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A prescindere dai singoli parametri considerati, una decisione critica inerente la raccolta

dei dati, comune a qualsiasi studio sociale che si confronta con l’ambito del Nanotech,

riguarda la strategia da adottare per identificare gli indicatori di natura tecnico-

scientifica ed economica con un contenuto nanotech. Sebbene in letteratura e nei

documenti istituzionali ci sia un’idea largamente condivisa su cosa siano le

NanoScienze e Tecnologie basata su definizioni che enfatizzano l’unità di misura (il

nanometro) e la capacità di manipolare e controllare la materia a livello molecolare, non

è poi così immediato applicare queste definizioni tecniche per riconoscere un output

scientifico o tecnologico o identificare iniziative imprenditoriali in questo campo

tecnologico. Per superare questa difficoltà e non essendo un esperto da un punto di

vista tecnico e scientifico ho deciso di considerare le nanotecnologie alla stregua di

un’etichetta. In altre parole mi sono affidato ai criteri e agli standard che gli addetti ai

lavori, gli specialisti e gli attori protagonisti delle performance utilizzano per attribuire

ad uno specifico output la denominazione Nanotech. Una vasta letteratura (Glynn and

Abzug 2002; Galison 1997; Grodal 2008; Granquivist 2008) ha ben spiegato come le

etichette rendano gli attori capaci di poter parlare di un determinato campo

organizzativo, di poter organizzarsi al suo interno e infine di poter attrarre risorse

dall’esterno. In termini pratici non si è fatto riferimento ad un’unica definizione di

NanoScienze e Tecnologie ma bensì per identificare ognuno dei quattro output presi in

considerazione si è fatto riferimento ai criteri e agli standard specifici e largamente

accettati e utilizzati dagli esperti e dagli addetti ai lavori di ogni ambito considerato

(scientifico, tecnico ed economico).

Di seguito vengono presentati e illustrati nel dettaglio i singoli indicatori e le procedure

specifiche adottate per la raccolta dei dati.

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PUBBLICAZIONI - Le pubblicazioni scientifiche edite su riviste internazionali sono

largamente riconosciute come l’output centrale di chi lavora nella Scienza. Influenzano

la carriera degli scienziati, ne determinano il prestigio e contribuiscono a posizionarli

all’interno della comunità scientifica. Nell’ambito degli studi sociali empirici in

generale una grande attenzione è stata riservata a questo indicatore di performance dagli

studi econometrici sull’innovazione fino a quelli riguardanti la sociologia della scienza.

Le ragioni principali vanno ricercate nelle evidenze che le pubblicazioni sono una

traccia tangibile dei processi di produzione di nuova conoscenza scientifica, possono

essere utilizzate in relazione a differenti livelli di analisi (i.e.: individuale, gruppo,

distretto, nazione) ed inoltre sono una fonte dati facilmente reperibili e processabili

grazie alla presenza di numerosi database bibliometrici (ISI-Thompson, SCOPUS,

SCIENCEDIRECT, GOOGLE SCHOLAR, CSA Illumina, etc.) .

A livello aggregato le pubblicazioni scientifiche come fonte di dati sono state utilizzate

per fini molteplici. Per esempio per riconoscere e tracciare le traiettorie evolutive della

conoscenza scientifica in determinati ambiti (Bonaccorsi e Thoma, 2007) oppure per

mappare e studiare le strutture delle reti sociali basate sulle relazioni di co-authorship o

co-citazioni in modo da comprendere i meccanismi che determinano l’avanzamento

della ricerca scientifica. Inoltre, al pari dei brevetti, sono state ampiamente utilizzate

anche nel caso degli studi empirici sui cluster knowledge-intensive (biotechnology,

microelectronics, nanotechnology, etc.) in particolare per soddisfare una duplice

esigenza: identificare le agglomerazioni scientifiche a livello geografico e comparare i

clusters high tech sulla base del loro livello di eccellenza scientifica (Zucker e Darby,

2005; Youtie e Shapira 2008; Heinze 2008) da una parte e studiare e misurare le

collaborazioni tra Scienza e Industria dall’altra (Libaers, Meyer e Geuna, 2006).

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Nel caso di questa analisi è stato utilizzato il database Science Citation Index Expanded

di Web of Science per compilare la lista delle pubblicazioni. Questo database è tra i più

utilizzati in questo tipo di analisi e include dati bibliometrici su pubblicazioni di oltre

6650 riviste di circa 150 settori disciplinari delle scienze esatte e della medicina a

partire dal 1987. Non include i proceedings e le pubblicazioni di natura sociale e

artistica. L’estrazione dati è stata effettuata il 3 Agosto 2007 ed è stata aggiornata il 7

Gennaio 2008. Il periodo di riferimento considerato per l’analisi delle agglomerazioni

scientifiche è stato di dieci anni dal 1998 al 2008. Si è scelto questo periodo

sostanzialmente perché dopo aver condotto uno studio pilota sui trend di concentrazioni

di pubblicazioni con contenuto nanotech è emerso che dopo il 1998 è iniziato un trend

di crescita che nel corso degli anni si è rivelato esponenziale. Per quanto riguarda il

resto delle analisi condotte sulla produttività delle Università italiane e degli Istituti del

Consiglio Nazionale della Ricerca si è scelto come periodo d’indagine quello compreso

tra il 2003 e il 2008. La riduzione del periodo temporale d’indagine è stata dettata dalla

volontà di avere una maggiore rappresentatività dei campioni estratti rispetto alla

situazione attuale. Per quanto riguarda l’estrazione dei dati si è fatto riferimento alla

letteratura sulle analisi bibliometriche ed è stata adottata la procedura più diffusa e

ritenuta più affidabile. In particolare le pubblicazioni con un contenuto Nanotech sono

state identificate impiegando come parola chiave per ogni area geografica analizzata la

stringa sviluppata da Mogoutov e Kahane (2007) e di seguito riportata.

TS=((NANO* OR A*NANO* OR B*NANO* OR C*NANO* OR D*NANO* OR E*NANO* OR F*NANO* OR G*NANO* OR H*NANO* OR I*NANO* OR J*NANO* OR K*NANO* OR L*NANO* OR M*NANO* OR N*NANO* OR O*NANO* OR P*NANO* OR Q*NANO* ORR*NANO* OR S*NANO* OR T*NANO* OR U*NANO* OR V*NANO* OR W*NANO* OR X*NANO* OR Y*NANO* OR Z*NANO*) NOT (NANO2 OR NANO3 OR NANO4 OR NANO5 OR NANOSECOND* OR NANOLITER*)) AND CI = (name of the city)

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Tale stringa permette di rintracciare nel titolo, nelle parole chiavi e negli abstract degli

articoli tutte le parole che iniziano o terminano con ‘nano’ e al tempo stesso esclude

termini poco rilevanti o fuorvianti. In questo modo viene attivato un procedimento

automatizzato e il principale vantaggio va rintracciato nell’opportunità di poter tenere

conto dell’evoluzione della terminologia caratterizzante questo campo di ricerca. La

stringa originale di Mogoutov e Kahane (2007) è stata adattata alle esigenze specifiche

dello studio aggiungendo il nome della città corrispondente alle aree metropolitane

analizzate. La procedura è stata ripetuta per ogni area metropolitana considerata.

BREVETTI - In aggiunta alle pubblicazioni i brevetti rappresentano un altro indice di

produttività largamente accettato e impiegato per misurare l’output inventivo di

imprese, centri di ricerca e individui (Florida, 2005). I brevetti riflettono l’abilità di

trasferire risultati scientifici in applicazioni tecnologiche e sono ritenuti in letteratura

come un valido strumento per monitorare l’evoluzione e il potenziale economico delle

tecnologie (Griliches, 1990). In questo senso attraverso questo indicatore l’ analisi si

propone di misurare il grado di inventiva della forza lavoro attiva nei laboratori di

ricerca pubblici italiani nel campo delle nanotecnologie. Tuttavia prima di entrare nel

merito della procedura utilizzata nell’analisi è bene fare alcune precisazioni.

Innanzitutto sono pienamente consapevole che i brevetti non sono l’unico modo per

misurare l’innovazione tecnologica ed non tutti i brevetti registrati saranno

commercializzabili. Inoltre bisogna anche sottolineare che la brevettazione è prima di

tutto una decisione strategica. Questo vuol dire che non tutte le invenzioni finiranno per

essere brevettate dal momento che gli inventori possono scegliere tra differenti forme di

protezione (lead-time, segreto industriale, etc). Al tempo stesso però bisogna dire che

considerare i brevetti ha in sé numerosi vantaggi. Le applicazioni di brevetti infatti sono

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una fonte di informazioni molto ricca e strutturata, basata su standard oggettivi e che

cambiano molto lentamente nel tempo. Inoltre rappresentano una traccia tangibile di

un’invenzione, sono prontamente disponibili negli uffici brevetti di tutto il mondo e

soprattutto rispetto ad altre decisioni strategiche hanno il potenziale che possono essere

applicate. Le domande di brevetti di contenuto nanotecnologico sono state selezionati

basandosi sulla metodologia definita dall’European Patent Office (EPO). Nel 2006 un

team di esperti dell’ Ufficio Brevetti Europeo ha identificato e classificato con il tag

Y01N tutti i documenti presenti nel database dell’EPO che rispondessero a determinati

requisiti nanotecnologici16.

I dati sono stati estratti dal database dell’EPO il 20 Settembre 2007 utilizzando il

motore di ricerca esp@cenet e aggiornati il 20 Gennaio 2009. In una prima fase sono

state considerate le domande di brevetti applicate a tutti gli uffici brevetti del mondo.

Successivamente l’analisi è stata raffinata considerando solo le domande di brevetti

presentati nei seguenti tre uffici brevetti: EPO, USPTO, WIPO. Il periodo di

osservazione considerato va dal 2003 al 2008 ed è lo stesso di quello preso in

considerazione per l’analisi delle pubblicazioni. Di seguito viene illustrato il criterio

utilizzato. Si è operata una prima estrazione combinando il tag Y01N con le parole

chiavi Consiglio Nazionale Ricerche; Università; Politecnico; Istituto; Ente, imputate

nel campo “applicant”. Questa ricerca ha restituito come risultati informazioni su 20

brevetti. Successivamente si è ripetuta l’estrazione abbinando questa volta il tag Y01N

con i nomi dei diversi inventori dei brevetti precedentemente identificati. In questo

modo sono state recuperate informazioni su tutti quei brevetti dove gli stessi inventori

non hanno indicato nella domanda di registrazione il nome dell’Istituzione di afferenza.

16 Nella classe Y01N il termine “nanotechnology” è stato usato dall’EPO “… to cover all things with a controlled geometrical size of at least one functional component below 100 nanometers (nm) in one or more dimensions susceptible to make physical, chemical or biological effects available which cannot be achieved above that size without a loss of performance”. (Scheu, 2006)

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Infine per migliorare ulteriormente la rappresentatività del campione è stata condotta

una terza fase di estrazione dati. In questo caso la strategia adottata è stata quella di

considerare come inventori tutti gli scienziati che lavorano nei centri di ricerca

riconosciuti dal MIUR17come Centri di Eccellenza per le Nanotecnologie. I siti web

degli otto centri di ricerca sono state le fonti da cui si sono tratti i nominativi dei diversi

ricercatori. Dai risultati ottenuti nelle tre successive fasi di estrazione emerge un dato

interessante. Più della metà (30 su 50) delle domande di brevetti identificati sono stati

inventati da ricercatori pubblici ma non risultano assegnati a Istituzioni di ricerca. In

realtà risultati simili sono stati riscontrati anche in altri studi (Balconi et al. 2004).

Inoltre nell’interpretare questo dato va considerato che nella tradizione della ricerca

italiana i ricercatori dei laboratori pubblici brevettano molto meno dei loro colleghi

stranieri per ragioni puramente culturali a prescindere dal dominio tecnologico. La

maggior parte dei ricercatori se brevetta si limita alla scala nazionale. La mancanza di

politiche istituzionali, la mancanza di risorse, l’improvvisazione non ha ancora lasciato

spazio alle routine che si riscontrano nella maggioranza dei contesti e delle

agglomerazioni internazionali. Una pratica emersa nelle interviste sul campo segnala

come i ricercatori cercano soluzioni a questo stato di cose. Di fatto, lasciano brevettare

ai coautori di altri paesi o alle Industrie e si limitano a figurare come inventori.

PROGETTI DI RICERCA EUROPEI FINANZIATI NEL CORSO DEL VI

PROGRAMMA QUADRO (2002- 2006) – La lista dei progetti europei già finanziati

dal VI Programma Quadro per l’area NMP offre un ulteriore punto di osservazione per

indagare il fenomeno oggetto dell’analisi. La partecipazione ai progetti di ricerca

17 I centri considerati sono stati: NNL a Lecce, NEST a Pisa, NIS a Torino, NEMAS a Milano, CENMAT e TASC a Trieste, CEMIFCAL a Cosenza e infine il CEMIN a Perugia.

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europei oltre ad avere un evidente valore strategico, può essere considerata come un

output dell’attività di ricerca a livello dei gruppi di ricerca.

Perseguendo l’obiettivo di "integrating and strengthening the European Research

Area", il Programma Quadro promosso dalla Comunità Europea su base quadriennale

costituisce per tutti i gruppi di ricerca Europei uno stimolo per sviluppare specifiche

linee di ricerca e al tempo stesso una grande opportunità di finanziamento. Inoltre è

rilevante notare che i Programmi Quadro supportano la crescita dei gruppi di ricerca

indipendentemete dale politiche nazionali perchè offrono direttamente la capacità di

poter assumere nuovi ricercatori, di migliorare e aggiornare la strumentazione di

laboratorio, e di accedere a un network più ampio e a livello internazionale di laboratori

e facilities tecnologiche complementari. Inoltre essi creano le precondizioni per la

cooperazione tra gruppi di ricerca di Istituzioni e Paesi differenti e al tempo stesso

accendono la competizione tra consorzi di ricerca creati ad hoc per partecipare a

determinate call. Nel contesto italiano questa forma di finanziamento assume una

rilevanza critica per la gestione dei gruppi di ricerca specialmente nel caso dei centri di

ricerca pubblica. Infatti più che in altre nazioni europee comparabili, l’assenza di grandi

imprese multinazionali con una vocazione per R&D o di venture capital unita all’azione

del Governo orientata a provvedere finanziamenti solo in determinate aree geografiche

riconosciute a livello istituzionale come centri di eccellenza o distretti tecnologici riduce

le opportunità di finanziamento e determina una forte dipendenza dai progetti Europei.

Alla luce di queste considerazioni si può affermare che i progetti di ricerca Europei

finanziati rappresentano un interessante indicatore per misurare il grado di

competitività a livello internazionale dei gruppi di ricerca sia in termini di capacità di

sopravvivenza, di potenziale di crescita in termini di programmazione futura che di

attrattività.

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Nel caso di questa analisi i progetti di ricerca con un contenuto nanotech sono stati

identificati utilizzando come etichetta la denominazione dell’area tematica

‘Nanotecnologie, Nuovi Materiali e Processi’ (NMP) dedicata unicamente alle

Nanotecnologie all’interno del VI Programma Quadro della Comunità Europea. Il

periodo di osservazione (2002-2006) non coincide perfettamente con quello delle

pubblicazioni e delle domande di brevetti ma ha il vantaggio di considerare in maniera

completa un intero programma di finanziamento dall’inizio alla fine.

I dati a livello nazionale sui progetti nanotech finanziati dal VI Programma Quadro sono

stati forniti dal MIUR. Nello specifico il 22 Ottobre 2007 ho ricevuto dall’ufficio

competente del MIUR la lista degli acronimi di tutti i progetti europei finanziati

nell’ambito dell’VI Programma Quadro in cui fosse presente tra i partner dei vari

consorzi di ricerca costituiti almeno un’Istituzione italiana. Complessivamente sono

stati contati 245 progetti finanziati. Successivamente utilizzando gli acronimi sono state

recuperate informazioni sia sul sito web del cordis (www.cordis.eu) che sul sito di ogni

progetto. Le informazioni raccolte sono inerenti: a) la numerosità dei partner in ogni

progetto; b) l’entità del finanziamento ricevuto; c) il ruolo (coordinatore o partner) di

ogni soggetto coinvolto; c) la nazionalità di ogni partner; d) solo per i soggetti italiani è

stata identificata la sede di ogni Istituto coinvolto; e) la natura istituzionale di ogni

soggetto coinvolto (Università, CNR, ENEA, IRCCS, Industria).

Nella tabella successiva sono mostrati i dati relativi alla numerosità dei progetti rispetto

ai soggetti istituzionali coinvolti.

Tot. Progetti EU

area NMP con

almeno 1 partner

italiano

con almeno 1

partner dell’

Università

con almeno 1

partner del C.N.R.

Con almeno 1

partner privato

italiano

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Fonte: M.I.U.R.

PRESENZA DI NUOVE IMPRESE – Considerare la presenza di attività

imprenditoriali a livello metropolitano costituisce prima di tutto un elemento di

originalità per questa analisi. Studi recenti sui Nano distretti e cluster condotti sia in

Europa che negli Stati Uniti (Zucker and Darby, 2005; Kahane et al. 2006; Youtie and

Shapira, 2007, 2008) tendono a focalizzarsi solo su uno o due indicatoretipiocamente le

pubblicazioni e i brevetti. Alcune eccezioni sono rappresentate dai lavori di Heinze

(2006) e Youtie and Shapira (2008). Heinze (2006) ha incluso nella sua analisi

specifiche misure empiriche in aggiu nta ai brevetti e alle pubblicazioni come il volume

degli investimenti, la presenza di articoli sulla stampa economica e generalista, la

dimensione dei network inter -organizzativi e i premi conseguiti dagli scienziati. Youtie

and Shapira (2008) similarmente hanno identificato i nanodistretti nelle aree

metropolitane dell’America del Sud impiegando dieci indicatori relativi a quattro

categorie: generazione di conoscenza, capitale umano, finanziamenti R&D e attività di

brevettazione. Allo stesso modo questi lavori suggeriscono che un approccio

multidimensionale risulta essere più efficace per catturare gli sviluppi a livello regionale

rispetto ad una specifica tecnologia emergente. Tuttavia, similarmente alla letteratura

che ha impiegato solo pochi indicatori, questi lavori risentono della debolezza di fornire

una vision parziale del fenomeno dal momento che considerano solo indicatori che ben

rappresentano solo la Scienza e la Tecnologia mentre mettono in ombra gli aspetti

245

124

68

157

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economici. Questi ultimi risultano trascurati dal momento che gli studiosi hanno

valutato la rilevanza delle attività economiche considerando output che non sono

centrali con la natura dell’Industria. Pubblicazioni e brevetti sono utili indicatori per

misurare e valutare la relazione tra Industria e Scienza/tecnologia o per misurare la

manifestazione di interesse di una particolare Industria in uno specifico ambito

tecnologico. Tuttavia non caratterizzano l’identità di un’Industria da un punto di vista

economico né tantomeno aiutano a definire quale sia esattamente il ruolo di un’Industria

a livello locale. Questo aspetto invece viene recuperato considerando le attività

imprenditoriali. Nuove imprese con competenze core in specifici ambiti tecnologici

combinano invece nella loro gestione ordinaria aspetti legati sia allo sviluppo scientifico

e tecnologico con i vincoli imposti dal mercato (riduzione dei costi, rispetto degli

standard per ottenere le certificazioni di qualità, etc.). Per queste ragioni la presenza di

nuove imprese a livello locale può essere considerato come un parametro

complementare rispetto a quelli presentati precedentemente ma più rappresentativo per

valutare gli aspetti puramente economici.

Per costruire questo campione il criterio che è stato adottato è stato il seguente. Sono

state considerate come nuove imprese nanotech solo gli spin-off e le start-up che

impiegano direttamente l’etichetta nanotecnologie e i suoi derivati nella propria

denominazione (es. Scriba Nanotecnologie) o per promuovere i propri prodotti e/o

servizi nelle campagne pubblicitarie, nel proprio sito web o in quello dell’Istituzione di

ricerca a cui sono legate. In altre parole non esistendo in letteratura un criterio

largamente condiviso per identificare questo tipo di imprese ho ritenuto opportuno e in

linea con la logica utilizata per gli altri indicatori considerare come Nanotech solo

quelle imprese che in qualche dimostrano di identificarsi con questo ambito tecnologico

per costruire la loro identità e il loro successo. Per costruire la lista delle nuove imprese

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ho consultato molteplici fonti dati. In particolare in un primo momento ho fatto

riferimento ai lavori già esistenti come il censimento dell’Associazione Italiana per la

Ricerca Industriale 2006 e 2007 e l’analisi empirica condotta da Chiesa e De Massis nel

2006. In questo modo ho potuto avere un termine di paragone. È interessante

sottolineare che nel lavoro di Chiesa e De Massis condotto nel 2006 risultano solo due

spin-off ed entrambi localizzati a Bologna e legati a due gruppi diversi dell’ISMN CNR.

