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Date post: 03-Jan-2016
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semiotics
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RIVISTA QUADRIMESTRALE - ANNO XVI NUOVA SERIE - N. 47 - SETTEMBRE-DICEMBRE 2002 M Manni
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RIVISTA QUADRIMESTRALE - ANNO XVINUOVA SERIE - N. 47 - SETTEMBRE-DICEMBRE 2002

ManniManni

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Pubblicazione quadrimestrale promossa dal Dipartimento di filosofiadell’Università degli Studi di Lecce, con la collaborazione del “Centro Italianodi Ricerche fenomenologiche” con sede in Roma.

Questa rivista si pubblica anche con i contributi del M.I.U.R., attraverso ilDipartimento di Filosofia dell’Università degli Studi di Lecce, e dello stessoDipartimento.

Direttore responsabile: Giovanni Invitto

Comitato scientifico: Angela Ales Bello (Roma), Angelo Bruno (Lecce),Antonio Delogu (Sassari), Giovanni Invitto (Lecce), Aniello Montano (Salerno),Antonio Ponsetto (München), Mario Signore (Lecce).

Redazione: Doris Campa, Raffaele Capone, Daniela De Leo, Lucia DePascalis, Alessandra Lezzi.

Comitato Scientifico e Segreteria hanno sede presso il Dipartimento di Filosofia,Università degli Studi - Via M. Stampacchia - 73100 Lecce - tel. (0832) 336627/8; fax (0832) 3366626.

Amministrazione, abbonamenti e pubblicità: Piero Manni s.r.l., Via Nino Bixio,11/b - 73100 Lecce - Tel. e Fax. 0832/387057. Iscritto al n. 389/1986 del Registrodella Stampa, Tribunale di Lecce. Abbonamento annuo: Italia t 25, Estero t 35,c/c postale 16805731 intestato a Piero Manni s.r.l., Lecce. L’abbonamento, in qua-lunque mese effettuato, decorre da gennaio e dà diritto a ricevere i numeri arretra-ti dell’annata. Un fascicolo t 10, degli anni precedenti il doppio.

Stampato presso Tiemme - Mandurianel novembre 2002 - per conto di Piero Manni s.r.l.

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SOMMARIO

5R. Raggiunti

GLI ATTI LINGUISTICI NEI LORO ASPETTI, SEMANTICO E PRAGMATICO

17M. Fortuna

RELIGIONE CRISTIANA E RELIGIONE APERTA.UN CONFRONTO CON ALDO CAPITINI

40C. Fersini

GENIO E DIMENSIONE ESTETICA IN SCHOPENHAUER.UNA PROPOSTA DI LETTURA

62C. Stella

DALLA CITTÀ ALLA COSMOPOLIUN CAMMINO POSSIBILE

67P. Miccoli

I “LUOGHI DELL’ANIMA” DI MARIA ZAMBRANO

70G. De Liguori

PER G. MUCCIARELLI.POSITIVISMO PSICOLOGIA E STORIA

75S. Ciurlia

I LINGUAGGI DELLA RICERCA STORICA:I VOCABOLARI DI BRAUDEL

85M. Spadavecchia

IL DOPPIO VOLTO DELLA MENZOGNA.LA DIMENSIONE SOLIDALE DEL MENTIRE

95Recensioni

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NOTE PER GLI AUTORI

I contributi vanno inviati alla Direzione di “Segni e comprensione” c/oDipartimento di Filosofia – Via V. M. Stampacchia 73100 Lecce. I testi debbo-no essere inviati in duplice copia, su carta formato A4, dattiloscritta su una solafacciata, a doppia interlinea, senza correzioni a mano. Ogni cartella non dovràsuperare le duemila battute. Il testo deve essere inviato assolutamente anchesu “floppy disk”, usando un qualsiasi programma che, però, dovrà essere indi-cato (Word, Windows, McIntosh). Il materiale ricevuto non verrà restituito.

Per la sezione “Saggi” i testi non dovranno superare le venti cartelle com-prese le note bibliografiche, per la sezione “Note” non dovranno superare lesette cartelle, per la sezione “Recensioni” e “Notizie” le tre cartelle.

Si raccomanda che i titoli siano brevi e specifici. La redazione si riserva ildiritto di apportare eventuali modifiche che si rendessero necessarie, previacomunicazione e approvazione dell’Autore.

Agli Autori saranno inviate tre copie del fascicolo in cui appare il loro lavoro.

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GLI ATTI LINGUISTICI NEI LORO DISTINTI ASPETTI,SEMANTICO E PRAGMATICO

di Renzo Raggiunti

Una prima definizione della pragmatica, perfettamente valida, la troviamoin Charles Morris, nei suoi Foundations of the Theory of signs1. In tale operaMorris definisce la pragmatica come il rapporto dei segni con gli interpreti. Taledefinizione rimane, a mio avviso, un punto fermo dal quale non ci possiamoallontanare, se vogliamo stabilire un criterio univoco e coerente, che ci per-metta di delimitare la sfera della pragmatica e di distinguerla dalla sferasemantica. Sulla base di tale criterio, dobbiamo considerare l’atto linguistico,non tanto in relazione a ciò che viene detto, quanto in relazione alla parteci-pazione degli interpreti, parlante e ascoltatore. Non dobbiamo dimenticare cheparlante e ascoltatore, nella loro partecipazione a ciò che viene detto, assu-mono due posizioni diverse, due ruoli diversi. In ciò consiste il carattere prag-matico dell’atto linguistico.

Austin, fra i filosofi del linguaggio, è forse quello che ha posto in evidenzanella maniera più incisiva, il carattere pragmatico degli atti linguistici, in spe-cial modo in relazione alla differente partecipazione del parlante e dell’ascol-tatore. Basti pensare alla sua analisi degli “enunciati performativi”, nei qualil’atto linguistico si configura come un’operazione pratica, che riguarda il par-lante in maniera diversa dall’ascoltatore, che partecipa anch’esso a questaoperazione pratica ma con una “parte” diversa rispetto a quella del parlante.Sulla base dello stesso concetto di “performance”, Austin ha sottoposto allastessa analisi tutti i tipi di atti linguistici, ai quali ha attribuito una stessa rile-vanza pragmatica, definendoli “atti illocutori”. La teoria degli “atti illocutori” èstata poi accolta da Searle, il quale distingue, entro l’atto illocutorio, due ele-menti ugualmente necessari per il compimento dell’atto stesso: quella partedell’enunciato che egli denomina “indicatore della forza illocutiva” e la partedell’enunciato che denomina “contenuto proposizionale”. Ad esempio, nell’e-nunciato “io prometto che partirò”, l’indicatore della forza illocutiva è rappre-sentato dal sintagma “io prometto che”, mentre il contenuto proposizionale ècostituito dalla proposizione “io partirò”. Già si delinea una distinzione di unaspetto semantico e di un aspetto pragmatico dello stesso atto linguistico, maquesti due aspetti non vengono distinti dallo studioso americano. Egli stabili-sce semplicemente e soltanto le regole che riguardano i caratteri pragmaticidell’operazione che stabilisce un certo rapporto fra il parlante e l’ascoltatore.A questo riguardo, potrei citare la regola (denominata da Searle di sincerità),che stabilisce che il parlante vuole compiere l’azione che ha promesso (parti-re), oppure la regola secondo la quale “l’ascoltatore dovrebbe preferire che ilparlante compia piuttosto che non compia quella determinata azione, e il par-

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lante ritiene che l’ascoltatore dovrebbe preferire il suo compiere quell’azioneal suo non compierla”2.

Viene posta soltanto in evidenza la differente partecipazione operativa del-l’uno e dell’altro. Ebbene Searle definisce queste regole come regole seman-tiche, dimostrando chiaramente che egli non ritiene di poter e dovere distin-guere una semantica da una pragmatica degli atti linguistici. Ha reso così piùdifficile l’impostazione e la soluzione dei problemi della semantica e della prag-matica degli atti linguistici.

In una posizione, per certi aspetti, analoga, si trova Umberto Eco, il qualenel suo volume Semiotica e filosofia del linguaggio mostra di far propria la tesidi Bar-Hillel affermando: “La pragmatica è lo studio della dipendenza essen-ziale della comunicazione, nel linguaggio naturale, dal parlante e dall’ascolta-tore, dal contesto linguistico e dal contesto extra-linguistico e dalla ‘disponibi-lità’ delle conoscenze di fondo, e dalla buona volontà dei partecipanti nell’attocomunicativo”3.

È evidente che qui, Eco, quando parla di “regole di significazione” conte-nute in una lingua L, egli intende regole semantiche e include nell’ambito delleregole semantiche anche le regole propriamente pragmatiche, e, perciò, comeSearle, non distingue la semantica dalla pragmatica, e include la pragmaticanella semantica degli atti linguistici. Rinuncia, così, a una impostazione rigo-rosa del problema della semantica e della pragmatica degli atti linguistici.

Non si è compreso che l’atto di comunicazione può costituire un solido fon-damento per definire e distinguere rigorosamente semantica e pragmaticadegli atti linguistici.

Il problema della comunicazione è stato trascurato da molti studiosi. Austin e Searle, che hanno maggiormente contribuito a porre in evidenza

l’aspetto pragmatico dell’atto linguistico, non si sono posti, in realtà, il proble-ma della comunicazione, anche se considerano la comunicazione come unacondizione necessaria del realizzarsi dell’atto illocutorio.

Austin non va oltre l’affermazione che la “sicurezza della comprensione”costituisce una delle condizioni del realizzarsi dell’atto illocutorio. La posizionedi Searle è, per molti aspetti, simile a quella di Austin rispetto al problema dellacomunicazione. Per Searle ogni atto illocutorio deve avere anche la caratteri-stica di produrre sull’ascoltatore la comprensione dell’enunciato del parlante.

Searle ammette che la comprensione di un enunciato letterale avviene invirtù di certe regole concernenti gli elementi della frase enunciata, regole dellalingua ugualmente conosciuta dal parlante e dall’ascoltatore, ma non dicecome esse rendano possibile la comunicazione. Nell’opera Intentionality cheesce nel 1983 la sua posizione non è cambiata in relazione al problema dellacomunicazione. La semantica, come disciplina filosofica, deve rispondere aquesto quesito: “[…] che cosa aggiunge l’intenzione del parlante a quell’even-to fisico [l’enunciazione], che rende quell’evento fisico un caso in cui il parlan-te esprime un qualche significato per suo tramite?”4.

Rispetto a tale problema, che, per Searle, si identifica con il problema del“significato”, assume un valore secondario l’interrogativo che viene posto dallaseguente domanda: “che conoscenza deve avere un parlante perché si possa

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dire che conosce una lingua, come il francese o l’inglese?”. Tale questione nonavrebbe, a suo avviso, “nessuna connessione con il problema del significato”.Eppure su tale “conoscenza”, che è la conoscenza propriamente linguistica, èfondata la possibilità stessa dell’atto di comunicazione.

Searle distingue i due aspetti delle intenzioni significanti, l’intenzione di rap-presentare e l’intenzione di comunicare, e sostiene che non sia consentito, insede di teoria degli atti illocutori, quelli che si determinano nell’area del cosid-detto discorso ordinario, separare il rappresentare dal comunicare.

Perciò, nell’analisi del discorso ordinario, è poco credibile la sua tesi cheuna teoria del linguaggio deve essere in grado di spiegare come “una perso-na possa fare un’affermazione ed essere del tutto indifferente rispetto al fattoche il suo pubblico le creda oppure no, o addirittura che il suo pubblico la com-prenda”5.

Dobbiamo domandarci come potremmo, in relazione ad un ordine o ad unapromessa, ad esempio, affermare che sia possibile il rappresentare senza ilcomunicare.

È certo che il problema della comunicazione è considerato, da Searle, sol-tanto come un problema secondario, rispetto al problema “semantico”, che siidentifica, a suo avviso con il problema dell’Intenzionalità degli atti linguistici.Nell’ultima opera di Searle, scritta in collaborazione con Daniel Vanderveken,Foundations of illocutionary Logic, è espressa una posizione analoga, riguardoall’esigenza di definire i caratteri e i meccanismi dell’atto di comunicazione. Quil’autore afferma che fra le condizioni che determinano la corretta comprensio-ne di un’espressione vi è quella che “il parlante deve usare la stessa lingua del-l’ascoltatore”. Non si preoccupa di spiegare che cosa significhi “usare la stes-sa lingua dell’ascoltatore”, quale differenza possa esserci fra la lingua, comestrumento, e il suo uso; e neppure si preoccupa di spiegare come e per qualimeccanismi l’uso della stessa lingua permetta ai parlanti di comunicare fra loro.E infine afferma che “[…] queste condizioni che sono alla base della compren-sione sono di scarso interesse teoretico in un teoria degli atti linguistici […] enoi concentreremo la nostra attenzione sul parlante e su come la sua enuncia-zione soddisfa le altre condizioni per una esecuzione riuscita e non difettosa”6.

Riprendiamo ora il tema della proposta di un criterio di distinzione dellasemantica e della pragmatica degli atti linguistici; penso che tale distinzionepossa essere fondata, in maniera rigorosa, sul concetto di comunicazione checi permette di individuare i contenuti propriamente semantici.

La questione può essere affrontata opportunamente prendendo, anzitutto,in esame la struttura dell’atto illocutorio, teorizzato da Austin e successiva-mente da Searle, due studiosi che, pur distinguendosi l’uno dall’altro nei crite-ri di impostazione e soluzione del problema dell’atto illocutorio, hanno, entram-bi, contribuito a porre in evidenza lo spessore pragmatico dell’atto linguistico.

L’espressione “azione linguistica”, un’azione che si compie a mezzo delleparole ed è inseparabile dalle parole, indica chiaramente la sfera pragmaticadell’atto linguistico, i cui contenuti possono definirsi, in senso specifico, conte-nuti pragmatici dell’atto linguistico.

La promessa, ad esempio, rappresenta un tipo di atto illocutorio. Se il par-

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lante, rivolto ad un ascoltatore pronuncia la frase “Io prometto che partirò” eglicompie un’azione linguistica diversa da quella che egli compie se pronuncia lafrase “Pietro è partito”.

L’aspetto pragmatico dell’atto linguistico ci si rivela soltanto, se si conside-ra l’atto linguistico, accogliendo il suggerimento di Morris, in rapporto alle dif-ferenti posizioni del parlante e dell’ascoltatore. Se il parlante, a mezzo delleparole, compie l’azione del promettere, che consiste nell’assumersi l’obbligo difare una certa cosa, nei confronti dell’ascoltatore, –tale azione la compie il par-lante e non l’ascoltatore–. Il ruolo pragmatico dell’ascoltatore è nettamentedistinto da quello del parlante: una cosa è fare una promessa, altra cosa è pre-tendere che sia mantenuta. Questo differenziarsi degli atteggiamenti praticidel parlante e dell’ascoltatore –in relazione al suddetto atto illocutorio, come aqualsiasi altro tipo di atto illocutorio–, ci dimostrano chiaramente che l’atto lin-guistico, nel suo aspetto pragmatico, si realizza sotto il segno della asimme-tria dei ruoli e delle operazioni pratiche del parlante e dell’ascoltatore.

Consideriamo ora l’aspetto semantico dell’atto linguistico, di qualsiasi attolinguistico, in quanto atto di comunicazione, che coinvolge, allo stesso modo,il parlante e l’ascoltatore, determinando una situazione di perfetto equilibrio, disimmetria dei ruoli del parlante e dell’ascoltatore. Nell’atto di comunicazione, icontenuti semantici debbono presentarsi identicamente al parlante e all’ascol-tatore, ma è necessario precisare che non vi è nulla che privilegi certi conte-nuti come semantici, contrapponendoli ad altri contenuti non semantici. Sideve dire che la semantica del linguaggio naturale, nel discorso cosiddettoordinario, non ha contenuti privilegiati, quali potrebbero essere, ad esempio, icontenuti apofantici, delle asserzioni vere o false, descrivibili in base a concettilogici. Alcuni studiosi come Gazdar e Kempson7 si trovano, erroneamente, inquesta posizione e definiscono in questo modo la semantica, e assumonoquesto unico criterio per distinguerla dalla pragmatica. Non vi è alcuna validaragione per affermare che soltanto i contenuti apofantici, delle asserzioni vereo false, debbano essere considerati come contenuti semantici.

La semantica del linguaggio ordinario, che si è posta su questa strada,applicando un criterio rigidamente vero-funzionale, è indotta a definire prag-matiche differenze che hanno, invece, un carattere squisitamente semantico:l’enunciato “Maria è cagionevole di salute, ma è intelligente” avrebbe lo stes-so significato semantico dell’enunciato “Maria è cagionevole di salute ed èintelligente”, e soltanto un differente significato pragmatico.

Si ha ragione di porre questa tesi che nega che i contenuti apofantici pos-sano avere essi soli il privilegio della semanticità. In contrasto con una illustretradizione logico-linguistica si ha ragione di affermare, da un diverso punto divista, che non vi è motivo alcuno, in sede di indagine sui contenuti del lin-guaggio ordinario, di limitare la nozione di “significato” al contenuto delleasserzioni, entro i limiti della nozione vero-funzionale. D’altra parte, anche laterminologia, quella delle origini, quella di Aristotele, sembra conferire validitàalla tesi che la nozione di significato è più generale rispetto a quel significatospecifico che è attribuibile al discorso assertivo: infatti lo stesso Aristoteledistingue la semanticità del discorso dalla sua eventuale apofanticità, e, in tal

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modo, dimostra chiaramente che attribuisce un significato anche al discorsonon assertivo.

Un altro tentativo di privilegiare e di distinguere, entro la sfera del signifi-cato in senso lato, determinati contenuti o significati è quello di coloro che8,distinguendo, in sede di linguistica teorica, competence e performance, languee parole, identificano i contenuti semantici con i significati della lingua e quel-li pragmatici con i contenuti o sensi degli atti di parole.

Questa tesi, ovviamente, è da respingere senza esitazione; e non per ilfatto che la definizione del concetto di lingua, come entità distinta dall’atto lin-guistico concreto, comporti delle difficoltà.

Se si coglie la distinzione di lingua, langue nella terminologia di DeSaussure, competence in quella di Chomsky, e si ammette che si possa dareuna definizione consistente e rigorosa di lingua, è proprio la stessa definizio-ne di lingua a fornirci le più valide argomentazioni contro la tesi, che si rivela,così, assurda, secondo la quale i contenuti semantici sarebbero i significatidella lingua e quelli pragmatici i contenuti o sensi degli atti di parola.

La lingua contiene, soltanto virtualmente, tutte le frasi possibili. Ma la lin-gua è soltanto uno strumento, usando il quale si possono produrre tutti i signi-ficati possibili: sarebbe opportuno precisare che si tratta propriamente di sensio significazioni, che si producono mediante i singoli atti linguistici, mediante laparole. Virtualmente tutto appartiene alla lingua, i singoli termini come le frasi,le quali richiedono determinate regole sintattiche. Ma se consideriamo le enti-tà linguistiche, termini e regole sintattiche, nella loro concreta realizzazione,niente appartiene alla lingua, neppure i singoli termini, che si realizzano nel-l’atto stesso in cui si realizzano le frasi.

Ma prendiamo, ora, in considerazione una significativa distinzione, quelladi enunciato e contesto di enunciazione. Possiamo affermare che non esisto-no enunciati privi di un contesto di enunciazione; è possibile solo distinguerefra enunciati il cui significato non è determinato o modificato dal contesto dienunciazione.

Sulla base di questa distinzione, si è affermato che la semantica trattereb-be solo dei significati degli enunciati che non sono determinati dal contesto dienunciazione, mentre la pragmatica tratterebbe tutti e soli i significati che sonodipendenti dal contesto9.

Ma non vi è alcuna valida ragione per escludere dalla semantica i signifi-cati degli enunciati che vengono determinati dal contesto di enunciazione. E,ugualmente, non è accettabile la tesi, affermata da alcuni studiosi di semanti-ca di indirizzo propriamente logico, che è di competenza della semantica solociò che ha un rapporto diretto con la verità o la falsità, e perciò esclusivamen-te il campo delle asserzioni.

Abbiamo, dunque, accertato che hanno tutte le caratteristiche necessarieper essere oggetto di considerazione e teorizzazione semantica anche i signi-ficati degli enunciati il cui contenuto è determinato, in qualche maniera, dalcontesto enunciativo. Ma il contesto di enunciazione riguarda anche il campopiù esteso degli enunciati non assertivi. Anche i significati di questi ultimi pos-sono acquisire il loro contenuto pieno e compiuto, il loro senso determinato e

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particolare, attraverso il contesto di enunciazione. Il senso preciso di enuncia-ti come un ordine, una domanda, una minaccia, una promessa, e di tutti gli altritipi di atti illocutori, si determina attraverso il contesto di enunciazione, nellamente del parlante come in quella dell’ascoltatore. Ma il senso di questi enun-ciati, anche se è determinato dal contesto di enunciazione, non ha nessunacaratteristica che lo escluda a priori dalla sfera dei contenuti della semantica;e neppure che lo includa a priori nella sfera dei contenuti propri della pragma-tica. Appare fin da ora evidente che la determinazione del senso di un atto lin-guistico, effettuata mediante il contesto di enunciazione, è fenomeno cheriguarda esclusivamente la semantica.

Una volta stabilita la premessa che la semantica del linguaggio ordinarionon ha contenuti privilegiati, e che il criterio per stabilire i contenuti semanticidi ogni atto linguistico è il concetto di comunicazione, riprendiamo in esame,da questo punto di vista, gli atti illocutori della promessa e dell’asserzione, perporre finalmente in luce l’aspetto semantico di tali atti linguistici e individuarnei rispettivi contenuti. Mentre l’atto linguistico, nel suo aspetto pragmatico, sicompie sotto il segno della asimmetria dei ruoli, del parlante e dell’ascoltato-re, l’atto linguistico, nel suo aspetto comunicativo e strettamente semantico, sicompie, al contrario, sotto il segno della simmetria dei ruoli, della reciprocitàdelle funzioni, del parlante e dell’ascoltatore.

Per farsi comprendere, il parlante deve porsi anche nella posizione dell’a-scoltatore; e l’ascoltatore, per comprendere, deve porsi anche nella posizionedel parlante. Vediamo l’atto linguistico della promessa come atto di comunica-zione. Il parlante, che compie l’azione del promettere, è in grado di prevedere–ponendosi nella posizione dell’ascoltatore–, come l’ascoltatore intenda le sueparole, attraverso la frase con cui denuncia il suo impegno di fare una certacosa. In ciò consiste il “carattere semantico dell’atto linguistico come atto dicomunicazione”. L’ascoltatore, come attore dell’atto di comunicazione, può, daparte sua, comprendere il significato dell’atto linguistico della promessa di cuiè il destinatario, solo in quanto sa che cosa significa quella espressione, tantomeglio lo comprende, quanto più riesce a porsi nella situazione del parlante.

Il concetto di contenuto semantico appare, così, fondato unicamente sulconcetto di comunicazione.

Consideriamo ora l’atto illocutorio dell’asserzione nel suo aspetto pura-mente semantico, e, perciò, dal punto di vista della comunicazione.Nell’enunciazione della frase “Pietro è partito”, nella quale un parlante si rivol-ge ad un ascoltatore, ciò che costituisce il contenuto propriamente pragmati-co è la differenza dei ruoli, del parlante e dell’ascoltatore. Sappiamo che ilruolo del parlante consiste nel fatto che egli, ed egli soltanto, si assume laresponsabilità di ciò che asserisce, della sua veridicità. Se invece consideria-mo la stessa asserzione dal punto di vista della comunicazione, allora abbia-mo il contenuto semantico dell’atto linguistico, che, per la simmetria e recipro-cità dei ruoli, si prefigura come identico nel parlante e nell’ascoltatore. Il con-tenuto dell’asserzione è un’informazione che riguarda il fatto che Pietro è par-tito: tale contenuto, nella prospettiva della comunicazione, non ha alcuna rela-zione con la responsabilità dell’asserente e del parlante, che riguarda unica-

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mente il carattere pragmatico dell’atto linguistico. Il contenuto della comunica-zione, il contenuto propriamente semantico, è il puro “dictum” senza la pater-nità dell’asserente.

Ma vi è da considerare un altro aspetto dell’atto di comunicazione, cheriguarda la responsabilità del parlante che compie un atto di comunicazione. Ilparlante può informare l’ascoltatore semplicemente del fatto che Pietro è par-tito, oppure può informare l’ascoltatore del fatto che Pietro è partito e insiemedel fatto che egli si assume la responsabilità della veridicità dell’informazione.In entrambi i casi si tratta di contenuti che appartengono alla sfera semantica,e che hanno, o debbono avere, lo stesso significato per il parlante e per l’a-scoltatore. Ciò che appartiene alla sfera pragmatica è semplicemente il fattoche il parlante –e soltanto il parlante– si assume la responsabilità della veridi-cità della sua asserzione.

Indipendente dal puro contenuto semantico della comunicazione può esse-re considerato il fatto che il parlante, ponendo la sua asserzione, abbia l’in-tenzione di produrre determinati effetti sull’ascoltatore, come, ad esempio,tranquillizzarlo, spaventarlo, minacciarlo etc. Questi effetti, che sono statidenominati “perlocutori” e richiedono una definizione univoca e rigorosa che,fino ad oggi, è mancata, rientrano anch’essi nella sfera propriamente pragma-tica.

Ed ora, prendiamo in esame alcuni tipi di atti illocutori, per chiarire ulterior-mente il criterio di distinzione della semantica e della pragmatica degli atti lin-guistici. Consideriamo un enunciato imperativo come, ad esempio, “Chiudi lafinestra”, nel suo aspetto puramente comunicativo. Il suo contenuto, che è ilpuro significato dell’enunciato, per la simmetria e reciprocità dei ruoli, presen-tandosi identicamente per il parlante e per l’ascoltatore, è il contenuto seman-tico dell’atto linguistico.

Lo stesso atto linguistico, nel suo aspetto pragmatico, ci mostra altrettantochiaramente la asimmetria dei ruoli. L’azione che compie il parlante è quella diindurre una certa persona, l’ascoltatore, a fare una certa cosa. Mentre si vuoleuna certa cosa, si comunica che si vuole una certa cosa, ma le due operazio-ni rimangono distinte. L’ordine, che è dato dal parlante, cambia, in qualchemodo, il rapporto sociale del parlante e dell’ascoltatore. La funzione pratica dichi dà gli ordini è diversa dalla funzione pratica di chi li riceve.

Un altro tipo di atto illocutorio, che ci viene presentato e descritto da Austin,“sì, prendo questa donna come mia legittima sposa”, e che egli dapprimadenomina “performativo”, e colloca nella classe degli enunciati “contrattuali”,stabilisce, come è noto, le condizioni necessarie alla sua completa realizza-zione. Tutte le condizioni di felicità dell’enunciato, così descritte, si riferisconoai caratteri pragmatici dell’atto linguistico, del “sì” celebrativo del matrimonio.Ma, fra le condizioni di “felicità” dell’enunciato ve n’è una, che riguarda sol-tanto “la comprensione del significato e del valore dell’enunciato” e che eglidenomina “la sicurezza della comprensione”. Se consideriamo il “sì”, pronun-ciato dallo sposo nel suo puro contenuto semantico, vale a dire come un puroatto di comunicazione, il significato di esso, per la reciprocità dei ruoli, del par-lante e dell’ascoltatore, sarà identico per il parlante e per l’ascoltatore.

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Riguardo al contenuto semantico dell’ordine, dell’enunciato imperativo,possiamo dire che anch’esso costituisce, a suo modo, un’informazione.Nell’ambito di ciò che denominiamo informazione, possiamo distinguere l’informazione in senso stretto, l’asserzione, vera o falsa, e l’informazione insenso lato, quella che non è trasmessa da un’asserzione, ma, bensì, da unordine, oppure dall’espressione della volontà di stipulare un contratto matri-moniale, che si realizza mediante una certa formula.

Nel rapporto che, a livello del discorso ordinario, si stabilisce fra un parlan-te e un ascoltatore, la linea di discriminazione fra la semantica e la pragmati-ca è determinata dal carattere di questo rapporto. Se si determina la asimme-tria del rapporto parlante-ascoltatore, se i ruoli del primo e del secondo risul-tano differenziati, si ha, come sappiamo, una differente partecipazione opera-tiva del parlante e dell’ascoltatore, nel compimento dell’atto linguistico.

Se, come sostiene Morris, la pragmatica deve studiare la relazione deisegni con gli interpreti parlante e ascoltatore, occorreva definire il senso ed ilcarattere di questa relazione: per Austin, come per Searle, la relazione consi-ste in una operazione pratica, in un’azione che parlante e ascoltatore compio-no a mezzo delle parole. Ma, come abbiamo più volte precisato, in tale ope-razione pratica, parlante e ascoltatore hanno ruoli e parti diverse. Se, adesempio, il parlante dà un ordine all’ascoltatore, e, perciò, compie l’azionerispettiva, l’ascoltatore si sentirà in qualche modo obbligato o condizionato. Idue ruoli diversi, del parlante e dell’ascoltatore, nel rapporto che si stabiliscefra essi mediante l’atto linguistico, danno luogo a ciò che io ho denominato l’a-simmetria dell’atto linguistico, nel suo aspetto pragmatico, che è l’oggetto distudio di un settore ben determinato della filosofia del linguaggio. L’altro set-tore è costituito dalla semantica, i cui limiti racchiudono uno spazio molto piùampio, che è stato definito sulla base del concetto della comunicazione lingui-stica. A differenza della sfera pragmatica, la sfera semantica si manifesta sottoil segno della simmetria e della reciprocità dei ruoli. Ciò che ci determina a par-lare di simmetria dei ruoli, del parlante e dell’ascoltatore, è il fatto che il con-tenuto della comunicazione trasmesso dal parlante e ricevuto dall’ascoltatore–se la comunicazione riesce– è identico per il parlante e per l’ascoltatore. Lacomunicazione non si realizza quando quello che sa il parlante e che vuolecomunicare all’ascoltatore è diverso da quello che viene a sapere l’ascoltato-re, e ciò si verifica a causa della conoscenza del parlante e dell’ignoranza del-l’ascoltatore. In tal caso, non si verifica quella situazione ideale in cui il par-lante è perfettamente in grado di comunicare e l’ascoltatore è perfettamente ingrado di ricevere e comprendere la comunicazione.

Ed ora consideriamo l’altro aspetto, distinto, dell’atto di comunicazione,quello della reciprocità o scambio dei ruoli, del parlante e dell’ascoltatore.L’ascoltatore tanto più è in grado di cogliere l’intenzione del parlante, ciò chevuole o desidera o sa, quanto più egli riesce a porsi nella prospettiva del par-lante, nel suo punto di vista, oltre che nel proprio. La comunicazione falliscetanto se l’ascoltatore non sa comprendere il punto di vista del parlante, quantose il parlante non sa comprendere la mentalità, il punto di vista dell’ascoltatore.

Sulla base di queste nozioni di simmetria e reciprocità dei ruoli del parlan-

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te e dell’ascoltatore, possiamo stabilire che qualsiasi contenuto, in quanto sidetermina come identico per il parlante e per l’ascoltatore, deve essere consi-derato come oggetto di studio della semantica, invece l’oggetto di studio dellapragmatica è costituito dalle operazioni compiute, a mezzo delle parole, dalparlante e dall’ascoltatore, in maniera differenziata; essa è fondata sul con-cetto della asimmetria dei ruoli.

Non si ha ragione di escludere dalla sfera semantica alcuni contenuti del-l’atto di comunicazione. Perciò appartengono alla sfera semantica non solo icontenuti apofantici, vale a dire i significati delle asserzioni, vere o false, defi-nibili mediante concetti logici, ma anche gli altri contenuti, vale a dire i signifi-cati delle domande, degli ordini, delle promesse, degli avvertimenti, eccetera.

E poiché l’atto di comunicazione è atto di parole, è performance, sonooggetto di studio della semantica tutti i contenuti che si realizzano nell’atto diparole in quanto atto di comunicazione. Perciò è da respingere la tesi cheidentifica i contenuti, che sono oggetto di studio della semantica, con i signifi-cati della langue, e assegna alla sfera pragmatica tutti i contenuti della parole.La lingua, la langue, a rigore, non contiene in sé nessun enunciato, nessunsignificato. La lingua è soltanto uno strumento, e dall’uso di tale strumentohanno origine i significati, che appartengono alla sfera della parole, e sono icontenuti che si realizzano nell’atto di parole come atto di comunicazione.

Questa conclusione è in antitesi con un’altra esclusione, quella che elimi-nerebbe dalla sfera semantica tutti i contenuti che sono dipendenti dal conte-sto di enunciazione e li assegnerebbe alla sfera pragmatica. Perciò non si haalcuna fondata ragione di escludere dalla sfera semantica i significati deglienunciati che sono determinati dal contesto di enunciazione.

Dobbiamo anche respingere una tesi di Grice, che assegna alla sfera prag-matica i contenuti o significati che egli definisce come “implicitati non conven-zionalmente”. Se accogliamo la distinzione di Grice, fra ciò che è detto, ciò cheè implicitato convenzionalmente e ciò che è implicitato non convenzionalmen-te, dobbiamo collocare ugualmente nella sfera semantica tanto i significati diciò che è detto e di ciò che è implicitato convenzionalmente, quanto i signifi-cati di ciò che è implicitato non convenzionalmente.

Debbo osservare, ora, che il fatto di aver assegnato alla sfera semanticaun insieme così ampio di significati non aumenta le difficoltà per la delimita-zione e definizione dei problemi propriamente semantici.

Austin, nell’opera How to do things with words e precisamente nellaLezione quinta, mentre sta saggiando la possibilità di scoprire un criterio gram-maticale che permetta di riconoscere un enunciato performativo, ipotizza chetale criterio possa essere “la prima persona singolare del presente indicativoattivo”.

Ebbene, Austin osserva che, in relazione a tale uso del presente indicativoattivo, “si deve notare l’asimmetria costante che si rivela fra questa prima per-sona e questi tempi e le altre persone e gli altri tempi dello stesso verbo” (p.63). Si tratta della stessa asimmetria che si osserva tra la prima persona delpresente indicativo del verbo promettere, ad esempio, e la prima persona delpresente indicativo del verbo correre. C’è un’analoga differenza fra “io pro-

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metto…” e “tu prometti…” o fra “io prometto…” e “io promisi…” e fra “io pro-metto” e “io corro”.

Solo se dico”io prometto…” io sto compiendo l’azione del promettere.Invece se dico “tu prometti…” o “ io corro” io sto compiendo l’atto illocutoriodell’asserzione. Ciò che determina la asimmetria fra “io prometto…” e “tu pro-metti…” è il valore pragmatico dell’atto illocutorio, ma la asimmetria sussistefra due atti illocutori diversi.

Invece la asimmetria che io ho posto a fondamento del carattere pragmati-co dell’atto linguistico è interna a una singola enunciazione, ad un singolo attoillocutorio, e riguarda esclusivamente il rapporto che si determina tra parlante eascoltatore del singolo atto illocutorio. C’è una asimmetria tra i due distinti ruoli,del parlante e dell’ascoltatore, all’interno di uno stesso atto illocutorio.

La asimmetria considerata da Austin fra l’io e il tu, in due enunciazionidiverse, deve essere posta fra il parlante e l’ascoltatore all’interno di un’unicaenunciazione.

Non dobbiamo dimenticare che qualsiasi tipo di atto illocutorio, oltre adessere un’azione compiuta a mezzo delle parole, è anche un atto di comuni-cazione. Se noi astraiamo, ad esempio, dall’atto del promettere, nella sua inte-rezza, l’atto con cui si comunica che si sta promettendo: da questo punto divista, che è quello dell’atto di comunicazione, la asimmetria che sussiste, allivello pragmatico, fra “io prometto…” e “tu prometti…”, scompare per il neces-sario istaurarsi della simmetria dei ruoli, che caratterizza il concetto di comu-nicazione. Quando il parlante dice “io prometto…”, ciò che egli comunica nonè l’azione del promettere: le azioni non si comunicano, si compiono e soltantointeragiscono con altre azioni; ciò che il parlante comunica è il significato del-l’azione che compie, che, se la comunicazione riesce, deve risultare identicoper il parlante e per l’ascoltatore. Se invece consideriamo l’atto del promette-re nel suo carattere pragmatico, come un’azione compiuta a mezzo delle paro-le, dovremo collocare questa azione linguistica sull’asse della asimmetria deiruoli, del parlante e dell’ascoltatore, e allora il pronome “io” presente in alcunitipi di enunciati performativi espliciti assumerà tutto il suo spessore pragmati-co, e caratterizzerà l’operazione del parlante, nella sua contrapposizione aquella dell’ascoltatore.

Un altro problema, che può essere trattato dal nostro punto di vista dellasimmetria e asimmetria dei ruoli, è quello delle presupposizioni.

Vediamo anzitutto l’aspetto semantico delle presupposizioni. Supponiamoche il parlante pronunci i seguenti enunciati, in direzione dell’ascoltatore:

a: i figli di Giovanni sono ammalati.b: Pietro è ritornato dagli Stati Uniti.In questi enunciati vi è qualcosa di esplicito e qualcosa di implicito (pre-

supposto). Il contenuto implicito del primo enunciato, a , la sua “presupposi-zione”, è che “Giovanni ha dei figli”; il contenuto implicito del secondo enun-ciato, b , è che “Pietro è partito per gli Stati Uniti dal luogo in cui si trovano ilparlante e l’ascoltatore”.

Supponiamo che questi enunciati siano detti da un parlante che vuole sol-tanto informare l’ascoltatore di certi fatti. Le presupposizioni dei due enuncia-

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ti, a e b, che “Giovanni ha dei figli”, e che “Pietro è partito per gli Stati Uniti”,hanno, dunque, un carattere essenzialmente semantico. È evidente che nontroviamo delle presupposizioni di carattere semantico anche in enunciati diver-si dalle asserzioni, come, ad esempio, le interrogazioni.

Ma vediamo, ora, il carattere pragmatico delle presupposizioni.Consideriamo ancora l’atto illocutorio della promessa. Quando si compie unapromessa si presuppongono due cose, che il parlante abbia veramente l’in-tenzione di fare ciò che promette e che l’ascoltatore lo desideri.

Questi due fatti o”presupposizioni”, che riguardano distintamente il parlantee l’ascoltatore, sono stati definiti da Searle come due delle condizioni necessa-rie per la perfetta realizzazione dell’atto illocutorio della promessa. Tali presup-posizioni rivelano chiaramente il loro carattere pragmatico perché sono fonda-te sulla asimmetria del rapporto parlante –ascoltatore. Su questo piano pro-priamente pragmatico, non dipende certamente dall’ascoltatore che il parlanteabbia veramente l’intenzione di fare ciò che promette, come non dipende dalparlante che l’ascoltatore desideri quella certa cosa che il parlante promette difare. Quando, nell’atto linguistico del promettere, anche una sola di queste pre-supposizioni non viene soddisfatta, l’atto linguistico risulta fuori della norma.

Adoperato il termine condizione usato da Searle possiamo dire che la pre-supposizione è la condizione implicita dell’atto del promettere. Se il parlantedice “prometto che partirò”, sono condizioni implicite di questo atto illocutoriosia che il parlante voglia partire, sia il fatto che l’ascoltatore desideri che il par-lante parta. C’è un esplicito e un implicito. Si hanno due impliciti di originediversa, uno riguarda il parlante, e l’altro riguarda l’ascoltatore, e si determi-nano sull’asse della asimmetria dei ruoli.

Un altro esempio di questa asimmetria, legata al carattere pragmatico dellepresupposizioni, si determina altrettanto chiaramente nell’atto illocutorio del-l’ordine. Alla differenza e asimmetria dei ruoli, di chi impartisce l’ordine e di chilo riceve, è correlativa una differenza e una asimmetria di presupposizioni. Lapresupposizione che riguarda l’atto compiuto dal parlante è distinta e diversada quella che riguarda l’ascoltatore.

La presupposizione che riguarda l’atto compiuto dal parlante è il fatto cheegli si senta autorizzato a compiere l’atto in virtù della superiorità della suaposizione sociale rispetto all’ascoltatore, la presupposizione che riguarda l’a-scoltatore è il fatto che egli si sente obbligato, nella sua partecipazione all’at-to illocutorio dell’ordine, a causa della inferiorità della sua posizione socialerispetto al parlante. Da un lato, quello del parlante, l’implicito è il fatto di sen-tirsi autorizzato, dall’altro lato, quello dell’ascoltatore, è il fatto di sentirsi obbli-gato. Tali presupposizioni sono parti integranti dell’atto illocutorio dell’ordinenel suo carattere di normalità. In questo senso l’implicito è parte integrantedell’esplicito. Se si esce dalla normalità, le presupposizioni possono venire amancare. In teoria un soldato semplice, che non si sente autorizzato, può dareun ordine ad un capitano che non si sente obbligato.

Prima di terminare, vorrei accennare soltanto agli usi linguistici dei pronomiio e tu, per porre in evidenza i due aspetti, pragmatico e semantico, di tali usi.

Consideriamo gli atti illocutori, ormai familiari, dell’ordine e della promessa:

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Io ti ordino di…Io ti prometto di…In questi atti illocutori, io e tu impersonano ruoli differenti, che caratterizza-

no l’aspetto pragmatico dei rispettivi usi. Io significa solo ciò che può fare ilparlante, tu significa solo ciò che può fare l’ascoltatore, la sua partecipazionepratica nell’atto illocutorio. Io e tu sono collocati in un asse asimmetrico, inquanto rappresentano i due ruoli differenti del parlante e dell’ascoltatore e lerispettive presupposizioni.

Ed ora prendiamo in esame l’altro aspetto, quello propriamente simmetri-co, dell’uso di io e di tu. Gli stessi enunciati, “io ti ordino di…”, “io ti promettodi…”, considerati semplicemente come atti di comunicazione, come attimediante i quali il parlante vuol soltanto far sapere qualcosa all’ascoltatore, el’ascoltatore vuole solo comprendere ciò che gli dice il parlante.

Sappiamo che, ormai, nell’atto di comunicazione vige il principio della sim-metria e della reciprocità dei ruoli. L’io è pensato nello stesso modo dal par-lante e dall’ascoltatore, esattamente come il tu.

Il significato di “io” e il significato di “tu”, divengono identici, nell’atto dicomunicazione, per il parlante e per l’ascoltatore10.

1 C. MORRIS, Foundations of the Theory of Signs, in Writings in the General Theory of Signs,Mouton, L’Aja 1971.

2 J.R. SEARLE, Speech Acts. An Essay in the Philosophy of Language, Cambridge UniversityPress, Rodon 1970, p. 63.

3 U. ECO, Semiotica e filosofia del linguaggio, Torino 1984, pp. 68, 69.4 J. R. SEARLE, Dell’Intenzionalità. Un saggio di filosofia della conoscenza, tr. it., Bompiani,

Milano 1985, pp. 166, 167.5 Ivi, pp. 173, 174.6 J.R. SEARLE, D. VANDERVEKEN, Foundations of illocutionary Logic, Cambridge 1985, p. 21.7 G. GAZDAR, Pragmatics, Presupposition, and Logical Form, Academic Press, New York 1979;

R.R. KEMPSON, Presupposition and the Delimitation of Semantics, Cambridge University Press,London 1975.

8 G. LEECH, Principles of Pragmatics, Longman, London 1983; R. KEMPSON, Presuppositionand the Delimitation of Semantics, Longman, London 1975.

9 Questa posizione viene assunta, ad esempio, da J.J. KATZ e D.T. LANGENDOEN nell’articoloPragmatics and presuppositions, “Language” 1, 1978.

10 A questo concetto della reciprocità, che caratterizza i pronomi “io” e “tu”, nel loro caratteresemantico, sembra alludere Oswald Ducrot, che cita una definizione del linguista Benveniste; matanto Benveniste quanto Ducrot non pongono in luce l’aspetto più importante della reciprocità,quello che, presupponendo la rigorosa distinzione dei caratteri semantico e pragmatico dell’attolinguistico, rivela quel senso della reciprocità che è fondato sul concetto di comunicazione. Ducrotesprime la sua tesi con questa affermazione:

“Ciò che è determinante nel pronome io, non è tanto il fatto che esso costituisce un mezzoabbreviato per parlare di sé, quanto, piuttosto, che esso obbliga colui che parla a designarsi conla stessa parola che il suo interlocutore utilizzerà a sua volta per designare se stesso. L’uso di io(lo stesso vale per il tu) costituisce dunque un apprendimento e un esercizio permanente dellareciprocità [… ] Benveniste riassume questa tesi dicendo che i pronomi personali marcano la pre-senza dell’intersoggettività all’interno della lingua stessa”. (Dire et ne pas dire, Paris 1972. p. 3).

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RELIGIONE CRISTIANA E RELIGIONE APERTA:LINEE DI UN CONFRONTO

di Massimiliano Fortuna

L’opera e la figura di Aldo Capitini nella cultura italiana del Novecento nonposseggono, a tutt’oggi, che nebulosi contorni. Basti pensare, ad esempio, aquanto sia limitato il numero di persone che riconosce in lui l’ideatore dellaMarcia della pace Perugia-Assisi. Non che Capitini non goda di una lusinghie-ra bibliografia quanto a numero di titoli. Ma il valore di questi testi, tranne alcu-ne, anche recentissime, lodevoli eccezioni, è complessivamente modesto. Ese una lacuna più di altre può distinguersi, questa attiene alla dimensione filo-sofico-religiosa del suo pensiero.

Troppo spesso a quanti si interessano di nonviolenza la sua palese incli-nazione religiosa si direbbe apparire come una superflua, quando non imba-razzante, appendice. E, naturalmente, questo non è che un modo, il più evi-dente forse, di tradire l’indiscutibile complessità del suo patrimonio intellettua-le. Il rispetto per un pensatore comincia innanzi tutto dalla volontà di prender-lo in parola; è sufficiente dare una rapidissima scorsa ai titoli dei libri di Capitinie vedere quante volte le parole “religione”, “religioso” e “religiosa” ritornano perrendersi conto che una simile insistenza non solo non può essere casuale, matestimonia un’opzione fondamentale e decisiva, sminuire la quale è un azzar-do che chiunque intenda soffermarsi su di lui con una qualche meditata atten-zione non può certo commettere.