Le informazioni raccolte da queste fonti dati sono state completate con una ricerca

mirata sui siti web istituzionali del CNR e delle diverse Università italiane delle aree

metropolitane analizzate.

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3.2. – LE CONCENTRAZIONI DI PERFORMANCE LEGATE ALLE

NANOSCIENZA-TECNOLOGIE E INDUSTRIE NELLE PRINCIPALI AREE

METROPOLITANE ITALIANE

3.2.1 L’eccellenza scientifica misurata attraverso la concentrazione e

l’impatto delle pubblicazioni

L’analisi delle pubblicazioni ha messo in evidenza che complessivamente nel corso

degli ultimi dieci anni i ricercatori affiliati con un Istituto di ricerca italiano hanno

contribuito allo sviluppo della conoscenza scientifica nel campo delle Nanotecnologie

attraverso ben 9651 pubblicazioni scientifiche edite su riviste internazionali. All’interno

di questo campione le concentrazioni di eccellenza scientifica nelle aree metropolitane

italiane sono state misurate e successivamente mappate (Fig.3.1) sulla base di due

dimensioni teoriche: la densità di pubblicazioni prodotte a livello locale rispetto a quella

nazionale e il loro impatto sulla comunità scientifica internazionale. Mentre la densità a

livello locale è stata misurata facendo riferimento alla localizzazione degli Istituti di

Ricerca coinvolti, l’impatto e la qualità della produzione locale sono stati quantificati

attraverso H-index18. Questo indice prende il nome dal suo inventore, John Hirsh, che lo

propose nel 2005 come strumento per valutare la qualità relativa della produttività

scientifica dei Fisici Teorici. In pratica secondo questo indice uno scienziato o un

gruppo di scienziati (dipartimento, Università, Nazione) con un indice h ha/hanno

pubblicato h pubblicazioni ognuna delle quali è stata citata da altri almeno h volte. È

importante sottolineare che questo indice non solo si basa esclusivamente sull’insieme

delle pubblicazioni più citate scritte da uno scienziato o da un gruppo ma inoltre non

18 Il valore di questo indice è fornito direttamente per ogni campione di pubblicazioni selezionato da Web of Science

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considera le auto-citazioni. Quindi nel caso specifico adottando questo indice si ha una

misura dell’impatto sulla comunità scientifica esterna alle singole aree metropolitane

considerate.

Fig. 3.1 – Mappa delle agglomerazioni scientifiche italiane nel campo delle nanotecnologie (1998 – 2008)

% Italian Publishing Production0,140,120,100,080,060,040,020,00

H-

fact

or

60

50

40

30

20

10FAENZA

VERONA

PERUGIAVENICE

PARMATRENT

LECCE

FLORENCE

MODENA

CATANIA

GENOA

NAPLESPISA

TURIN

TRIESTE

PADUA

BOLOGNA

VENETO

MILAN

BO+MO

ROME

BO+MO+PR+FA

Fonte: ISI THOMPSON, mie elaborazioni

Nel secondo quadrante della mappa mostrata in Fig. 3.1 è possibile riconoscere le aree

metropolitane italiane caratterizzate a livello agglomerato da una concentrazione più

alta di eccellenza scientifica nel campo delle Nanotecnologie. Tra queste l’area

geografica compresa tra le città di Bologna, Modena, Parma e Faenza si distingue nel

contesto italiano sia per la maggiore densità di pubblicazioni scientifiche (1367 paper),

sia per il livello più alto di impatto (H factor 52).

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All’interno di questo cluster Bologna è la città principale (735 paper). In particolare è

importante notare che non c’è sempre una relazione positiva tra le due dimensioni

teoriche adottate come è testimoniato per esempio dai casi di Trieste, Bologna e Padova.

Sebbene tutte e tre le aree metropolitane sono caratterizzate da una produttività

scientifica molto simile in termini puramente quantitativi, l’impatto registrato nelle aree

di Trieste (48) e Bologna (45) risulta essere superiore di oltre dieci punti rispetto a

quello dell’area di Padova (30). Appare interessante anche il caso dell’area di Firenze.

Qui la concentrazione di pubblicazioni scientifiche corrisponde all’incirca alla metà di

quella delle aree precedentemente menzionate. Tuttavia, anche in questo caso, l’impatto

sulla comunità scientifica (38) risulta essere superiore a quello dell’area di Padova. Un

ulteriore aspetto che va considerato per comparare in maniera efficace i differenti casi

riguarda la numerosità degli Istituti di ricerca presenti a livello locale. Sotto questo

punto di vista gli estremi sono rappresentati da una parte dal caso di Faenza dove è

attivo nelle nanotecnologie un unico Istituto del CNR (ISTEC) e dall’altra dal caso di

Roma dove sono localizzati la maggior parte delle sedi centrali degli Istituti del CNR e

dell’ENEA, oltre a tre poli universitari e a quattro ospedali scientifici. Inoltre si è tenuto

conto della natura multidisciplinare che caratterizza le Nanotecnologie e per favorire

una migliore comprensione sulle evidenze raccolte a livello macro, è stata condotta

un’analisi delle concentrazioni di eccellenza scientifica rispetto a tre domini principali

che si possono distinguere in questo vasto campo di ricerca: NanoMateriali, NanoBio e

Medicina e NanoElettronica. In questo modo è stato possibile caratterizzare la

produttività scientifica nelle differenti aree metropolitane rispetto agli attributi di

eterogeneità e di specializzazione. Il criterio adottato per attribuire le singole

pubblicazioni scientifiche ai tre domini è stato quello di considerare le ‘subject

categories’ con cui sono classificate le riviste scientifiche nel database Web of Science.

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Nello specifico, seguendo le indicazioni suggerite da Porter et. al. (2007), gli articoli

pubblicati su riviste classificate con la categoria Fisica, Chimica e Scienza dei Materiali

costituiscono il dominio NanoMateriali. Quelle classificate con la categoria Computer

Science, Ingegneria e Elettronica formano il dominio NanoElettronica e infine quelle

che rispondono alle categoria Biologia e Medicina compongono il dominio del NanoBio

e Medicina. I risultati di questa analisi sono mostrati di seguito nella Fig. 3.2.

Fig. 3.2 – La concentrazione di attività scientifica nelle aree metropolitane italiane

rispetto ai sub-domini nanotech (2003 –2008)

0

200

400

600

800

1000

N. Nanobio Papers N. Nanomaterials Papers N. Nanoelectronics Papers

Fonte: ISI THOMPSON, mie elaborazioni

Nella maggior parte dei casi analizzati la produttività scientifica locale si distingue per

una maggiore specializzazione in un particolare dominio nanotech. Per esempio,

Catania, Lecce e Napoli risultano avere una percentuale relativamente alta di

pubblicazioni nella NanoElettronica. Probabilmente potrebbe essere una conseguenza

dell’influenza della presenza in sito della ST Microelectronics. Inoltre aree

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metropolitane come Padova, Torino e Trieste sono caratterizzate da una produttività

scientifica sopra la media nazionale solo nel campo dei NanoMateriali mentre Firenze,

Pisa e Genova appaiono più focalizzate in quello del NanoBio e Medicina. Sfuggono

invece da questa tendenza le aree di Bologna, Milano e Roma dove sono state registrate

concentrazioni superiori alla media nazionale in tutti e tre i domini considerati. È

interessante notare che le aree metropolitane caratterizzate a livello aggregato dalle

concentrazioni di eccellenza scientifica più elevate (Fig.3.1) sono le stesse che

presentano una produttività scientifica eterogenea rispetto ai tre domini considerati.

Questo risultato appare decisamente interessante perché mettono chiaramente in

evidenza che i processi di agglomerazione scientifica in ogni sub-dominio beneficiano

della vicinanza a livello territoriale degli altri sub-domini confermando l’ipotesi relativa

ai processi di convergenza tra differenti aree disciplinari che caratterizzano

profondamente le NanoScienze. Inoltre questa evidenza può essere compresa in luce

delle interdipendenze reciproche che si possono stabilire tra i differenti sub-domini. Per

esempio le NanoBiotecnologie riguardano sia l’uso di Nanotecnologie per studiare i

materiali biologici e sia l’uso di materiali biologici per fabbricare nuovi materiali o

componenti dei devices (es. switch molecolari basati sulle proteine o Nanoelettronica

basata sul DNA).

3.2.2 L’inventiva dei ricercatori e lo sviluppo tecnologico

I risultati ottenuti dall’analisi dei brevetti di contenuto Nanotech confermano la

leadership delle aree metropolitane di Bologna, Milano, Roma e Trieste anche per

quanto riguarda la ricerca applicata. Contrariamente all’analisi sulle pubblicazioni non è

stata documentata alcuna attività brevettuale nelle Nanotecnologie nelle aree di Padova,

Venezia, Verona, Modena, Parma, Perugia e Napoli. L’attività brevettuale è stata

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valutata sia in relazione alla numerosità dei brevetti e sia in relazione al loro valore19.

Quest’ultimo aspetto è stato misurato considerando gli uffici dove i brevetti sono stati

registrati e di conseguenza l’ampiezza dell’area geografica all’interno della quale gli

inventori dei brevetti beneficiano dell’esclusività sull’utilizzo della loro invenzione.

Seguendo questa logica ampiamente diffusa in letteratura (…) sono stati considerati

come brevetti ad alto impatto quelli registrati in tutti e tre i principali uffici brevetti

internazionali (EPO, USPTO, WIPO). In Fig. 3 sono mostrati i risultati ottenuti.

Fig. .3.3. – Domande di brevetti ad alto impatto

0

5

10

15

N. high impact Patents N. different Patents

Fonte: Esp@cenet, mie elaborazioni

Dalla fig.3.3 si evince chiaramente la proporzione di domande di brevetti ad alto

impatto rispetto al totale delle domande di brevetti diversi applicati. Le domande di

brevetti con un maggiore potenziale impatto economico sono state inventate in misura

prevalente dai ricercatori affiliati con Istituti di ricerca pubblici delle aree di Bologna (8

19 per un approfondimento sui diversi approcci utilizzati in letteratura per misurare il valore dei brevetti vedere Reitzig, 2003, Research Policy.

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su 12) e Trieste (6 su 7). Al contrario nelle aree metropolitane di Roma e Milano solo

una parte minima delle invenzioni sono state applicate in tutti e tre gli uffici brevetti

internazionali beneficiando di una protezione ridotta. Anche nel caso delle domande di

brevetti l’analisi è stata approfondita e ha tenuto in considerazione la varietà espressa

dai differenti domini tecnologici collegati alle singole applicazioni brevettuale. I

principali domini tecnologici sono stati identificati sulla base delle sei sub-categorie

(mostrate di seguito) in cui è suddivisa la categoria Y01N definita dagli esperti

dall’European Patent Office per classificare i brevetti nanotech.

Fonte: Sheu 2006

Fig. 3.4 – Distribuzione delle domande di brevetti Nanotech per sub-categoria (2003 –

2008)

0%

20%

40%

60%

80%

100%

Y01N2 Y01N4 Y01N6 Y01N8 Y01N10 Y01N12

Fonte: Esp@cenet, mie elaborazioni

Y01N2 Nanobiotecnologie

Y01N4 Nanotecnologie per la processazione, lo storage e la trasmissione delle

informazioni

Y01N6 Nanotechnologie per le scienze dei materiali e delle superfici

Y01N8 Nanotecnologie per interacting, sensing e actuating

Y01N10 Nanotecnologie per l’ottica

Y01N12 Nanomagnetismo

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A livello generale i risultati mostrano che i brevetti italiani tendono a concentrarsi nelle

sub-categorie Y01N6 (34%), Y01N4 (27%) e Y01N2 (18%). A livello locale è possibile

notare che le aree di Bologna, Roma e Milano sono caratterizzate da maggiore

eterogeneità dal momento che sono stati inventati e successivamente applicate domande

di brevetti riconosciute in differenti sub-categorie tecnologiche. Sebbene le dimensioni

del campione di brevetti considerato non permette di generalizzare e di affermare

l’esistenza di pattern di specializzazione attivati nelle aree considerate, è interessante

osservare che ci sono alcune aree che tendono a focalizzarsi solo su specifici domini

tecnologici. Questo è il caso di Torino, Trieste e Lecce che peraltro confermano anche

nella ricerca applicata le specializzazioni rilevate nell’analisi delle agglomerazioni

scientifiche e che sono rispettivamente NanoMateriali per le prime due e

NanoElettronica per l’ultima.

3.2.3. Sostenibilità dei gruppi di ricerca e competitività a livello europeo.

A livello generale i risultati ottenuti rivelano che sia i gruppi di ricerca pubblici che

quelli privati hanno riservato grande attenzione alle opportunità di finanziamento offerte

dalla Comunità Europea per sostenere i propri lavori di ricerca nel campo delle

Nanotecnologie. Complessivamente nel corso del VI programma quadro sono stati

finanziati ben 172 progetti di ricerca che hanno visto coinvolti almeno un gruppo di

ricerca di un Istituto di ricerca pubblico italiano.

In particolare le aree di Bologna, Milano e Roma si distinguono per una concentrazione

superiore di progetti finanziati.

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Fig. 3. 5 – Distribuzione dei progetti di ricerca EU finanziati per area metropolitana

BOLOGNA CLUSTER

19% CATANIA2%

FLORENCE6%

GENOA9%

LECCE2%

MILAN19%

NAPLES4%PADUA

3%

VENICE1%

PISA6%

ROME11%

TURIN9%

TRENTO4%

TRIESTE5%

Fonte: MIUR, mie elaborazioni

Differentemente dalle pubblicazioni e dalle domande di brevetti, per i progetti non è

stato possibile stabilire le aree disciplinari specifiche coinvolte semplicemente perché

una condizione necessaria affinché i proposal dei progetti nell’area NMP siano accettati

è che siano già multidisciplinari.

3.2.4 L’imprenditorialità

Complessivamente sono stati identificati in Italia diciannove nuove imprese legate alle

Nanotecnologie. Come è stato spiegato in precedenza la presenza di attività

imprenditoriali è stata documentata combinando molteplici fonti di dati ed utilizzando

un criterio molto restrittivo.

Di seguito viene mostrata la lista degli spin-offs e delle start-up italiane identificate.

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Tab. 3.1 – Lista degli spin-off italiani

Fonte: Chiesa De Massis 2006; Airi Census (2006,2007); siti web istituzionali

Spin-off Locazione applicazione

industriale

Anno di

fondazione

Istituto dove

lavora

l’imprenditore

Organic Spintronics Bologna Materials 2003 CNR

MEDITECKNOLOGY Bologna NanoBio 2004 CNR

Nanodiagnostic San Vito di

Spilamberto (Mo) Toxicology 2004 UNI

NanoSurfaces Granarolo

dell’Emilia (Bo) Materials 2004 UNI-IND

Scriba Nanotecnologie Bologna Materials 2005 CNR

IPECC S.r.l. Faenza Materials 2005 CNR

2SN Bologna Energy 2007 CNR

OSJ Bologna Energy 2007 CNR

NANO4BIO Bologna NanoBio 2008 CNR

NANOSCENT Bologna Materials 2008 CNR

PROART Bologna NanoMedicine 2008 CNR-IRCSS

NANOVECTOR S.r.l. Torino NanoMedicine 2001 UNI

ADAMANTIO S.r.l. Torino Materials 2006 UNI

CYANINE Tech Torino Instrumentation 2006 UNI

SINGULAR ID Padova Materials 2006 IND

ANANAS

NANOTECH

Padova Pharmaceutical 2007 UNI

NANO Center for

Advanced Technolog.

L’Aquila Materials 2007 UNI

Advanced Research on

NanoMaterials s.r.l.

Messina Materials 2006 UNI

TETHIS S.r.l. Milano Materials 2004 UNI

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I risultati ottenuti appaiono affidabili sia dal confronto con quelli ottenuti in lavori

precedenti (Chiesa e De Massis20 (2006) e censimento AIRI) e soprattutto sono in linea

con l’evidenza che il campo organizzativo delle NanoScienze e Tecnologie in Italia

come nel resto del mondo è allo stato attuale considerato come emergente. Seppure il

numero di imprese non sia congruo è sufficiente per poter mettere in luce due evidenze

ritenute decisamente interessanti e significative. La prima riguarda la constatazione che

all’interno del contesto italiano la maggioranza degli spin-offs e start-up sono localizzati

nell’area di Bologna e nelle sue prossimità (58%). Altre aree dove sono presenti più di

un’impresa sono quelle di Torino (15%) e quella di Padova21 (10%). In ognuna di

queste tre aree le origini delle iniziative imprenditoriali sono state differenti.

Il caso di Torino si distingue dagli altri due precedentemente menzionati perché tutti e

tre gli spin-offs sono legati al Politecnico di Torino e nello specifico al centro di

eccellenza NIS. Nel caso di Padova, invece, le due iniziative imprenditoriali registrate

sono il risultato di politiche top-down avvenute nell’ambito del distretto tecnologico

Veneto Nanotech. Infine nel caso di Bologna e delle aree limitrofe le nuove imprese

costituite rispondono invece a processi bottom-up. È interessante sottolineare che ben

l’81% delle nuove imprese sono state create da imprenditori legati al C.N.R. Nello

specifico ben sette spin-offs sono stati creati da imprenditori/ricercatori dell’ISMN del

CNR.

L’altro aspetto che merita di essere sottolineato è il seguente. Le evidenze registrate nel

caso di Bologna e in particolare all’interno dell’ISMN del CNR possono essere spiegate

in virtù della presenza di imprenditori seriali. In altre parole esistono spin-off che sono

stati fondati dallo stesso imprenditore, capace di sfruttare le conoscenze scientifiche e

20 Chiesa e De Massis hanno contato nel 2006 diciotto imprese. Tra queste solo due sono spin-offs e sono Scriba Nanotecnologie e Organic Spintronics 21 Nel caso di Padova le due start-up sono state create in seguito all’istituzione di una NanoChallenge competition promossa dai policy maker locali.

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tecnologiche sviluppate nell’ambito delle Nanotecnologie in differenti domini

industriali.

3.3. - ANALISI IN PROFONDITA’ DELLA COMPOSIZIONE E DELLA

VARIETA’ DEGLI ISTITUTI DI RICERCA COINVOLTI A LIVE LLO

LOCALE

In questa sezione il focus dell’analisi è posto direttamente sugli attori impegnati nelle

nanotecnologie a livello locale e sull’intensità delle loro relazioni documentate nelle

differenti performance ottenute in questo campo. In particolare sono state comparate le

performance delle Università, dei centri di ricerca governativi e degli Ospedali

scientifici attivi in ogni area metropolitana precedentemente selezionata.

In questo modo si è cercato di mettere in evidenza la composizione e il peso di ogni

Istituto di ricerca a livello locale nell’ambito del processo di emersione del campo delle

Nanotecnologie.

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3.3.1. LA PRODUTTIVITA’ DEGLI ISTITUTI DI RICERCA PUBBLICA

NELLE NANOSCIENZE-TECNOLOGIE-INDUSTRIE

Rispetto al processo di agglomerazione scientifica a livello nazionale basato sulle

pubblicazioni scientifiche le Università (80,3% del totale) hanno giocato un ruolo più

rilevante rispetto a quello dei centri di ricerca del Governo (31,7%) e degli Ospedali

scientifici (1,5%). Tuttavia questo trend non è sempre confermato a livello locale come

per esempio nei casi di Trieste e Catania dove i centri di ricerca del Governo hanno

fatto registrare nel corso degli ultimi cinque anni una produttività scientifica

leggermente superiore rispetto a quella delle Università. La produttività scientifica delle

differenti tipologie di centri di ricerca è stata misurata adottando gli stessi criteri

utilizzati in precedenza.