Lo scritto che segue trova la propria ragion d’essere nel tentativo di analiz-zare alcuni nodi fondamentali –sebbene altri se ne possano trovare– della pro-spettiva religiosa di Capitini, da lui stesso sintetizzata nella formula “religioneaperta”. In essa s’intersecano mondi culturali diversi e la struttura concettualeche la contraddistingue si chiarisce in un ampio confronto fra svariati motivi,appartenenti tanto al pensiero laico e filosofico quanto alla tradizione stretta-mente religiosa. Mi pare si possa comunque dire che i componenti prioritari diquesto intreccio sono: l’eredità cristiana, essenzialmente nel richiamo alla suafonte evangelica, il criticismo kantiano, l’idealismo (tanto Hegel quanto Crocee Gentile), l’analisi marxiana, alcuni temi delle filosofie dell’esistenza e la spi-ritualità gandhiana. Analizzare con precisione critica il diverso apporto datoalla religione di Capitini da queste differenti fonti, ricostruire il contesto intel-lettuale della loro apparizione nel pensiero capitiniano, cogliere le reciprocheinfluenze e ripercorrere le affinità tra questi molteplici “strati”, confrontarne gliesiti con alcune delle maggiori correnti filosofiche e religiose costituirebbe il,non agevole, compito di un intero libro. E si tratterebbe di un lavoro assoluta-mente meritorio, poiché al momento un libro siffatto non esiste.

Questo articolo dal canto suo si propone, in modo assai più semplice, di

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ravvisare l’importanza che la religione cristiana possiede nell’opera capitinia-na, e nel far questo coglie, come detto, l’occasione per tentare di fornire uncontributo alla comprensione della religione aperta. Lo scritto è suddiviso in treparagrafi, il primo dei quali cerca di mettere in luce i più significativi punti ditangenza che possono riscontrarsi tra cristianesimo e religione capitiniana, ilsecondo, all’opposto, ne evidenzia le maggiori differenze, e il terzo tenta diabbozzare qualche considerazione generale, sottolineando innanzi tutto ilposto centrale che l’escatologia occupa nelle pagine di questo autore. Chi scri-ve è guidato infatti dalla convinzione che la cristiana idea di salvezza costitui-sca l’eredità di maggior rilievo nella delineazione del nucleo più profondo dellareligione di Capitini, e che il serrato corpo a corpo ingaggiato da quest’ultimonei confronti dell’istituzione cattolica possa, al limite, leggersi come il tentativodi presentare se stesso come un erede del cristianesimo originario più auten-tico della Chiesa Romana, quasi, per adoperare parole sue, “il ricercatore e ilcostitutore di una vita religiosa, in contrasto con quella tradizionale, leggenda-ria, istituzionale, autoritaria”1.

Alla base delle pagine che seguono è sottesa l’idea che l’apparato filosofico-religioso capitiniano possegga un rigore concettuale e linguistico indiscutibile, lacui decifrazione non può che essere il risultato di pazienti e scrupolose ricerche;la sua “persuasione” religiosa non corrisponde in alcun modo ad un genericorispetto per la vita umana o ad una abborracciata e semplicistica silloge ecume-nica, ma ad una precisa prospettiva a cui occorre avvicinarsi facendo uso dellepiù adeguate categorie ermeneutiche che l’analisi critica ci fornisce.

Un terreno comune

Dico dunque: io ho, insieme con tutti gli esseri esistenti. E per un eguale motodico: io sono, insieme con tutti gli esseri presenti (intendendo per presenza l’es-sere apparsi, anche un istante solo che è infinito, nella storia). Al mio operaresecondo i valori sono intrinsecamente presenti anche quelli che sembrano nonoperare più. Come l’avere i beni economici mi lega a tutti gli esistenti, così l’ope-rare per i valori mi unisce a tutti gli esseri che ne sono o furono capaci, anche semorti, perché essi, solo che siano nati, hanno portato nel loro intimo un valore, edil valore non muore: vivono con esso. Per la persuasione etica sociale voglio chetutti gli esistenti fruiscano dei beni economici esistenti; per la persuasione religio-sa sento che alla creazione continua dei valori spirituali tutti sono infinitamentepresenti, anche chi sembra non essere più2.

Questa distinzione tra etica e religione non trova molti altri riscontri nellepagine di Capitini: non mi pare venga mai formulata esplicitamente prima ditale passo e raramente lo sarà in seguito. Tuttavia per intendere la centralitàe l’imprescindibilità del religioso in Capitini non si può partire che da qui: dallaconsapevolezza, cioè, che se esiste un tentativo di chiarificazione concettua-le, attinente a categorie classiche di pensiero, in grado di riepilogare la ten-sione che con maggior vitalità sorregge la sua pagina, questo non è altro cheil tentativo di “distinguere il momento religioso dal momento morale, con cuigeneralmente, e i migliori, lo confondono”3.

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Una cosa emerge da subito come la più evidente: lo “sguardo” della religio-ne punta verso una direzione che l’etica non contempla: quella dei morti, dicoloro il cui esistere sociale è venuto meno. Il discrimine tra etica e religionerisiede innanzi tutto in una diversa valutazione in merito all’“altro” a cui rivolge-re la propria attenzione. Capitini chiarisce che la responsabilità che l’uomo reli-gioso avverte non resta circoscritta ad una dimensione che comprenda unica-mente le creature viventi; la prospettiva che lo contraddistingue è all’insegna diun ampliamento, o più correttamente di un’aggiunta. Si tratta di transitare dauna realtà parziale, quella dei vivi (gli esistenti), ad una realtà assoluta, volta adincorporare anche coloro che hanno cessato di vivere (i presenti). La persua-sione etica sociale, come Capitini la definisce, si ferma alla prima realtà, la reli-gione raggiunge la seconda; e nel raggiungerla entra in possesso di una radi-cale verità entro la quale tutto il reale si incardina: i morti non muoiono, la mortenon è che un inganno della vitalità, un tranello biologico nel quale il religioso(vero persuaso) evita di restare impigliato e che ha il compito di palesare a tutti,indicando –profeticamente, se si vuole– l’aggiungersi della vita dietro l’appa-renza della morte. Afferrare senza esitazioni e con immediatezza l’esigenza diquesta aggiunta significa aver posto l’orecchio sul battito vitale che sorreggel’intero pensiero capitiniano, poiché è sull’asse vita-morte che il seguente pen-siero si gioca e solo in modo derivato su quello, di gran lunga più noto e inda-gato, nonviolenza-violenza: questa seconda antitesi, per quanto assolutamen-te centrale in Capitini, non costituisce che una specificazione della prima.

Nel dire etico-sociale Capitini definisce uno spazio che è il medesimo dellapolitica; valori etici e valori politici non si situano per lui in una scala gerarchica,né stanno fra loro in opposizione, né occupano ambiti autonomi e reciproca-mente distinti: semplicemente costituiscono un’identità; la politica autenticamen-te intesa risponde ad esigenze etiche e l’etica non può evitare di trovare il pro-prio sbocco nell’azione politica e sociale. Ma nemmeno tra sfera etico-politica esfera religiosa si dà una qualche contrapposizione, anzi una continuità profondale attraversa: tutto il discorso di Capitini lascia facilmente intendere –anzi espli-citamente sottolinea– che il vero impegno politico è quello capace di dotarsi diuno sguardo religioso. Essere un riformatore religioso era infatti il ruolo che, contutta probabilità, rivendicava prioritariamente per se stesso: e nella riforma reli-giosa dovevano conseguentemente rinvenirsi le condizioni di una nuova socia-lità (nuova anche perché non più solo strettamente politica); non è certo casua-le che queste due espressioni si trovino accostate nel titolo di uno dei suoi libripiù chiarificatori del vicendevole implicarsi di politica e religione.

Ci si potrebbe innanzi tutto chiedere se l’uso della parola “riforma”, noncostituisca di per sé la spia di una solidarietà essenziale tra religione cristianae religione aperta. La volontà di riformare dovrebbe presupporre infatti unnucleo, già esistente, di idee religiose al quale si intende conferire una “nuovaforma”. E questo nucleo, più che in qualsiasi altro movimento religioso, sem-bra proprio rinvenirsi nel cristianesimo: è il cristianesimo, pur non trascurando,nella sua mai circoscritta passione spirituale, altri patrimoni culturali, la religio-ne che Capitini intende “aprire”. Ma sviluppare in pienezza e libertà le poten-zialità di apertura interne ad esso significa inesorabilmente porsi in una condi-

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zione di critica e di rifiuto nei riguardi della tradizione cattolica, vale a dire diuna “versione” della religione cristiana che ne ha stravolto, o al limite visibil-mente usurato, l’originaria forza d’urto nei confronti della società e delle “chiu-sure” che la perpetuano –non si presti dunque un’attenzione marginale al fattoche nella religione di Capitini, come, più o meno larvatamente, in ogni posi-zione che risenta vivamente della suggestione del cristianesimo evangelico,traluce un’immediatezza politica.

Alla distinzione tra etica e religione se ne sovrappone una seconda, cheCapitini mostra di avere ben chiara sin da quegli Elementi di un’esperienzareligiosa che segnano il suo esordio saggistico: quella tra libertà e liberazione.La libertà, come si può intuire, corrisponde al supremo obiettivo di chi agiscecircoscrivendosi in un terreno solo etico-politico, la liberazione costituisce losbocco finale di un’esigenza religiosa. Se ci immaginiamo, come Capitini stes-so suggerisce, la libertà collocata su di un piano posto orizzontalmente e laliberazione su di un piano verticale, abbiamo una figura in grado di ricapitola-re simbolicamente la distinzione tra le due dimensioni, ma anche il nessocapace di unirle.

La libertà sociale, per trovare realizzazione, ha bisogno di radicarsi in unriconoscimento reciproco; ognuno è realmente libero nella misura in cui per-mette anche all’altro di considerarsi tale: una società giusta non può che esse-re quella in cui a ciascuno viene riconosciuta la propria “porzione” di libertà èuna linea a cui si direbbe fatale l’irrigidirsi nello spazio asettico del diritto; e ilmondo del diritto per Capitini, pur nell’inevitabile rispetto dovutogli, fonda unmodo di esistere basato sulla separazione e come tale insufficiente.

Se la libertà è all’insegna di un distanziarsi, l’agire nel quale la liberazionecondensa il proprio senso originario mira ad un avvicinamento: donare senzapretendere nulla in cambio, senza voler ricevere in misura proporzionata aquel che si dà –è questa la direzione che la religione persegue allo scopo dicolmare ciò che al diritto fa difetto. Pervenire ad un’unione sostanziale (intima)e non semplicemente formale (esteriore), non risponde ad altro la motivazio-ne del persuaso: poiché unicamente da “questa liberazione intima sorge l’esi-genza della libertà sociale, non come un diritto (come se qualcuno ce ladovesse dare), ma come un dovere: come è dovere l’esercitarla in sé cercan-do strenuamente il meglio”4.

Se si rimane nell’ambito della vita (in quanto entità biologica), come la poli-tica fa, non si può che aspirare a rimedi parziali: il diritto è uno strumento utileunicamente a disciplinare5, migliorandolo in direzione di un valore, ciò che vivee che, in quanto vivo, mantiene una inevitabile correlazione con la morte, haun termine. Ma la persuasione religiosa pretende di cogliere, dietro questotempo parziale del vivere, quel che non ha termine e non muore: l’eternitàdella presenza; e nell’estendere questa ad ogni creatura che è stata viva giun-ge ad intenderla come presenza di tutti, come compresenza. Alla parzialitàdella politica la religione risponde arrogandosi un compito assoluto: liberaredefinitivamente la vita dalla provvisorietà che la contrasta, permettere allacompresenza di emergere.

Se la libertà si arresta alla direzione presente-futuro, nella liberazione

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anche il passato converge nella sua interezza. Credere che la società, e conessa l’intera realtà, possa divenire non soltanto libera, ma totalmente liberatadal dolore e dal morire sarà dunque l’aspirazione di chi, come Capitini, è gui-dato dalla convinzione che il piano orizzontale della politica e quello verticaledella religione non vadano disgiunti e che si debba diventar capaci di “vederela liberazione sociale entro la liberazione religiosa”6.

Individuata la matrice religiosa in un impulso alla liberazione, resta da chie-dersi in quali precise forme Capitini prospetti questa liberazione. Una polaritàdi fondo difficilmente eludibile, e sufficiente ad impostare un discorso introdut-tivo, emerge con relativa facilità: quella che può rinvenirsi nella distinzione trauna liberazione acosmica ed una liberazione storica. La prima intende il libe-rarsi come un liberarsi da qualcosa: dal mondo, dalla storia, dalla realtàumana, dal tempo, dalla materia. Nella seconda la liberazione avviene conqualcosa: con il mondo e così via. Salvarsi acosmicamente vuol dire essen-zialmente evadere da una realtà (storica) degradata: fuggendo da quel cheappare reale, senza esserlo, in direzione di quanto è pienamente reale, trans-itando da un livello inferiore ad uno superiore, trasferendosi in un altro luogo,passando al di là. Salvarsi storicamente, al contrario, indica la necessità diattuare la redenzione attraverso la storia, ed anche per mezzo di essa, nel pre-supposto che il compito non sia, in concisione estrema, liberarsi dalla realtà incui ci si trova ma renderla libera. Il cristianesimo e le altre religioni abramicheprefigurano, in modo inedito rispetto al restante panorama religioso (eccezionfatta per il mazdeismo), quest’ultimo tipo di salvezza7.

Se ci si domanda quale di queste due biforcazioni imbocchi l’esigenza dellaliberazione avvertita da Capitini, la risposta non può che pendere verso unaliberazione intesa storicamente. La salvezza tanto invocata nelle sue paginenon ha nulla a che vedere con una via di redenzione individuale: quella diCapitini non è una soteriologia, un salvarsi da soli dopo aver negato il mondo,ma un’escatologia, un salvarsi insieme, con gli altri, mutando il mondo ma con-servandolo al medesimo tempo.

Non sembra facile negare che la Novella al centro dei Vangeli testimonia diuna redenzione che investirà e rinnoverà la creazione, senza disconoscerlanella sua concretezza: la salvezza rivestirà questo mondo, liberandolo persempre dal dolore e dalla morte, ma sarà appunto questo mondo ad esseretrasfigurato, essendo la vittoria sul peccato soltanto la vittoria su ciò che lolimita e non sulla sua intera consistenza reale. Analogamente, in Capitini laliberazione non è “emigrazione dalla terra” attraverso cui approdare “a luogomigliore”, ma “la liberazione è trasformazione qui della natura”8.

Date queste premesse si direbbe innanzi tutto agevole intuire quel cheCapitini non è. Un mistico, per prima cosa. I suoi interpreti più avvertiti nonhanno faticato ad accorgersene, dal momento che a sottolinearlo è lui stesso:“Non è difficile vedere che alla concezione della migrazione verso altra terrasono simili le concezioni mistico-spaziali, per cui l’individuo si salva spostando-si spazialmente verso il Tutto, il Valore, la Realtà assoluta, la Beatitudine”9. Mamisticismo è parola ambigua, al cui interno si sono sedimentati nel tempo signi-ficati molteplici ed eterogenei, ricondurre i quali ad una qualche unità dotata di

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senso ed uniformità non pare impresa possibile. All’interno della tradizione cri-stiana, ad esempio, sembra doveroso distinguere perlomeno tra due forme dimisticismo. La prima è una mistica di derivazione neoplatonica, della quale ècapostipite lo Pseudo-Dionigi, improntata su di un processo di ascesa e diinnalzamento verso una realtà superiore, culminante nella riunione con unaTrascendenza per la quale la dimensione terrena costituisce una distanteappendice: è un misticismo che viene definito dell’immagine, ruotante attornoall’idea di identità, un misticismo estatico (o ancor meglio instatico), volto al rag-giungimento di una salus individuale. Ma, soprattutto a partire dalla riscopertafrancescana dell’integrale divinità del cosmo e della centralità della tenerezzanel Cristo evangelico, non manca una mistica dell’amore, incentrata sulla somi-glianza degli esseri creati e sul loro reciproco corrispondersi, che, con l’occhiovolto innanzi tutto al mistero dell’incarnazione, si sostiene sulla consapevolez-za che “la presenza di Dio” si trova “nella creazione più che al di là della crea-zione”10 –è la mistica di Ildegarda di Bingen, Caterina da Siena, Teresa d’Avila.

Il non misticismo di Capitini si chiarisce se posto a confronto con il primo tipodi mistica, non certo con il secondo11 –basti considerare il risalto di Francescod’Assisi nelle sue pagine. Ma, soprattutto, approfondendo il senso di questadistinzione è possibile giungere in prossimità di uno dei perni concettuali attor-no a cui la fenomenologia religiosa di Capitini incessantemente ruota.Misticismo dell’immagine e misticismo dell’amore sono sostanzialmente incon-ciliabili, perché fanno riferimento a due matrici culturali che non è possibile assi-milare, se non a prezzo di un aperto sincretismo. In sintesi: se l’immagine sitrova in rapporto con una visione, l’amore è a contatto con un’azione. Nel primocaso si fa capo alla categoria greca del vedere, nell’altro si è immersi nella cen-tralità neotestamentaria, e più generalmente biblica, del fare. Qualsiasi paginadi Capitini si apra, sarà questa centralità a venirci incontro: anche per lui Dionon si svela in ciò che è visto ma in quel che viene compiuto; la ricerca non hatermine in un Essere da contemplare ed in cui eventualmente annullarsi misti-camente (quale mistica si è detto), ma in un atto da svolgere. Non è l’affinarsidelle potenzialità visive, la teoresi, a condurre al cuore del divino e della verità,ma la capacità di realizzare qualcosa, la prassi, a permetterlo.

Riuscire a scorgere cosa possa differenziare l’amore evangelico dalla pras-si capitiniana non è impresa troppo semplice; la nonviolenza assomiglia moltoad una solidificazione pratica dell’originaria agape cristiana, per sua essenzaattiva e creatrice di vincoli comunitari, e per nulla all’eros greco, radicato neldesiderio dell’anima di attingere il mondo sovrasensibile12. La predilezione diAngela da Foligno per il Dio che si dà rispetto al Dio che dà può bene indicare,meglio forse di qualsiasi altra sintesi più nutrita, l’amore a cui Capitini rivolge lasua attenzione13. A muoverlo è una sorta di istinto, di dedizione fiduciosa eincrollabile: la certezza, ma si potrebbe dire fede, che il mondo, nel suo nucleoinscalfibile, risponde ad un atto d’amore, un atto che, nelle nervature che eglicerca di far emergere nella loro elementare chiarezza, ha come dimensioniessenziali la coralità e la sovrabbondanza. Nessun essere vivente è immerite-vole d’amore e nessun limite interno può realmente impedire a questa assolu-tezza d’amore di estinguersi o arenarsi –la sua stessa scrittura sembra conti-

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gua ad essa ed incapace di sottrarvisi: un’equilibrata fusione di entusiasmo eserenità è la cifra ricorrente anche delle pagine più cupe di Capitini.

L’amore come forza che anima un Dio di consolazione, l’incondizionata vici-nanza alle creature, non abbandonate in balìa della morte e non lasciate a dis-perdersi nella loro naturale fragilità, sono l’innegabile collante che tiene unite divi-nità cristiana e compresenza; quando Capitini si rivolge a questa ritraendola nelseguente modo, non sembra quanto mai prossimo al Dio neotestamentario: “saprofondamente ciò che è ciascuno di noi, ci giudica e ci aiuta e sorregge conti-nuamente, collabora nei valori, si aggiunge, perdonando, all’essere individuo”?14

Non amore senza meta, né universalismo umanitario: scrutare volti pre-senti e curare miserie concrete segnano in Capitini i prodromi indispensabili diogni vero agire15; gli abbandoni mistici a cui non poteva impedirsi di guardarecon sospetto gli dovevano sembrare, nell’ebbrezza dell’annichilirsi in Dio, unasorta di esaltazione di un amore astratto e fine soprattutto a se stesso: in que-sto amore per l’amore scorgeva probabilmente un possibile capostipite, sep-pure di stoffa nobilissima, di quell’azione per l’azione di cui i fascismi del ven-tesimo secolo si sono nutriti.

Il male di Capitini è il male biblico; il dolore nella sua agghiacciante consi-stenza fisica e la concretezza innegabile del morire sono le due colonned’Ercole che il suo pensiero riconosce in tutta la loro spaventosa imponenza:se si decide ad oltrepassarle è unicamente in nome di quella radicale escato-logia che lo contraddistingue, non certo di un irenismo di maniera o di una faci-le teodicea. Non c’è dubbio sul fatto che Capitini abbia saputo tenersi a distan-za di sicurezza da qualsivoglia tentazione di spiritualizzare la sofferenza, veroe proprio buco nero attorno al quale gli idealismi di ogni sorta gravitano sinoad esserne immancabilmente risucchiati.

L’attenzione alla carne, in Capitini come nel cristianesimo evangelico, testi-monia un’ulteriore tangenza tra i due, che sfocia in una reale prossimità antro-pologica. Di comune si ritrova innanzitutto, ed è, se si vuole, l’aspetto piùgenerico, un’indomita attenzione agli ultimi; l’occhio di Capitini non sospendemai di vigilare su ogni forma di emarginazione: la tenerezza che egli profondeverso i deboli, il desiderio di non veder sopraffatti gli inermi, la costante vici-nanza ai socialmente reietti ed ai limitati fisicamente non consentono parago-ni, se non con pochissimi autori del Novecento: e i nomi, quando si rinvenga-no, fanno molto più probabilmente parte dell’ambito letterario che di quello rigi-damente filosofico. E, già s’è visto, la reazione a questo dolore tanto intensa-mente avvertito non si arresta ad una condivisione della pena di vivere,Capitini non si limita a compatire coloro che soffrono il peso di un male diffu-so e universale ma attende che sopraggiunga, più rapida possibile, una reden-zione: svellere il dolore una volta per sempre è il gesto, ancora evangelico,che occupa integralmente il suo orizzonte.

Ma la corrispondenza che deve forse venir sottolineata con maggiore risal-to è quella che intercorre tra la cristiana resurrezione dei corpi e il modo d’es-sere nel quale la compresenza finirà per manifestarsi in una realtà liberata.Capitini riserva ben più che semplici accenni all’idea di un rinascere rivestiti diuna corporeità nuova e trasfigurata:

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La vita religiosa è aperta alla trasformazione del corpo e dell’universo, che ècorpo di tutti, e si appassiona per la realtà di tutti che comprende anche chi ha ilcorpo malato e difettoso […]. L’appassionamento religioso per la realtà di tutti nonè perché essa resti una cosa separata, ma perché cresca con un nuovo corpo eun nuovo universo adatti ad una realtà liberata16.

In Capitini la natura è l’ostacolo alla liberazione che la compresenza deveinvestire con la sua spiritualità e trasformare, come lo Spirito cristiano coin-volge il cosmo creato in una rinascita a nuova vita. Certo, la natura ed il corponaturale sono abissale mancanza tanto in Capitini che nel cristianesimo, mauna volta depurati da questa mancanza e, per così dire, riplasmati, non si tro-vano esclusi dalla salvezza. Capitini sembra vicino ad intendere l’uomo qualeunità non scindibile di esteriorità e interiorità, con un reciso rifiuto dell’irrime-diabile dualismo platonico tra anima e corpo, in cui l’immortalità è riservata allaprima soltanto: ma questo rifiuto lo pone sulla linea di quel protocristianesimoche, ancora prossimo alla sua progenitura ebraica, non guardava all’anima eal corpo come a dimensioni irriducibili, ma come a due parti di una medesimaunità che lo Spirito di Dio ha il potere di tener viva in eterno. La dedizione diCapitini alla carnalità umana e alle altissime sofferenze che la coinvolgono,sembra rientrare di conseguenza in una pienezza escatologica che non scor-ge nel corpo un’imbarazzante appendice che la liberazione conclusiva può tra-lasciare; non si dimentichi del resto che l’immagine capitiniana della festacome prefigurazione e anticipazione della realtà liberata si direbbe assai vici-na ai banchetti vetero e neotestamentari, piuttosto che a rarefazioni nirvaniche(per quanto diverse e composite possano esser le versioni che del nirvana sisono date).

Non manca, glossa a quanto si è appena scritto, un’ultima acuta conver-genza con il cristianesimo: il convincimento, che deve restar sotteso ad ogninostra azione, che l’atto all’origine del vivere debba venire inteso in primo edecisivo luogo come dono. La gioia di trovarsi nella vita, per quanto bisogno-sa di redenzione possa essere, e non nel nulla scava uno iato incolmabilerispetto a quell’aspirazione a non essere mai nati che è stata uno degli alimentiprincipali a cui la vena tragica della grecità si è nutrita e che costituisce, adesempio, anche lo sfondo uniforme di quel Michelstaedter che Capitini amava.

Divergenze

“Non si dice cristiano; tuttavia gli sta sommamente a cuore l’avvenire delcristianesimo”17. Se si fosse costretti a compendiare in una riga soltanto tuttoquel che in Capitini ruota attorno al problema religioso, queste parole diFabrizio Truini si presenterebbero alla stregua di una formula quasi rituale.Difficile non avvertire del tutto come il non dirsi cristiano si stagli costante-mente, e si direbbe con inevitabile consapevolezza, sullo sfondo di un terrenoreligioso fecondato dalle più profonde aspirazioni cristiane. Potrebbe un auto-re le cui pagine sono ripetutamente attraversate da espressioni comeProvvidenza, Grazia, Resurrezione, Regno di Dio, pentimento, confessarsi,

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paradiso, perdono, incarnazione, considerarsi avulso dal sentire cristiano,estraneo alle speranze che al cristianesimo hanno permesso di radicarsi e dif-fondersi? Meglio, potrebbe un autore nel quale alla speranza è concesso unruolo di rilievo, essere privo di relazioni proprio con il movimento spirituale cheha introdotto in Occidente l’orizzonte stesso della speranza? Evidentementeno, e fino ad ora il tentativo è stato precisamente quello di mostrare i risvoltipiù consistenti di questo legame. Ma accanto ad essi non si può naturalmen-te mancare di evidenziare anche ciò che separa.

Per Capitini è innanzi tutto non credibile quel che per un cristiano costitui-sce il mattone a partire dal quale il resto del suo credo trova fondamento: l’ac-cettazione della messianicità di Gesù di Nazareth. Nell’indicare la salvezzacome luogo in cui il mondo pone fine al suo perpetuarsi nell’orizzonte dellamorte e del soffrire, Capitini non si avvale di un mediatore privilegiato. L’ipotesiche un uomo soltanto possa esser ritenuto il collante della redenzione univer-sale, ai suoi occhi è destituita di qualsiasi plausibilità: sorge su di una linea dichiusura non di apertura. Ipotesi che pare rigettata quasi nel rifiuto di inten-derla nella sua radicalità: ad esempio quando rivolto a Don Mazzolari in toniche, considerati in proporzione alla sua abituale estrema pacatezza, possonodirsi addirittura aspri Capitini sottolinea:

A me sembra che la piena realizzazione del principio sommo dell’unità amore pertutti, e dell’apertura ad una realtà liberata che finalmente comprenda tutti, sia attra-versato, impedito, frustrato da quegli elementi tradizionali che Don Mazzolari con-serva, e che gli fanno porre dei dilemmi religiosamente ormai inaccettabili, perchérisultanti da residui di religioni primitive, crudeli, esclusivistiche. Come si può direche “se Cristo è il Risorto, il suo Vangelo tiene, con neanche uno jota fuori; se nonè il Risorto, tutto cade e diviene folle?”18

La tensione religiosa di un cristiano è però basata proprio sulla convinzioneche la resurrezione di Gesù costituisca la primizia di un evento che, nel suopunto terminale, finirà per coinvolgere anche il resto dell’umanità: sottratta que-sta primizia, tutta la fede che ne segue vacilla e, se è certamente indubbio chela lezione dell’amore permane intatta nella sua validità, la redenzione attorno acui i Vangeli ruotano inevitabilmente si dissolve. Per Capitini, semplicemente,la salvezza dell’umanità non si trova in balìa di alcuna primizia escatologica,non essendo Gesù di Nazareth un uomo differente dagli altri e, nello specifico,perché quella resurrezione attestata dai Vangeli non è mai avvenuta.

L’atteggiamento tenuto nei riguardi della figura del Cristo neotestamentariorichiama quella scuola interpretativa che viene definita critica o storicista,scuola che ha avuto in Loisy un maestro riconosciuto e in Buonaiuti eMartinetti i più noti esponenti italiani: nomi che nelle pagine di Capitini non èdifatti raro incontrare. Il Gesù evangelico corrisponde ad un uomo storica-mente esistito, uomo che si è reso protagonista per Capitini di una straordina-ria, forse senza uguale, apertura religiosa: ma di un uomo si tratta e non di Dio.

Posto questo ne risultano sfrondati non solo, e non tanto, i corollari mira-colosi che la tradizione ha attribuito alla nascita e alla vita di Gesù, ma soprat-tutto l’idea che la salvezza si strutturi seguendo lo svolgersi di eventi storici dei

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quali l’Antico e il Nuovo Testamento sarebbero i custodi e che l’incarnazioneattraverso la quale Dio si rivela compiutamente costituisca un unicum assolu-to: centro attorno a cui tutta la storia umana converge per rinvenire la propriafonte di senso. Sono appunto queste le conclusioni che Capitini trae.

Se l’incarnazione non può dirsi un unicum, nemmeno la rivelazione lo può.“Moltiplicare” Cristo per il numero complessivo degli esseri viventi non è che unmodo più suggestivo di definire la compresenza: tutto quel che vive si deve rite-nere, al medesimo titolo, discesa nella morte e potenziale contributo alla sua dis-fatta. E qualsiasi uomo conserva in se stesso la possibilità di pervenire a questafondamentale verità, senza dover ricorrere ad una voce soprannaturale.

Così la storia della salvezza, se in Capitini è possibile rinvenirne una, ed ame pare la si possa rinvenire, non si svelerà in tappe storiche annunciate egraduali o, per quanto concerne le versioni secolarizzate, in “schemi” entro cuigli eventi si dispongono seguendo deduzioni conseguenti, ma si direbbe affi-data all’estro di improvvise e successive “aperture” che, per quanto imparen-tate l’una con l’altra e sottese da un reciproco corrispondersi, non si lascianoordinare secondo una qualche genealogia storica.

Circoscrivendo per un momento l’attenzione al rapporto con il solo cattoli-cesimo, non dovrebbe a questo punto essere arduo comprendere che il casusbelli all’origine del contrasto con la Chiesa cattolica, si deve precisamente alfatto di avere a che fare con una comunità che si dichiara Chiesa, che dichia-ra cioè se stessa passaggio obbligato attraverso cui pervenire alla redenzio-ne, o, ancor più nettamente, luogo di una redenzione già in atto. Non accoltala mediazione unica di Gesù, diviene a maggior ragione impossibile accoglie-re l’opera di una istituzione che di questa mediazione si pretende erede, piùancora che privilegiata esclusiva. L’arco di volta, i cui contorni dovranno manmano tracciarsi con maggiore risalto, di tutta l’estesa e dettagliata –ma, occor-re dire, quasi mai avventata e mai ostruita da una qualche farragine– polemi-ca con cui Capitini investe la tradizione cattolica si incastona per intero proprioin questa lapidaria contrapposizione: se l’istituzione è tale in quanto proponese medesima come tramite della salvezza, l’instancabile e reiterato attestarel’urgenza della salvezza da parte di Capitini testimonia la superfluità di qual-siasi istituzione che intenda proporsi come tramite. Ne consegue che il primo,in ordine quantomeno ideale, atto che occorre rivolgere contro questa indebi-ta pretesa ecclesiastica dovrà condensarsi nel rifiuto di quel segno di appar-tenenza che lega un nato in ambito cattolico alla sua comunità, ovverosia ilsegno del battesimo. È questo il senso essenziale da attribuire alle dimissionida cattolico rese da Capitini in una lettera, rimasta priva di risposta, all’arcive-scovo della natale Perugia: il principale resoconto delle quali, speculativo ebiografico, si può leggere in Battezzati non credenti.

Respingere l’istituzione cattolica significa, in altri termini, respingere quellacristallizzazione del divenire religioso entro la quale affondano le sue radici. È,all’esatto contrario, nella libertà concessa a questo divenire che Capitini scor-ge la possibilità di accelerare l’avvento della realtà liberata ed è nell’atto di volercircoscrivere la Grazia, che egli rinviene il travisamento d’origine nei confrontidel Cristo evangelico: partito da questo travisamento il cattolicesimo non pote-

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va che avviarsi irreversibilmente su di una linea di insufficienza religiosa, tantopiù stridente e paradossale se costretta a sostenersi sull’idea che per ritornarea Cristo non si debba far altro che “riconoscere nella Chiesa lo stesso Cristo”19.

Per Capitini Gesù di Nazareth non può essere ritenuto il Figlio di Dio chescende a redimere gli uomini da una colpa originaria, per il fatto che non si dàalcuna colpa originaria in forza della quale l’uomo insinua nella realtà un’im-perfezione prima inesistente. Il tentativo di rendere conto di Dio nel mondo sisnoda in Capitini senza perdere mai di vista la seguente convinzione. E le con-cezioni, che con la dovuta cautela possono definirsi teologiche, da lui svolteallo scopo di tratteggiare –per se stesso prima che per gli altri, come in ognireligiosità genuina– con maggior nettezza la sua idea del divino sembranoquasi disporsi a raggiera attorno a questo centro.

L’assunto cardinale che in primo luogo ne deriva consiste nel vedere Dio el’umanità implicati in un medesimo processo di liberazione; principio che sot-tende anche il rifiuto dell’idea che unicamente nella fugacità della dimensioneterrena si possa giocare il destino eterno dell’uomo. Non si può dunque darequalche cosa di paragonabile a quella creazione dal nulla attraverso la quale,secondo la prospettiva ebraico-cristiana, Dio concede all’umanità un’esisten-za che in origine è lui solo a possedere. Colmare questa sperequazione traCreatore e creatura mi pare sia il principale atto di riscrittura teologica perse-guito da Capitini; tentativo che, se ripercorso con chiarezza, contribuisce certoad illuminare anche quello che potrebbe ritenersi il sorgere aurorale (o uno frai più decisivi quantomeno) delle analisi sulla nonviolenza, se è vero che unadelle fonti concettuali al cui interno la violenza può annidarsi con maggior faci-lità a Capitini sembra proprio risiedere nell’atto con cui questa distanza tra Dioe mondo viene posta. La trascendenza del Dio cristiano che la tradizione haperpetuato20 –anche se è d’obbligo tenere conto che l’incarnazione avevamanifestato, come mai era accaduto, il senso di una vicinanza assoluta tra l’u-manità e il divino– conteneva in sé le potenzialità, concretizzatesi, di introdur-re un vasto spazio vuoto tra cielo e terra che l’uomo poteva essere indotto ariempire facendo uso di un potere autoritario o attribuendo al Padre di bontàtratti autoritari.

Nello sforzo di erodere questo dualismo tra Dio e mondo Capitini giungenella compresenza ad una “soluzione” dal sapore indubbiamente panteisti-co. Non panteismo nel senso più elementare di perfetta coincidenza empiri-ca di ogni cosa particolare con Dio, ma in quello di un monismo divino nelquale trova spazio ogni realtà vivente. Anche se con maggiore proprietàbisognerebbe forse ricorrere al termine panenteismo, per sottolineare conmaggiore acutezza l’irriducibilità della compresenza al mondo della vitalitànaturale: ogni vita si dà nella compresenza ed è la compresenza ad avvol-gere il visibile, non il visibile a contenere la compresenza, perché “il valoreè più del mondo e ingloba i fatti”21. Una qualsivoglia contiguità fra Dio e natu-ra, del resto, è proprio quel che Capitini non si stanca di avversare ed esclu-dere, finendo per rimproverare agli stessi pontefici romani di pensare, pococristianamente, a Dio come ad un semplice “imitatore della natura”22. E se,giunti a questo punto, non si riuscisse a resistere al fascino tentatore della

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definizione, gli si potrebbe cedere facendo ricorso ad un’espressione comepanenteismo escatologico, meno suggestiva certamente ma forse più appro-priata di quella di “monoteismo aperto” coniata da Capitini stesso23. Ma è unterreno minato, questo delle definizioni, che credo sia più lungimiranteabbandonare subito.

Una volta avviatosi sulla strada che conduce ad anestetizzare il dualismotra Dio e mondo, Capitini non poteva evitare di incontrare Hegel. Deve infattiammettere, e nel farlo parrebbe quasi palesare un leggero stupore, una nontrascurabile attrazione nei confronti della filosofia hegeliana, dettata, con indi-scutibile conseguenza rispetto a tutto il suo discorso del resto, dal movimentocon il quale questa si propone “di calare gli elementi ideali nella realtà”24. Ed ineffetti, pur con i proficui ed indispensabili confronti che si debbono fare conquel Kant che costituisce il suo principale filosofo di riferimento, non è possi-bile mettere in ordine tutti i tasselli del pensiero di Capitini, senza aver primacompreso adeguatamente questo “calare” e senza guardare alla nozionehegeliana dello Spirito come continua autoproduzione e della realtà umanaintesa quale “atto di autocreazione progressiva temporale”, e non quale “datoeternamente identico a sé”25.

Il Dio di Capitini non è l’Assoluto greco: sostanza immobile originariamen-te compiuta, da sempre data e da sempre identica a se stessa, ma il motoreinterno della realtà, l’intimo dinamismo che le permette di trovare svolgimentoe che assieme ad essa si svolge; insomma, il Dio-compresenza non resta sta-tico ma, come lo Spirito hegeliano, diviene; ed in quanto divenire, aperto alfuturo, è storia. Sottolineare la centralità di questa dinamicità è una dellepreoccupazioni costanti di Capitini, che in più di un caso designa la compre-senza alla stregua di una Trinità dinamica contrapposta a quella immobiledella tradizione26; non tenendo, d’altra parte, forse adeguatamente conto delfatto che la stessa Trinità cristiana sembrerebbe suggerire, sotto gli appesan-timenti teologici, l’idea di una mobilità interna alla vita divina.

“Eterno perché crescente” è la formula nella quale Capitini stesso com-pendia questo dinamismo: e il quadro di riferimento generale parrebbe deli-neare un’eternità che sin dall’origine coinvolge il mondo nel suo crescere–eternità che sembra però poter crescere, secondo un procedere hegelianoquanto fichtiano, solo nella misura in cui, nel suo punto d’avvio, l’esistere bio-logico le si pone di fronte come ostacolo da oltrepassare e correggere: “lacompresenza è idealmente anteriore alla storia”27. Lo Spirito si incarna per rea-lizzare il valore e assieme a questo realizzare se stesso, non come nel cri-stianesimo per mettere riparo ad una caduta, per ricomporre una lacerazioneinsinuatasi in una iniziale armonia. È forse questa la parte più sfuggente emeno circostanziata del pensiero di Capitini, quella su cui le sue pagine sem-brano non volersi mai soffermare con l’assiduità dovuta: ma qualche barbagliopare talvolta riservare chiarimenti improvvisi:

E perché mi sono incarnato? Perché sono sceso in un mondo di limiti, incontro aldolore, alle avversità, alla morte? Potrei dare semplicemente la risposta che loSpirito ha sempre dato nell’intimo di ogni uomo: per attuare il valore. Ma io possodare un’altra risposta, in cui c’è un’aggiunta religiosa: “per attuare la realtà di tutti”28.

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Ne segue, almeno così mi pare, che l’eternità non è, biblicamente, un donodi Dio all’uomo, risultato di un nuovo atto di creazione per mezzo del quale lamorte arriva a capovolgersi nel suo contrario, ma tutta l’umanità, in quanto partedella compresenza, è di per sé (al modo greco più che a quello cristiano) un prin-cipio spirituale eterno, e la morte congiunta all’incarnarsi, per quanto esperien-za abissale, sembra spesso in Capitini ontologicamente funzionale al compiersidi questo eterno29, tanto che da alcuni passaggi si potrebbe persino essereindotti a scorgere in lui una sorta di theologia gloriae della compresenza.

Di conseguenza la pienezza, l’infinità del valore, in Capitini non si situaall’origine, come nel neoplatonismo o nell’induismo, né all’origine quanto allafine, come nel cristianesimo (non è però l’unica prospettiva), ma soltanto allafine, come in Hegel o Marx, con la grandissima differenza del resto che in luiquesta pienezza non è il semplice inverarsi di un mondo storico ma una suadecisiva apertura, un ribaltamento a cui faranno seguito successive e poten-zialmente infinite, oltre che non determinabili, aperture e tramutazioni all’inter-no di una realtà e di un’umanità ormai redente e sciolte dalla morte.

C’è ancora spazio per accennare ad un dilemma, forse più terminologicoche sostanziale, che può vedere impegnati, difficile dire quanto proficuamen-te, i lettori di Capitini: quello che verte sulla questione se la sua opera, in ulti-ma analisi, si collochi più sul versante della filosofia o più su quello della reli-gione. Affidandosi ad una sorta di deduzione empirica si potrebbe ritenere che,dato l’intrecciarsi di temi hegeliani e kantiani che attraversa con assiduità lesue pagine, i “panni” che meglio gli si addicono siano più quelli del filosofo chequelli del religioso, e, dal momento che Capitini fa sicuramente un considere-vole impiego di strumenti filosofici, definirlo un filosofo non può certo conside-rarsi un grave errore concettuale.

Si potrebbe, d’altra parte, essere indotti ad annacquare la sua religiositàe tentare di relegarla ad una sfera genericamente intimistica, facendo levasull’uso di classiche espressioni capitiniane come “esperienza religiosa” o“persuasione religiosa”; ma se questo richiamo alla soggettività in lui èessenziale presupposto che intende indicare, con massima forza, nella reli-gione un coinvolgimento assoluto e personale, senza il quale non si puòessere propriamente religiosi, è altresì indiscutibile che la sua religione miraa proporsi come religione universale, valida sempre e sotto ogni latitudine.Verrebbe allora automatico dire semplicemente che quella di Capitini, nonper nulla kantiano, è una religione nei limiti della sola ragione, o affidarsi alladistinzione classica tra religione naturale e religione rivelata. Ma non è menogiusto ricordare che molti riterrebbero questa distinzione impropria, dalmomento che in ogni forma di religione si dà comunque sempre un momen-to rivelativo e che in una religione naturale questo momento rivelativo è sem-plicemente interno alla ragione stessa. Precisando meglio bisogna alloradire che Capitini non riconosce alcuna rivelazione storica incentrata su diuna promessa divina (cosa che, evidentemente, un cristiano fa), ma attestauna rivelazione naturale.

Ma per tornare al dunque: religione o filosofia? Mi pare che da una defini-zione precisa e convincente come la seguente possa giungere una schiarita:

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L’elemento ricorrente in quasi tutte le forme religiose è la credenza in una Realtàche si distingue o trascende o impregna di un valore più alto la realtà empirica epercepibile […]; talora la credenza attesta un Divino o Assoluto (di solito imma-nente, senza tratti personali: monismo, panteismo…). A differenza delle filosofie,la prima questione non riguarda l’esistenza di questa entità bensì il rapporto dastabilirsi con essa, e questo è religione30.

In Capitini questo “rapporto” si trova al centro, rende centro di vita chi losperimenta con pienezza; tale pienezza, è l’altro punto chiave, induce ad unanon accettazione, si impernia su di un’ansia profonda di rivolta, ispira il dis-senso quale culmine ideale di ogni agire:

La religione è dissenso con il mondo com’esso è. La vita religiosa perde il suosenso essenziale se accetta l’umanità, la società, la realtà come esse sono31.

Non credo sia sviante insistere sul fatto, troppo spesso relegato ai marginida chi ama insistere sulla sua laicità32, che, al di là di qualsiasi itinerario spe-culativo, ciò che più conta per Capitini è rendere testimonianza e dare impul-so all’avvento di un nuovo mondo, di un altro modo di esistere: senza più dolo-re, né morte.

Salvezza contro istituzione

L’autoproclamarsi post-cristiano da parte di Capitini è stato sovente messoin rilievo; quasi mai ci si è però voluti soffermare con il dovuto piglio critico suinon rari passi nei quali il medesimo Capitini sembra prossimo ad intendere lasua religiosità alla stregua di un realizzarsi del cristianesimo stesso, ecconeuno fra i più conseguenti:

Il fatto è che i princípi di cui parlo, lavorando per una riforma religiosa, sono nuoviappunto perché il mondo cristiano ha abbandonato quelli originari cristiani a cui, inparti essenziali, questi della riforma di cui parlo sono tanto vicini, e senza dubbiopiù vicini che a quelli che tanto mondo cattolico e protestante ha accolto in sé33.

D’altra parte, anche il termine post-cristianesimo sembra contribuire arisvegliare questa vicinanza: nel momento in cui Capitini intende porsi oltre lereligioni istituzionali, il fatto di assumere come riferimento linguistico proprio lareligione cristiana lascia affiorare una sorta di cordone ombelicale forse piùvitale dello stesso atto teso a reciderlo. Ma in effetti, come la citazione prece-dente pare dimostrare, recidere questo cordone non si direbbe nemmenoessere un’intenzione cosciente. In un interrogatorio rilasciato alla Questura diPerugia nel febbraio del 1942 concisamente dichiara: “Nei riguardi religiosi iosono per un rinnovamento evangelico, cioè secondo lo spirito cristiano”34.

Ritengo pienamente conseguente sostenere che questo pretendersi postpossa illuminarsi di senso soprattutto se messo in relazione ad un proto, se,non dico ricongiunto, ma certamente collocato in parallelo ad un’origine nellaquale era radicalmente prioritario quel che il seguito ha provveduto a rimuo-

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vere il più possibile: l’attesa impaziente di un mondo salvato. Una volta anco-ra, è lo stesso Capitini ad attestarlo nei toni più chiari: “non è questo postcri-stianesimo, pur privo della lettera e delle strutture storiche istituzionali, attua-zione del cristianesimo?”35

La redenzione corrisponde in Capitini al significato ultimo che decifra larealtà e che permette di leggerla come una storia di salvezza, di intenderlarealmente solo nella luce di un éschaton che la conclude in quanto luogo disofferenza. Il tempo non è qui, come nei sistemi religiosi induisti, un insiemedi istanti omogenei senza inizio e senza fine: intreccio illusorio che per salvar-si occorre squarciare; ma è ciò attraverso cui la liberazione si manifesta, il lato-re del senso supremo dell’esistere. Dire che questo senso si snoda attraversoil tempo significa prendere atto che per Capitini la relazione salvifica a fonda-mento del suo agire si colloca, temporalmente, tra un prima e un dopo, e non,spazialmente, tra un alto e un basso.