Anche rispetto a questo livello di analisi come era stato registrato in precedenza non è

sempre confermata una relazione diretta tra le concentrazioni di pubblicazioni e il loro

impatto internazionale. Nella Fig. 3.6 viene mostrata la mappa delle eccellenze

scientifiche nelle Nanotecnologie delle Università italiane. In particolare è possibile

riconoscere tre zone della mappa all’interno delle quali si possono raggruppare le

Università italiane. Nella parte superiore della mappa troviamo le Università di

Bologna, Trieste e Firenze che si distinguono rispetto alle altre per un valore di impatto

superiore a tutte le altri. Tra queste tre l’Università di Bologna (508) è quella con la

densità superiore di pubblicazioni dovuta al coinvolgimento di un maggior numero di

dipartimenti. Nella parte centrale invece si posizionano la maggior parte delle

Università italiane. Tra queste è singolare il caso dell’Università di Padova che sebbene

vanti il maggior numero di pubblicazioni (650) presenta un valore di impatto nella

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media (30) confermando il dato aggregato. Infine nella parte inferiore del terzo

quadrante troviamo i casi con densità e fattori d’impatto inferiore alla media nazionale

Fig. 3.6 – Mappa delle eccellenze scientifiche tra le Università italiane nelle Nanotecnologie (1998 – 2008)

UNIV PUBLISHING ACTIVITY (1998-2008)700600500400300200100

H- F

acto

r

40

35

30

25

20

15

UNIV ROMA TRE

UNI MILANO BICOCCA

UNIV LECCE

POLITECN MILAN

UNIV TURIN

POLITECN TURIN

UNIV TRIESTE

UNIV FLORENCE

UNIV NAPLES FEDERICO II

UNIV CATANIA

UNIV MODENA

UNIV TOR VERGATA ROME

UNIV PISA

UNIV LA SAPIENZA ROME

UNIV GENOA

UNIV MILANO

UNIV BOLOGNA

UNIV PADUA

Fonte: ISI THOMPSON, mie elaborazioni

Le aree metropolitane di Bologna e Trieste sono caratterizzate da livelli di eccellenza

scientifica superiori alla media nazionale anche nel caso dei Centri di Ricerca

governativi (Fig. 3.7). Altre aree metropolitane dove sono stati registrati alti livelli di

impatto tra le divisioni territoriali del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) sono

quelle di Roma, Catania, Milano, Napoli e Genova. Tuttavia differentemente dalle altre

aree menzionate, il peso della produttività del CNR nelle aree di Roma e Milano è

inferiore a quello della media nazionale (Fig. 3.8). Questa evidenza è interessante se si

considera che sia Roma che Milano vantano il più alto numero di dipartimenti diversi

del CNR.

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100

Fig. 3.7 – Mappa delle eccellenze scientifiche delle divisioni territoriali del C.N.R. nelle Nanotecnologie (2003 – 2008)

N. of Papers42630326223118418317417315114913490685440

H -

FAC

TOR

26

24

22

18

17

15

12

10

9

6FAENZA

CATANIA

TRIESTE

NAPLES

MODENA

BOLOGNA

BOLOGNA CLUSTER

GENOA

PARMA

PISA PADUA

ROME

MILAN

FLORENCE

TURIN

Fonte: ISI THOMPSON, mie elaborazioni Nella figura 8 viene analizzato il peso del contributo delle divisioni territoriali del CNR

e per differenza è possibile intuire quello delle Università. In particolare è possibile

delineare tre scenari diversi. Il primo che riguarda le aree di Trieste, Catania e Faenza è

caratterizzato dalla leadership del CNR. Il secondo invece riguarda le aree come Roma,

Padova, Firenze, Torino e Milano posizionate nella parte bassa della mappa dove le

Università giocano un ruolo prevalente nel processo di agglomerazione scientifica. E

infine un terzo scenario può essere ricostruito intorno ai casi di Bologna, Modena,

Parma, Genova e Napoli dove il contributo delle Università e del CNR appare più

equilibrato.

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101

Fig. 3.8 - Mappa del contributo delle divisioni territoriali del CNR sulla produzione scientifica locale nelle Nanotecnologie (2003 – 2008)

N. of Papers42630326223118418317417315114913490685440

% o

f loc

al s

cien

tific

agg

lom

erat

ion

78.4

51.5

48.2

39.7

38.5

38.1

37.6

36.1

34.9

33.6

29.7

26.5

22.7

22.2

16.8

FAENZA

CATANIA

TRIESTE

NAPLES

MODENA

BOLOGNA

BOLOGNA CLUSTER

GENOA

PARMA

PISA

PADUA

ROME

MILAN

FLORENCE

TURIN

Source: ISI THOMPSON, our elaborations

Infine, anche se contribuiscono solo in minima parte, è stata analizzata anche la

produttività scientifica degli Ospedali Scientifici (IRCCS22). La presenza di questa

tipologia di laboratori scientifici contribuisce ad arricchire la salienza e la varietà degli

attori coinvolti a livello locale almeno per due ragioni. Primo, le attività di ricerca

trovano una veloce applicazione a livello locale attraverso le pratiche di lavoro cliniche.

Secondo, le attività di ricerca sono focalizzate solo su uno specifico sub-dominio, quello

della NanoBio e Medicina. I risultati ottenuti (Tab. 2) mettono in evidenza che solo

pochi centri sono stati coinvolti con continuità nel corso degli ultimi cinque anni nella

produzione di pubblicazioni scienti che legate al Nanotech. In particulare è interessante

22 http://www.ministerosalute.it/ricsan/organizzazione/sezorganizzazione.jsp?id=73&label=ir1 per consultare la lista completa.

I II

III IV

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102

notare il caso degli Istituti Ortopedici Rizzoli a Bologna che in controtendenza rispetto

agli altri ha intensificato la sua produzione scientifica in questo campo soprattutto dopo

il 2005 (80% dei paper sono stati pubblicati negli ultimi quattro anni).

Table 3.2 – La produttività sceintifica dei top 5 Ospedali scientific italiani (IRCCS) nelle nanotecnologie (1998 – 2008)

ID Legal Status LOCATION PAPER IST. ORTOPEDICI RIZZOLI Pubblico BOLOGNA 18 CENTRO S. GIOVANNI DI DIO Privato BRESCIA 10 IST NAZ RICERCA SUL CANCRO Pubblico GENOVA 9 ISTITUTO GASLINI Pubblico GENOVA 7 SAN RAFFAELE Privato MILANO 6

Fonte: ISI THOMPSON, mie elaborazioni Il quadro dei contributi dei singoli istituti di ricerca italiani nelle Nanotecnologie è

completato dai risultati dell’analisi dei brevetti (fig. 9) e delle partecipazioni nei progetti

europei (Fig.10). In entrambi i casi l’area metropolitana di Bologna conferma la

caratteristica di eterogeneità degli Istituti diversi coinvolti. Alcune incongruenze sono

invece state registrate nel caso di Trieste dove il contributo dell’Università e dei centri

di ricerca del Governo appare equilibrato nei casi della produzione scientifica e delle

attività brevettuali mentre non è stata registrata alcuna partecipazione dei centri di

ricerca governativi nei progetti di ricerca europei finanziati nel VI Programma Quadro.

Altri casi di congruenza tra le molteplici evidenze raccolte sono stati riscontrati nelle

aree di Roma, Milano e Firenze dove le Università appaiono essere maggiormente

coinvolte nella produzione di output legati alle Nanotecnologie.

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103

Fig. 3.9 – Distribuzione dei brevetti Nanotech per tipologia di Istituto di ricerca

0%

20%

40%

60%

80%

100%

UNI C.N.R. SCIENTIFIC HOSP NEW FIRMS

Fonte: Esp@cenet,mie elaborazioni

Fig. 3.10 – Distribuzione dei progetti di ricerca europei finanziati nel VI Programma

Quadro per tipologia di Istituto.

0

5

10

15

20

25

UNIVERSITA' CNR IRCSS ENEA

Fonte: MIUR, mie elaborazioni

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104

3.3.2 L’INTENSITA’ DELLE RELAZIONI TRA ISTITUTI DI RICERCA LOCALIZZATI NELLA STESSA AREA METROPOLITANA

In questa sezione viene esplorata la magnitudine dell’effetto prossimità attraverso

l’analisi dell’intensità delle relazioni finalizzate al conseguimento di output specifici tra

scienziati affiliati con Istituti di ricerca diversi ma localizzati nella stessa area

metropolitana. Queste misure sono basate sull’analisi delle co-authorship per quanto

riguarda le pubblicazioni (Fig. 3.11), delle co-inventorship nel caso dei brevetti (Fig.

3.12) e delle partnership nei consorzi di ricerca creati intorno ai progetti europei

finanziati (Tab. 3.4). Da questi tre differenti punti di vista le evidenze che emergono

rinforzano ulteriormente la significatività del caso di Bologna dal momento che è

caratterizzato dai tassi di intensità più elevati. In particolare rispetto alle collaborazioni

scientifiche sono state considerate nell’analisi solo i casi di Roma, Milano e del cluster

sviluppato intorno alla città di Bologna. Le ragioni principali di questa scelta sono

attribuibili all’evidenza che in queste tre aree sono state registrate le concentrazioni di

eccellenza scientifica più alte e inoltre queste aree sono comparabili rispetto alla

numerosità degli Istituti di ricerca coinvolti (3 Università23, CNR e IRCCS). L’intensità

delle collaborazioni scientifiche sono state misurate contando le co-authorship tra

ricercatori affiliati con Istituti di ricerca differenti24. In termini generali i risultati

ottenuti rivelano che il tasso di collaborazioni scientifiche interne hanno seguito una

tendenza decrescente nel corso degli ultimi tre bienni anche se tutte e tre le aree sono

state caratterizzate da un notevole incremento nel numero di pubblicazioni prodotte nel

23 Tor Vergata, La Sapienza e Roma Tre in Rome; University of Milan, Bicocca and Politecnique in Milan; Alma Mater Studiorum, Univ. of Modena and Univ. o f Parma in Bologna Cluster. 24 Nello specifico l’intensità delle collaborazioni interne è determinato dal rapporto tra la somma delle pubblicazioni scritte da ricercatori affiliati con Istituti della stessa area metropolitana e il totale delle pubblicazioni prodotte dai ricercatori affiliati con Istituti della stessa area metropolitana. Mentre nel caso delle collaborazioni esterne sono state contate solo le pubblicazioni edite da ricercatori affiliati con un solo Istituto di una determinata area geografica.

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105

campo delle Nanotecnologie. Tuttavia è interessante notare che a partire dal 2005 il caso

di Bologna rappresenta un’eccezione a questa tendenza e si distingue dalle altre per il

tasso più alto di collaborazioni interne nell’ultimo biennio tra il 2007 e il 2008.

Fig. 3.11 – Trend delle collaborazioni scientifiche tra scienziati affiliati con Istituti limitrofi (2003-2008)

10%

15%

20%

25%

30%

35%

2003-2004 2005-2006 2007-2008

BOLOGNA CLUSTER MILAN ROME

Fonte: ISI THOMPSON, mie elaborazioni

Evidenze simili sono emerse anche dall’analisi delle partnership nei progetti europei

finanziati nel VI Programma Quadro. Come si può vedere nella tabella 3.4, anche in

questo caso all’interno dell’area di Bologna è stato registrato il numero più elevato di

partnership in termini assoluti (8) tra gruppi di ricerca affiliati con Istituti di ricerca

pubblici della stessa area geografica all’interno del consorzio di uno stesso progetto.

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106

Tab. 3.4 – Concentrazione di partnership nei progetti di ricerca EU tra gruppi di ricerca affiliati con Istituti limitrofi (2002-2006)

Fonte: MIUR, mie elaborazioni

Nel caso dei brevetti, invece, l’intensità delle relazioni è stata misurata adottando un

punto di vista differente. In particolare, l’intensità delle relazioni interne è stata misurata

ponendo il focus dell’indagine non direttamente sulla natura delle collaborazioni

(interna/esterna) finalizzate alle specifiche performance ma sulla riproducibilità nel

tempo e quindi solidità dei network di scienziati legati dall’obiettivo di pubblicare

brevetti (collaborazione occasionale/ripetuta nel tempo). Quindi in termini pratici

mentre nei casi precedenti l’intensità delle relazioni interne è stata valutata come

percentuale del totale delle relazioni (interne ed esterne) date dall’insieme delle

performance specifiche (paper, progetti) considerate, nel caso dei brevetti è stata

misurata in termini di ripetizione delle performance (i brevetti) da parte di uno stesso

network di scienziati. Nella figura 3.12 sono mostrati i risultati relativi a questa analisi.

Tra le aree metropolitane caratterizzate da una numerosità più alta è interessante notare

la presenza di due tendenze differenti. Infatti, mentre nelle aree di Milano e Roma ogni

N. progetti di ricerca EU finanziati

N. progetti di ricerca EU Con più di un Istituto della stessa area metropolitana tra i partecipanti

BOLOGNA CLUSTER 34 8 CATANIA 4 1 FIRENZE 11 1 GENOVA 16 0 LECCE 4 0 MILANO 34 4 NAPOLI 7 0 PADOVA 6 0 VENEZIA 1 0 PISA 11 1 ROMA 21 3 TORINO 16 1 TRENTO 7 1 TRIESTE 10 0

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107

brevetto rappresenta un evento occasionale o in altre parole ogni brevetto corrisponde

ad un network di scienziati diverso, nelle aree di Bologna, Trieste e Lecce il numero di

network disconnessi è inferiore rispetto al numero dei brevetti diversi pubblicati. Quindi

la densità di brevetti raggiunta in queste aree può essere spiegata non tanto in termini di

numerosità di scienziati coinvolti ma piuttosto in termini di longevità dei singoli

network di collaborazione.

Fig. 12 – La natura dei network di co-patenting (occasionale/ripetuta nel tempo) (2003-2008)

0

5

10

15

N. of independent co- patenting networks N. different Patents

Fonte: Esp@cenet, mie elaborazioni

Lo studio delle relazioni interne è stato ulteriormente approfondito inoltre attraverso

l’analisi delle co-authorship dei singoli Istituti. In questo modo è stato possibile

delineare i comportamenti e le tendenze seguite dai differenti Istituti nelle aree

metropolitane italiane più rilevanti (Bologna, Milano e Roma) relativamente alle

Nanotecnologie. Nelle figure 3.13, 3.14 e 3.15 vengono mostrati i risultati di queste

analisi. Quello che cambia nei tre casi riguarda il comportamento delle Università e dei

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108

centri di ricerca del CNR. Le industrie e gli IRCCS al contrario seguono tendenze simili

in tutte e tre le aree considerate. Le prime nel corso degli anni hanno aumentato le

collaborazioni interne rispetto a quelle esterne mentre i secondi hanno sviluppato nel

corso dei tre bienni una percentuale di collaborazioni interne sempre superiori alla metà

delle totali. Le principali differenze tra i tre casi riguardano quindi il ruolo assunto dalle

Università e dal CNR a livello locale. Nello specifico è possibile notare che mentre

nell’area di Milano il CNR e le Università rivelano comportamenti opposti, la prima

appare più legata al territorio rispetto alla seconda, nelle aree di Bologna e Roma sia le

Università che il CNR hanno fatto registrare tendenze simili. Tuttavia questi due casi si

distinguono perché mentre nell’area di Roma gli scienziati affiliati con il CNR e le

Università tendono a collaborare prevalentemente con istituti limitrofi ( >50%),

nell’area di Bologna sono state registrate collaborazioni interne intorno al 30% del

totale.

Fig. 3.13 – Trend delle collaborazioni scientifiche tra scienziati affiliati con Istituti diversi localizzati nell’area metropolitana di Bologna-Modena-Parma-Faenza (2003-2008)

0%

10%

20%

30%

40%

50%

60%

70%

80%

90%

100%

2003 -2004 2005-2006 2007-2008

CNR

IND

IRCCS

ALMA

UNIPR

UNIMO

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109

Fig. 3.14 – Trend delle collaborazioni scientifiche tra scienziati affiliati con Istituti diversi localizzati nell’area di Milano (2003-2008)

0%

10%

20%

30%

40%

50%

60%

70%

2003 -2004 2005-2006 2007-2008

CNR

IND

IRCCS

POLIT

UNIBIC

UNIMI

Fig. 3.15 – Trend delle collaborazioni scientifiche tra scienziati affiliati con Istituti diversi localizzati nell’ area di Roma (2003-2008)

0%

10%

20%

30%

40%

50%

60%

70%

80%

90%

100%

2003 -2004 2005-2006 2007-2008

CNR

IND

IRCCS

SAPIENZA

TOR VERGATA

ROMA 3

Infine l’analisi, procedendo da un livello macro ad uno micro, si è concentrata

direttamente sulle performance degli scienziati attivi nelle differenti aree metropolitane.

In questo caso l’obiettivo perseguito è stato quello di rilevare la presenza di ‘creative

scientists’ a livello locale (Tab. 5). Per ‘creative scientists’ intendo scienziati capaci

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110

non solo di ottenere livelli di performance elevati rispetto alla media nazionale ma

anche capaci di combinare conoscenze e tecnologie differenti in modo da ottenere

performance tra di loro diversificate. Così un ‘creative scientists’ è uno scienziato che

dà sfogo alla sua creatività ricoprendo contemporaneamente molteplici posizioni sociali

(scienziato che pubblica, inventore che fa brevetti, group leader che scrive proposal per

i progetti e infine imprenditore).

Tab. 3.5 - La presenza dei ‘creative scientists’ a livello locale N. di

scienziati molto prolifici (> 25 papers)

N. di Dept. differenti rappresentati

H- factor medio

Dev. St. H- factor scienziati

N. of scientists more prolific in relation to publishing and patenting activity

N. of scientists more prolific in relation to publishing patenting and entrepreneurial activity

ROMA

9 6 9 1,8 2 0

EMILIA-ROMAGNA CLUSTER

9 6 10,2 1,6 3 2

MILANO

7 5 9,1 1,1 4 0

PADOVA- VENEZIA VERONA

12 4 9,7 1,8 0 0

TORINO

3 3 6,7 3,1 0 0

TRIESTE

5 3 12 12 2 0

NAPOLI

4 3 11 1,2 0 0

CATANIA

8 3 8,4 3,3 2 0

GENOVA

6 3 10 1,3 1 0

FIRENZE

8 2 10,6 4,4 1 0

LECCE

7 1 11,6 4,6 3 1

PISA

1 1 8 - 0 0

Fonte ISI-THOMSON, EPO, AIRI, Chiesa e De Massis (2006), mie elaborazioni

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111

Le evidenze empiriche raccolte rivelano che solo nell’area di Bologna e di Lecce sono

presenti ‘creative scientists’. In particolare per quanto riguarda l’area di Bologna

lavorano entrambi per il CNR nell’Istituto per lo Studio dei Materiali Nanostrutturati.

3.4. DISCUSSIONE DEI RISULTATI

Il quadro che emerge dalla triangolazione tra le differenti evidenze empiriche, raccolte

attraverso molteplici e complementari punti di vista (scientifico-tecnologico-

economico), mette chiaramente in risalto la presenza nell’area metropolitana compresa

tra le città di Bologna, Modena, Parma e Faenza di forze legate alla contestualità che

determinano la rilevanza di questo caso all’interno del più ampio panorama italiano

delle NanoScienze e Tecnologie.

Comprendere come queste forze a livello macro siano state determinate non è il fine

specifico di questo capitolo ma potrebbe essere l’oggetto di un nuovo studio. Gli aspetti

che invece meritano una riflessione più approfondita nell’ambito generale di questo

trattato riguardano la descrizione della natura del contesto geografico in cui i laboratori

analizzati sono inseriti e il ruolo che questi ultimi giocano al suo interno. In questo

senso i risultati emersi dalle analisi condotte sono ritenuti significativi e supportano le

seguenti considerazioni.

Primo, sia a livello aggregato che disaggregato, l’analisi delle concentrazioni di

performance con contenuto ‘nano’ mostra che rispetto a tutte le quattro dimensioni

considerate (pubblicazioni scientifiche, domande di applicazioni di brevetti,

partecipazione ai progetti europei e creazione di nuove imprese) i più alti livelli di

eccellenza sono stati registrati all’interno dell’area metropolitana compresa tra le città di

Bologna, Modena, Parma e Faenza. L’interpretazione di questa evidenza suggerisce che

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112

non sembra esserci un trade-off tra le diverse performance, ovvero una non esclude

l’altra, ma piuttosto pare esserci una sorta di legame positivo tra di esse. Inoltre appare

chiaramente che all’interno di questo network di città limitrofe25, Bologna è quella che

ha un peso decisamente maggiore rispetto alle altre tre.

Secondo, non solo l’eccellenza ma anche l’eterogeneità caratterizza la produttività

scientifica-tecnica-economica all’interno di quest’area metropolitana.

L’eterogeneità come attributo emerge chiaramente sia dall’analisi delle concentrazioni

(3.2) in termini di varietà di sub-domini disciplinari/tecnologici/applicativi sviluppati e

sia dall’analisi delle tipologie di Istituzioni di ricerca locali attive (3.3.1) nel campo

della NanoScienza e Tecnologie.

Nello specifico mentre nel primo caso i risultati ottenuti ci segnalano la presenza di

differenti ‘knowledge communities’ attive nello stesso territorio, nel secondo caso si può

parlare di co-presenza di imprese e unità di ricerche scientifiche di Università, Centri

Governativi, Ospedali.

L’interpretazione congiunta di queste due evidenze ci fornisce un’ulteriore

informazione di grande valore. Nel contesto oggetto di indagine sono attivate numerose

‘trading zone’ (Galison, 1987; Kellogg et al. 2006) all’interno delle quali viene favorita

e coordinata la creazione di nuova conoscenza attraverso la combinazione di differenti

domini in linea con la natura multidisciplinare delle NanoScienza e Tecnologie. Questa

ipotesi è rafforzata e supportata dal terzo attributo, ritenuto rilevante, che emerge

dall’analisi delle intensità delle relazioni tra scienziati affiliati con Istituti diversi

localizzati nella stessa area metropolitana (3.3.2). Le evidenze empiriche rilevate

descrivono il network di relazioni tra Istituti diversi come solido ed equilibrato rispetto

sia alle relazioni interne che esterne.