È precisamente l’imminenza di un “dopo” a trovarsi al centro anche dellapagina evangelica. Il non cristianesimo di Capitini acquista lineamenti concet-tuali meno vaghi, innanzi tutto se inteso quale critica ad una tradizione cristia-na di maggioranza che, non marginalmente sedotta da categorie filosoficheelleniche, ha operato una sorta di congelamento di questo dopo (che i Vangelimostravano di attendere entro scadenze limitate e sulla terra), sostituito da unasalvezza già pienamente costituitasi in una dimensione spaziale altra, in unsopramondo –un cielo– rivestito dei caratteri di eternità e pienezza dell’Essere,separato ed in posizione dominante rispetto ad un mondo sottostante e contin-gente. La relazione pervasa dal dinamismo tra un tempo, ancora irredento, chesi trova prima ed un tempo, redento, che arriverà in seguito viene evidente-mente convertita ed immobilizzata in quella tra un eterno, come tale compiutoe perfetto, posto sopra ed un tempo, incompiuto e imperfetto, relegato in basso:sopra è la Verità sotto la distanza dalla Verità, sopra il cielo sotto la terra.

A questa contrapposizione tempo-eternità fanno capo due prese di distan-za già ricordate: il rifiuto di una salvezza mistico-spaziale e quello, più impe-tuoso e ribadito, di una istituzione ecclesiastica che, volendosi specchio diquesta eternità celeste, occulta la redenzione come evento a venire e futuro:e “presentando sé come Regno di Dio”36 confonde manifestazione del divino etrionfo temporale della Chiesa. Capitini sembra leggere il cristianesimo nellaprospettiva di una, pressoché immediata, rarefazione della tensione escatolo-gica iniziale, sigillata dall’abbraccio mortale della metafisica greca: qualcosa dimolto simile a quella “spiritualizzazione” nella quale un suo attento lettorecome Sergio Quinzio ha scorto una sorta di vastissimo sentiero apocrifo inter-no alla fede cristiana.

Quanto più Capitini si allontana da questa religione cristiana ellenizzata,tanto più sembra approssimarsi, s’è detto, ad un cristianesimo germinale; seè vero infatti che “per influenza del pensiero greco grava sul cristianesimo ilconcetto di un Dio totalmente perfetto, senza incremento”37, questo stride inprimo luogo con “l’attesa pressante di una realtà diversa, liberata (o regno diDio), cioè di una trasformazione della realtà e società attuali, come dovevaessere, agli occhi di Gesù, il ‘regno di Dio’, cioè un cielo in terra, nuovo cielo

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e nuova terra (regno dei ‘cieli’ sta nei Vangeli per non dire di ‘Dio’, cioè per nonfare troppo spesso il nome di Dio)”38. Anche per Capitini, come molti altri primae dopo di lui hanno notato, l’attesa impaziente della conclusione di questarealtà corrispondeva alla lingua franca del protocristianesimo.

Il quadro di riferimento può completarsi con l’aiuto del filtro interpretativo diOscar Cullmann, che ha saputo dare a mio avviso la lettura più conseguentee convincente della storia salvifica neotestamentaria39. È da rilevare in primoluogo che l’opposizione fra tempo ed eternità non trova riscontro nella lettera-tura neotestamentaria e che il “cristianesimo primitivo non conosce un Diofuori del tempo” e “non vuole affermare che Dio è fuori del tempo, ma che iltempo di Dio è infinito”40. La critica capitiniana ad un Dio abitante di un mondosuperiore disancorato dall’uomo –trascendente, immobile ed onnipotente– èrivolta ad una ibridazione successiva alla spiritualità neotestamentaria, nellaquale, al contrario, Dio è piuttosto colui che affranca la realtà temporale dal-l’interno stesso del tempo, e quest’ultimo di conseguenza non risulta qualchecosa “di contrapposto a Dio, che vada quindi superato”41. D’altra parte si puòanche puntualizzare sia che il termine biblico ‘olam, che riferito a Dio vienesovente tradotto con “eterno” nel significato greco di atemporale, sembradebba con maggior precisione venir inteso come “tempo molto lontano”, siache la stessa parola “onnipotenza” non è propriamente di matrice biblica. Il Diocristiano a cui Capitini con la sua compresenza si contrappone non si direbbedavvero avere molti tratti in comune con quel liberatore che i Vangeli attendo-no, nella speranza di vedere presto ricomposta la dolorosa imperfezione delmondo, e Capitini stesso dimostra in più di un caso di avere ben presente que-sto punto di tangenza entro la comune radice escatologica: non è al SommoBene che egli aspira ma al Regno.

La storia della salvezza cristiana, Cullmann lo ha sottolineato, si dipana traun “già” e un “non ancora”: al “già” corrisponde l’unicità dell’evento messiani-co di Gesù di Nazareth, Dio incarnato, al “non ancora” l’avvento definitivo delRegno di Dio. Non è difficile riscontare in Capitini un analogo ed al medesimotempo assai differente rapporto tra “già” e “non ancora”. Il suo “già” non èCristo ma la persuasione della compresenza, la percezione pratica di un’unitàspirituale che regge il mondo e che preme sulla manchevolezza della realtà alfine di liberarla, il “non ancora” è questa stessa realtà liberata. È certamentevero che talvolta Capitini sembra dare risalto unicamente al primo elemento,ed è significativo notare che nelle occasioni in cui lo fa finisce per relegare aimargini il ruolo della speranza, oscurata dalla presenza dell’atto religioso d’a-more, dal suo essere già qui; ma è altrettanto indubbio che la tensione tra ilpresente di questo atto e il “non ancora” della futura realtà liberata costella let-teralmente la pagina capitiniana e risponde all’intima sostanza che sottendeper intero la sua esperienza religiosa42. Una lettura di Capitini amputata dellospazio imprescindibile di questo “non ancora” è una lettura che ne tralascia, one sottovaluta in modo pregiudiziale, l’aspetto essenziale, ovvero quel puntoterminale a cui tutti i suoi sforzi pratici si direbbero tendere; più concisamente:è una lettura solo etica, una lettura che, a dispetto dei non pochi libri nei qualiCapitini tenta, talora certo anche disordinatamente, di erigere a fondamento

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del suo pensiero una dimensione religiosa, riduce, con non lieve azzardo, que-sta dimensione religiosa a dimensione morale. Se si crede che la compresen-za si esaurisca in una semplice partecipazione intima della presenza di tuttinella sofferenza come nella gioia, se la si riduce unicamente ad una solidarie-tà spirituale, ad una sorta di memoria sovraindividuale che in qualche modomisterioso il tempo non sovrasta o la si confina nella regione inevitabilmenteimprecisa di un limite ideale, si oscura una persuasione che Capitini, perlo-meno in quel La compresenza dei morti e dei viventi che costituisce il suo sfor-zo speculativo più denso, non lascia passare in secondo piano: l’attesa di unatramutazione “strutturale” della nostra realtà, il convincimento che “la naturaha il tempo contato”43. Allo stesso modo, se non si scorge che l’impegno poli-tico di Capitini è volto a porre fine alla politica comunemente intesa, che la poli-tica compiuta è quella che giunge anche al proprio compimento (che non risie-de in una vita civile perfettamente funzionante ma in una vita redenta), che lesue proposte sociali hanno di mira l’orizzonte ultimo di una liberazione nonclassificabile semplicemente come sociale, allora quell’ampiezza profetica cheintesse le sue pagine si sottrae progressivamente allo sguardo.

Un’altra tensione, non estranea, innanzi tutto linguisticamente, al cristiane-simo, affianca quella tra “già” e “non ancora”: il rapporto tra la libertà dell’uo-mo e l’aspetto provvidenziale della compresenza. In Capitini risalta, con unacomplessiva nettezza, che la trasfigurazione escatologica della realtà non sidisegna solamente come eventualità, ma come sicuro possesso futuro44. Tantosollecita è la sua preoccupazione di salvaguardare l’uomo da un determinismoche lo privi di ogni reale possibilità di scelta, quanto salda la fiducia nella cer-tezza di una direzione: “Vi dirò che trovo sempre molto bello e profondo que-sto parlare di ‘piani di Dio’, di infinita capacità dello Spirito di provvedere, dapar suo, ad ogni punto del suo manifestarsi: ciò che l’individuo deve sapere èche egli non è estraneo a un ordine, a una ragione. Cioè egli ha la libertà nonin quanto è staccato da tutto […], ma per stabilire un rapporto con un piano nelquale egli rientri”45. Nell’agire religioso ogni uomo compie una decisiva apertu-ra che accelera l’avverarsi della realtà liberata, la cui venuta si direbbe comun-que iscritta da sempre nella compresenza: cosa che “può farci dire che civuole l’aiuto di Dio per giungere ad una realtà liberata”46. Naturalmente, anchequesto doppio movimento in cui s’intersecano decisione umana e piano divi-no attecchisce entro un humus che si trova nei cromosomi dell’Occidente acausa del cristianesimo: vera e propria cera molle nel cui impasto ogni filoso-fia della storia ha modellato in seguito le proprie variazioni; non è facile, adesempio, intendere lo storicismo hegeliano alla stregua di una monumentalee grandiosa trascrizione concettuale di tale doppio movimento?

Se il Regno come certezza che si sottrae ad ogni forse costituisce poi lademarcazione essenziale che si interpone tra la salvezza cristiana e quellaebraica, occorre dire che entro questa prospettiva il “cristianesimo” diCapitini ne esce rinvigorito: l’angelo della storia dell’“ebreo” Benjamin guar-da al passato attraversato dall’oscura angoscia che il suo dolore rimangairredento e il Regno non si manifesti, la compresenza del “cristiano” Capitinisembra pervasa dall’intima sicurezza che la redenzione è più forte di qual-

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siasi abisso di sofferenza e che ogni frammento disperso del passato finiràper ritrovare il proprio posto.

“Il principio fondamentale della religione aperta è che ci salviamo tutti”47. Inquesta affermazione si avverte in primo luogo l’eco persistente di una presa didistanza da quell’idea di una salvezza circoscritta che la religione cattolica haprofondamente inglobato in sé. Nulla suona forse a Capitini più estraneo diuna simile delimitazione, il prendersi a cuore la sorte di ragni, gatti, usignoli fanella sua pagina da ripetuto contrappunto alla dedizione riservata alla vitaumana: nella compresenza nessuna creatura vivente, nemmeno la mutamanifestazione del mondo minerale, soggiace ad un definitivo annichilirsi.Indubbio che per rinvenire l’impronta di una simile globalità occorra guardarepiù all’Oriente che all’Occidente. Ma altrettanto indubbio, senza voler protrar-re più di tanto un discorso virtualmente amplissimo, che anche all’interno deisecoli cristiani si possano rintracciare esempi, certamente piuttosto infrequen-ti, di illuminata partecipazione alla vita animale –Francesco d’Assisi è il primoovvio nome a venire alla mente. E, più in generale, non si può certo non vede-re che, nonostante i numerosi passi evangelici che disegnano la realtà di unapunizione eterna, l’idea di una salvezza riservata al cosmo nella sua interez-za non è aliena allo spirito cristiano: dal mirabile squarcio paolino in cui sicoglie che “tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto”(Rm 8, 22), alla reintegrazione assoluta dell’apocatastasi di Origene, che lostesso Capitini in più di un’occasione rammenta, fino alle variazioni origenistedi von Balthasar o alle rincuoranti pagine di Maurice Bellet e Adriana Zarri nelsecolo appena concluso.

Quel che di religioso si trova in Capitini è all’insegna di sovrapposizioni chepossono turbare gli amanti delle delimitazioni rigorose; è del tutto comprensi-bile che sia di prammatica riservargli l’etichetta di pensatore confuso, inutil-mente rapsodico, responsabile di accostare autori che i canoni della culturaufficiale pretendono inavvicinabili; la stessa difficoltà ad inquadrarlo senzaambagi nel pensiero laico o in quello religioso è sintomo di un certo disagiospeculativo che la sua figura contribuisce ad evocare. Ma la “confusione” chela pagina di Capitini solleva è più sovente frutto di una volontà di classifica-zione di chi se ne fa interprete. Se Capitini si distingue per essere uno dei pen-satori italiani peggio studiati, lo si deve principalmente al fatto che la sua espe-rienza intellettuale è, in assoluto, una fra le meno scolastiche che si possanoimmaginare. Proprio il rapporto con la religione cristiana mi pare ne costituiscaun esempio fra i più illuminanti. Il cristianesimo nelle sue mani da un lato, dis-ancorato dalla sua consistenza storica, si volatilizza: Gesù non è più l’imma-gine di Dio, ma tutto lo è in misura uguale a lui, la mediazione non è Cristo mala compresenza; dall’altro se ne coglie, con precisione ignota a numerosementi cristiane, il capovolgimento rivoluzionario, facendone brillare la purezzadel nucleo escatologico e la conseguente insopprimibile protesta contro quelche di cieco ed impietoso si annida entro le pieghe del potere terreno.

Capitini recepisce in pieno un germe religioso introdotto dalla coscienza cri-stiana: l’abbattimento del limite. Il venire della salvezza spazza via ogni ritagliogerarchico, ogni spazio circoscritto: questo è il principale asse di collisione tra

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cristianesimo e società classica. Ne deriva l’annullarsi del sacro inteso qualeluogo o fatto delimitato, al cui interno una forza divina manifesta l’incomberedella propria potenza ad un mondo che tale potenza non possiede. Questadivaricazione tra sacro e profano rispecchia quella tra eternità e tempo, allabase è una medesima sperequazione tra un dominante e un dominato. È que-sta sperequazione che Capitini vuole recidere, tagliando alla radice ogni formadi sapere aristocratico, ricomponendo qualsiasi spaccatura (produttrice per luidi violenza, sostenuta dalla violenza) che sottrae all’uomo la possibilità di entra-re liberamente in contatto con la pienezza di senso che lo costituisce.

Ma nel designarsi Chiesa del cristianesimo Capitini ravvisa l’immediatorisorgere del limite: alla Chiesa soltanto spetta d’essere quel luogo circoscrit-to che contiene un rinvio all’ulteriorità; e il sacro di cui si fa immagine rimaneancora il sacro cosmico, precristiano, segnato dall’attributo di una potenzaschiacciante: ne è sintomo quella “monarchicizzazione” di Gesù che replica emoltiplica la divisione terrena fra sovrano e sudditi, così come la potenzasoprannaturale del sacro non rimanda che ad un accrescimento di quella natu-rale. Se Capitini ascrive a merito della filosofia moderna quella linea che “daCartesio a Hegel è lo sviluppo della familiarità col sacro”48, non lo fa per espel-lere dall’esistenza la dimensione sacrale, ma per estendere il sacro ad ogniaspetto della realtà. Il sacro che apre autenticamente alla percezione di Dio,che “sporge” verso Dio, non si trova in contatto con quanto dispone della forzama con quel che della forza è privo, riluce nell’impossibilità di agire non nel-l’impresa coronata dal successo, nella prostrazione, non nel trionfo. Il “sacrodi apertura”, come lo chiama Capitini, rimanda ad uno spazio allargato: puòmanifestarsi ovunque, questo il nocciolo del ribaltamento49, perché ogni cosava soggetta alla debolezza.

Il rischio di un simile allargamento, che la vocazione ad annullare i limiti ali-menta, è però tutto fuorché esiguo. L’istituzione Chiesa, nei suoi intenti piùnobili ed acuti, ha rappresentato la percezione distinta di questo rischio supre-mo, di quanto di insostenibile emerga in una radicale passione salvifica: il suopericoloso inclinare verso l’indistricabile, il caos, il disordine sottratto ad ogniregolazione. Ma il terrore, del tutto legittimo e comprensibile, di un disordineda cui potrebbe germinare un male più vasto e distruttivo di quello che l’ordi-ne comprime nella rigidità dei meccanismi che presiedono al suo funziona-mento, è il terrore che sopraggiunge, inevitabile, in chi nella salvezza non hafiducia. Il limite che il sacro incorpora in sé sta in luogo di una redenzioneassente: la Chiesa, come tale, si fonda sull’oscuro presentimento che il Regnonon verrà, o quantomeno si trovi ben lontano dall’essere prossimo. AncheCapitini costeggia a volte la spirale senza uscita a cui l’assillo dell’integritàdella liberazione può condurre: “come cogliere questa condizione pura se nonnegando tutto e tutti, con il pericolo di ritrovarsi nell’arbitrario, nietzscheano odestetico, perché tale purezza deve respingere per conquistare se stessa,anche gli esseri individuati e i valori?”. Ma Capitini crede nella salvezza, esubito dopo si limita a ricordare che è sufficiente “connettere questo stato purocon la compresenza, aperta alle conseguenti liberazioni”50. Forse per figurarsiil crinale, esilissimo, su cui questa persuasione si direbbe procedere possono

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bastare due versi di Hölderlin, molto noti: “Ma dove è il pericolo, cresce / ancheciò che salva”; Ernst Bloch li ha ribaltati in un’inversione che non ne intacca ilsenso: dove cresce ciò che salva, cresce anche il pericolo.

La via alla redenzione tracciata da Capitini è una via arituale, intenzional-mente costruita sull’espunzione di qualsiasi elemento riconducibile allo spaziodel rito, del solidificarsi della ripetizione: nessun vago ricorso al potere salvifi-co di simboli, formule liturgiche, dettami dogmatici, potrà esservi rinvenuto.Possono invece riscontrarsi con chiarezza alcuni tratti ascetici di rinuncia: l’e-sigenza di una riduzione dei beni materiali fino ad una sfera prossima all’indi-spensabile, l’inclinazione ad astenersi dalla pratica sessuale. Ma, soprattutto,la salvezza in Capitini si lega all’esercizio della virtù, si attua in un costantesforzo di adeguazione agli obblighi morali che la ragione pratica ci rivela. Ilnome unico con cui può dirsi lecito sintetizzare tale virtù è certamente quellodi “nonviolenza”. Quest’ultima rappresenta, in un mondo non ancora salvato,un’unità inscindibile di metodo e contenuto. La nonviolenza è metodo nellamisura in cui si presenta come odós, come strada attraverso la quale un finepuò dirsi raggiungibile: la realtà liberata costituisce l’aspirazione cardine delnonviolento poiché la realtà liberata corrisponde al fine supremo a cui la non-violenza tende. Ma, d’altro canto, la nonviolenza non è di meno un contenuto,un valore in sé, autonomo; anzi, si potrebbe addirittura notare che la suavalenza metodica equivale al segno stesso dell’imperfezione della realtà pre-sente: in una realtà liberata, presumibilmente, questa qualità di metodo cede-rebbe per intero il proprio posto alla pienezza del contenuto. Impossibile, comevuole Capitini, raffigurarsi in tratti definibili una realtà siffatta, anche se tuttonelle sue allusioni lascia credere che a quel punto la nonviolenza, divenutapossesso ordinario, perderà la forza, che attualmente la caratterizza, di impat-to rivoluzionario, e non solleciterà più la speranza di una tramutazione delreale, perché sarà il reale.

1 A. CAPITINI, Attraverso due terzi del secolo, in Scritti sulla nonviolenza, a c. di L. Schippa,Protagon, Perugia 1992, p. 4.

2 ID., Vita religiosa, in Scritti filosofici e religiosi, a c. di M. Martini, Protagon, Perugia 1994, p.108 (d’ora in poi abbreviato in Scritti). Se è vero che proprio all’inizio di Nuova socialità e riformareligiosa (Einaudi, Torino 1950, p. 11) Capitini fa riferimento al “campo economico-politico oppo-sto a quello etico-religioso”, non credo tuttavia che sia possibile ravvisare qui una reale contrad-dizione rispetto al passo citato nel testo: parrebbe trattarsi più semplicemente di una sorta di oscil-lazione linguistica –oscillazione che a proposito di questo tema si manifesta non poche volte nellesue pagine; risulta infatti più opportuno e più appropriato distinguere (e non opporre) in Capitiniuna sfera etico-politica da una sfera etico-religiosa, in cui l’etica assume quasi le sembianze diuna sorta di copula in grado di gettare un ponte tra religione e politica: la dimensione etica puòrinchiudersi nel solo ambito politico o aprirsi all’esperienza religiosa. È lecito figurarsi la politica,l’etica e la religione accostate su di una linea continua nella quale è l’ultimo termine che dà pie-namente senso ai primi due, ma i primi due sono in grado di fornire all’ultimo contenuti vitali espazi di applicazione.

3 ID., Educazione aperta, vol. I, La Nuova Italia, Firenze 1967, p. 313.4 ID., Elementi di un’esperienza religiosa (rist. anast. dell’ed. Laterza, Bari 1947), Cappelli,

Bologna 1990, p. 28. Capitini, lettore appassionato di Michelstaedter (citato, tra l’altro, sin dagli

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Elementi), avvertiva certamente gli echi delle pagine di questo in cui la purezza dell’agire trovaidentificazione con un “beneficio” svincolato da qualsiasi rimunerazione sociale: “Poiché prendiparte alla violenza di tutte le cose, è nel tuo debito verso la giustizia tutta questa violenza. A toglierquesta dalle radici deve andar tutta la tua attività: –tutto dare e niente chiedere: questo è il dove-re– dove sono i doveri e i diritti io non so”, C. MICHELSTAEDTER, La persuasione e la rettorica.Appendici critiche, a c. di S. Campailla, Adelphi, Milano 1995, pp. 41-42.

5Se si è fatto uso di questo verbo è anche per non dare adito ad un’eventuale confusione: l’i-dea, cioè, che il piano della vita naturale e dell’etica costituiscano qualcosa di indistinto, quandosi tratta di ambiti ben differenti. È Capitini stesso a palesarlo nel miglior modo possibile: “Vedendoogni essere, io posso scorgere in lui tre aspetti: quello naturale biologico (un essere vivente); quel-lo spirituale (un essere che ha la coscienza di diritti o doveri, personalità); quello religioso (unessere che va oltre i limiti di questa realtà imperfetta, dove c’è il male e la morte)”, dal che si puòdedurre che l’aspetto spirituale –termine adoperato da Capitini talora con ambiguità– è quello checoincide con la dimensione etico-politica, cfr. A. Capitini, Religione aperta, in Scritti, cit., p. 563.

6 Ivi, p. 593.7 Se l’acosmismo germoglia, letteralmente, all’insegna di una negazione –sottrarsi al mondo

(non essere vinti dalla sua forza annichilente) è la parola d’ordine–, l’annuncio di Cristo che dichia-ra di avere vinto il mondo sottende ed alimenta l’irruzione salvifica del cristianesimo.

8 A. CAPITINI, La compresenza dei morti e dei viventi, in Scritti, cit., p. 396.9 Ibidem. Nelle rarissime occasioni in cui Capitini inquadra la propria posizione ricorrendo al

termine “misticismo”, non manca di porgli accanto l’aggettivo “pratico” (ad esempio Educazioneaperta, vol. I, cit., p. 9): il perché si cerca di spiegarlo in quel che segue.

10 L. DUPRÉ, Misticismo, in MIRCEA ELIADE, a c. di, Enciclopedia delle religioni, vol. III, JacaBook, Milano 1996, p. 397; all’interno di questa voce si veda la spiegazione più dettagliata dei duefiloni mistici ai quali si è fatto cenno.

11 Se poi si vuole pensare al Corpo Mistico paolino, asserendo che la compresenza intendeessere una sorta di estensione di questo ad ogni realtà esistente e non ai soli fedeli in Cristo, l’os-servazione resta in linea con le osservazioni di Capitini stesso, cfr. ad esempio Battezzati non cre-denti, Parenti, Firenze 1961, pp. 100-1.