25 Bologna dista 45 Km da Modena, 55 Km da Faenza e 99 Km da Parma.

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113

Quarto, un ulteriore aspetto che rende i risultati ottenuti sorprendenti e ricchi di

significato è dato dalla spontaneità del processo attraverso il quale le agglomerazioni

scientifico-tecnico-economico sono emerse nel corso degli ultimi anni. A differenza

della maggioranza delle altre aree metropolitane italiane dove sono state registrate

attività collegate con le NanoScienze e Tecnologie, il caso del cluster formatosi intorno

alla città di Bologna non ha beneficiato della presenza di imprese multinazionali

interessate allo sviluppo di questo ambito tecnologico né tanto meno di nessun tipo di

politica top-down o riconoscimento istituzionale. Questo vuol dire che a livello

istituzionale non sono state né imposte e né costruite categorie legate alle NanoScienza

e Tecnologie che potessero in qualche modo condizionare e orientare l’identità e le

pratiche dei ricercatori attivi nei laboratori localizzati in questa precisa area geografica.

Infine un’ultima considerazione riguarda il ruolo rivestito dall’Istituto per lo Studio dei

Materiali Nanostrutturati all’interno dell’area metropolitana. I risultati ottenuti a livello

micro suggeriscono che l’ISMN può essere considerato come uno dei ‘motori’ che

hanno contribuito al processo di emersione bottom-up del cluster. I ricercatori di questo

Istituto sono stati protagonisti in tutte le dimensioni di performance analizzate e

addirittura a livello nazionale ben due dei tre ‘creative scientist’ identificati lavorano in

questo Istituto. Inoltre un altro di non poco conto che lo contraddistingue a livello

nazionale riguarda la presenza di scienziati-imprenditori (ben 6) tra i suoi membri.

Congiuntamente i cinque punti evidenziati contribuiscono a definire l’Istituto per lo

Studio dei Materiali Nanostrutturati rispetto sia alle caratteristiche dei membri interni e

sia rispetto agli attributi del contesto geografico in cui è inserito come un caso estremo

(Eisenhardt e Graebner, 2007 ) adatto per la costruzione di una grounded theory.

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114

Capitolo 4

Metodologia e tecniche di analisi delle evidenze empiriche

INTRODUZIONE. Il mio obiettivo in questa tesi è quello di comprendere i processi di

‘identity work’ che si innescano ai confini tra individui con differenti ‘work identity’. In

questo capitolo è presentata la metodologia adottata per supportare questo intento. In

relazione alle domande di ricerca che si intendono investigare è stato ritenuto più

appropriato condurre una ricerca qualitativa. Per ricerca qualitativa si intende un

approccio e non l’analisi di dati qualitativi. Questo aspetto e le principali

caratteristiche di una ricerca qualitativa vengono discussi nella parte iniziale del

capitolo. Successivamente si entra nel merito dello studio sul campo attraverso la

descrizione dell’ unità di osservazione, delle tecniche impiegate per la raccolta dei dati

e delle analisi condotte.

4.1 LA RICERCA QUALITATIVA

Molti studi sull’identità nelle organizzazioni suggeriscono che per indagare in

profondità questo tema, per coglierne le dimensioni e le dinamiche sociali, gli approcci

di tipo qualitativo ed etnografico sono molto indicati (Whetten 1998; Alvesson e

Willmott, 2002). La ragione fondamentale di questa assunzione la spiega molto bene

Albert (1998): <<If one consider identity to be a question, then the next step is not

measurement – one does not measure a question – but rather a discussion of why

identity is relevant or important within a particolar context, what kinds of answers to

the question of identity might be provided, and how adeguate they are, and so on.

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115

Idenity may be precisely that kind of question that eludes standard conception of

measurement- that may be one of its defining properties.>> La ricerca qualitativa è

appropriata per lo studio dell’identità dal momento che per sua natura è deputata a

cogliere la dimensione informale, non esplicita dei fenomeni sociali ed organizzativi.

Importanti studi qualitativi hanno descritto e interpretato le pratiche di lavoro e il loro

legame con l’identità: ad esempio Pratt, Rockmann e Kaupfmann, (2006) hanno

condotto uno studio longitudinale di 6 anni tra i resident di un’Università americana per

studiare i processi di costruzione di identità professionale. Barley e Zabusky (1997)

hanno descritto i pattern di identificazione degli scienziati dell’ESA raccogliendo dati

attraverso un anno di osservazioni partecipate. Sveningsson e Alvesson (2003) hanno

studiato, con un caso di studio basato su un unico individuo, l’identità manageriale

vedendola come l’interfaccia tra le questioni organizzative, i processi e le aspettative di

ruolo. Scegliere un approccio qualitativo significa anche abbracciare una posizione

epistemologica che rinuncia a risultati generalizzabili: significa prediligere la profondità

dei dati, capire un contesto e le sue dinamiche, entrare in contatto con le persone e le

loro attività quotidiane. Significa, per il ricercatore, elaborare una interpretazione,

congiunta con gli attori osservati, dell’agire sociale (Macrì e Tagliaventi, 2001).

Tuttavia è bene sottolineare che l’approccio qualitativo non è quello di una ricerca

“priva di numeri”. Se è vero che la quantificazione non viene utilizzata per effettuare

inferenze statistiche, rimane fondamentale per il suo potere rappresentativo e di sintesi.

Inoltre, l’uso di tecniche quantitative all’interno di ricerche qualitative è sempre più

diffusa perché permette di disporre di una molteplicità di misurazioni di natura diversa

di un fenomeno e quindi di triangolare, con la finalità di avere un maggior supporto per

la comprensione del contesto (Denzin e Lincoln, 1998).

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116

4.1.1 Il paradigma della ricerca qualitativa

Le scelte ontologiche, epistemologiche e metodologiche individuano tre paradigmi della

ricerca scientifica (Corbetta, 1999): il positivismo, il post-positivismo e il

costruttivismo. L’iniziale paradigma positivista e il successivo post-positivista sono alla

base del maggior numero di ricerche quantitative pubblicate con successo nelle riviste

scientifiche e, sono, in quanto tali, ben noti. Il paradigma costruttivista è quello su cui,

invece, poggiano la maggior parte delle ricerche qualitative dotate di coerenza.

Il costruttivismo sottolinea come il comportamento degli individui non possa essere

compreso al di fuori del contesto delle loro attuali relazioni con altri individui e di un

preciso momento temporale. Un approccio costruttivista non considera quindi il mondo

come realtà oggettiva ma, bensì, dichiara il primato dei processi cognitivi di conoscenza

(Macrì e Tagliaventi, 2000); in queste ricerche non si parla quindi di spiegazione bensì

di comprensione, frutto dell’osservazione di insieme dei fenomeni sociali e della loro

specifica. In tale prospettiva non esistono quindi teorie e congetture predefinite da

testare o da applicare allo specifico contesto. Il processo di conoscenza in una ricerca

qualitativa che poggi sulla fondamenta del paradigma costruttivista comincia, quindi,

con un ingresso del ricercatore nel contesto che intende studiare con la mente il più

possibile libera da schemi interpretativi predefiniti, per andare man mano restringendosi

attraverso la selezione dei fenomeni che risultino essere più salienti nel contesto e per il

ricercatore (Strauss e Corbin, 1990). Fondamentale è il fatto che la selezione di questi

fenomeni centrali non rappresenta, in una ricerca qualitativa, una scelta ex-ante e

arbitraria del ricercatore ma è il frutto dell’interazione del ricercatore con il contesto,

con gli attori che ne fanno parte. In questo senso, lo sviluppo di relazioni forti tra

ricercatore e attori osservati non rappresenta un fenomeno negativo, in grado di minare

la “scientificità” della ricerca ma, al contrario, può solo renderla più ricca. In tal senso è

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117

anche frequente indicare gli attori che operano nel contesto sotto studio con il termine di

“informatori”. Per quanto sopra detto la ricerca qualitativa non inizia con un disegno di

ricerca stabilito a priori, ma questo emerge durante il corso della ricerca, grazie

all’interazione che si sviluppa tra ricercatore e contesto di riferimento. Se questa

peculiarità delle ricerche qualitative pone seri problemi nel definirne criteri di

affidabilità e validità oggettivi, si può affermare che una ricerca qualitativa è condotta

correttamente quando l’interpretazione che il ricercatore fornisce dei fenomeni da lui

osservati non si discosta dalle interpretazioni che gli attori del contesto esprimerebbero,

prova questa, di un’adeguata comprensione dell’agire organizzato.

Le critiche più frequentemente sollevate alle ricerche qualitative riguardano propria la

scarsa generalizzabilità dei risultati prodotti. Una grounded theory o teoria costruita sul

campo (Glaser e Strauss, 1968; Strauss e Corbin, 1990) rappresenta la più conosciuta

proposta di comunicazione dei risultati in una ricerca qualitativa. La costruzione di una

grounded theory avviene attraverso un processo di analisi strutturato che passa dalla

descrizione dei fenomeni alla loro interpretazione. Nella sua formulazione definitiva

una grounded theory si presenta come un insieme di categorie di fenomeni collegati da

frecce direzionate che ne individuano le relazioni. Nonostante queste congetture siano

basate su uno specifico contesto sociale, alcuni autori sostengono che i risultati della

ricerca possano rappresentare le basi per l’interpretazione di altri contesti sociali. Gli

stessi Strauss e Corbin (1990) sostengono che se i dati su cui si basa una grounded

theory sono ampi, e l’interpretazione è concettuale e schematica, allora la teoria

dovrebbe essere sufficientemente astratta e includere abbastanza varianti da renderla

applicabile ad una varietà di contesti correlati a quel fenomeno. Le critiche alla

generalizzabilità dei risultati di una ricerca qualitativa rappresentano in realtà “critiche

esterne”, in quanto poggiano le fondamenta su paradigmi e su scelte epistemologiche

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diverse da quelle effettuate da chi si avvicina a questo modo di interpretare

l’organizzazione (Maggi, 1990).

4.1.2 La costruzione della teoria sul campo

Scopo di una ricerca qualitativa è comprendere il significato che gli attori del contesto

attribuiscono al processo di decisioni e azioni di un contesto organizzativo. Una ricerca

qualitativa risulta soddisfacente quando sia pervenuta gradualmente a una saturazione

del processo di comprensione, cioè quando ulteriori informazioni o indizi raccolti non

sono più in grado di modificare significativamente il quadro interpretativo che è emerso

dal continuo interplay tra raccolta e analisi dei dati.

Una grounded theory (Strauss e Corbin, 1990) è una teoria che trova il suo fondamento

nei dati empirici relativi ad uno specifico contesto ed che deriva induttivamente da uno

studio del fenomeno che rappresenta. L’analisi e successiva codifica degli appunti presi

sul campo, trascritti in forma estesa su files, sono il punto di partenza per la sua

costruzione. L’analisi delle field notes è finalizzata alla riduzione della numerosità e

varietà dei fenomeni ivi contenuti in un limitato numero di concetti. Il passaggio

successivo è quello di accorpare un certo numero di concetti intercorrelati in una serie di

categorie di fenomeni ricorrenti e, successivamente, di identificare le relazioni logiche

esistenti tra queste categorie. La fase di riduzione della varietà delle informazioni delle

field notes avviene attraverso il cosiddetto processo di codifica (coding) (Strauss e

Corbin, 1990). Codificare significa attribuire delle etichette a classi di fenomeni simili.

Il processo di codifica suggerito dai due autori consta di tre passaggi: la codifica aperta,

assiale e selettiva. La codifica aperta riguarda la categorizzazione dei fenomeni,

attraverso l’esame approfondito dei dati raccolti e un meticoloso lavoro manuale sulle

field notes. E’ possibile codificare intere porzioni di testo come paragrafi, oppure

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singole frasi o singole espressioni. L’impostazione della ricerca e una valutazione del

trade-off tra precisa ricostruzione del contesto e maneggevolezza delle categorie

indirizzano il ricercatore nella scelta del livello di analisi. Le categorie definite nella

fase di open coding vengono poi sviluppate attraverso l’individuazione delle loro

proprietà e dimensioni. Le proprietà sono le caratteristiche o attributi delle categorie,

mentre le dimensioni rappresentano il posizionamento delle proprietà lungo un continuo

di valori.

Con la codifica assiale i dati, inizialmente frammentati dalla codifica aperta, sono

ricomposti, creando connessioni tra le categorie. Nell’axial coding il fulcro è la

descrizione delle categorie (fenomeni) in termini delle condizioni che le fanno nascere,

del contesto (e il suo specifico “set” di proprietà) in cui si sviluppano, delle strategie

intenzionali degli attori e delle conseguenze di queste strategie. Condizioni causali e

strutturali, contesto, strategie e conseguenze sono tutte categorie che il ricercatore, nella

fase di codifica assiale, unisce tra loro in modo da costituire sequenze logiche di

fenomeni. L’operazione che il ricercatore compie nella fase di codifica assiale è, quindi,

un’operazione concettuale, interpretativa. La teoria costruita sul campo è infatti

finalizzata a collegare le categorie attraverso una rete di relazioni.

Con la codifica selettiva viene selezionata una categoria centrale (core category)

particolarmente rilevante per il ricercatore; il suo collegamento sistematico alle altre

categorie e la verifica che la congettura elaborata sia condivisa dagli informatori

completandola, eventualmente sulla base delle loro indicazioni. La categoria centrale

rappresenta pertanto il fenomeno attorno al quale tutte le altre categorie sono collegate

da relazioni. La selezione di quale sia la categoria principale della teoria, attorno alla

quale far ruotare tutta l’interpretazione del contesto, dipende sia dagli interessi del

ricercatore, sia dal suo background nelle varie tematiche organizzative, sia dagli indizi

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120

che sono stati lanciati dagli informatori e che fanno emergere un tema come

particolarmente saliente. Al termine di questo processo al ricercatore non rimane altro

che cominciare a scrivere la storia che intende raccontare.

4.2 L’UNITA’ DI OSSERVAZIONE: IL LABORATORIO DI RICE RCA

Il caso di studio oggetto di questa tesi si basa sulla raccolta dei dati nei laboratori di

ricerca di un Istituto del Consiglio Nazionale della Ricerca localizzato a Bologna e

internazionalmente riconosciuto come centro di eccellenza. Per laboratorio di ricerca si

vuole intendere non solo il luogo fisico che quotidianamente ospita il lavoro dei gruppi

di ricerca ma anche la rete di laboratori a cui i ricercatori hanno accesso attraverso le

relazioni che hanno avuto occasione di sviluppare. In termini generali i membri di

questo Istituto studiano e creano sistemi complessi che consistono in materiali

nanostrutturati che svolgono determinate funzioni. All’interno di questo Istituto ho

selezionato il gruppo più grande, composto dal group leader (Fabius), 13 ricercatori

senior, 8 ricercatori senior. In media, i ricercatori junior hanno 27 anni e una esperienza

lavorativa al CNR uguale a 20,4 mesi, mentre i ricercatori senior hanno 34,7 anni in

media e una esperienza lavorativa al CNR pari a 38,8 mesi. Per i ricercatori senior

l’esperienza lavorativa al CNR copre in media il 70% della loro esperienza di lavoro

complessiva. Ad eccezione del group leader tutti gli altri sono legati al gruppo da

contratti temporanei.16 membri del gruppo sono maschi e 5 sono donne. Infine circa il

50% dei membri del gruppo sono stranieri e provengono dal Belgio (1), dalla Germania

(1), dalla Spagna (1), dalla Romania (1), dalla Slovacchia (1), dall’India (2),

dall’Argentina (2) e dal Camerun (1). Inoltre rispetto al background disciplinare 6 di

loro sono fisici, 6 sono chimici, 4 sono ingegneri.

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In termini di performance il gruppo può essere considerato come molto competitivo a

livello internazionale sotto diversi punti di vista ed ha una buona visibilità a livello

internazionale. Durante il periodo di osservazione ha partecipato a ben 9 progetti

europei, 1 nazionale e 1 regionale. Sono stati registrati 4 brevetti e in termini di

pubblicazioni la figura 4.1 dà un’idea dei ritmi con cui si sottomettono paper che

finiscono per essere pubblicati. I dati della figura 4.1 si riferiscono al mese in cui la

pubblicazione è stata sottomessa alla rivista e non quando è stata pubblicata. Quasi ogni

mese viene sottomesso almeno un paper dai membri del gruppo.

Fig. 4.1 – Il trend di paper pubblicati ordinati rispetto alla data di sottomissione

FONTE: mie elaborazioni, Web of Science

E’ interessante inoltre notare come sia i paper che includono tra le co-authorship

prevalentemente membri del gruppo e sia paper che rispondono a iniziative personali

sono ben bilanciate. Inoltre parte delle attività del gruppo sono collegate a quelle di uno

spin-off che sfrutta a livello industriale parte della conoscenza prodotta nei laboratori.

0

1

2

3

4

gen- 06

feb- 06

mar-06

apr-06

mag- 06

giu- 06

lug- 06

ago- 06

set-06

ott-06

nov-06

dic-06

gen- 07

feb- 07

mar-07

apr-07

gruppo 2 1

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L’eterogeneità dei membri, sia in termini culturali, di tenure che di background

disciplinare, la presenza massiccia di precari (20 su 21) l’ampia disponibilità di risorse

finanziare assicurate dalla partecipazione a numerosi progetti europei e la visibilità

internazionale lo rendono come un caso estremo e al tempo stesso interessante per

studiare l’emergere di differenti ‘work identity’ e la loro interazione.

4.2.1 Il processo di lavoro nei gruppi di ricerca

I processi di lavoro organizzati in un gruppo di ricerca possono essere letti rispetto a due

livelli tra di loro strettamente interconnessi. Il primo potrebbe essere definito come

“sperimentale” e consiste in tutti quei processi di lavoro attivati per “fare” un

esperimento. Il secondo invece riguarda l’insieme dei processi di lavoro che rendono

possibile il “poter fare” l’esperimento, come ad esempio la gestione delle risorse

finanziarie, delle collaborazioni esterne o semplicemente delle forniture di laboratorio.

Per questo motivo potrebbe essere definito come “strutturale” o di “supporto” alla

realizzazione di un esperimento. Nella figura 4.2 viene schematizzato il processo.

Fig. 4.2 – Il processo di lavoro sperimentale

Negoziazione Analisi

dati

Interpretaz. dati

Studio

_ risultato

+

Perché è andata male? Come andare avanti?

Azione

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A prescindere dall’oggetto dell’esperimento si possono distinguere delle fasi che si

ripetono in tutti i casi:

1. L’Idea. Il risultato di questa fase è la decisione personale o collettiva su cosa andare

a studiare, come e chi coinvolgere.

Si possono distinguere due tipi di potenziale genesi per un’idea sperimentale, uno

spontaneo e uno formale. Le condizioni di base per avere un’idea riconducibile al primo

tipo sono:

- Dal caso (curiosità, serendipity). Molto raro;

- Dall’interazione tra 2 o + individui, con background simile o diverso

- Da altri esperimenti (molto frequente), in termini di:

a) approfondimento di un fenomeno (“un esperimento non è mai fine a se

stesso”). Risultati positivi possono dare spunti per suggerire un potenziale

applicativo per esempio o comunque incoraggiano a continuare nella stessa

direzione di ricerca;

b) da risultati inattesi (un esperimento nasce principalmente come un

processo che porterà a testare delle ipotesi, nel caso in cui si riscontrano dei

risultati non previsti può nascere per esempio l’idea per scoprirne il motivo e

questo genera altri esperimenti anche su fenomeni diversi da quelli di partenza)

c) dalla letteratura

Per quanto riguarda il tipo formale le condizioni di base sono legate principalmente ad

un’ esigenza applicativa. Questo può voler dire sia una richiesta da parte di un soggetto

privato rispetto ad una determinata problematica o un obiettivo generale definito in un

deliverable di un progetto o un esigenza rispetto all’attività degli spin-off. Dall’idea si

passa all’azione attraverso un processo di negoziazione che coinvolge altri ricercatori,

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“gli specialisti” scelti in virtù della loro conoscenza specifica. Quest’ultimi accettano

per diversi motivi che vanno dal soddisfare un interesse scientifico proprio all’

intravedere una opportunità di pubblicazioni ad alto impact factor fino a ragioni legate

a pura convenienza politica. In particolare gli specialisti non sono interessati

all’esperimento globale in quanto tale ma bensì alla comprensione e conoscenza di

ulteriori applicazioni delle loro competenze. Dopo che i compiti sono stati assegnati, nel

corso di un processo sperimentale i ricercatori alternano fasi di lavoro individuale a

successivi momenti di interazione che consentono di collegare il lavoro dei singoli e di

programmare gli step successivi.

2. L’Azione. Questa fase consiste nelle attività di laboratorio e quindi riguarda

l’applicazione di tecniche tramite l’uso della strumentazione e dell’attrezzatura

scientifica. L’output finale di questa fase sono dei dati o degli oggetti scientifici.

Durante questa fase gli “specialisti” lavorano individualmente. Generalmente sono

portati a interagire solo con il coordinatore dell’esperimento, colui che ha la visione

globale, e solo nel momento in cui hanno dei risultati da mostrare in modo da avere dei

feedback.

3. L’analisi dei dati. Ognuno ordina e analizza da solo i dati raccolti.

4. Interpretazione dei dati. I risultati delle analisi dei dati vengono interpretati da

più persone.

5. Studio. Sulla base dell’interpretazione data ai risultati si studia come orientare il

processo di lavoro successivo. Se il risultato empirico che si è ottenuto è reputato

positivo allora si penserà a come continuare ad approfondire l’argomento oggetto di

studio. Nel caso opposto invece si studierà per capire i motivi del risultato inatteso.

Questo può portare o fare altri esperimenti o ad abbandonare l’esperimento ma in ogni

caso è una decisione prevalentemente collettiva.

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Si può notare come le fasi che ho chiamato dell’idea, dell’azione e dello studio siano tra

di loro strettamente interconnesse e accomunate da caratteristiche che coinvolgono la

creatività e le capacità dei ricercatori. Le fasi dell’analisi e dell’interpretazione dei dati

invece possono essere ritenute come i momenti di verifica del lavoro fatto.

4.3 LA RACCOLTA DELLE EVIDENZE EMPIRICHE E LE TECNIC HE

UTILIZZATE

I due principali metodi di raccolta dati sono le interviste etnografiche e i diari

qualitativi. Sono state fatte anche osservazioni di group meeting e sono stati raccolti dati

documentali per arricchire la comprensione del contesto e delle interazioni tra

professionisti. In questo modo è stata operata una triangolazione tra molteplici metodi di

raccolta dati in modo da ottenere numerosi punti di vista rispetto allo stesso fenomeno

(Glaser, 1978; Denzin e Lincoln, 1998).

Complessivamente il periodo di raccolta dati è durato per un periodo di un anno e

mezzo. In Marzo 2006 sono iniziate le interviste in profondità per comprendere come le

persone danno senso al loro lavoro e come definiscono loro stessi come professionisti

(Spradley, 1979). Tutti gli informatori sono stati intervistati per circa un ora e mezza. La

scelta di iniziare con le interviste è giustificata dalla volontà di stabilire una relazione

empatica con gli informatori e di guadagnare un pieno accesso nel contesto.

All’inizio dello studio si pensava di poter usare le osservazioni partecipanti come

tecnica principale per raccogliere i dati. Purtroppo le forme tradizionali di osservazioni

partecipanti si sono rivelate inadeguate in questo setting perché molti informatori

spendono una grande quantità di tempo facendo esperimenti in laboratorio durante i

quali la presenza di un osservatore poteva essere intrusiva o in certi casi pericolosa.

Inoltre, alcuni informatori lavorano spesso da soli con il loro computer e per tempi

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lunghi, così rendendo le pratiche difficili da essere colte dall’osservatore che mancava

di conoscenze tecniche. Quindi è stato deciso di limitare le osservazioni partecipanti ai

soli group meeting e di raccogliere dati primari sulle pratiche di lavoro attraverso i diari

qualitativi. In parallelo la comprensione del contesto è stata arricchita con l’analisi di

documenti sia ufficiali che non ufficiali. per esempio sono stati presi in considerazioni i

documenti relativi ai progetti europei nel quale il gruppo partecipa.

I DIARI QUALITATIVI

I diari sono un interessante, anche se relativamente poco impiegato, strumento per fare

ricerca qualitativa (Symon e Cassel, 1998) e per raccogliere dati sull’uso del tempo.

Secondo Plummer (1983, pg 17) ‘The diary is the document of life par excellence,

chronicling as it does the immediately contemporaneous flow of public and private

events that are significant to the diarist’. In questo senso si può comprendere come un

vantaggio dei diari è rappresentato dalla possibilità di raccogliere dati contestuali

insieme con dati soggettivi (come la percezione individuale di soddisfazione o la

percezione di utilità) (Harvey e Pentland, 2002). Inoltre i diari risultano essere meno

intrusivi di altri strumenti di raccolta dati primari come i questionari o le interviste in

profondità o le osservazioni etnografiche perché gli informatori hanno generalmente

maggiore familiarità nella compilazione di un diario indipendentemente dall’oggetto

dell’analisi. Molti individui infatti spontaneamente scrivono un proprio diario per

conservare tracce del proprio passato o un’agenda per annotare eventi o impegni

rilevanti. Alcuni diari sono stati addirittura pubblicati come quello di Anna Frank o

Thomas Edison e nel caso specifico dei ricercatori scrivere quotidianamente un diario di

laboratorio (lab-book) durante l’attività sperimentale è una consuetudine diffusa. Il

diario di laboratorio è indispensabile perché permette di evitare replicazioni di

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esperimenti oppure di tenere nota delle variabili casuali che hanno inciso sul risultato

sperimentale. Per questa ragione il diario è stato ritenuto come uno strumento di

raccolta dati efficace per esplorare le pratiche di lavoro direttamente dal punto di vista

degli informatori. Tuttavia un aspetto cruciale nell’impiego di questo strumento è

costituito dalla struttura del format che si sceglie di adottare sia rispetto ai vincoli che

pone alla soggettività dei contenuti raccolti che rispetto alla programmazione temporale

imposta ai singoli informatori. In relazione ai contenuti in letteratura sono stati utilizzati

sia formati più strutturati come le checklist delle attività quotidiana degli individui

(Carlson, 1951), combinazioni di domande chiuse e/o scale di valutazione (Duck e

Miell, 1982) e sia formati aperti come quello utilizzato dalla Perlow (1999). Per quanto

riguarda la programmazione temporale della raccolta dati le strategie adottate sono state

essenzialmente tre, definite come: <<interval contingent, event contingent e experience

sampling>> (Symon e Cassel, 1998). Nel primo caso viene richiesto agli informatori di

compilare il diario in momenti specifici della giornata. Questa soluzione è quella che si

avvicina maggiormente alla concezione ‘normale’ di diario e offre maggiori gradi di

libertà agli informatori. E’ utilizzata prevalentemente negli studi che si concentrano

sulle analisi dei discorsi. Nel secondo caso invece la compilazione avviene dopo

l’accadimento di eventi specifici. Questa modalità è utilizzata prevalentemente negli

studi di psicologia organizzativa per esaminare gli effetti di specifici cambiamenti.

Infine il terzo è quello che limita maggiormente la libertà degli informatori e quello più

costoso per i ricercatori. In questo caso gli informatori vengono dotati di orologi con

allarmi che suonano a intervalli regolari (es. Perlow, 1999) o casuali (es. Williams et al.,

1991) segnalando durante la giornata i momenti da dedicare alla compilazione del

diario. Gli studi condotti finora hanno messo bene in evidenza i limiti sia di un formato

molto strutturato che di uno aperto. In particolare il limite di un formato troppo

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strutturato è quello di vincolare inevitabilmente il materiale di ricerca che può essere

raccolto (Mintzberg 1973). Nel caso di un formato aperto invece gli svantaggi sono

legati ai costi elevati per la raccolta dei dati che finiscono per condizionare sia il numero

di informatori coinvolti che l’estensione temporale della raccolta dati. Nel caso della

Perlow per esempio, gli informatori sono diciassette e ognuno ha compilato il diario

solo per un giorno. Nell’ambito di questo lavoro di ricerca è stato scelta una strategia di

programmazione temporale di tipo ‘interval contingent’. Ogni informatore ha compilato

il diario in due momenti precisi della giornata, prima della pausa pranzo e a fine

giornata. Inoltre per aumentare il livello di familiarità e di conseguenza la ricchezza dei

dati raccolti, ognuno di loro ha potuto scegliere in linea con le proprie abitudini se

compilare il diario in formato elettronico, cartaceo o se dettarmelo. Per quanto riguarda

i contenuti invece è stato adottato un formato poco strutturato (Fig. 4.3). Nello

specifico gli informatori hanno registrato ogni fenomeno, così come eventi e interazioni,

avvenuto durante uno specifico giorno di lavoro rispettando un pattern cronologico;

hanno indicato la lunghezza del tempo di ogni fenomeno, se era previsto o imprevisto

rispetto alla loro agenda personale e infine è stato chiesto di rispondere alla domanda. In

che modo questa interazione/attività/evento ha influenzato il procedere del tuo lavoro?

Questo format ha permesso di comprendere come i membri del gruppo considerano le

loro attività quotidiane, secondo quali pattern sono soliti organizzare il loro tempo, con

chi interagiscono e quali effetti le interazioni sono percepite avere sulle proprie pratiche

e quelle dei propri collaboratori. I diari sono stati raccolti per dieci settimane iniziando

da Maggio 2006. Agli informatori è stato chiesto di compilare il proprio diario ogni

quattro settimane in base ad una procedura di campionamento. Seguendo il

campionamento, ognuno ha compilato il diario per due settimane non consecutive. Una

settimana dopo la compilazione dei diari settimanali è stata condotta un’intervista in

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profondità di circa 45 minuti per commentarli e per approfondire gli episodi meno

dettagliati.

Fig. 4.3 - Template del diario

4.4 – L’ANALISI DELLE EVIDENZE EMPIRICHE

Con il consenso degli informatori tutte le interviste sono state registrate e trascritte in

versione verbatim non più tardi di 48 ore. Tutti i dati sono stati analizzati con l’ausilio

del software Nvivo 7. Nell’analizzare i dati è stata data voce agli informatori per

comprendere come gli individui categorizzano loro stessi come professionisti (Zabuski

e Barley, 1997). In particolare, ho lasciato che differenti identità professionali

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emergessero dai discorsi e dalle pratiche. Nelle parole di Sveningsson e Alvesson, “we

use discourse here to refer to a way of reasoning (form of logic), with certain truth

effects through its impact on practice, anchored in a particolar vocabulary that

costitutes a particular version of the social world” (2003: 1169). Le identità sono

ritenute come costruzioni discorsive attivate e negoziate nelle interazioni e nelle

pratiche di lavoro (Alvesson e Willmott, 2002; Kuhn, 2006). Attraverso l’analisi di tutte

le forme di interazioni parlate e testi scritti nel campo sono stati identificati i processi

discorsivi chiave lungo i quali molteplici identità sono formulate e espresse e come

influenzano i comportamenti individuali (Alvesson e Karreman, 2000; Grant, Keenoy e

Oswick, 2001). Per identificare i processi discorsivi è stato impiegato un approccio

induttivo ispirato dalle linee guida di Huberman (1994) e Locke (2001), che

suggeriscono di adottare un approccio iterativo di comparazione e contrasto dei dati,

continuamente andando avanti e indietro tra le field notes raccolte e la costruzione

teorica. Primo, ogni testo è stato letto attentamente per identificare frasi legate

all’identità e per aver un senso sui tipi di risposte. In altre parole, condensazione di

significati portando alla luce categorie astratte da affermazioni specifiche. Similarmente

all’open coding (Strass e Corbin, 1998) in questo modo sono state generate

induttivamente categorie di primo ordine. Per esempio quando gli informatori parlavano

della Scienza come un ‘gioco’ o come un ‘divertimento’ o usando simili metafore, è

stata usata l’etichetta: ‘Scienza come entusiasmo’. Successivamente le categorie

convergenti le categorie convergenti sono state raggruppate ad un livello di astrazione

più alto: in questo stage, ‘i temi di secondo ordine’ sono emersi (Gioia e Thomas, 1996;

Locke 2001; Pratt, Rockmann e Kaupfmann, 2006) come discorsi. Per esempio,

differenti interpretazioni della Scienza sono emersi (‘Scienza come gioco’, ‘Scienza

come fatica e rigore’, ‘scienza come progetti’) che sono state combinate nei ‘discorsi

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sulla Scienza’. In un terzo stage sono state esaminate l’emergere di differenti

combinazioni di discorsi con l’obiettivo di valutare la loro coerenza come identità

significativa e posizionare le conclusioni emergenti in un framework coerente. L’analisi

rivela che gli informatori sono coinvolti in una combinazione di molteplici risorse

discorsive nella costruzione della loro identità professionale. Come Kuhn (2006)

osserva: ‘Individuals are both subject to, and progenitors of, multiple discourse in

social life. Identity work should therefore not be expected to reflect a single category of

experience’ (p.1345).

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Capitolo 5 26

Le evidenze empiriche

INTRODUZIONE. In questo capitolo ho intenzione di mostrare che possono essere

attivati dei processi di ‘identity work’ anche ai confini tra membri di uno stesso gruppo

di lavoro e di una stessa comunità occupazionale (i ricercatori) ma con ‘work idenity’

diverse. Come è stato detto in precedenza per ‘work identity’ si intendono tutte le

identità (organizzativa, professionale, disciplinare, del gruppo di lavoro, etc.) che

congiuntamente consentono di comprendere i comportamenti degli individui nei

contesti lavorativi. L’efficacia di questa scelta è stata confermata dall’evidenza che gli

informatori di questo studio quando parlano di se stessi come lavoratori si

percepiscono prima di tutto come ricercatori e non secondo la comunità epistemica a

cui sentono di appartenere (fisici, chimici, ingegneri elettrici) come ci si potrebbe

aspettare. La molteplicità di “work identities” nel contesto lavorativo di un laboratorio

pubblico di ricerca è supportata dai livelli alti di discrezionalità, autonomia e libertà

che lo caratterizzano a livello intrinseco e che creano spazio per l’attivazione di

differenti pattern di lavoro. In particolare la presenza di identità multiple è stata

registrata attraverso l’analisi delle similarità e dissimilarità nei discorsi sul lavoro.

26 Il contenuto di questo capitolo è il frutto di un lavoro congiunto con Maria Rita Tagliaventi e Elisa Mattarelli.

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Complessivamente sono stati identificati tre discorsi sul lavoro, indipendenti

dall’affiliazione con il gruppo specifico, che riguardano come gli informatori vedono

la Scienza (la visione della Scienza), come svolgono il loro lavoro (visione del lavoro

quotidiano) e infine come interpretano le interazioni (visione del ruolo del ricercatore

nelle relazioni). È stato rilevato che l’interpretazione su cosa voglia dire lavorare nella

ricerca varia in relazione a combinazioni diverse di questi tre discorsi. Dall’analisi

sono emerse tre combinazioni ricorrenti di discorsi sul lavoro a cui corrispondo modi

differenti di usare il tempo, di interpretare le interazioni e i pattern di lavoro

In questo modo sono stati identificati tre profili ricorrenti che permettono di sintetizzare

come gli individui attivano la loro identità nello svolgimento delle pratiche quotidiane.

Questi profili sono stati denominati come ‘integrator’, ‘lone rider’ e ‘administrator’ e

sono stati presentati attraverso delle vignette.

Dopo aver mostrato la presenza di identità multiple nel contesto studiato, nella seconda

parte del capitolo il focus viene posto sulle interazioni tra identità diverse. In

particolare viene presentato come gli individui attivano l’interpretazioni di loro stessi

nelle interazioni quotidiane con i colleghi del gruppo di lavoro determinando e quali

possono essere le determinanti di situazioni di compatibilità e incompatibilità tra i

profili diversi.

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5.1 LA NATURA DEL LAVORO DELLA RICERCA

E a parte per i progetti hai contatti con altri chimici o fisici all’esterno di questo CNR?

No, in maniera continuativa no, solo ex amici. Considera che qua c’è di tutto, considera che siamo circa mille e forse anche di più. Cioè qua hai tutto, è come stare nella valle delle religioni. Cioè trovi buddisti, tarantolati, paulisti… (field notes da intervista con ricercatore)

Superato il sottopassaggio della ferrovia, quando sembrava che oltre non ci fosse più

nulla, compare l’area della ricerca del CNR, come un’isola rispetto al resto della città, e

sullo sfondo i colori della periferia.

In prima linea, rispettando un ordine formale, si presenta il CNR con un edificio dalla

forma non regolare che permette di distinguere chiaramente a prima vista tre aree

differenti. Tecnicamente vengono chiamate “servizi d’area”. Intorno un circuito

asfaltato ne delinea il perimetro e conduce, per una via esterna, ad ognuno degli undici

edifici che movimentano l’area alle spalle. Ospitano gli uffici e i laboratori degli

Istituti, e le officine meccaniche. Tutta l’area è preceduta da uno spazio arioso, dove

diverse linee di autobus terminano le loro corse, ed è delimitata da una recinzione

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leggera che si interrompe solo in corrispondenza dell’ingresso principale per dare spazio

ad un gabbiotto e ad una sbarra che elettronicamente regolano gli accessi. E’ qui che

ogni giorno e a tutte le ore la scienza è considerata prima di tutto un lavoro. ‘Un

mestiere che si impara’.

In una mattina qualsiasi di un giorno qualunque quello che colpisce chi arriva per la

prima volta è che, a qualsiasi ora, nell’area esterna che precede l’ingresso non c’è mai

troppa confusione. A parte quando ci sono le visita di autorità o i congressi o altri tipi di

eventi, generalmente tutto sembra seguire un ordine naturale dai ritmi lenti.

Sebbene ci lavorino circa mille persone capita molto di rado vedere code di automobili

che aspettano che si alzi la sbarra o gruppetti più numerosi di tre o quattro persone che

fanno la fila per strisciare il badge. Gli unici ad arrivare e andare via sempre intorno allo

stesso orario sono quelli che lavorano per la mensa, gli addetti alle pulizie e le guardie

della portineria, (facilmente riconoscibili perché indossano divise diverse), e il

personale amministrativo degli Istituti. Tra i ricercatori, qualcuno oggi è all’estero per

un meeting o per un talk, qualcun altro ha preferito lavorare da casa e per qualsiasi cosa

è raggiungibile via mail. Tutti gli altri si sono sentiti liberi di organizzare il proprio

tempo e scegliere a che ora arrivare in base agli orari degli autobus, dei treni o delle

esigenze personali. Anche se tutti strisciano il badge prima di entrare o di uscire molti di

loro non lo fanno per dimostrare il rispetto di turni di lavoro ma bensì solo per rispettare

una norma di sicurezza. Questa non è una prova di anarchia o inefficienza

organizzativa ma una traccia iniziale che caratterizza profondamente questo workplace:

i lavoratori beneficiano della discrezionalità nell’uso del tempo e ogni giorno il

tempo dedicato al lavoro viene costruito socialmente rispetto agli impegni programmati

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in anticipo con i propri collaboratori o a tutto ciò che succede di inatteso sia a livello

sperimentale che relazionale.

Rispetto alle pratiche di lavoro in laboratorio questa traccia ci indica inoltre che i

ricercatori beneficiano di uno spazio di discrezionalità anche rispetto a come sviluppare

un problema scientifico in termini di quali esperimenti fare, quali tecnologie utilizzare o

con chi collaborare. Quando i ricercatori parlano di questo aspetto del loro lavoro lo

collegano direttamente con altri due discorsi che riguardano l’autonomia e la libertà.

Nelle evidenze empiriche raccolte, l’autonomia e la libertà nel poter decidere sia il

contenuto della ricerca che l’organizzazione delle pratiche di lavoro in laboratorio sono

considerati da tutti i ricercatori, a prescindere dall’affiliazione con il gruppo specifico,

una condizione fondamentale del lavoro che è soddisfatta nel caso trattato ed è in linea

con l’autonomia come valore profondamente caratterizzante i professionisti (Beam,

1990; Zabusky e Barley 1997; Russo 1998).

Nella percezione dei nostri informatori, le passioni individuali e non gli obblighi e le

costrizioni, guidano il lavoro degli scienziati. Inoltre la maggior parte dei membri dei

gruppi sono lavoratori temporanei e come tali vogliono fare esperienza nel laboratorio e

sentirsi liberi di impostare il proprio lavoro come meglio credono. Nelle parole di

Sandra:

<<Il mio stipendio è interamente pagato da un progetto europeo. Come la maggior

parte di tutti noi. Noi siamo tutti lavoratori temporanei. […] Tu potresti dire: chi te lo

fa fare? forse perché io amo quello che faccio e voglio sentirmi libera di impostare il

mio lavoro come preferisco.>>

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Nello specifico i ricercatori con meno esperienza tecnica parlano dell’autonomia

riferendosi prevalentemente all’uso delle tecnologie di laboratorio e la ritengono

un’esigenza per poter compiere il proprio lavoro di ricerca sperimentale. Al contrario

nei discorsi dei ricercatori più anziani l’autonomia è legata ad una visione più ampia del

lavoro e si riferisce prevalentemente alla capacità di identificare e sviluppare un

problema scientifico. I discorsi sulla libertà riguardano invece la possibilità di poter

soddisfare le proprie curiosità e interessi scientifici e si riferiscono direttamente alla

relazione tra il proprio lavoro e quello del gruppo in termini di poter sviluppare

collaborazioni esterne al gruppo o poter cambiare tematica di ricerca.