12 Si può seguire l’intrecciarsi di queste due dimensioni dell’amore nella tradizione cristiana nelclassico, ma anche assai contestato, studio di A. NYGREN, Eros e agape, trad. it., Il Mulino,Bologna 1971. Non credo si possa trovare una parola di introduzione alla compresenza capitinia-na più appropriata di quella che Maurice Bellet indirettamente ci fornisce, quando parlando del cri-stianesimo sostiene che “se c’è una verità fondamentale del Vangelo è che ciò che è primo non èl’io, il soggetto, il solo che cerca eventualmente altre persone, ma la comunione: noi umani insie-me, con qualcosa ‘tra noi’ che non possiamo afferrare e che permette a ciascuno di risorgere allapropria esistenza.”, M. BELLET, M. CACCIARI, C. MOLARI, Il cristianesimo sta morendo?, l’altrapagi-na, Città di Castello 2001, p. 11.

13 Ritorna più volte in Capitini questa distinzione di Angela da Foligno, cfr. ad esempio Severitàreligiosa per il Concilio, De Donato, Bari 1966, p. 71; Nuova socialità…, cit., p. 184; Teismo e com-presenza, p. 367 (v. nota seguente).

14 A. CAPITINI, Teismo e compresenza, in M. SOCCIO, a c. di, Tre scritti inediti di A. Capitini,“Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Classe di lettere e filosofia”, Serie III, V, 1 (1975),p. 372. Questo breve testo, che riproduce la relazione presentata al “Secondo Convegno suTeismo e Ateismo”, tenutosi al C.O.R. di Perugia il 15 gennaio 1967, rappresenta forse quanto dipiù limpido Capitini abbia mai scritto su alcuni nodi cruciali del suo sentire religioso.

15 Non ci si lasci sviare da un’espressione come “Dio anonimo”, della quale Capitini si serveallo scopo di definire il suo assoluto religioso. Nel Dio anonimo di Capitini non risaltano minima-mente i tratti di una divinità sconosciuta ed abissale, quale è l’Ungrund di alcuni mistici.L’anonimità non corrisponde qui ad una mancanza di nome ma, gandhianamente, al privilegio dipossederli tutti, con la conseguente prossimità a chiunque (cioè ogni creatura) si qualifichi comedetentore di un nome.

16 A. CAPITINI, Religione aperta, cit., p. 484; cfr. anche La compresenza dei morti e dei viventi,cit., pp. 361, 376, 435-40; Il fanciullo nella liberazione dell’uomo, Nistri-Lischi, Pisa 1953, pp. 79,189, 218, 255; L’atto di educare, La Nuova Italia, Firenze 1951, p. 91; Educazione aperta, vol. II,La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 22.

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17 F. TRUINI, Aldo Capitini, Cultura della Pace, S. Domenico di Fiesole 1989, p. 126.18 A. CAPITINI, Religione aperta, cit., p. 627.19 ID., Discuto la religione di Pio XII, Parenti, Firenze 1957, p. 54.20 Una ricostruzione essenziale, ma convincente e piuttosto esauriente, di questo processo,

che chiama ovviamente in causa, come più avanti avverrà anche qui, la metafisica greca, si puòtrovare in M. RUGGENINI, Il Dio assente. La filosofia e l’esperienza del divino, Bruno Mondadori,Milano 1997, pp. 41-61.

21 A. CAPITINI, La realtà di tutti, in Scritti, cit., p. 186.22 ID, Discuto la religione di Pio XII, cit., p. 26.23 Cfr. ID., Il fanciullo nella liberazione dell’uomo, cit., p. 131.24 ID., Attraverso due terzi del secolo, cit., p. 13.25 A. KOJÈVE, La dialettica e l’idea della morte in Hegel, 2ª ed. (1ª ed. 1948), Einaudi, Torino

1991, p. 149. A dire meglio si tratta semplicemente di notare con attenzione la linea di continuità,quand’anche eretica, che si snoda tra Kant e Hegel: anche Kant è un filosofo dello spirito, e pureCapitini lo è.

26 Cfr. ad esempio A. CAPITINI, Lettere di religione, in Il potere di tutti, La Nuova Italia, Firenze1969, p. 199 o Battezzati non credenti, cit., p. 177.

27 ID., La compresenza dei morti e dei viventi, cit., p. 391.28 ID., La realtà di tutti, cit., pp. 199-200.29 La tensione tra questo abisso e questa funzionalità sembra rispecchiata da passi come il

seguente: “La nascita come essere vitale, l’essere una vita, una forza, una sensibilità, una corpo-reità, una realtà in una immensa realtà nello spazio e nel tempo, era ed è un mezzo nei riguardidella compresenza; e invece diventa innumerevoli volte un ostacolo; e perciò ogni essere è ancheun Cristo che ne soffre, in tante occasioni e infine nella morte che ogni essere incontra, dove l’in-dividualità come potenza è sconfitta, e si fa più evidente l’individualità nella compresenza.” (A.CAPITINI, La compresenza dei morti e dei viventi, op. cit., p. 316). Capitini non accetta l’idea pao-lina che uomo e natura siano colpa e di conseguenza respinge la necessità di un sacrificio ricon-ciliatore tra Dio e mondo. Ma anche per lui il mondo in quanto natura, in quanto divenire secondovitalità e potenza, non è rivestito da alcuna nietzscheana innocenza: la fine di questo divenire è ilfuoco secondo cui il suo sguardo si regola, agire religiosamente è redimere (verbo che lo stessoCapitini impiega). E dal momento che la redenzione non è una “pezza” che Dio è costretto adapplicare ad un cosmo prima intatto poi lacerato, se si cerca di andare al fondo del suo discorso,nonostante la partecipe coscienza della tragica insufficienza della natura, su questa stessa insuf-ficienza pare spesso ruotare una sorta di redenzione interna al divino, qualcosa di molto simile adun processo teogonico, per mezzo del quale Dio diviene pienamente Dio o, per così dire, aumen-ta la propria estensione.

30 O. AIME, M. OPERTI, Religione e religioni. Guida allo studio del fenomeno religioso, SanPaolo, Cinisello Balsamo 1999, pp. 249-50.

31 A. CAPITINI, Lettere di religione, cit., p. 262.32 Proprio Capitini ha segnalato l’insufficienza del laicismo nel suo accettare “che la realtà si

realizzi così come ora; che nel mondo ci sia il male e la morte; e, pur col programma umanisticoe prometeico di umanizzare il mondo, la realizzazione è puramente scientifica e politica, dichia-rando che l’uomo non può cercare altro”, Religione aperta, cit., p. 566. Si pensi solo a quanto siariduzionistica la lettura di coloro che guardano a Capitini essenzialmente come l’autore di Le tec-niche della nonviolenza, relegandolo, di fatto, al ruolo di precursore ed antesignano di quanti dopodi lui, come ad esempio Gene Sharp, hanno indagato in modo assai più capillare le dinamiche del-l’agire nonviolento.

33 A. CAPITINI, Lettere di religione, cit., p. 223.34 C. CUTINI, a c. di, Uno schedato politico: Aldo Capitini, Editoriale Umbra, Perugia 1988, p. 70.35 A. CAPITINI, Nuova socialità…, cit., p. 220.36 ID., Aggiunta religiosa all’opposizione, Parenti, Firenze 1958, p. 168.37 ID., La compresenza dei morti e dei viventi, cit., p. 451.38 ID., Battezzati non credenti, cit., p. 147.39Il rimando prioritario è a Cristo e il tempo e a Il mistero della redenzione nella storia, tr. it. Il

Mulino, Bologna 1965, 1966.40 O. CULLMANN, Cristo e il tempo, cit., pp. 87 e 94.

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41 Ivi, p. 73, n. 25.42 Basti questo esempio: “apertura ad una realtà di tutti, liberata dalla finitezza, il cui supera-

mento è, sì, già nella coscienza appassionata della finitezza stessa, ma procede e sbocca esca-tologicamente in una realtà di tutti”, A. CAPITINI, Educazione aperta, vol. I, cit., p. 10.

43 ID., La compresenza dei morti e dei viventi, cit., p. 408.44 Fra i non pochi passi che si possono citare a questo proposito si veda Religione aperta, cit.,

p. 521, La compresenza dei morti e dei viventi, cit., pp. 262, 343, 438.45 ID., Educazione aperta, vol. II, cit., p. 146; due sono infatti gli aspetti che si intrecciano: “che

esiste una libertà di autodeterminarsi; che la religione ha un suo progresso, sopra ai cicli storici”,ivi, p. 149. Si può anche accennare qui, argomento che se ben evidenziato richiederebbe certopiù pagine, al saldarsi in Capitini di due differenti modi di manifestazione del divino presenti nellatradizione ebraico-cristiana: quello della progressiva rivelazione di Dio e quello di una rottura radi-cale ed improvvisa; si è in precedenza tentato di rendere questa duplicità facendo ricorso ad un’e-spressione come “successive aperture”, dove a “successive” corrisponde l’elemento della conti-nuità e ad “aperture” quello della rottura –a Gesù, Francesco d’Assisi e Gandhi si devono adesempio alcune fra queste aperture, nessuna delle quali si è però rivelata definitiva.

46 ID., La compresenza dei morti e dei viventi, cit., p. 266.47 ID., Religione aperta, cit., p. 476.48 ID., Educazione aperta, vol. II, cit., p. 144.49 È però lecito domandarsi se a questo punto sia ancora corretto far uso del termine “sacro”,

dal momento che in tutte e tre le lingue cardine dell’Occidente (ebraica, greca, romana) essorimanda proprio al significato di “separato”, e cioè costituito in opposizione ad un ambito “profa-no”, o non sia preferibile parlare di passaggio, come direbbe Lévinas, dal sacro al santo.

50 A. CAPITINI, La compresenza dei morti e dei viventi, cit., p. 443.

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GENIO E DIMENSIONE ESTETICAIN SCHOPENHAUER.

UNA PROPOSTA DI LETTURAdi Cosima Fersini

Questo intervento vuole essere solo una rilettura di alcuni nodi concettua-li, relativi alla nozione di “genialità” e il suo riferimento è alla produzione arti-stica e alla condizione estetica, nell’opera maggiore di Arthur Schopenhauer.

L’interesse per l’arte matura, in Schopenhauer, nel periodo tra il 1814 e il1818 quando, ritiratosi a Dresda, si accosta con convinta adesione alla filoso-fia di Kant, al buddismo e, nello stesso tempo, ha l’opportunità di conoscereartisti e critici d’arte che condizionano e convogliano la sua attenzione versol’universo estetico. Così l’arte diventa, nella sua teorizzazione, la prima via diliberazione dal dolore esistenziale. Molti studiosi hanno dedicato le loro rifles-sioni alla teoria dell’arte di Schopenhauer. Tra questi, pensiamo a Elisa Obertiche ha tradotto l’intera sezione dell’opera principale del filosofo tedesco, quel-la che contiene il tema dell’arte1. Infatti, come è noto, il terzo libro de Il mondocome volontà e rappresentazione è interamente dedicato all’arte, a ciò cherappresenta, a come si estrinseca e al suo fine ultimo.

Il tema estetico, in Schopenhauer, è il parto di un’esigenza profonda del suosistema. Potremmo dire che così è stato pure per alcuni suoi predecessori trai quali, ad esempio, Kant. Quest’ultimo si è accostato al problema dell’arte prin-cipalmente per conciliare le esigenze dell’uomo-soggetto di conoscenza e quel-le dell’uomo-soggetto di moralità attraverso il giudizio riflettente che, libero dallecondizioni fenomeniche del giudizio determinante, guida verso l’in-sé. Hegel,dal suo canto, ha incastonato anch’egli il momento dell’arte nel proprio pensie-ro ma solo come gradino propedeutico alla filosofia, nella sintesi della qualetrova soluzione. Tutto ciò è presente tanto nella Enciclopedia delle scienze filo-sofiche quanto nelle lezioni di Estetica2. Il panlogismo hegeliano3 si esprime nelfascino della sua imponente unità e della monumentale costruzione sistemati-ca della sua filosofia. In questa costruzione è, senza dubbio, insito anche ciòche riesce a soddisfare la domanda estetica; e proprio questo svolge un ruolodecisivo a favore di Hegel rispetto a Fichte ed Herbart.

Per Schelling il discorso è diverso. Anzitutto perché è determinante la suaavversione radicale per la filosofia di Hegel e la propensione per quella diKant. Scrisse André Cresson: “Qui bene amat bene castigat. Questa formulaclassica caratterizza fortemente l’atteggiamento che Schopenhauer ha credu-to di dover prendere nei confronti di Kant. Quando tratta di Fiche di Hanswurstdi Kant (vale a dire Guignol), quando non parla mai di Hegel se non lo qualifi-ca ‘pesante pedante imbecille’, quando ha parole così carine per quasi tutti ifilosofi illustri, suoi contemporanei, Schopenhauer fa una eccezione per Kant.Dichiara di agganciarsi direttamente a lui. Lo dà per suo maestro”4.

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Tornando alla filosofia schopenhaueriana in rapporto a Hegel, non trovere-mo mai, però, il senso ottimistico del divenire e dello sviluppo che è l’essenzadella dottrina hegeliana, né la fiducia nella forza della Ragione, con cui Hegelelude le attestazioni di Schopenhauer sulle miserie del mondo. Il problemadella trasformazione dell’infelicità in felicità è la sorgente comune dellaFilosofia della religione, della Filosofia della storia, della Logica e dell’Estetica,appunto. Schopenhauer ha sradicato l’Idealismo hegeliano, propriamente logi-co ed ottimistico, impiantando il suo sistema in cui è centrale il dolor perennische deriva dal conflitto tra soggettività e mondo della Volontà. Quella diSchopenhauer è la “filosofia par excellence degli artisti”; così giudica ThomasMann5, soggiungendo che essa è tale anche, ma non solo, per il posto cospi-cuo che vi occupa la teoria dell’arte. Stefano Zecchi, allievo di Enzo Paci e filo-sofo interno all’area della Fenomenologia, ha dedicato il saggio apparso suEstetica 1994 a Eros e decadenza nell’estetica di Schopenhauer. Il titolo delsaggio racchiude in sé il significato concettuale del romanzo. Schopenhauer ècolui che ha portato la filosofia orientale nel nostro sistema; colui che, dopoPascal, ma contemporaneamente allo stordimento logistico hegeliano, hamostrato l’altra via del romanticismo: la via dell’arte, dell’intuizione corporea.

Il tema dell’arte è introdotto e sostenuto dalla dottrina delle idee, una dellesezioni più importanti del sistema schopenhaueriano, ripresa dalla teoria pla-tonica delle idee. Questa dottrina assecondava la Weltanschauung dell’epocae la visione romantica. In Schopenhauer l’idea platonica rappresenta la formache assume l’immediatezza romantica, cioè il rifiuto dell’intermediazione trafinito e infinito6. Questo rifiuto porta a cercare l’evanescenza del corpo e, sic-come per Schopenhauer esso dipende dalle forme del principio di ragione, latrasparenza assoluta del corpo la si ottiene eliminando tali forme. Tutto questoavviene nell’arte. Nella contemplazione estetica si ha quel “piacere senza inte-resse” di cui aveva già parlato Kant nella Critica del Giudizio e che inSchopenhauer diventa liberazione dall’individuazione della volontà.

Schopenhauer condivide la definizione di idea data da Platone, e da que-sta definizione fa scaturire, poi, il nesso tra idea e volontà, poiché, per il filo-sofo tedesco, le idee costituiscono i gradi di oggettivazione della volontà, chetrova la sua più alta espressione nell’uomo. In particolare, per conoscere le“forme essenziali”, che chiama “idee”, seguendo la dottrina platonica, è neces-saria, per lui, la contemplazione estetica, segno della capacità umana di sot-trarsi al dominio della volontà7. “Con idea intenderemo indicare ogni gradodeterminato e costante di oggettivazione della volontà come cosa in sé, quin-di come estranea alla pluralità; in relazione con gli oggetti particolari questigradi sono forme eterne, o modelli”, conferma Schopenhauer8. La volontà,dunque, si oggettiva attraverso l’uomo e attraverso le idee. Queste ultime simanifestano in un’infinità di esistenze particolari che costituiscono nient’altroche copie di esse: ciò significa che tra l’idea e il fenomeno esiste un rapportoda modello a copia. “Ogni forza naturale generale ed originaria non è dunquealtro, nella sua intima essenza, che un’oggettivazione della volontà in ungrado inferiore; ciascuno di questi gradi è un’idea eterna nel senso di Platone.La legge di natura sarebbe la relazione tra l’idea e la forma del suo fenome-

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no. Questa forma è il tempo, lo spazio e la causalità, legati tra loro da con-nessioni e relazioni necessarie e indissolubili. Mediante il tempo e lo spazio l’i-dea si moltiplica in innumerevoli manifestazioni: l’ordine poi, secondo cui talimanifestazioni si producono nelle forme della molteplicità, è rigorosamentedeterminato dalla legge di causalità: la quale segna in qualche modo il limitefra le manifestazioni delle differenti idee, ripartendo tra loro il tempo, lo spazioe la materia. Questa legge ha quindi una relazione necessaria con l’identità ditutta la materia data, costituente il substratum comune dei diversi fenomeni”9.

Vecchiotti, uno dei principali rappresentanti della critica schopenhauerianaitaliana, ripropone il pensiero del filosofo tedesco a questo proposito, affer-mando che le idee si presentano nei gradi più bassi come forze generali dellanatura; esse appaiono senza eccezione “in ogni materia, come peso, imper-meabilità e in parte si distribuiscono senza ordine in tutta la materia esistente,così che alcune dominano su questa materia, altre su quella, che ne è appun-to per questo specificata”10: a questo gruppo “appartengono la solidità, la flui-dità, l’elasticità, l’elettricità, il magnetismo, le proprietà chimiche e le qualità diogni tipo”11. Queste idee non sono cause o effetti, ma condizioni di tutte lecause e di tutti gli effetti.

Ora, siccome spazio, tempo e causalità appartengono ai fenomeni dell’ideae non alla volontà, l’idea si manifesterà allo stesso modo in tutti i fenomeni diuna tra le forze naturali: questa costanza nell’apparire, quando si presenta unaserie di circostanze, si chiama legge naturale12.

Possiamo, in tal modo, riconoscere una visione dinamica della vita dellanatura in Schopenhauer, visione che scaturisce in larga misura dall’evoluzio-nismo filosofico della scuola di Schelling e da quello empirico delle scuolenaturalistiche delle quali lo Schopenhauer vuole riprendere e superare ilmomento meccanicistico13.

La concezione di idea dello Schopenhauer e quella di Platone sono, dun-que, abbastanza vicine. Platone considerava l’oggettità reale come doxa, cioèopinione, semplice copia dell’eidos, cioè dell’insieme di idee perfette che ave-vano un loro mondo. Anche Schopenhauer vede la “rappresentazione” comesemplice copia di idee perfette che però sono per lui gradi di oggettivazionedella volontà. Noi conosciamo, quindi, quello che ci appare, quello che perce-piamo con i nostri organi di senso e che cogliamo con la ragione individuale.E le idee? È possibile conoscerle in qualche modo? La risposta che dàSchopenhauer è affermativa e radicale: “La conditio sine qua non affinché leidee divengano oggetto di conoscenza, è la soppressione dell’individualità delsoggetto conoscente”14.

L’unico modo per conoscere le idee è, dunque, quello di abbandonare ilprincipio di ragione e, nella contemplazione degli oggetti, fare in modo chepercipiente e percepito divengano una cosa sola senza relazione alcuna, perraggiungere un unico scopo: l’annientamento dell’individuo nella contempla-zione e la sua nascita come soggetto conoscente puro che è al di là dal dolo-re, dalla volontà e dal tempo15.

Quando l’uomo, lasciata la conoscenza dominata dal principio di ragiones’innalza con la concezione delle idee oltre il principium individuationis, la

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volontà, come realtà in sé, manifesta la propria libertà mettendo il fenomenoin contraddizione con se stesso. Questo fatto, chiamato dallo Schopenhauerabnegazione16, può spingersi fino alla vera e propria soppressione dell’essen-za in sé del nostro essere; è l’unico e vero modo con cui la libertà della volon-tà come cosa in sé può insinuarsi nel campo del fenomeno. Solo allora ilmondo come rappresentazione appare puro, intero; e si realizza la perfettaoggettivazione della volontà, proprio perché l’idea è la sua unica, adeguataoggettità.

L’idea include in sé, contemporaneamente, soggetto e oggetto perfetta-mente in equilibrio tra loro come costituenti la sua forma unica. Questacoscienza, che ci permette, poi, di comprendere l’insieme delle idee, costitui-sce, in senso vero e proprio, tutto il mondo come rappresentazione17. Da que-sto consegue che il soggetto conoscente puro, conoscendo l’oggetto conoscese stesso, in quanto la volontà dell’oggetto e quella del soggetto costituisconoun unicum.

Da queste premesse, ci si chiede quale sarà la specie di conoscenza in cuisi potranno contemplare le idee. Schopenhauer giunge alla conclusione chequesta speciale conoscenza sia l’arte, l’opera del genio. Ciò per due motivi:prima di tutto, perché ciò che noi vediamo nel quadro o nella poesia sta fuorida ogni possibile rapporto col nostro volere; poi, perché ciò non esiste già insé che per la conoscenza e si volge immediatamente soltanto ad essa18. L’arteconcepisce con la pura contemplazione riproducendo, di conseguenza, le ideeeterne, cioè questi archetipi essenziali e permanenti presenti in tutti i fenome-ni del mondo. A seconda, poi, della materia usata per questa riproduzione,prende il nome di arte figurativa (o plastica), di poesia o di musica. L’artenasce, dunque, dal rapporto con le idee ed ha come unico fine la comunica-zione di questo19.

Schopenhauer contrappone questo tipo di relazione uomo-idee alla cono-scenza razionale, conseguente al principio di ragione20, che ha valore ed utili-tà solo nella vita pratica e nella scienza: “L’arte si attiene dunque all’oggettosingolo, considerato a sé stante; ferma la ruota dei tempi; svanite le relazioni,l’essenziale, l’idea, formano il suo unico oggetto. La conoscenza che è ingrado di fare astrazione dal principio di ragione è la contemplazione del genio,ed ha valore ed utilità soltanto nell’arte. La conoscenza razionale è simile allegocce innumerevoli di una cascata, che cadono con violenza, assumono milleforme svariate, senza un attimo di riposo; l’arte è l’arcobaleno che si stendetranquillo sopra questo tumulto infernale”21.

Il filosofo tedesco sostiene che il momento estetico permette all’artista didimenticare le sofferenze della vita e, al tempo stesso, gli permette di ricom-pensarsi del dolore che, in qualità di genio, sente in maniera molto forte.Questo avviene perché, nel momento della produzione artistica, l’in sé dellavita, la volontà, l’esistenza stessa è libera da ogni sofferenza e appare all’uo-mo di genio in tutto il suo splendore. Egli è in grado di giungere a questa cono-scenza pura e di riprodurla artisticamente compiendo così un sacrificio perché:più pura è la conoscenza e più il soggetto conoscente puro soffre22.

Schopenhauer sostiene che l’uomo che “vuole” è un uomo privo di qual-

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cosa. Da ciò la sofferenza e il bisogno, la volontà di appropriarsi dell’oggettomancante. Una volta raggiunto la sofferenza cessa, ma solo per pochi istanti,perché molti altri desideri prendono il posto di quello soddisfatto, in un pro-cesso infinito: l’appagamento è, quindi, solo apparente23. “Nessun voto realiz-zato può dare una soddisfazione duratura e inalterabile; è come l’elemosinache si getta a un mendicante, che gli salva la vita oggi per prolungare i suoitormenti sino all’indomani”24. Emblematici, a tal proposito, gli esempi portati dalfilosofo tedesco che assimila il soggetto della volontà ad Issione, sempreattaccato alla sua ruota che gira; alle Danaidi, che attingono sempre per riem-pire il vaglio; a Tantalo, eternamente assetato.

Tutto questo, e perfino la felicità duratura e il riposo, sono gli effetti dellanostra sottomissione alla volontà. Quando, però, interviene un motivo esternoo una causa interna che ci libera dalla schiavitù della volontà, allora avremouna conoscenza libera e concepiremo le cose in modo puramente oggettivo,senza relazioni alcune: solo così saremo felici25. Questi momenti di liberazio-ne ci fanno entrare in una dimensione altra, in cui viviamo il benessere, la pacespirituale e la calma dell’animo, situazione simile all’atarassia di cui parlavaEpicuro26. Questo è lo stato di contemplazione del genio.

Basta uno sguardo sulla natura a liberarci, anche solo per un attimo, daidolori e dalle pene che affliggono la volontà; infatti, se riusciamo a liberarci dalgiogo della volontà e ci eleviamo alla conoscenza pura, non abbiamo più pri-vazioni e, quindi, bisogni, desideri e tantomeno sofferenze27. La felicità, dun-que, è ad un passo da noi, ma ci sfugge come le particelle di mercurio ci sfug-gono dalle mani.

Schopenhauer, come Leopardi, richiama l’attenzione sulla nostra espe-rienza del dolore28. I dolori della vita, infatti, sono di gran lunga maggiori rispet-to ai piaceri e rispetto a quello stato di tranquillità che per Schopenhauer è ilpiacere vero e per Epicuro è, come accennato prima, l’atarassia. Non appenariacquistiamo la coscienza di una sola relazione tra un oggetto contemplato ela nostra volontà, infatti, la magia scompare, per cui torniamo ad essere sem-plici individui, anelli di una catena di cui fanno parte anche gli oggetti, non piùcome idee ma come cose. L’uomo comune, a differenza dell’uomo di genio,non è in grado di elevarsi al disopra della volontà, per cui si serve di una cono-scenza logica, razionale29.

Ciò che allevia il dolore all’uomo è, dunque, la beatitudine della contem-plazione esente da volontà, così che attraverso la memoria del passato ci ritor-nano in mente solo gli oggetti e non il soggetto sottomesso a volontà, con lesue miserie30: per questo motivo, quando siamo angustiati dal dolore, le imma-gini del passato che ci balenano nella mente, ci danno l’impressione di unparadiso perduto31.

Leggiamo in Schopenhauer: “Possiamo, per mezzo degli oggetti presenti,come per mezzo di quelli lontani, sottrarci a tutte le pene: basta che ci elevia-mo alla loro contemplazione pura e oggettiva in modo da crearci l’illusione chese questi oggetti sono presenti a noi, noi non siamo presenti a loro; allora,sgravati dal nostro misero io, e divenuti soggetti puri di conoscenza, facciamotutt’uno con tali oggetti, e la nostra miseria diviene allora tanto estranea a noi,

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quanto è estranea agli oggetti. Non resta più che il mondo come rappresenta-zione; il mondo come volontà è svanito”32.

Qui si pone il problema cruciale di ogni ermeneutica schopenhaueriana: lavolontà, allora, è una quidditas negativa? Sicuramente, dopo l’analisi della teo-ria del dolore, risulta chiara la sua negatività, proprio perché la causa primaper la quale l’individuo soffre è il conflitto tra volontà universale e ragione indi-viduale: è la loro coesistenza che provoca dolore. La conditio sine qua non pervivere senza soffrire è l’eliminazione della soggettività razionale o della volon-tà. Ma quale è possibile?

L’uomo rappresenta il più alto grado di oggettivazione della volontà, maproprio per questo sottostà, come abbiamo detto, al predominio di essa, di cuiè costituito e dai cui promana. Contemporaneamente, è imprigionato nei prin-cipi razionali ed intellettivi della sua mente: quindi, non è comunque libero.Solo un uomo particolare è in grado di raggiungere una libertà che gli permet-te di entrare nella pura contemplazione, assorta per intero nel suo oggetto edi innalzarsi alla concezione delle idee. Quest’uomo particolare è il genio33.

L’essenza del genio consiste proprio in un’attitudine, che supera la norma-lità, ad una simile contemplazione, ad entrare cioè nell’intuizione pura e a per-dersi in essa, a liberare la conoscenza dalla schiavitù della volontà, trasfor-mandosi da individuo a soggetto conoscente puro per un tempo abbastanzalungo da “riprodurre le proprie concezioni con i mezzi ben meditati dell’arte eper fissare in pensieri eterni ciò che fluttua nell’onda dei fenomeni”34.

La conditio sine qua non che permette la manifestazione del genio nell’in-dividuo è una somma di potenza intellettuale di gran lunga superiore a quellarichiesta per il servizio di una volontà individuale35; il surplus di conoscenzache rimane, viene a costituire il soggetto libero da volontà, in preda ad un obliocompleto della propria personalità e delle sue relazioni. In questo modo sispiega anche la vivacità, così spiccata negli uomini di genio, che rasenta laturbolenza. Inoltre essi appaiono sempre alla ricerca di oggetti nuovi e piùdegni di considerazione; così come anche di esseri simili a loro, cosa quasisempre vana36. Mentre l’uomo comune dunque, è pago del presente, di ciò chelo circonda e della serenità della propria famiglia, al genio tutto questo benes-sere è negato37.

La fantasia è stata considerata, da Schopenhauer, compagna del genio, unelemento indispensabile alla sua manifestazione. L’oggetto di conoscenza delgenio è l’idea, che egli attinge intuitivamente. Sarebbe, però, una conoscenzasterile e dipendente dalle circostanze in cui tali oggetti si mostrano, se nonintervenisse la fantasia ad allargare lo spettro di tale conoscenza38. Il genio siserve, dunque, della fantasia per vedere nelle cose ciò che la natura avrebbedovuto realizzare, ma che non ha potuto a causa del conflitto reciproco fra lesue forme39. La fantasia, quindi, è un elemento che rende il genio tale. Comemai?, verrebbe da chiedersi; eppure essa può essere presente anche negliuomini comuni. Schopenhauer scioglie questo dubbio utilizzando quello che,secondo noi, è il filo rosso che guida e lega tutto il suo modo di pensare: il dua-lismo40. Come il mondo è volontà e rappresentazione; come l’oggetto è idea eoggetto materiale, così la fantasia può essere un mezzo per arrivare all’idea,

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la cui comunicazione sarà l’opera d’arte ed è da questo punto di vista che ilgenio se ne serve. Oppure la fantasia può essere banalmente un mezzo percostruire castelli in aria, che servono al sognatore per appagare i propri desi-deri ma che, essendo semplici illusioni, sistematicamente crolleranno41.

Schopenhauer contrappone spesso l’uomo comune all’uomo di genio, pro-prio per sottolineare l’antiteticità soprattutto per quanto riguarda il genere diconoscenza cui rispettivamente approdano. “La conoscenza, mentre per l’uo-mo volgare è la lanterna che illumina la via, per l’uomo di genio è invece il soleche rivela il mondo”, scrive Schopenhauer42. Questo perché, mentre l’uomovolgare resta un individuo che arriva a conoscere ciò che lo circonda entro ilprincipio di ragione, il principium individuationis, la causalità, il tutto sotto lostretto controllo della volontà, di cui il soggetto è succube, l’uomo di genio sitrasforma in soggetto conoscente puro, che non conosce tramite la sempliceastrazione, ma con l’intuizione giunge alla contemplazione delle idee e, quin-di, alla pura realtà in cui la contemplazione, e non la volontà, è padrona43.

A questo punto si impongono alcune constatazioni. Schopenhauer indica lostato di contemplazione, che si raggiunge con l’arte grazie all’individuo che,elevandosi al disopra del principium individuationis, diventa soggetto puro diconoscenza, come prerogativa di un limitato numero di uomini che comeabbiamo visto, nel campo dell’arte sono uomini di genio. Per essi il velo diMaya si squarcia liberandosi, finalmente, dalle sofferenze dello stato fenome-nico e arrivando, così, a cogliere la vera essenza. Da questo punto di vista lafilosofia di Schopenhauer sembra alquanto élitaria. È vero, infatti, che egli creaquesta filosofia aristocratica, in cui solo un’élite etico-intellettuale alquantoristretta di uomini è in grado di arrivare alla pura conoscenza e, nello stessotempo, di liberarsi dal giogo della volontà liberandosi provvisoriamente anchedai dolori e dalle sofferenze che l’attrito volontà-individualità provoca. Nellostesso tempo, però, egli afferma anche che questi uomini geniali soffrono piùdegli altri, sviluppano maggiore sensibilità nei riguardi delle pene, delle soffe-renze dell’umanità intera proprio perché hanno il dono di vedere oltre l’illusio-ne. Occorre notare, quindi, che la condizione di sofferenza accomuna il sog-getto puro di conoscenza e il semplice individuo. In poche parole, si soffresempre e comunque, ciò che cambia è la causa di tale sofferenza, fino a chenon annulliamo completamente la nostra individualità empirica.

Ma c’è qualcosa di più. Sergio Givone ha scritto che non è, inSchopenhauer, alcuna differenza tra l’artista e l’uomo di genio: “Se così nonfosse, non sarebbe neppure possibile all’uomo comune contemplare le operedell’artista e riprodurre nella sua anima l’emozione, anzi, l’intuizione che le hasuscitate. Invece, l’esperienza estetica per l’artista e per l’uomo comune ènella sostanza identica: sia l’uno sia l’altro ‘conoscono nelle cose l’essenziale,al di fuori di ogni relazione’ e, quindi, mentre raggiungono l’in sé della volontà,si sottraggono al suo dominio”44.

Contrariamente a quanto potrebbe sembrare di primo acchito, l’uomo digenio non è perfetto; pecca, infatti, di conoscenza razionale e, con essa, diprudenza, saggezza pratica e avversione alle scienze, particolarmente allamatematica45. Da ciò consegue un’altra particolarità. Siccome ciò che costitui-

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sce l’intelligenza è un’esatta comprensione di ogni genere di relazioni, fonda-ta sulle leggi di causalità e di motivazione, e poiché la conoscenza del genionon si preoccupa di relazione alcuna, ne deriva che un uomo “intelligente”, neimomenti in cui è tale manca di genio e, viceversa, un uomo di genio, neimomenti in cui è tale, non può essere un uomo “intelligente”46.

L’uomo di genio, inoltre, è spesso in preda ad affezioni violente e a passioniinsensate, conseguenza, in parte, di una straordinaria energia del fenomenodi volontà che costituisce l’uomo di genio; in parte, del predominio della cono-scenza intuitiva su quella astratta47. L’impressione del presente è, quindi, moltoforte nel genio e lo trascina verso un comportamento irragionevole, illogico,passionale. A proposito della conoscenza pura, che sembra risultare la causadel dolore di questa élite etico-intellettuale, vorremmo aprire una parentesi perdire che anche Leopardi e, più tardi Nietzsche in particolare, toccheranno econdivideranno la considerazione di Schopenhauer nei riguardi di tale cono-scenza: ossia, che essa è simile alla follia. Il Leopardi, a onor del vero, è dasempre stato accomunato a Schopenhauer. Il De Sanctis ha scritto a tal pro-posito: “Leopardi e Schopenhauer sono una cosa. Quasi nello stesso tempol’uno creava la metafisica e l’altro la poesia del dolore. Leopardi vedeva ilmondo così, e non sapeva il perché. Arcano è tutto/ Fuorché il nostro dolor. Ilperché l’ha trovato Schopenhauer con la scoperta del Wille”48.

In una nota leopardiana del gennaio 1820, troviamo elencate tre maniere divedere le cose. La prima è quella che riguarda proprio gli uomini di genio, chevedono nelle cose più spirito che corpo; la seconda, più comune, è quella degli“uomini volgari” per i quali le cose hanno molto corpo e poco spirito. Infineabbiamo “la sola funesta e miserabile e tuttavia la sola vera” maniera, quelladei filosofi per i quali le cose non hanno né corpo né spirito perché sono vane49.

Tra l’altro, per Leopardi genio non si nasce, ma si diventa: “In natura, cioènon esiste (se non forse come singolarità) nessuna persona le cui facoltà intel-lettuali siano per se stesse strabocchevolmente maggiori degli altri. Le circo-stanze e le assuefazioni col diversissimo sviluppo di facoltà non molto diverse,producono la differenza degli ingegni”50. Tornando al concetto di genio presen-te in Schopenhauer, egli afferma che la genialtà non è sempre presente nel-l’uomo, ma si manifesta in determinati momenti e per un certo periodo di tempo,come per l’homo religiosus di Kierkegaard, Abramo. L’opera d’arte viene con-cepita in particolari momenti e, proprio per questo, viene considerata un’ispira-zione, parto di un essere sovrumano. Schopenhauer afferma che tutti gli uomi-ni di genio, gli artisti, vivono il loro essere dicotomico separatamente: da un latoil loro essere uomini e dall’altro il loro essere artisti, sopra ogni altro, l’artistasommo. Nella sua opera, Enten Eller, Kierkegaard sostiene che il genio è nel-l’attimo di una grandezza soprannaturale e in essa vi sprofonda con tutta la suaanima; realizza il suo scopo ma interrompe anche la coesione della sua vita. Èsolo un attimo che lo costringe a ricominciare da capo. L’artista, dunque, esistecome uomo dello hiatum irrationale kierkegaardiano e fichtiano51: l’attimo dell’i-spirazione rappresenta il suo culmine vitale e l’ascesi il suo obiettivo ultimo.L’opera d’arte è una liberazione immediata dell’artista, mediatamente per il pub-blico, fruitore dell’opera. Sappiamo, però, che Schopenhauer considera questa

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liberazione momentanea e inadeguata a farlo uscire dalla vita: è solo un con-forto alla vita stessa. L’arte nasce dalla negazione della natura, dalla fuga del-l’artista dalla rappresentazione, ossia dall’oggettivazione di cui la volontà siserve per raggiungere i suoi fini: l’iter che l’artista segue per creare l’opera d’ar-te dipende ancora dalla volontà, è egli stesso volontà che si oggettiva attraver-so la sua opera52. “L’istintiva necessità” che è il fondamento dell’opera lo rendeestraneo al mondo e chiuso nella vita stessa.

Schopenhauer si accosta e condivide il pensiero di Goethe riguardo all’attivi-tà geniale che, per ambedue, si oppone alla dispersione del tempo storico ed alsuo impedire ogni unitarietà formale, proprio perché l’intelletto è la facoltà del-l’analisi e della scissione. L’uomo di genio è astorico53 sia perché la sua intuizio-ne è libera dalla volontà e quindi dal fenomeno, sia perché manca di una buonacoesione dell’identità personale che lo avvicina molto alla follia e allo stato men-tale infantile. A causa della conoscenza intuitiva, infatti, si manifesta nel genio uncomportamento irrazionale, idiosincratico, simile a quello del folle54.

Schopenhauer, in un passo de Il mondo come volontà e rappresentazio-ne,55 ci racconta di aver conosciuto persone di una superiorità intellettualemolto pronunciata che presentavano, nello stesso tempo, una leggera tracciadi follia: egli giunge, quindi, alla conclusione che ogni superiorità intellettualeoltrepassante la media comune debba venir considerata come un’anormalitàpredisponente alla follia. “Il folle ha un’esatta percezione del presente e dialcuni elementi frammentari del passato; ma disconosce la loro connessione,le loro relazioni; sicché erra e divaga. E questo è precisamente il punto di con-tatto con l’uomo di genio”, dice Schopenhauer56. Ed ancora: “in ogni cosa, eglinon vede che gli estremi, e perciò anche la sua condotta cade negli estremi,manca di moderazione, conosce benissimo le idee, ma non gli individui”57.

Per meglio comprendere l’arte, tappa fondamentale del pensiero schopen-haueriano, nonché prima via attraverso la quale l’uomo può superare il suostato di dolore, si rende necessario il chiarimento di un argomento di sostegnoqual è quello del sentimento del sublime58. Kant tratta la nozione di “sublime”nella Critica del Giudizio. Dopo aver toccato molti temi cari all’estetica sette-centesca, il filosofo di Königsberg espone la propria teoria riguardo al concet-to di “sublime”, affermando che esso è l’espressione di ciò che è privo diforma, che è inadeguato e violento nei confronti dell’immaginazione. PerSchopenhauer, il sublime risulta affine al sentimento del bello nella sua condi-zione principale, cioè nella contemplazione pura, libera dalla volontà, comenella conoscenza delle idee che ne deriva necessariamente e come nellostare al di fuori di tutte le relazioni determinate dal principio di ragione. Se nediscosta, invece, quando si eleva al disopra della relazione ostile alla volontàdi sé come individuo, riconosciuta nell’oggetto. È proprio grazie a questaseconda fase che l’uomo sarà pervaso dal sentimento del sublime, portato aduno stato di elevazione per il quale si dà il nome di sublime all’oggetto che pro-voca un tale stato59.

Si possono distinguere due tipi di sublime. Il primo è il sublime dinamicoche produce nell’uomo l’impressione di sentirsi infinitamente piccolo di fronteall’infinitamente grande del cielo o dell’universo, ad esempio60. Nello stesso

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tempo, però, prendiamo coscienza del fatto che tutte queste immensità esi-stono solo perché noi ce le rappresentiamo e, più specificamente, è il sogget-to della conoscenza pura che lo crea. Siccome noi ci riconosciamo tali, quan-do dimentichiamo la nostra individualità, ci rendiamo conto di essere la condi-tio sine qua non di tutto ciò che in un primo tempo ci turbava. In concreto, l’im-mensità ci risolleva perché avvertiamo di essere parte del mondo: quest’ele-vazione al disopra della propria individualità è il sentimento del sublime61.

Il secondo tipo, è il sublime matematico. Esso nasce quando guardiamouno spazio piccolo che ci consente di percepire le tre dimensioni che lo deli-mitano riducendoci ad atomi rispetto alla sua grandezza, la quale però esistesolo come nostra rappresentazione e grazie al nostro sostegno. Si tratta, quin-di, di un contrasto tra la nullità e la dipendenza del nostro io come individuosoggetto puro di conoscenza62.

Questa teoria del sublime spazia anche in campo morale, permettendo,così, di delineare ciò che si chiama “carattere sublime”63. Esso è caratterizza-to dal rimanere impotenti contro la volontà degli oggetti facendo anche qui pre-valere la conoscenza: ne risulta un uomo che considera gli altri uomini dalpunto di vista puramente oggettivo, senza che entrino in relazione con la suavolontà; in questo modo egli non soffre, come di fatto puntualizza lo stessoSchopenhauer: “Poiché nel corso della propria esistenza e nelle sue sventu-re, egli vedrà meno il suo destino individuale che quello dell’umanità in gene-re, la sua vita sarà quindi per lui un oggetto di studio, più che una causa di sof-ferenza”64. L’apparenza inganna, si sa. Così anche per l’eccitante65, che in unprimo momento potrebbe sembrare simile al sublime, ma in realtà è ad essocontrario. Infatti, il sentimento del sublime nasce quando qualcosa di contrarioalla volontà viene contemplato e questa contemplazione continua grazie ad undistacco completo dalla volontà, nonché ad un’elevazione al di sopra di ogniinteresse; l’eccitante, invece, fa decadere il soggetto puro di conoscenza asemplice oggetto di volontà perché lo distoglie dalla contemplazione pura condegli oggetti che danno soddisfazione e appagamento alla volontà stessa66. Lateoria di Schopenhauer sull’eccitante è duplice, perché esso col suo aspettopositivo stuzzica e con quello negativo ripugna alla volontà; quindi, mira sem-pre e comunque a stimolare la causa prima delle nostre sofferenze e dellanostra bassezza, facendo decadere così anche lo scopo ideale dell’arte.

Tutto quanto è stato detto finora sull’arte, fa parte del suo lato soggettivoed è, quindi, un’analisi compiuta solo a metà. Nell’ambito di una trattazionesull’arte, è necessario conoscere i vari nuclei che hanno vita in essa e che necostituiscono, appunto, la parte oggettiva. Prima di procedere, però, sononecessarie alcune ulteriori premesse.

Sappiamo che la volontà trova la propria oggettivazione nelle idee, le quali,a loro volta, sono rappresentate nella realtà che ci circonda. La materia, però,non può essere la rappresentazione di un’idea e questo per due motivi. Ilprimo consiste nel fatto che la materia è causalità, ossia una forma del princi-pio di ragione, mentre l’idea non ha niente in comune con tale principio. Ilsecondo è dato dall’esser la materia base, comune denominatore di tutti ifenomeni particolari delle idee e, quindi, anche trait d’union tra l’idea e il suo

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fenomeno67. Inoltre, la materia presuppone un concetto astratto e non inveceuna rappresentazione intuitiva, la quale può avere come oggetto solo le formee le qualità che si manifestano nelle idee ed hanno come substrato la materia.Dunque, non la materia, ma le sue qualità sono oggetto di contemplazioneestetica68.

Se prendiamo in esame l’architettura, possiamo dire innanzitutto che essaè un’arte bella e che è il mezzo attraverso il quale possiamo intuire le idee chesi celano dietro le qualità “più basse” della materia, ossia la rigidità, la coesio-ne e la durezza69. Anche se ci troviamo nei gradi inferiori di oggettivazionedella volontà possiamo notare l’essenza di essa che si manifesta nella lotta trail peso e la rigidità; ed è proprio questa lotta che costituisce precipuamente l’u-nico tema estetico dell’arte in architettura. Scopo di quest’arte è, dunque, quel-lo di mettere in risalto tale lotta. In che modo? Frenando il peso, che qui rap-presenta proprio la manifestazione della volontà; e la rigidità, in modo che laloro lotta si prolunghi all’infinito manifestandosi in svariate forme70. Quindi labellezza di una qualsiasi opera architettonica consisterà nell’adattamento fina-le di ogni parte al tutto, nel senso che ogni elemento della costruzione dovràessere legato necessariamente a tutti gli altri in modo tale che se uno solo diquesti elementi venisse a mancare, crollerebbe l’intera costruzione71.

Di notevole importanza è poi la luce nelle opere architettoniche: infatti,qualsiasi edificio immerso nella luce dà un effetto sicuramente diverso da quel-lo che produce il buio; la luce conferisce un secondo motivo di bellezza “poi-ché la luce è la più gioconda di tutte le cose, in quanto è la condizione e il cor-relato oggettivo del modo più perfetto di conoscenza intuitiva”72. La contem-plazione estetica che si innesca e di conseguenza il piacere che deriva dallavisione di un edificio ben illuminato, quindi, non dipende solo dalla conoscen-za dei materiali, dalla lotta tra peso e rigidità e dalla luce, ma anche dal sog-getto. Infatti, essendo l’architettura un’arte che riguarda i gradi inferiori dioggettivazione della volontà, ci dà un piacere estetico minimo in quanto aoggetto, che però diventa notevole se l’individuo si trasforma in soggetto purodi conoscenza libero dal giogo della volontà e del principio di ragione73.