I valori della discrezionalità, dell’autonomia e della libertà si intrecciano nei discorsi dei

ricercatori e insieme segnalano altri due aspetti rilevanti che caratterizzano in profondità

la natura di questo lavoro. Il primo riguarda la collegialità e l’informalità dei rapporti,

tipico dei ‘college invisibili’ che si aggiunge e confronta con il controllo amministrativo

che regola formalmente le attività dell’ente di ricerca e dei singoli gruppi. Il secondo ci

indica invece che all’interno della stessa comunità professionale – i ricercatori - ci

potrebbe essere il potenziale per una variazione in termini di pattern di interazioni, di

uso del tempo e di contenuto del lavoro. In altre parole la ‘work identity’ di una stessa

categoria di lavoratori potrebbe essere agita e attivata in maniera diversa attraverso le

pratiche. Questo aspetto verrà approfondito nel paragrafo successivo.

Un altro discorso organizzativo comune a tutti i membri del gruppo è quello che

riguarda la disponibilità di buffers di risorse. Il gruppo studiato è nella percezione dei

suoi membri caratterizzato da una grande disponibilità di equipment e di risorse

finanziarie garantite dalla partecipazione in numerosi progetti di ricerca sia industriali

che europei. Per esempio i microscopi sono gli strumenti più frequentemente e

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intensamente utilizzati dai membri a prescindere dal loro background formativo. In

media c’è un microscopio ogni due ricercatori e in linea generale si tratta di diadi

composte da un ricercatore junior e uno senior. Gli informatori spesso commentano che

‘ le macchine non costituiscono un problema per il lavoro’ (Stefano) Un basso livello di

competizione per l’uso delle risorse rende l’organizzazione attraente per gli scienziati

(Smith-Doerr, 2005). Inoltre le disponibilità finanziarie sono spesso menzionate come

un importante premessa per smussare le dinamiche di gruppo, i.e. riducendo i tempi di

attesa o facilitando la negoziazione sull’uso dell’equipment. Nelle parole di Salvatore:

<< A livello di gruppo, avere un alto budget, come noi abbiamo, aiuta un sacco. se una

pompa si rompe, tu ne compri una nuova e basta. Oppure tu ripari quelli vecchi. Io ho

lavorato inlaboratori dove se c’erano problemi tecnici, io dovevo aspettare un mese

prima che il problema venisse risolto perché non c’erano soldi. […] avere i soldi è

molto importante.>>

Le risorse tangibili e intangibili, riducendo il l bisogno per la negoziazione sull’uso

e l’allocazione, sono percepite dai membri del gruppo come fattori abilitanti la

discrezionalità nello svolgere le pratiche di lavoro individuali e riducono la possibilità

di conflitti.

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5.2. L’IDENTITA’ PROFESSIONALE: CHE COSA SIGNIFICA E SSERE UN

RICERCATORE.

Fabius : ‘Qui c’è un aspetto importante da dire che siamo tutti ricercatori,

abbiamo tutti la stessa dignità però effettivamente c’è modo e modo di lavorare’.

Bruno :‘È sempre scienza secondo me. cioè la questione è questa: nel momento in cui ti

poni la domanda è scienza, che poi tu riesca a darci una risposta è un discorso diverso.

cioè quello vuol dire ottenere un risultato scientifico. Però nel momento stesso in cui tu

non guardi supinamente un campione e non ti poni nessuna domanda, attacchi e stai lì

a guardare che il microscopio funzioni, o qualunque altra cosa funzioni; nel momento

in cui ti poni la domanda quella è scienza. Poi ci possono essere domande più o meno

interessanti e risultati più o meno rilevanti e così via… gente diventata importantissima

con domande relativamente semplici ma spiegate bene’.

Giovanni : ‘Un chimico e un fisico è diverso perchè tipicamente gli spettroscopisti lo

sono perchè sanno un po’ dell’uno e un po’ dell’altro…. Mah ormai ci sono moltissime

riviste che come dire sono.. accettano paper che sono scritti in modo multidisciplinare,

poi è chiaro che si vede se l’ha scritta un chimico o se l’ha scritta un fisico… Poi c’è

chimico e chimico, e fisico e fisico eh, ci son dei chimici che sanno molto bene la fisica..

Quel signore lì, quel signore lì che ha vinto il Franklin, Giacinto, è un chimico ma sa

tanta di quella fisica da far paura ecco, per dire.. Quindi cioè non bisogna fermarsi

ecco nelle etichette ma poi dipende da che ricercatore è.’

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Nell’estratto dalle interviste, Fabius (group leader), Bruno e Giovanni (ricercatore

senior) rivelano un aspetto centrale per i membri del gruppo studiato. Gli informatori,

quando parlano di loro stessi come lavoratori, si percepiscono principalmente come

ricercatori piuttosto che come fisici, chimici,chimici fisici, ingegneri o scienziati dei

materiali.

Anche se i fisici, i chimici, i chimici-fisici, gli scienziati dei materiali e gli ingegneri si

distinguono per le loro pratiche specifiche, dal momento che usano strumentazione

differente oppure la stessa ma in modo differente, tutti condividono la visione che

lavorano nella Ricerca. Questa evidenza empirica è corroborata dall’analisi della

frequenza delle parole che i membri dei tre gruppi utilizzano per commentare il loro

lavoro. Ognuno usa il termine ‘ricercatore’ e i suoi derivati o simili (come ‘ricerca’,

‘scienza’ e ‘ricerca’) 20,4 volte in media mentre i termini legati alla specializzazione

(‘fisico’ o ‘chimico’ e relativi derivati) sono menzionati solo 10,4 volte in media.

Le variegate evidenze raccolte mostrano che, nel gruppo studiato, differenti discorsi

sono attivati, creando una ‘rete complessa’ (Sveningsson e Alvesson, 2003) all’interno

della quale gli scienziati continuamente definiscono e costruiscono loro stessi come

professionisti che lavorano nella Scienza. Complessivamente sono stati identificati tre

discorsi sul lavoro, indipendenti dall’affiliazione con il gruppo specifico, che

riguardano come gli informatori vedono la Scienza (la visione della Scienza), come

svolgono il loro lavoro (visione del lavoro quotidiano) e infine come interpretano le

interazioni (visione del ruolo del ricercatore nelle relazioni).

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5.2.1. – I discorsi sul proprio lavoro:

Visione della Scienza. Quando si parla di loro stessi come professionisti o quando

descrivono il loro lavoro, i membri del gruppo esplicitamente fanno riferimento alla

loro visione della Scienza. In particolare tre differenti discorsi sono emersi in questo

setting: Scienza come rigore e fatica, Scienza come un gioco e Scienza come progetti.

La Scienza è associata al rigore e allo sforzo fisico e mentale quando gli individui

sottolineano complessità del lavoro scientifico e usano metafore che stressano

l’importanza del ‘lavorare duro’. Fausto, per esempio, compara la Scienza a una corsa di

ciclismo (‘guarda ai ciclisti professionisti […]. Per essere a quel livello hanno lavorato

duro e per noi è esattamente lo stesso’). In questa linea di pensiero, l’applicazione del

metodo scientifico è di primaria importanza perchè rappresenta un punto di riferimento

per valutare i risultati del proprio lavoro. Come sottolinea David:

Io applico il metodo scientifico a qualsiasi cosa io faccio. I materiali e gli esperimenti

potrebbero cambiare, ma alla fine quello che faccio è sempre Scienza.

Una seconda interpretazione della Scienza emerge quando gli individui usano la

metafora del gioco per descrivere il loro entusiasmo nel lavorare alla frontiera della

Scienza. Nelle parole di Philippe e Antonio:

‘Scienza significa no routine. Mi piace giocare come un bambino con i giochi

tecnologici. Andare a Grenoble al Sincrotrone è un sogno per me. Io non ho dormito

per una settimana. Lavorare all’ufficio postale non fa per me’.

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‘ […] quando hai 25 anni e non hai mai visto.. sai cos’è un laser per un acronimo, ne

hai visti qualcuno, hai la possibilità di vedere quello che era all’epoca lo stato dell’arte

sui laser. Questo ti far venire voglia subito di giocare, è un gioco troppo bello. E li

impari tante cose e fai funzionare quelle macchine lì, disegni degli esperimenti, entri in

un mondo che per me all’epoca era nuovo, avevo una cultura scolastica…

Un terzo discorso sulla Scienza, più utilitaristico dei precedenti, è basato sulla

considerazione che per contribuire al dibattito scientifico è necessario trasformare le

idee anche in progetti di ricerca. Nelle parole di Sandra:

‘Oggi nella Scienza si lavora con i progetti. I progetti ti danno l’incentivo e l’urgenza

di approfondire certe tematiche prima di altre. E poi è pur vero che su questi argomenti

come possono esser le nanotecnologie magari.. non so, non vedrei tanto una ricerca

semplicemente finanziata e basta, perchè vedo bene questo sistema per la ricerca di

base, cioè la ricerca teorica, non so, l’astronomia, cioè ricerche diciamo che non

hanno.. che non possono avere un immediato impatto.. Cioè in questo caso qua

l’impatto è abbastanza immediato, cioè anche sulla tecnologia, su.. per cui è giusto che

magari lavorare per progetti, nel senso che.. dover dimostrare insomma che stai

lavorando in quel settore..’

Visione del lavoro nella quotidianità.

Rispetto a questo discorso principale sono stati riconosciuti tre differenti discorsi locali

che riflettono le pratiche di lavoro dei ricercatori nei rispettivi gruppi. Questi

riguardano: il grado di specializzazione, la capacità di sintesi e la gestione delle risorse.

Una tensione tra specializzazione e multidisciplinarità è evidente nel contesto, come in

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molte unità R&D (Clark e Fujimoto, 1991). Alcuni ricercatori percepiscono il loro

lavoro come altamente specializzato (‘il punto è che il lavoro è specializzazione’

Frank), mentre altri privilegiano la multidisciplinarità (‘io ho una visione

multidisciplinare dei problemi, Daniele) e amano lavorare su differenti problemi (io

praticamente lavoro su tutto, David). Quando parlano del loro lavoro, alcuni membri del

gruppo stressano l’importanza di essere capaci di aggregare insieme informazioni in

modi differenti, combinando elementi eterogenei in nuovi pattern o proponendo

soluzioni alternative. Tale capacità di sintesi è spesso considerata un attributo centrale

del buon ricercatore. Un altro aspetto ricorrente è come ci si occupa della gestione delle

risorse. Molti ricercatori, in occasioni differenti, menzionano che è una responsabilità

etica non rovinare l’attrezzatura di laboratorio, avere cura delle macchine, mostrare

rispetto per gli ambienti comuni e ottimizzare le spese finanziarie.

Fabius dice: ‘Allora nel piccolo come nel grande se uno compra un microscopio da

300.000 euro e poi non lo usa di fatto commette esattamente gli stessi… non si possono

definire crimini ma insomma le stesse mancanze che poi no vediamo rappresentate sui

telegiornali o insomma in altre trasmissioni riguardanti, non so, ospedali che comprano

strumentazione e la lasciano inutilizzata. Quindi bisogna che la gente sia responsabile.

Non è che si diventa responsabili quando si è capi di una commessa. Si è responsabili

già quando si programma un esperimento e quando si fa l’attività di tutti i giorni’.

Visione delle Interazioni. Sebbene tutti riconoscono che il lavoro nella Scienza non

può essere svolto da singoli individui, due differenti interpretazioni delle interazioni

emergono dal campo: interazioni come il cuore della Scienza e interazioni come ‘un

prezzo da pagare’. Nella prima interpretazione le interazioni sono cruciali per risolvere

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problemi scientifici e le relazioni con i colleghi sono di valore perché nelle parole degli

informatori permettono di “imparare interagendo” e di “non perdere il contatto con il

gruppo”. Per esempio, Salvatore è orgoglioso di essere ‘parte di una catena’ e dichiara:

‘Io credo che questa attività come molte altre che io faccio è fondamentale per il lavoro

degli altri. perché? perché se io non lo faccio, Susan, David, Frank e Alberto non

possono andare avanti con il loro proprio lavoro. Questo mi fa sentire importante’.

Daniele invece durante un meeting con un laureando non riuscendo a rispondere ai

problemi sollevati dal ricercatore più giovane coinvolge nella discussione un altro

ricercatore senior più esperto di lui rispetto al problema specifico. Alla fine, una volta

trovata la soluzione, si rivolge al laureando dicendogli:

“vedi, coinvolgere quelli che sanno poi uno gli vengon fuori le cose! Io tendo a sfruttare

le conoscenze di tutto il mondo!”

Nella seconda interpretazione invece le interpretazioni sono percepite prevalentemente

come un rapporto di dipendenza che può limitare l’autonomia e allargare i tempi nel

lavoro sperimentale. Non a caso gli informatori usano termini come ‘appoggiarsi’ ad

altri, per stressare questo aspetto.

Per esempio, Ferdinand pensa che le interazioni con altri ricercatori rallentano il suo

lavoro. Per questa ragione cerca di ridurle il più possibile e sempre sottolinea la sua

ricerca di indipendenza.

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‘If you work in a sequential fashion […] you have to wait for a person, let’s say the one

who does the gold deposition. So you end up waiting for one week for something that

could have been done in 30 minutes. The bottom line is: you have to work by yourself,

otherwise you cannot do experiments. This is why I am so independent and I like it’.

5.3. - LE COMBINAZIONI RICORRENTI DI DISCORSI NELLA PRATICA

QUOTIDIANA: ESEMPI DI MODI DIFFERENTI DI ESSERE

RICERCATORE E PROFILI D’IDENTITA’

I ricercatori del gruppo analizzato combinano i discorsi sul loro lavoro menzionati

precedentemente per dare senso e riflettere sulla loro identità come lavoratori (work

identity) nel luogo di lavoro. Nel paragrafo successivo vengono mostrate le

combinazioni di discorsi usando tre individui come casi esemplari (o vignette). Sono

stati selezionati Daniele, Fausto e Rosella perché ritengo che riflettano tre combinazioni

ricorrenti di discorsi (da ora in poi ‘profili d’identità’) presenti nel contesto studiato. Per

ragioni di chiarezza i profili sono stati etichettati come ‘integrator’, ‘lone rider’ e

‘administrator’.

Vignetta 1: Daniele, un integrator. Daniele è un chimico e dopo il suo PhD in Scienze

Chimiche ha sempre lavorato in questo gruppo. Daniele crede che ‘avere idee è il cuore’

del suo lavoro. Nella sua percezione il problema scientifico viene prima della tecnica e

della strumentazione, come afferma nella seguente field notes:

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‘Tutti possono avere strumentazione all’ultimo grido, ma se tu non hai un problema

scientifico tu non potrai fare molto. Una volta che tu hai l’idea se hai pure tutto quello

di cui potresti aver bisogno allora è un paradiso’.

Durante i meeting o quando parla con nuovi studenti è solito dire che le buone idee

sono generali nel loro scopo e che è triste confinare la Scienza ad una singola disciplina.

Questo perché come dice nella seguente field notes, lui non si identifica con la chimica

come settore disciplinare di afferenza ma si sente un ibrido.

‘Io, visto anche l’attività che faccio, ho perso l’identità di chimico, non so la fisica sono

una specie di cosa ibrida, si parla bene di solito di quasi tutto nell’ambito scientifico,

specie perché ho una visione multidisciplinare dei problemi. Si parla bene di come

valorizzare gli esperimenti e i risultati che ci son, perché mi è capitato più di una volta

che riesco a cogliere cose importanti da esperimenti giudicati dei fallimenti o

quantomeno malriusciti, avendo questa visione più generale, ad esempio se un film

cresciuto non è venuto perfetto ma è venuto patternato, ho la capacità di riconoscere

che quel patterning può essere un’opportunità, quasi sempre. E per cui tirarci fuori

qualcosa di buono, insomma questa cosa qui ho visto che è apprezzata’.

La natura eclettica e multidisciplinare del lavoro di Daniele si rispecchia nei suoi

eterogenei interessi e attività. Per esempio, Daniele con altri due membri del gruppo ha

fondato uno spin-off con l’obiettivo di industrializzare e vendere i risultati delle sue

ricerche. Inoltre dal suo diario è possibile intuire come la natura del suo lavoro sia

multi-tasking. Durante la settimana tra il 3 e il 7 Luglio 2006 era intensamente coinvolto

nella scrittura di un paper con tre colleghi esterni, ha pianificato le attività di lavoro di

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due nuovi visiting, ha scritto un novo capitolo di un libro con il suo collega Bruno e ha

organizzato meeting per lanciare un nuovo progetto di ricerca.

Da queste attività indicate nel suo diario appare chiaro come le interazioni con i suoi

colleghi occupano gran parte del tempo del suo lavoro (l’analisi dei diari mostra che

circa l’88% del tempo di lavoro di Daniele è speso nell’interagire con altri). Daniele

dichiara di sentirsi un ‘privilegiato’ nel poter interagire con ‘gente brava nel suo campo’

e sottolinea l’importanza di considerare le interazioni come tra pari, ‘anche tra l’ultimo

degli studenti e il più grande scienziato.’ Davanti ad un problema scientifico ‘è

necessario discutere per andare avanti’. In altre parole Daniele ha chiaro che le

interazioni sono fondamentali per portare a compimento un problema scientifico. Nella

field notes seguente Daniele spiega come un progetto scientifico si sviluppa attraverso

la cooperazione con altri ricercatori:

‘Prima di tutto tu hai bisogno di un’idea. […] Poi tu devi trovare i partner con cui puoi

confrontarti e chiarire la tua idea. E’ solo con il supporto delle altre persone che puoi

capire dove puoi arrivare e cosa realmente tu puoi fare. Per esempio, tu capisci che la

tua idea è debole o che qualcuno anche l’ha già investigata. Ad ogni modo tu inizi

l’esperimento. Trovi una persona che sintetizza i materiali, un’altra che fa la

caratterizzazione, e così via. Ognuno dà il suo contributo. Io tipicamente assumo il

ruolo del coordinatore e mi piace poi alla fine mettere le cose insieme’

Come le field notes precedenti suggeriscono, Daniele ama prendere la guida dell’intero

lavoro sperimentale. Le sue pratiche infatti sono prevalentemente legate al metter

insieme il lavoro dei chimici, dei fisici e degli ingegneri. Le interazioni di Daniele sono

equamente distribuite tra i membri del gruppo e i colleghi esterni; questi ultimi sono

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prevalentemente ricercatori di altre Università o Istituti di ricerca europei collegati al

gruppo da progetti di ricerca comuni. Durante la mia presenza sul campo, Daniele ha

partecipato a numerosi workshop, seminari e conferenze, kick-off meeting dei progetti

europei, visite di altri laboratori e ha spesso stressato il ruolo strategico delle

collaborazioni internazionali per ottenere risultati scientifici di maggior impatto e per

guadagnare visibilità nella comunità scientifica internazionale.

Data l’importanza conferita alla creatività, alla visione generale e multidisciplinare, alla

capacità di sintesi e alle interazioni non è sorprendente che dal diario di Daniele emerga

che le interruzioni siano molto frequenti durante le sue normali giornate di lavoro.

Come lui stesso ha riconosciuto nell’intervista post-diario quando è stata commentata

l’alta incidenza degli eventi inattesi che avevano caratterizzato il suo lavoro nell’arco

della settimana:

‘Si, di solito è sempre così. Gli imprevisti sono legati al fatto che io ho un po’ trop… ho

troppe collaborazioni rispetto alle persone che controllo direttamente in questo

diciamo…per poi fare queste collaborazioni. Questa è la prima cosa. E poi avendone

così tante è difficile pianificarle cioè non ho mai delle cose pianificate a priori: “ci si

incontrerà o ci si parlerà questo giorno”. Quando si realizzano certe condizioni tipo: il

risultato sperimentale, la risposta di un referee, uno che ha finito di fare un’attività e

c’ha dei risultati da far vedere, ci si contatta. Avendocene tante ce ne ho tante

impreviste ma… diciamo non sono organizzabili per come sono state impostate perché

non c’è un progetto con dei deliverable a determinati tempi spesso’.

Daniele è policronico e ha frequenti interruzioni. Infatti il suo diario è composto da una

sequenza di molte attività più corte in termini di durata e da blocchi di attività più

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lunghe. Inoltre il diario di Daniele mostra che il 35% degli eventi riportati sono

imprevisti, contro una media del 22% per i membri del gruppo, e che il 28% delle

interazioni sono promosse da lui (interazioni attive). Queste evidenze suggeriscono che

non solo il lavoro di Daniele non è pianificato in maniera stretta ma anche che lui è a

suo volta una fonte di interruzioni per i suoi collaboratori.

Vignetta 2 – Fausto, un Lone Rider. Fausto è un fisico e si è unito al gruppo dopo aver

conseguito il suo PhD in una prestigiosa Università tedesca. Nel laboratorio la sua

attività preferita è quella di sviluppare una macchina per fare misure di elettro-

luminescenza impulsata. Quando parla della Scienza, Fausto sarcasticamente sottolinea

come ‘la conoscenza non è accumulata a causa della stupidità degli individui, ma perché

è un lavoro duro’. Il lavoro dello scienziato è spesso descritto attraverso metafore di

‘competizione’ e ‘lotte’ con immagini di fatica o in opposizione a attività leggere,come

la poesia.

‘se tu sei uno scienziato. tu devi produrre dati. Tu non puoi dire: “Oggi io faccio poesia

nel circolo dei poeti?. Queste persone non sanno come spendere il loro tempo! noi

siamo poeti, loro dicono e leggono poesia tra di loro’.

Per Fausto, il metodo scientifico è sempre centrale o in altre parole è la chiave per

interpretare fenomeni e comunicare tra scienziati, come sottolinea nella seguente field

note:

‘Quando fai un esperimento tu devi essere rigoroso e consegnare i risultati delle misure

a quelli che sono interessati. Poi tu plotti le misure e crei un report e lo dai al tuo capo.

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Poi lui non verrà più a chiederti spiegazioni perché tutto quello che vuole sapere è nel

report’.

Fausto lavora in un campo di ricerca molto specializzato, lo stesso nel quale lui ha

iniziato a lavorare durante il suo PhD. In linea con la sua preferenza per la

specializzazione, durante le interviste e le interazioni con i colleghi, adotta un

linguaggio tecnico, parsimonioso ma ricco di termini specifici. Nella seguente field note

Fausto spiega che cosa significa per lui essere un buon specialista.

‘Io lavoro in un campo di ricerca molto specializzato. Noi saremo 150 in tutto il mondo.

Questo implica che i soliti 70 competono per le stesse risorse. Un buon scienziato, il

mago, è una persona che quando tu gli dici che hai uno specifico problema, subito

capisce di cosa si tratta. Non è da tutti’.

Fausto continuamente confronta se stesso con la comunità internazionale degli scienziati

con cui condivide la stessa specializzazione. Coerentemente con la visione della Scienza

come competizione e sforzo individuale, l’aspirazione di Fausto è quella di essere il

primo ad ottenere un risultato scientifico innovativo nella sua comunità, come emerge

dal seguente estratto dell’intervista:

‘Io voglio migliorare ancora di più questa macchina e fare qualcosa di realmente

nuovo. E’ come partecipare ad una competizione sportiva e vincere. Vuol dire che tu

sei il migliore, meglio di tutte le persone che partono all’arrivo con te – che sono già

brave. In altre parole tu non puoi dire: “domani pubblico un PRL”. Tu non puoi farlo

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così facilmente perché ci sono almeno 300 persone ogni settimana che ci provano, ma

solo pochi hanno successo’.

Inoltre per essere performante, Fausto preferisce lavorare da solo e spendere molto

tempo in laboratorio. Dai suoi diari emerge che solo il 10% del suo tempo è speso

nell’interagire con i colleghi e che non partecipa ai group meeting. ‘I group meeting

sono solo una perdita di tempo’ è solito dire.

Nell’80% delle interazioni descritte nel suo diario, è il destinatario delle richieste dei

suoi colleghi che nelle sue parole interrompono o disturbano il suo lavoro.

Questi sono alcuni esempi dei commenti negativi sulle interazioni che si possono

trovare nei suoi diari o nelle interviste.

‘Le persone di solito vengono qui per disturbarmi’

‘I miei colleghi sono come bambini, hanno sempre bisogno di tutto e poi lasciano gli

attrezzi in giro’.

‘Antonio si è arrabbiato perché non avevo finito di fare quello che mi aveva chiesto

durante la mattinata’.

La struttura del diario di Fausto, composta da lunghi blocchi di lavoro ininterrotto,

rispecchia le sue preferenze nell’uso del tempo.

VIGNETTA 3 – Rosella, PhD in Chimica, ha lavorato per alcuni anni in un Istituto di

ricerca situata nel Centro Italia prima di trasferirsi da due anni nel gruppo attuale.

Rosella interpreta la scienza come un mosaico di progetti. Nelle sue parole:

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‘è differente lavorare su una specifica parte di un progetto come per esempio fare un

esperimento per un deliverable, o seguire un progetto dall’inizio alla fine’.

Inoltre un aspetto che per lei è fondamentale per poter lavorare bene ad un progetto è la

conoscenza e la visione completa ‘dall’inizio alla fine’.

Nel lavoro quotidiano di Rosella, la maggior parte del tempo è dedicata alla scrittura di

documenti di natura burocratica legati ai progetti in cui il gruppo è coinvolto, di report

per sintetizzare i risultati ottenuti e comunicarli ai partner. Nello svolgere queste attività

lei interagisce con i colleghi che praticamente fanno gli esperimenti. Dal momento che

Rosella ritiene le interazioni come indispensabili per produrre risultati scientifici,

promuove all’interno del gruppo i group meeting e cerca di favorire le interazioni tra gli

altri ricercatori. Nella seguente field notes lei esprime il suo bisogno di discutere con gli

altri per poi essere capace di orchestrare la loro cooperazione all’interno dei progetti:

‘Allora, a me è utile per sapere.. diciamo, i progressi della ricerca, cioè che cosa in

effetti viene fatto diciamo realmente, perchè sennò io li vivrei soltanto attraverso

appunto questi famosi report, o comunque attraverso diciamo così, delle visite fugaci in

laboratorio.. Quindi per me è importante.. E’ importante anche.. cioè per capire bene

diciamo le relazioni che si instaurano fra le persone, quindi per capire anche cioè

magari il modo di rapportarsi, cioè.. per me.. cioè è molto importante diciamo capire le

persone per poi poter diciamo dialogare con loro nel modo migliore, e quindi quando

c’è un group meeting si vedono le varie reazioni, si vedono insomma.. e si capiscono di

più le persone piuttosto che quando magari si hanno ecco dei contatti fugaci per

scrivere una cosa o per controllare, non so, il testo di un articolo..’

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Rosella spende il 60% del suo tempo interagendo sia con i membri del gruppo che con

ricercatori esterni. I ritmi del suo lavoro sono spesso scanditi da eventi imprevisti

specialmente durante la mattina quando può ricevere richieste via mail di colleghi

stranieri. Dal suo diario emerge che Rosella organizza la sua giornata di lavoro rispetto

a blocchi distinti. Nel pomeriggio di solito si dedica a blocchi di attività non interrotti

che ha programmato durante la mattinata. Quindi lavora in maniera monocronica.

Profili professionali ‘blurred’. Le vignette di Daniele, Fausto e Rosella descrivono tre

combinazioni ricorrenti di discorsi sul lavoro nelle pratiche di tutti i giorni ed

esemplificano la definizione di se stessi come scienziati senza particolari distinzioni

rispetto al background formativo. Tuttavia alcuni ricercatori attivano discorsi

apparentemente contrastanti. In questo senso le contraddizioni segnalano che le loro

identità professionali durante il periodo di raccolta dati erano ‘blurred’ e di conseguenza

non possono essere pienamente identificate in una singola etichetta. Questo è il caso di

Sandra, PhD in Scienze Chimiche, ha sempre lavorato nello stesso Istituto ma in gruppi

diversi. Da due anni è entrata nel gruppo attuale mentre prima ha lavorato per 7 anni in

un gruppo formato da tre individui. I discorsi professionali di Sandra in molti casi

assomigliano a quelli di Fausto. Per esempio lei dice di lavorare in un campo di ricerca

molto specializzato. La maggior parte delle sue interazioni avvengono con i ricercatori

del gruppo o dell’Istituto. Vede le interazioni con i colleghi come strumentali per i suoi

obiettivi di ricerca. Inoltre afferma che di solito preferisce programmare il tempo per le

interazioni di lavoro e che preferisce lavorare sui problemi in modo sequenziale (‘Tu hai

un obiettivo quando lavori. Tu lavori su un obiettivo alla volta. Una volta fatto uno step

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ti muovi verso quello successivo’) Tuttavia nella sua visione della Scienza lei presenta

due discorsi apparentemente contrastanti. In particolare lei stressa l’importanza del lab-

book perché permette di tenere traccia di tutti gli step seguiti nella ricerca che diventano

fondamentali per ripetere gli esperimenti, come afferma nel seguente estratto di

un’intervista:

‘La riproducibilità degli esperimenti è il cuore del lavoro nella Scienza. Se tu fai una

cosa oggi e ottieni un risultato eccezionale, tu puoi dire che hai fatto qualcosa di

importante solo se sei capace di rifarlo ancora. Per questo motivo hai bisogno del lab-

book e devi scriverci qualsiasi cosa succede durante l’esperimento’.

Inoltre, durante l’intervista e quando parla con i colleghi, lei cita la serendipity nel fare

la Scienza come uno stato di grazia durante il quale si inizia a fare un esperimento solo

seguendo un’intuizione.

‘Realmente tu non puoi dire all’inizio cosa avrai alla fine dell’esperimento. All’inizio tu

hai un’aspettativa e un programma per raggiungerla ma poi nuove idee possono venire,

in qualsiasi momento, mentre leggi un paper ma la maggior parte vengono attraverso le

interazioni’.

Sommario. Le tre vignette che sono state descritte illustrano differenti profili di

identità che emergono dalla combinazione dei tre discorsi. Individui come Daniele sono

stati etichettati come ‘integrator’ perché privilegiano una visione della Scienza come un

gioco, vedono il loro lavoro come multidisciplinare orientato alla sintesi e considerano

le interazioni come il cuore della Scienza. I profili come Fausto, definiti con l’etichetta

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‘lone rider’ interpretano la Scienza come sforzo e rigore, vedono il loro lavoro come

altamente specializzato e considerano le interazioni come un ‘prezzo da pagare’ e

preferiscono fare ricerca da soli. I profili come Rosella, chiamati ‘administrators’,

privilegiano una visione pragmatica della Scienza – scienza come intersezione di

progetti, basano il loro lavoro sulla sintesi e sulla gestione delle risorse e considerano le

interazioni fondamentali. Infine, alcuni individui, come Sandra, mostrano profili di

identità ‘blurred’ che riflettono discorsi apparentemente contrastanti. Nel paragrafo

successivo il processo di Identity work viene descritto ai confini tra individui con profili

di identità differenti.

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5.4. - IDENTITY BOUNDARY WORK TRA RICERCATORI

Il setting è caratterizzato dalla coesistenza di ricercatori con profili d’identita eterogenei.

Anche se le differenze tra gruppi sociali sono ritenute fonti di potenziali conflitti nelle

organizzazioni (e.g. Jehn, 1997) non sono state raccolte evidenze che supportano una

presenza diffusa e disturbante di conflitti tra individui con profili d’identità differenti.

Il group leader, Fabius, riconosce che il livello di conflitti è basso quando dice:

“qualche volta i conflitti scoppiano all’interno di piccoli gruppi ma essi non sono mai

seri. C’è sempre qualcuno che agisce come mediatore e riporta le cose al loro ordine

naturale”.

5.4.1 Compatibilità tra profili di ‘work identity’ differen ti: integrator vs

administrator.

Gli Integrator e gli Administrator hanno profili di identità tra loro compatibili. Come è

stato già mostrato nei dettagli, Daniele (un integrator) spesso menziona l’importanza di

lavorare con altri per raggiungere le sue idee scientifiche e anche nella pratica

quotidiana si avvantaggia dell’interazione con gli altri. Daniele è consapevole che, per

trasformare idee creative in esperimenti e applicazioni pratiche che siano

successivamente pubblicate, è necessario mettere insieme competenze eterogenee in

progetti scientifici. Tale approccio è coerente con i discorsi di Rosella (admistrator)

sulla Scienza come progetti. Inoltre Daniele e Rosella condividono i discorsi

sull’interazione come centrale per fare ricerca di qualità e sull’importanza di sviluppare

capacità di sintesi. Tale compatibilità è evidente nei meetings, nelle interviste e nei diari

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dal momento che entrambi spesso fanno riferimenti espliciti al lavoro dell’altro. Per

esempio, Daniele descrive la complementarietà tra Rosella e i suoi discorsi sulla

Scienza durante un’intervista:

‘Nel nostro lavoro una volta che si ha un’idea è importante costruirci un progetto

intorno. se tu hai un idea per un esperimento allora ti chiederai: ‘ho l’attrezzatura

necessaria? Ho bisogno di comprare roba nuova? Ho abbastanza finanziamenti?. Di

certo il nostro capo è responsabile della parte burocratica ma nonostante ciò io ho

bisogno di delegare alcune cose. E qui entra in gioco Rosella che ha cura di seguire i

progetti. Io le sono grato per il suo supporto’.

Daniele e Rosella spesso interagiscono con gli altri senza piani prefissati: entrambi sono

aperti alle interruzioni e le interpretano come una fonte per cercare nuova conoscenza.

Una differenza sostanziale tra i due risiede nel modo di comportarsi come iniziatori

delle interruzioni. Da una parte, Rosella è molto attenta quando coinvolge altri colleghi

nelle interazioni e cerca di trovare il momento giusto per entrare in contatto con loro

evitando di disturbarli nei momenti di maggiore concentrazione:

“Qualche volta non mi sento a mio agio quando vado a chiedere qualcosa ai miei

colleghi perché ho paura di disturbarli durante gli esperimenti. Io cerco di essere meno

intrusiva possibile”.

Al contrario Daniele non si pone di questi problemi come racconta nel pezzo estratto da

una sua intervista:

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“Devo dire che per quello sono un po’ un rompi cazzo, nel senso che siccome in

laboratorio ci riesco a starci poco allora diciamo che c’è abbastanza tolleranza nel

ritaglio delle finestre, e anche se ci sono a volte gli altri gli dico: “guarda mi serve per

due ore uno strumento, ci mettiamo d’accordo nel trovare una finestra”, e di solito c’è

una disponibilità. Daniele e Rosella hanno bisogno uno dell’altro per esprimere la loro

identità come ricercatori; Rosella ha bisogno di Daniele per avere nuove idee e un

network di relazioni intorno al quali seguire un progetto. La loro complementarietà in

termini di identità professionale è incoraggiata dalla sovrapposizione di alcuni dei loro

discorsi”.

5.4.2. Incompatibilità tra profili di work identity – int egrator vs lone rider

Alcuni individui sono aperti alle interruzioni degli integrator e pronti a ridefinire le

pratiche di lavoro come Daniele sottolinea nella field note precedente. Al contrario

alcuni individui interpretano tali interruzioni come distruttive del loro lavoro

individuale. Questo è il caso di Fausto, lone rider, che commenta negativamente le

richieste inaspettate che riceve da Fabius, Pasqualino, Anselm, Philippe, Bruno e

Daniele. Per esempio, Fausto non ama che altre persone che non parlano il suo stesso

‘linguaggio’ gli chiedono di fare misure. Fausto infatti pensa che la Scienza sia basata

sul rigore e che il lavoro specializzato è il solo modo per operare bene. Nella seguente

field note estratta da un’intervista post-diario, è stato invitato a commentare le richieste

ricevute da Daniele. Come si può notare Fausto sottolinea la distanza tra la sua

interpretazione e quella di Daniele di essere ricercatori:

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‘Per esempio con Daniele. Quando lui mi parla io mi accorgo che lui può parlare, può

dire cose, cioè lui i suoni li emette però il più delle volte non è formalmente corretto

quello che dice. Cioè molte volte è sbagliato, altre volte non è formalmente corretto.

Cioè io mi accorgo che quando parla Daniele dice delle stronzate gigantesche però il

problema è che io non posso dire cose che può capire lui. Io proprio non…cioè io sono

da quel punto di vista ho l’ignoranza completa e come dire tu vai in… devi parlare

swahili e non sai neanche una parola. Lui invece è uno che parla swahili e cerca di

parlare italiano, male. Però lui almeno ha quello. Perché naturalmente il nostro è un

meta linguaggio però il suo è qualcosa di completamente diverso’.

La strategia di Fausto per fronteggiare le richieste inattese è duplice. Nel lungo periodo

cerca di annullare a priori la collaborazione con Daniele e allo stesso modo quelle che

richiedono frequenti interazioni. Un a conseguenza legata a questo modo di fare è che

Fausto predilige pubblicare prevalentemente lettere invece che articoli lunghi. Nel

seguente estratto da una field notes Fausto esprime la sua preferenza per le

pubblicazioni corte:

‘I miei articoli tipici sono delle lettere. Due o tre pagine con un grafico finale e la frase

conclusiva: questo risultato verrà spiegato nei dettagli in un lavoro futuro… che non

verrà mai scritto’.

Nel breve periodo, quando non può rifiutarsi di fare misure per i suoi colleghi,

programma le sue attività alla fine delle sua giornata o settimana di lavoro e qualche

volta deliberatamente causa ritardi al lavoro degli altri, come dice di seguito:

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‘Io cerco di fare prima le mie cose. Poi se ci sono misure da fare per altri mi prendo i

miei tempi.’

Gli effetti dei suoi comportamenti su i suoi colleghi che hanno identità differenti

possono essere recuperati dai diari. Antonio, un integrator, ha chiesto a Fausto con una

settimana di anticipo di fargli delle misure per un esperimento che sta facendo e ha

bisogno dei risultati per presentarli ad una conferenza a Monaco. Fausto non ha ancora

completato le misure nonostante diversi reminder. Per questo motivo Antonio nel suo

diario del 26/06/2006 scrive:

<<8.10 am: Ancora una volta ho chiesto a fausto come stavano andando le misure.

Ancora non le ha fatte. Non c’è modo di convincerlo e io ho disperatamente bisogno di

quei risultati>>. .

Mentre Fausto difende la sua identità professionale e rinforza il suo discorso sulla

‘Scienza come rigore e fatica’, ‘lavoro come specializzazione’ e ‘interazioni come un

prezzo da pagare’, altri scienziati hanno differenti reazioni e parzialmente ridefiniscono

la loro identità. Questo è il caso di Sandra. Come è stato già anticipato, Sandra ha

un’identità ‘blurred’. Sotto certi aspetti è simile ad un Lone Rider: lei si riferisce alla

Scienza come rigorosa, interpreta il suo lavoro come altamente specializzato e cerca di

ridurre il numero delle interazioni di lavoro. Tuttavia, interazioni impreviste con gli

integrator hanno pian piano aperto una ‘breccia’ nei suoi discorsi sull’essere uno

scienziato esponendola a modi alternativi di praticare la sua professione. Sandra ci dice

che, prima di entrare in questo gruppo, lei aveva sempre pensato che ‘la creatività è solo

una parola per artisti’ ma gli scienziati come Daniele e David hanno aperto la sua

mente. Il seguente estratto chiarisce come lei sia stata toccata dall’interazione con i

colleghi che interpretano la professione diversamente:

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‘Io ho sempre pensato che uno scienziato inizia con un’idea e conosce dove sta

andando. La Scienza è metodo. Poi quando sono venuta qui interagendo con persone

come Daniele ho conosciuto un’altra prospettiva. Qualche volta le idee arrivano

inaspettatamente’.

Nonostante i suoi discorsi confusi sulla Scienza, Sandra è riluttante nell’adottare nuovi

discorsi sul lavoro e sulle interazioni. Secondo lei la specializzazione deve essere

cercata nel lavoro quotidiano mentre la multidisciplinarità è un’etichetta usata ad-hoc

per avere finanziamenti, come lei afferma nel corso della sua ultima intervista:

‘Dov’è la multidisciplinarità? forse alla macchina del caffè. Multidisciplinarità è solo

una parola per chiedere soldi alla comunità Europea. Per avere soldi tu hai bisogno di

tante persone’.

Al tempo stesso, Sandra è riluttante nel cambiare i suoi piani di lavoro a livello

individuale. Le collaborazioni di Sandra sono poche e localizzate all’interno

dell’Istituto. Nei suoi diari lei descrive i group meeting settimanali come un dovere che

deve rispettare e dalle field notes prese durante le osservazione emerge come partecipi

poco alle discussioni che vengono sollevate. Nel seguente pezzo estratto dall’intervista

post diario Sandra commenta l’utilità percepita dei group meeting dove partecipano

molte persone:

‘Io non credo che si possa lavorare e discutere con tante persone contemporaneamente.

Io non credo che i group meeting allarati siano utili. Io preferisco lavorare con due al

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massimo tre persone, possibilmente con interazione face to face di fronte ad un

computer o ad una macchina in laboratorio’.

In apparente contraddizione con quanto affermato sopra, Sandra non si rifiuta di

accettare le interazioni impreviste attivate dagli integratori. Lei ha iniziato a interpretare

parte del suo lavoro come di servizio e parte come rivolto ai suoi principali interessi di

ricerca, come afferma nella seguente field note:

‘Io uso il laboratorio in due modi. Un modo è lavorare sulla mia ricerca. L’altro essere

un responsabile di laboratorio e soddisfare le esigenze degli altri. Io, qui, sono l’unica

che sa fare la sintesi e così le persone mi chiedono consigli o di preparargli qualcosa’.

Sandra ha imparato come sistemare le richieste impreviste nel suo stretto piano di

lavoro. Dai suoi diari è possibile notare che quando qualcuno gli chiede

inaspettatamente cooperazione, lei scrive nel diario: ‘revisionare l’agenda’. Infatti alla

fine di ogni giornata di lavoro Sandra prende nota di cosa non è riuscita a fare di

previsto durante il giorno e pianifica la giornata successiva. Continue riprogrammazioni

rendono Sandra capace di allineare lavoro e interazioni che corrispondono a differenti

profili di identità professionale in nuovi discorsi. Nelle sue parole:

‘Io tipicamente prendo note ogni sera, specialmente quando non ho terminato qualcosa

nel giorno stesso. Così la mattina successiva quando arrivo, so esattamente che cosa

devo fare. Poi se non riesco a finire quello che avevo pianificato o se qualcosa di nuovo

viene fuori, io prendo altre note e le aggiungo alla mia to-do-list’.

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In altre parole la pianificazione nel breve periodo rende Sandra libera di avere controllo

del suo lavoro e in questo modo i suoi discorsi sull’essere scienziato rimangono allineati

tra di loro. Daniele invece ha bisogno di altri scienziati come Fausto e Sandra per

attivare la sua identità professionale. Infatti richiede il contributo di una varietà

di scienziati specializzati che lo aiutano a comporre un quadro generale per testare le

sue idee. I discorsi di Fausto e Daniele non sembrano allinearsi l’un l’altro rendendo il

processo di identity work nei confini problematico. Non solo Fausto non ha bisogno di

Daniele per rivelare la sua identità professionale ma inoltre i discorsi di quest’ultimo

sull’essere scienziato entrano in contrasto con i suoi. Come Fausto, Sandra non ha

bisogno di Daniele per agire la sua identità professionale da scienziato.

Diversamente da Fausto, Sandra offusca i suoi discorsi sulla Scienza e aggiusta i suoi

discorsi su lavoro e interazioni.

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CAPITOLO 6 27

DISCUSSIONE E CONCLUSIONI

INTRODUZIONE

Lo studio sul campo nel laboratorio di NanoTecnologie si inserisce nel dibattito sui

processi di Identity work ai confini tra identità multiple mostrando come questo

processo avviene anche tra individui dello stesso gruppo e in che modo contribuisce

alla costruzione di differenti definizioni di sé come professionisti.

Inoltre, le identità come lavoratori di un determinato contesto sono costruite e

ricostruite intorno ad una sorta di coerenza tra tre discorsi centrali: il discorso sulla

Scienza, il discorso sulle pratiche di lavoro e il discorso sulle interazioni. In questo

senso le identità professionali multiple sono generate dalle differenti combinazioni

ricorrenti di questi discorsi centrali.

Così essere un ricercatore può significare, per i ricercatori che sono stati etichettati

come integrator, vivere la scienza come un gioco dove lo scopo è quello di scoprire

nuovi problemi scientifici ad alto impatto, anche lontani dal proprio dominio di

esperienza originario, intorno ai quali collegare scienziati esperti che possano

sviluppare e testare le nuove idee. Per altri ricercatori, che sono stati etichettati come

‘lone riders’, essere uno scienziato significa ‘conoscere fondamentalmente’ essendo

rigorosi e cercando di investigare le nuove idee seguendo un preciso percorso che li

porta ad interagire solo per necessità e solo con scienziati che condividono lo stesso

27 Il contenuto di questo capitolo è il frutto di un lavoro congiunto con Maria Rita Tagliaventi e Elisa Mattarelli.

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dominio di esperienze in modo da favorire la specializzazione. Inoltre, essere uno

scienziato può anche significare essere un ‘project maker’ che gestisce con

responsabilità risorse di vario tipo e che attentamente pianifica le sue attività di lavoro.

Questi sono stati chiamati ‘administrator’.

Dalle evidenze empiriche emerge che alcune interpretazioni di se come ricercatore

cercano in maniera naturale un’interazione reciproca con altre interpretazioni della

stessa professione. In altre parole, all’interno di una singola professione, alcune

identità per essere attivate hanno bisogno di altre identità. E’ questa l’esigenza che

innesca il processo di identity work tra individui dello stesso gruppo. Nelle pagine

successive viene discusso il contributo teorico di questo lavoro di ricerca e le

implicazioni per la gestione dei gruppi di ricerca negli ambiti multidisciplinari come le

NanoScienze e Tecnologie. Infine il capitolo si conclude con la discussione dei limiti di

questo lavoro e su quali potenziali direzioni future di ricerca si possono delineare.

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6.1. – IL CONTRIBUTO TEORICO

Questa ricerca offre quattro contributi al dibattito sulle identità multiple nelle

organizzazioni. Primo, viene mostrato come il processo di Identity work agisce ai

confini tra individui di una stessa categoria sociale ma con differenti visioni di se,

contribuendo direttamente alla letteratura sulle identità multiple negli studi organizzativi

che ha esplorato i confini tra gruppi o unità di una stessa organizzazione o tra i diversi

livelli di identità posseduti da un singolo individuo. (Pratt e Rafaeli,1997; Ashforth e

Johnson 2002; Glynn 2000; Pratt e Foreman, 2000).

Secondo, il processo di identity work tra individui può essere compreso considerando il

bisogno che alcuni individui provano nel rivelare la loro identità. I ricercatori che

vedono la Scienza come il “gioco” del perseguire idee oltre e attraverso i confini di uno

specifico dominio di esperienze (integrator) cercheranno la collaborazione di scienziati

che si sono specializzati in un determinato dominio di conoscenze (lone rider) e di

scienziati desiderosi di trasformare un’idea in un progetto (administrator). E’ solo

attraverso questa cooperazione che ‘l’integrator’ riesce ad essere se stesso perchè le sue

nuove idee nascono per dipendere da altri. Allo stesso modo i ricercatori che hanno a

che fare con gli aspetti inerenti la progettualità della ricerca (administrator) hanno

bisogno degli altri per essere se stessi. Tuttavia alcune ‘work identity’ sono percepite

come intrusive da altre identità professionali. La relazione reciproca osservata tra varie

interpretazioni di se come membri di una stessa categoria sociale estende il concetto di

‘identity intrusion’ formulato da Kreiner et al. (2006) per il caso dei processi di identity

work tra le varie identità sociali e personali di un individuo. In particolare le evidenze

empiriche suggeriscono che i processi di negoziazione di identità possono essere

innescati quando i ricercatori che coltivano una visione della loro professione come

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rigorosa e faticosa percepiscono un senso di invasione da parte degli scienziati ispirati

dalla visione generale e dalla creatività. La percezione di essere invasi è determinata

dall’assenza di convergenza tra i discorsi sulla professione di scienziato e sulle pratiche

di lavoro che derivano dalle due interpretazioni della professione. Alcuni destinatari

dell’interazione resistono in vari modi alle minacce portate al proprio senso di se, come

per esempio portando a compimento le richieste degli altri solo nei momenti in cui non

creano carichi di lavoro rispetto allo svolgimento della propria ricerca. In altri casi

invece, i destinatari delle interazioni reagiscono posizionando alcuni discorsi tra

differenti interpretazioni professionali e in questo modo rendono meno netta la loro

identità professionale.

Quando gli individui condividono almeno qualche discorso, gli attriti ai confini sono

ridotti e le identità sono preservate. Scienziati che vedono loro stessi come ‘project

maker’ e scienziati che si percepiscono come sponsor di nuove idee condividono gli

stessi discorsi sull’importanza delle relazioni come fattore chiave del successo nel

mondo del lavoro nella Scienza. Si può quindi affermare che le relazioni tra individui di

una stessa categoria sociale sono influenzati dalla convergenza o divergenza tra i

discorsi che compongono il proprio concetto di se.

Terzo, alcune ‘work identity’sembrano essere più resilienti di altre.

Nel contesto sociale studiato i discorsi di alcuni degli scienziati che definiscono loro

stessi come ricercatori rigorosi, devoti alla specializzazione e all’ordine

nell’organizzazione del lavoro, si distinguono perché non si posizionano in maniera

netta rispetto a nessuno dei tre profili di identità professionale individuati. Al contrario

altre identità professionali sembrano fornire risposte più stabili alla domanda: “Chi sono

io come ricercatore?” e “Che cosa significa essere un ricercatore?” (Sveningsson e

Alvesson, 2003). E’ interessante notare che le ‘work identity’ resilienti vantano una

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visibilità più ampia all’interno della comunità scientifica internazionale in cui

partecipano scambiando idee o campioni con altri ricercatori, progettando nuove

collaborazioni, partecipando a conferenze o scuole estive, etc. Al contrario, i ricercatori

che lavorano principalmente sulle proprie cose e con altri ricercatori con

specializzazioni simili, sono più rigidi nel modificare i discorsi sulla Scienza nel

momento in cui entrano in contatto con ricercatori che hanno una percezione differente

sul concetto di se stessi come ricercatori. La rilevanza di partecipare in comunità

occupazionali (Van Maanen e Barley, 1984; Zabusky e Barley, 1997), in comunità

epistemiche (Knorr-Cetina, 1999) e network di pratiche (Brown e Duguid, 2001;

Tagliaventi e Mattarelli, 2006) per la costruzione delle identità nei luoghi di lavoro è

stata già ampiamente esplorata in letteratura. Quello che questo studio può aggiungere a

questo corpo di conoscenza è la considerazione che nel processo di identity work ai

confini tra membri della stessa organizzazione, l’accesso e la visibilità nelle relazioni

esterne al gruppo potrebbe rinforzare l’identità professionale.

Processi piuttosto simili a quelli descritti da Hatch e Schultz (2002) nel caso della

relazione tra identità organizzativa e immagine esterna e a quello dell’ “identity

confirmation” proposto da Milton e Westphal (2005) per spiegare la cooperazione tra

membri di team di lavoro, sembrano influenzare la resilienza dell’identità professionale

nel setting investigato.

Quarto, le evidenze mostrano che i cambiamenti nell’identità sembrano influenzare il

discorso sulla Scienza prima degli altri. Una interpretazione per questa evidenza

riguarda la considerazione che si possano creare delle ‘brecce’ nell’identità

professionale più facilmente nei discorsi più astratti, come la Scienza, rispetto a quelli

più concreti. Nelle evidenze empiriche questo aspetto può essere apprezzato nei soggetti

che si presentano con un’identità non chiaramente definibile in uno dei profili

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identificati perché nei discorsi sulla Scienza includono elementi che possono entrare in

contraddizione tra di loro. Ad impiegano nel discorso sulla Scienza combinano un

ragionamento logico basato sugli step da seguire per portare a buon fine un lavoro di

ricerca (‘Scienza come rigore e fatica’) ad uno più emozionale riferito alla ‘serendipity’

o alle occasioni (‘Scienza come divertimento’). La resilienza in questo caso riguarda la

differente permanenza dei discorsi. Gabriel (1999) ha sottolineato che alcuni aspetti

dell’identità sono più centrali o recalcitranti mentre altri sono più facilmente soggetti a

cambiamenti.

Nel caso delle ‘work identity’ non chiaramente definibili le relazioni reciproche tra

elementi eterogenei che compongono il discorso sulla Scienza portano gli individui a

compensare la mancanza di coerenza nella percezione di se come scienziati con

cambiamenti nelle pratiche di lavoro quotidiano e/o nelle interazioni. Alcuni individui

per esempio per preservare una visione di se come metodici e specializzati, pianificano

in continuazione le loro attività e stabiliscono dei confini temporali tra quello che

considerano il proprio lavoro e quello che è invece indotto dagli altri. I cambiamenti nei

discorsi sulla Scienza pongono le basi per ricostruire i discorsi sul lavoro quotidiano e

sulle interazioni. La ricostruzione implica che nuove pratiche, come una pianificazione

continua e la ridefinizione dell’agenda giornaliera, si allineano a quelle precedenti in

modo tale che queste ultime non siano completamente messe in ombra.

Mentre i discorsi sulla Scienza fanno ricorso ad una visione mista del tipo “La Scienza è

questo e quello”, i discorsi più recalcitranti sul lavoro quotidiano e le interazioni

suonano come delle lamentele e delle strategie risolutive: ‘non sono riuscito a fare il

lavoro che avevo pianificato di fare oggi, lo metterò tra le prime cose da fare domani’ e

‘Interagire è un prezzo da pagare, ma solo certe volte’.

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6.2 LIMITI E RICERCHE FUTURE

Questo studio sul campo solleva altre questioni che non sono state investigate in

maniera adeguata e che necessitano di futuri approfondimenti. Dal momento che le

identità professionali multiple sembrano ruotare intorno alle combinazioni dei discorsi

centrali, una domanda legittima riguarda l’evoluzione delle identità non chiaramente

definibili, ovvero quelle identità che incorporano più di un aspetto rispetto ai profili di

identità professionale riconosciuti. Che cosa determina le identità professionali ‘non

chiaramente definibili”? Qual è la loro durabilità?

Un altro limite di questo studio risiede nell’incapacità di spiegare il processo attraverso

il quale gli individui arrivano a interpretare se stessi come scienziati in modi differenti.

In questo lavoro i processi di identity work ai confini tra individui sono stati osservati

lungo un periodo temporale di un anno e mezzo, conciso con la mia permanenza sul

campo. In un contesto caratterizzato da autonomia, differenti interpretazioni individuali

rispetto alla stessa professione potrebbero sorgere dall’interazione tra vari fattori come

per esempio le caratteristiche personali, le esperienze di lavoro precedenti e altre

identità. Uno studio longitudinale in profondità potrebbe trovare le risposte per queste

questioni aperte.

6.3 IMPLICAZIONI MANAGERIALI

Questo studio offre indicazioni per la gestione dei gruppi R&D e per l’identity

management. Gli scienziati riconoscono nei loro discorsi sull’organizzazione che il

gruppo in cui lavorano permette l’esercizio della discrezionalità ed è caratterizzato da

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un alto buffer di risorse che riduce il bisogno per la negoziazione sull’uso delle

facilities. In una prospettiva di identity management, questa situazione è riconducibile

alla strategia della ‘compartimentalization’ per la gestione di identità multiple (Pratt e

Foreman, 2000). Secondo questa strategia le identità multiple, incorporate dai gruppi o

dalle sub-unità, possono essere mantenute da un’organizzazione senza la ricerca di

sinergie tra i gruppi o le sub-unità. Questa strategia è adatta per le organizzazioni di

professionisti come quella studiata dove differenti identità professionali coesistono.

Una bassa sinergia è ottenibile quando c’è una scarsa compatibilità come nel caso in cui

le identità possiedono valori conflittuali, e/o quando l’insieme delle interdipendenze che

collegano i gruppi o le sub-unità sono disegnate formalmente. In questo senso la

strategia di compartimentalization sembrerebbe appropriata alla luce della bassa

compatibilità e interdipendenze formali tra identità professionali presenti nel setting.

Tuttavia in questo studio è stato dimostrato che tra le multiple avviene un processo di

convergenza, divergenza e negoziazione.

In questo senso i discorsi che plasmano le ‘work identity’ multiple suggeriscono che

l’identity management potrebbe perdere aspetti salienti dell’identità di un individo come

lavoratore, come ad esempio il bisogno per l’integrazione che unisce individui che si

cercano l’un l’altro per attivare la propria identità professionale. Se e come identità

differenti all’interno di una singola organizzazione possano essere ordinate o separate

attraverso il disegno organizzativo, come l’identity management suggerisce, e più in

generale se l’identity management può cogliere il processo di costruzione delle identità

sociali, sono questioni che meritano una riflessione organizzativa.

Le evidenze raccolte forniscono alcuni spunti per la gestione dei gruppi R&D. Gli

scienziati spesso citano i group meeting come un’opportunità per attivare e comunicare

la loro identità professionale. Gli individui come gli integrator e gli administrator

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partecipano attivamente nei meetings, proponendo nuove idee e intervenendo nelle

discussioni. Gli individui come i Lone Riders tendono invece ad evitare i meeting e se

partecipano intervengono solo quando sono direttamente chiamati in causa dal momento

che sono ritenuti esperti di una determinata tematica.

I group meeting (formali e informali) sono importantissimi per la gestione dei gruppi

R&D perché rappresentano un momento sociale dove si concentrano tutti i discorsi che

formano le ‘work identity’ presenti nel gruppo. Nel setting studiato, le discussioni

durante i meeting non riguardano solo aspetti legati a nuovi esperimenti o a progetti da

svolgere ma anche discorsi sulla Scienza e come organizzare il lavoro e gestire le

interazioni. In altre parole, le discussione affrontate nei group meeting non dovrebbe

privilegiare solo discorsi sulla Scienza ma è importante includere anche argomenti

inerenti l’organizzazione del lavoro e la gestione delle interazioni.

In particolare i discorsi basati sulle pratiche, in un contesto che permette ampia

discrezionalità, potrebbero smussare i processi di identity work tra individui, riducendo

la probabilità di conflitti e attriti, perché favoriscono il confronto.

6.4. CONCLUSIONI

Il laboratorio Nanotech, oggetto di questa indagine, rappresenta un caso

estremo(Eisenhardt, 1989; Eisenhardt & Graebner, 2007) e, come tale, un valido setting

per la costruzione di una teoria.

Gli scienziati che ci lavorano sono knowledge workers esperti che beneficiano di un alto

livello di discrezionalità e nella maggior parte dei casi hanno un contratto temporaneo.

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Congiuntamente queste caratteristiche dovrebbero creare delle premesse limitate per i

cambiamenti dell’identità dei singoli individui nei luoghi di lavoro.

L’esperienza è ampiamente ritenuta una caratteristica che rende l’identità di un

professionista più stabile e resistente ai cambiamenti (Ashforth, 2001; Sluss e Ashforth,

2007). Un’assunzione di base dell’approccio della Social Identity Theory basato sulle

transizioni di ruolo e di carriera è che l’identità professionale si sviluppa lungo il tempo

attraverso le varie esperienze di lavoro che guidano gli individui nel definire

gradualmente le loro preferenze centrali e durevoli. Di conseguenza l’identità

professionale è più soggetta a mutamenti nella fase iniziale di una carriera (Ibarra, 1999;

Pratt et al. 2006). In condizioni di alta discrezionalità, gli individui che vantano una

robusta esperienza tendono a selezionare le attività congruenti con la loro identità

professionale stabilita (Wrzesniewski e Dutton, 2001; Sluss e Asforth, 2007) piuttosto

che allineare la loro identità al lavoro come potrebbe accadere negli stadi iniziali di una

carriera. La temporaneità del rapporto di lavoro unita all’essere esperti e alla

discrezionalità può generare una miscela esplosiva che rinforza oltre modo la propria

definizione di se come professionista.

Dal momento che i lavoratori temporanei cambiano organizzazione frequentemente, sia

perchè non riescono a trovare posizioni permanenti oppure semplicemente per scelta

professionale, la loro identità è basata principalmente sulla membership nella loro

occupazione piuttosto che nel gruppo di lavoro o nell’organizzazione (Walsh e Gordon,

2007). Per i lavoratori temporanei, in altre parole, l’identità professionale è il loro

‘portable self’ che deve essere preservato al di là della partecipazione in una specifica

organizzazione (Pratt e Foreman, 2000). Infine, i knowledge workers frequentemente si

identificano fortemente con la loro professione prima di unirsi ad un’organizzazione e

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cercano successivamente un allineamento tra gli attributi della loro professione e quelli

dell’organizzazione dove lavorano (Russo, 1998).

Alla luce di queste considerazioni, l’identità professionale rappresenta il principale

punto di riferimento per i professionisti e le organizzazioni possono ricorrere all’identity

regulation sia per formare l’identità professionale dei loro membri e sia come modalità

di controllo organizzativo (Alvesson, 2001; Alvesson e Willmott, 2002; Alvesson e

Robertson, 2006; Kuhn 2006).

Tuttavia le evidenze empiriche rivelano che, sebbene i “miei” ricercatori siano

professionisti esperti, autonomi e nella maggior parte dei casi temporanei, la loro

identità professionale non è monolitica ma è soggetta ad un processo di continuo

adattamento generato dall’interazione tra colleghi di lavoro. L’identity work ai confini

avviene perchè gli individui potrebbero nella loro pratica quotidiana cercarsi o evitarsi,

l’un con l’altro, solo per essere se stessi e in questo modo si aprono ad una nuova

visione sull’essere professionisti. In altre parole, alcuni individui possono mettere in

gioco la propria identità professionale solo attraverso le interazioni quotidiane. Inoltre

per innescare i processi di negoziazione e i cambiamenti nell’identità professionale non

sono necessari eventi eccezionali (Pratt & Rafaeli, 1997; Glynn, 2000), né potrebbe il

management essere capace di cogliere pienamente l’essenza dell’identity work ai

confini tra individui.

E’ solo attraverso l’agire quotidiano nell’organizzazione che gli individui possono

trovare e rivisitare la loro propria risposta alle domande cruciali: “Chi sono io?”, e “Che

cosa vuol dire?”.

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