Ciò che contraddistingue l’architettura rispetto alle arti figurative e alla poe-sia è rappresentato dal fatto che, mentre queste ultime riproducono l’ideaconosciuta, per esempio, in un quadro, che ha un significato nascosto, l’archi-tettura offre allo spettatore direttamente l’oggetto da cui si può facilmente deri-vare l’idea, “portando l’oggetto reale e individuale alla chiara e completaespressione della sua essenza”74.

Un altro particolare che contraddistingue l’architettura è la sua duplice fun-zione: mentre, infatti, le altre arti hanno fini puramente estetici, l’architetturaunisce a questi i fini utilitari. Sta proprio in questo la grandezza dell’architetto:infatti, per ogni elemento dell’opera egli deve valutare il lato estetico e l’esi-genza utilitaria75. Questi due elementi, tra l’altro, sono inversamente propor-zionali perché più il clima richiede una maggiore utilità pratica, meno l’artistaè in grado di conferire senso estetico.

Come nell’architettura e nell’idraulica artistica, così in altre situazioni este-tiche, quali ad esempio quelle che possono scaturire dal vedere un paesaggio

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o un giardino rigoglioso, prevale il lato soggettivo su quello oggettivo. Questoavviene perché, trovandosi di fronte ai gradi inferiori di oggettivazione dellavolontà, il piacere estetico deriva soprattutto dal soggetto conoscente puro cheè svincolato dalla volontà e da qualsiasi altra relazione con l’individualità76. Siacontemplando uno spettacolo naturale, sia contemplando quadri che riprodu-cono la natura, la realtà è sempre il soggetto che dà il maggior contributo alpiacere estetico77.

Procedendo per questo excursus di arti belle si ha l’impressione di salire igradini di una scala, per cui dai gradi più bassi di oggettivazione della volontàsi arriva ai superiori. Dopo l’architettura, che riguarda la materia inorganica edopo la natura e la pittura di paesaggio, che hanno a che fare con la vita orga-nica ma pur sempre vegetale, è interessante considerare la scultura e la pittu-ra di animali dalle quali nasce una contemplazione estetica che trova il suo fon-damento più nell’oggetto che nel soggetto: “Ci vediamo dinanzi quella medesi-ma volontà in cui consiste anche la nostra essenza; ma la vediamo incarnatain esseri nei quali la sua manifestazione non è, come in noi, dominata e miti-gata dalla riflessione, bensì accentuata nei tratti più intensi, ed esplicata inmaniera così franca, da rasentare il grottesco e il mostruoso; e, in compenso,sbrigliata, nella piena luce del giorno, sempre ingenua, sempre schietta, senzala minima dissimulazione. Questa è la ragione vera per cui noi proviamo tantointeresse agli animali”78. Guardando gli animali, più che le piante, affermaSchopenhauer79, non si può fare a meno di notare la ricchezza delle forme e deicomportamenti che lasciano trasparire la volontà celata in essi; e c’è una parti-colare frase che egli adotta dai libri sacri degli Indù per definire l’essenza inti-ma di questi esseri: “Tat Twam asi” (“questa cosa vivente sei tu”)80.

Scopo della pittura storica e della scultura è quello di “rappresentare inmaniera immediata e intuitiva le idee in cui la volontà raggiunge il grado piùelevato della sua oggettivazione”, afferma Schopenhauer81. In questi ambiti illato oggettivo supera quello soggettivo, perché ci troviamo di fronte a gradi dioggettivazione della volontà superiori rispetto a quelli dell’architettura e dellapittura di paesaggio. Bisogna inoltre precisare un altro particolare di rilievo.Schopenhauer distingue nell’uomo due caratteri: uno generico, che è quelloche riguarda la specie ed è il carattere che si trova oggettivamente in tutto ilgenere umano e si chiama bellezza in senso interamente oggettivo, appunto.Il secondo è il carattere intellettuale e si chiama propriamente “carattere” o“espressione”82. Paolo Vincieri puntualizza il pensiero di Schopenhauer ariguardo e sostiene che ognuno di noi ha una sua natura, un “carattere intelli-gibile” che si manifesta come una costante nel tempo83.

Il filosofo tedesco, inoltre, spiega la perenne sofferenza legata alla vitacome l’espiazione di una colpa originaria: quella del peccato originale, chedeterminerebbe anche il bellum omnium contra omnes. Questa lotta è propriol’espressione dell’egoismo di un uomo che deve scontare una pena perchécolpevole di esistere: tutto ciò determina un rapporto inseparabile tra colpa ori-ginaria e natura umana immutabile. Horkheimer, uno dei filosofi più significati-vi, condivide il principio schopenhaueriano della colpa originaria, ma non èd’accordo sulla natura umana immutabile. Egli sostiene che il carattere degli

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uomini sia determinato dalle circostanze e che sicuramente la vita è contras-segnata dal dolore anche se è diverso il modo in cui viene vissuto. InCrepuscolo, Horkheimer afferma che diverso è il modo di soffrire del borghe-se e del proletario e diverso è il modo in cui si instaura, nel corso della storia,il rapporto degli uomini tra loro e con la natura. La bellezza umana è, dunque,un’espressione oggettiva che designa il più alto grado di oggettivazione dellavolontà, ossia l’idea dell’uomo84.

Insieme a questo aspetto oggettivo, però, altrettanto importante è l’aspettosoggettivo. Infatti, per Schopenhauer, non esiste nella realtà alcun oggetto checolpisca subito come il volto umano; e questo succede perché nell’altrui figu-ra riconosciamo subito l’essenza intima di noi stessi, ossia la volontà nel suopiù alto grado di espressione; e anche perché questa bellezza che noi perce-piamo è il mezzo più veloce per innalzarci al disopra del principium individua-tionis e raggiungere così quella conoscenza pura che ci permette di contem-plare85. Qui il filosofo cita le parole di Goethe: “Colui che contempla la bellez-za umana, si sente immune da ogni soffio di male; si sente in pieno accordocon se stesso e col mondo”86.

Secondo Schopenhauer, la bellezza è il trionfo della volontà su tutti gli osta-coli oppostili dalle forze dei gradi inferiori della sua oggettivazione. Sappiamo,infatti, che la volontà lotta con se stessa per accaparrarsi la materia e, propriodalla vittoria su queste battaglie, scaturisce la bellezza umana. Prova dellelotte, cui tutti i gradi di oggettivazione della volontà devono far fronte, è la con-formazione stessa. Il corpo umano, per esempio, è un sistema di organi, fibre,muscoli ecc. che hanno ciascuno il proprio compito e tutti contribuiscono amantenere in vita l’uomo87.

Per quanto riguarda l’arte, era stato più volte affermato da illustri teorici cheessa imita la natura. Ma Schopenhauer non è d’accordo su questo, perché èconvinto che l’idea del bello non scaturisca a posteriori, ma che si fondi su unanozione a priori, non esattamente come i modi del principio di ragione, ma pursempre a priori88. Questa certezza nasce, nel filosofo tedesco, dalla constata-zione che in natura è quasi impossibile trovare delle forme perfette, ideali, cheinvece l’artista di genio sa creare proprio perché intuisce a priori la vera bel-lezza. Questo gli è possibile e gli permette di oggettivare in forme perfette lavolontà che analizza, perché si tratta della nostra stessa volontà, della nostrastessa sostanza. “L’artista di genio, infatti, crea la bellezza perfetta nel piùduro dei marmi e la mette poi a confronto con la natura quasi dicendo: ‘eccoquello che tu volevi dire’. ‘Si, proprio questo’, risponde una voce vibrante dal-l’intima coscienza dello spettatore”89. È questo il processo che ha luogo negliartisti quando creano le loro opere scultoree90.

La bellezza umana è stata, dunque, definita dal filosofo di Danzica come“l’oggettivazione più alta della volontà nel grado supremo della sua conoscibi-lità”91. Essa si esprime nella forma, che a sua volta dipende dallo spazio e nonnecessariamente dal tempo; quindi “la bellezza in senso oggettivo non è altroche l’oggettivazione adeguata della volontà mediante un fenomeno puramen-te spaziale”92. L’uomo, però, non esiste solo nello spazio ma anche nel tempo;e l’oggettivazione della volontà nel tempo è l’azione, il movimento, che si può

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esprimere in due modi: o manifesta in modo puro l’atto volontario o no; nelprimo modo abbiamo la grazia e nel secondo essa è assente93. Il connubio digrazia e bellezza dà come risultato la manifestazione più alta della volontà nelgrado più alto della sua oggettivazione.

Abbiamo visto che la bellezza è il carattere generico, quello della specie,mentre l’espressione è il carattere individuale. Scopo delle arti sarà, quindi,quello di rappresentare sia l’uno sia l’altro. Il carattere individuale, però, nondeve essere considerato dal punto di vista empirico, di rappresentazione, mabensì come un frammento dell’idea di umanità e come tale deve, quindi, esse-re visto in senso ideale. Questo carattere idealizzato si manifesta, tramite l’in-telligenza e la volontà, attraverso i movimenti e il viso. “Così l’artista, quandosi propone di rappresentare la bellezza, oggetto specialmente proprio dellascultura, deve pur sempre modificare in qualcosa la bellezza medesimamediante il carattere individuale, mettendone in viva luce un lato particolare”94.

L’approfondimento di concetti ideali, come quelli di grazia e bellezza, si èreso necessario dal momento che essi costituiscono i principi su cui si basa lascultura. Per questi motivi tale arte ha come oggetto il nudo o, quanto meno,i panneggi trasparenti che hanno il compito di far intuire allo spettatore leforme della rappresentazione dell’idea95. La pittura storica è un’altra arte bellache ha in comune con la scultura i due oggetti principali: la bellezza e la gra-zia. Oltre a tali caratteristiche peculiari la pittura è contraddistinta da un altrooggetto, ossia il carattere, considerato da Schopenhauer come “la rappresen-tazione della volontà nel più alto grado della sua oggettivazione”96, cioè quellaparte dell’idea di umanità che contraddistingue ciascun uomo: il comporta-mento e le azioni sono le manifestazioni di tale carattere. La complessità del-l’idea di umanità può essere colta solo attraverso le varie circostanze in cuil’uomo si viene a trovare: ed è proprio questo che la pittura ha il compito di rap-presentare; ogni gesto, ogni avvenimento della vita di un uomo ha la suaimportanza.

Schopenhauer sostiene che bisogna distinguere tra il significato esterioredi un’azione e il significato interiore97: il primo è rappresentato dall’importanzache le conseguenze di un’azione possono avere per e nel mondo reale; quin-di, è regolato dal principio di ragione. Il secondo, ossia il significato interiore,mette in risalto gli aspetti migliori dell’idea di umanità tramite individualità spic-cate, dando loro la possibilità di esprimere le loro caratteristiche98. È quest’ul-timo aspetto che diviene oggetto della pittura, mentre il primo è quello di cui siserve la storia. Questi due significati, inoltre, possono esistere separati maanche trovarsi insieme in un’unica azione.

Un’altra distinzione è importante considerare: in un quadro, sostieneSchopenhauer99, bisogna distinguere il significato nominale dal significatovero: anche qui, similmente ai significati di un’azione, il primo è esterno, men-tre il secondo consiste in un aspetto particolare dell’idea di umanità rivelatamediante l’immagine all’intuizione.

Nelle opere dei grandi artisti, “nelle loro fisionomie, specialmente negliocchi, vediamo l’espressione, il riflesso della conoscenza più completa; non diquella che mira alle cose particolari, ma di quella che abbraccia con visione

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grandiosa le idee, quindi, l’essenza intera del mondo e della vita; una taleconoscenza reagisce anche sulla volontà; ma, anziché somministrarle deimotivi, come fa la conoscenza volgare, opera come un quietivo, e ne procedequella perfetta rassegnazione che costituisce ad un tempo lo spirito intimo delCristianesimo e della saggezza indiana: la rinunzia e il sacrificio di ogni desi-derio, la soppressione di ogni volontà e, quindi, anche di tutta l’essenza di que-sto mondo: e, cioè, in ultimo, la salvezza. Ecco l’alta saggezza che quegl’im-mortali maestri dell’arte espressero nelle loro opere”. Afferma Schopenhauer:“Ecco il vertice supremo dell’arte stessa: dopo aver seguito la volontà sullascala ascendente di tutte le sue oggettivazioni adeguate che sono le idee, per-correndo successivamente i vari gradi in cui il suo essere si sviluppa, cioè gliinferiori, in cui obbedisce alle cause, gli altri in cui segue le eccitazioni, gli ulti-mi infine, in cui sottostà all’impero dei motivi, l’arte assurge finalmente alla rap-presentazione della volontà in atto di libera autoespressione, dovuto a quelgrande ‘quietivo’ che è la perfetta conoscenza del suo proprio essere”100.

Fine dell’arte è, dunque, la comunicazione dell’idea e l’artista rappresenta lostrumento, la conditio sine qua non attraverso la quale essa viene isolata, puri-ficata da elementi estranei e “consegnata” anche agli uomini comuni. “L’allegoriaè un’opera d’arte che vuol significare una cosa diversa da quella che rappre-senta”, scrive Schopenhauer101. Essa rappresenta un elemento degno di consi-derazione nel campo dell’arte, quasi paradossalmente, perché l’opera d’arte cherappresenta l’idea, è oggetto di intuizione e si esprime da sola; mentre l’allego-ria, basandosi su concetti astratti, devia la conoscenza dello spettatore sul verosignificato dell’opera, il quale deve sforzarsi di riconoscerlo.

Anche in base all’allegoria l’opera d’arte ha due significati: uno nominale,che equivale al senso allegorico stesso; e uno reale, che è quello effettiva-mente rappresentato. Questi due significati sono, per così dire, in lotta perchél’allegoria oscura la conoscenza intuitiva dell’opera d’arte102. Quando poi l’alle-goria si sposa con un oggetto nasce l’allegoria simbolica come, per esempio,l’alloro, simbolo di gloria o la colomba, simbolo di pace103. Se nelle arti plasti-che l’allegoria ha un valore negativo, nella poesia accade il contrario. In que-st’ambito, infatti, il dato immediato è il concetto astratto e il poeta ha il compi-to di condurre dal concetto astratto all’immagine intuitiva, fine dell’arte104.

Fra le arti non si può non menzionare la poesia. Ad essa Schopenhauerdedica una parte del terzo libro de Il mondo come volontà e rappresentazio-ne105. Anche il fine della poesia, come quello delle altre arti è di rappresentarele idee, ossia i gradi di oggettivazione della volontà; tali idee sono di naturaintuitiva e, sebbene la poesia si risolva in una seria di parole e, quindi, di con-cetti astratti, essi concetti hanno proprio il compito di illuminare il lettore circale idee106. Per raggiungere questo scopo, però, bisogna scuotere l’immagina-zione del lettore e questo creando due condizioni: come prima cosa i concettiastratti devono intrecciarsi tra loro in modo tale che venga eliminata ogni loroastratta generalità; in secondo luogo è necessario che l’immagine intuitivaprenda il posto del concetto astratto nell’immaginazione e che la parola delpoeta trasformi tale immagine perché si adatti a quello che vuole esprimere107.

Elementi indispensabili della poesia sono il ritmo e la rima108 che hanno il

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grande potere di attirare la nostra attenzione e di predisporci ciecamente allapoesia. Perché si sprigiona questo potere quasi ipnotico? Schopenhauerrisponde dicendo che la nostra facoltà di rappresentazione, legata principal-mente al tempo, si sente trasportata da questi intervalli regolari nei quali siripete il suono, per cui, la nostra attenzione si culla, per così dire, al suonodella poesia109. Essa, inoltre, è un’arte che ha a disposizione una materia scon-finata per esprimere le idee e, secondo la natura del soggetto, adotta ora laforma descrittiva, ora quella narrativa, ora ancora, quella drammatica110.Oggetto della poesia è l’uomo, come grado più alto di oggettivazione dellavolontà che si manifesta progressivamente nei suoi atti, pensieri e comporta-menti: dipingerlo nei suoi versi è il suo fine111.

Schopenhauer richiama l’attenzione del lettore sul fatto che anche lo stori-co come il poeta si occupa dell’uomo: ma, mentre il primo adotta unaWeltanschauung empirica, fenomenica, legata all’hic et nunc e al principiumindividuationis, il poeta ha una missione diversa: rivelare l’idea di umanità, lanoumenicità del grado più alto di oggettivazione. Le parole del nostro ci con-fermano: “Il poeta abbraccia l’idea dell’umanità nel senso determinato in cuivuol rappresentarla; è la natura del suo proprio io quella che egli oggettivadinanzi a sé nell’idea umana; la sua conoscenza, come si è detto in occasio-ne della scultura è in parte a priori; il suo modello è sempre di fronte al suo spi-rito, fermo, distinto, luminoso, e non gli si offusca un momento. Ci mostra in talmodo, nello specchio del suo spirito, l’idea pura e limpida, e le sue pitturesono, fin nei minimi particolari, vere come è vera la vita stessa”112.

Anche nella poesia, come nella pittura di paesaggio, “il genio è come lospecchio limpido e terso che raccoglie e riflette in viva luce tutto ciò che èessenziale ed importante, sopprimendo gli elementi accidentali ed eteroge-nei”113. Tenendo presente che il fine del poeta è la rappresentazione dell’ideadi umanità, Schopenhauer114 dice che questo può avvenire in due modi: uno èquello in cui il poeta prende come oggetto se stesso e particolarmente descri-ve l’intuizione dei suoi stati d’animo: da qui nasce la poesia lirica, la canzone.Un altro modo è, invece, quello in cui il poeta prende ad oggetto un perso-naggio diverso col quale si eclissa fino a scomparire del tutto. Prendendo inesame la canzone scaturisce che in essa il soggetto della volontà occupa lacoscienza del poeta in due modi possibili: o come volere libero e contento, chequindi è gioia; oppure sovente come volere contrastato, che è tristezza ecomunque sempre come passione, sentimento. Insieme a questo stato d’ani-mo c’è la contemplazione della realtà che circonda e fa prendere coscienza,al poeta, di essere un soggetto puro di conoscenza: da questa considerazio-ne nasce una calma assoluta di spirito che picchia contro la violenza dellavolontà perennemente insoddisfatta; tale contrasto è il nucleo centrale da cuiha vita la canzone e l’ispirazione lirica in genere115. In questo stato d’ispirazio-ne il genio è soggetto puro di conoscenza e libero dalla volontà; ma questacontemplazione dura poco perché la volontà è già pronta con i suoi artigli afarlo tornare alla sua mercé. Per questo nella canzone e nell’ispirazione liricaquesti due stati sono ben percepibili e coesistono alternativamente.

L’elemento più importante di tutti, nella poesia come nelle altre arti è,

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comunque, la verità, infatti “all’arte si domanda che sia uno specchio fedeledella vita, dell’umanità e del mondo”, afferma Schopenhauer116. Essa funge,quindi, da vocabolario perché ci aiuta a tradurre in oggetti o concetti com-prensibili ciò che è oscuro. È da rilevare che la tragedia è considerata il gene-re poetico più elevato per la potenza dell’effetto e per la difficoltà dell’esecu-zione. Scopo di tale genere è quello di mostrare il lato peggiore della vita, quin-di “la lotta spaventosa della volontà con se stessa; lotta che, in questo gradosupremo di oggettivazione, si spiega nell’ambito più vasto e completo”117.Sappiamo che la volontà, nella visione schopenhaueriana, è unica e si mani-festa in tutti gli individui, i quali lottano costantemente tra loro spinti dall’egoi-smo; ci sono però alcuni individui che riescono a sollevarsi al disopra del prin-cipium individuationis e conoscono l’essenza perfetta del mondo; tale cono-scenza agisce come quietivo della volontà e produce rassegnazione, rinunciaalla vita e alla stessa volontà di vivere. Tutto questo si ripropone nella trage-dia, in cui, dopo lunghi sforzi e sofferenze, le creature più nobili rinunziano persempre alle miserie della vita e si liberano della volontà, negandola. Esempiillustri ci sono offerti da Amleto, da Margherita di Faust, da Giovanna d’Arco,la Pulzella di Orléans, “tutti personaggi che muoiono purificati dal dolore,quando in loro è già morta la volontà di vivere”118.

È d’obbligo, dopo questa nomenclatura delle belle arti, parlare della musicanel modo in cui era considerata da Schopenhauer. È una differenza sostanzialequella che separa la musica da tutte le rimanenti arti che abbiamo sondato: ilnostro filosofo la individua nel fatto che dall’architettura alla tragedia, tutte si ser-vono di mezzi, come un edificio, un quadro, una poesia, e di una conseguentemodificazione della conoscenza dello spettatore per trasmettere le idee, loroscopo supremo. Tali arti, quindi, oggettivano la volontà mediatamente, ossia permezzo delle idee. La musica, invece, è essa stessa un’oggettivazione immedia-ta della volontà proprio come il mondo fenomenico e le idee119. Ne deriva checome fra le idee e il mondo fenomenico c’è una relazione di copia a modello,così, fra la musica e tale mondo fenomenico esiste la stessa analogia. Ciò signi-fica che il basso, fondamentale nell’armonia, corrisponderà alla materia inorga-nica del mondo fenomenico e, man mano che si sale la scala del suono, si per-corrono i vari gradi di oggettivazione della volontà, come fenomeni, fino a rag-giungere la melodia che corrisponderebbe alla vita, alle aspirazioni coscienti del-l’uomo120. Per questo motivo inventare una melodia, rivelare per suo mezzo i piùprofondi segreti della volontà e del sentimento umano è lo scopo, il fine supre-mo del genio. Questo avviene nella più completa ispirazione, tanto da poter par-lare di sdoppiamento della personalità: infatti, quando il genio crea la melodia inquesto stato di contemplazione, è come se si trovasse in una dimensione altra;per cui, una volta venutone fuori, non ricorda nulla di tale evento121.

È necessario precisare una cosa. La musica ha, con le nostre analogie,solo una relazione indiretta: infatti, essa non esprime il fenomeno ma solo lavolontà. Ecco perché la nostra immaginazione viene così facilmente eccitatadalla musica: è come se cercassimo di capire quel quid, ciò che per noi è sco-nosciuto, attraverso il trasporto delle note; “la musica non esprime, della vitae dei suoi avvenimenti, se non la quintessenza, e tale universalità è appunto

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il carattere che le conferisce un così alto valore, che ne fa la panacea di tutti inostri mali”, sentenzia Schopenhauer122, “e quindi”, continua il filosofo, “espri-me l’elemento metafisico del mondo fisico, l’in sé di ogni fenomeno: il mondosi potrebbe, in conseguenza, chiamare un’incarnazione della musica, nonmeno che della volontà”123. La musica va oltre le idee ed è indipendente dalmondo fenomenico, anzi, potrebbe, in certo qual modo, sussistere anche se ilmondo non esistesse, a differenza delle altre arti.

Con la musica si completa anche il lato oggettivo dell’arte. Abbiamo vistoche lo stato di contemplazione permette all’artista di svincolarsi dai dolori edalle sofferenze per creare la manifestazione delle idee eterne, anche se perbrevi istanti. La volontà, infatti, è pronta a smembrare il genio dall’individuo,facendo ripiombare quest’ultimo nel baratro del dolore. L’arte rimane, dunque,per Schopenhauer, un rimedio solo parziale al dolore esistenziale.

Dopo quanto è stato detto sulla musica il filosofo di Danzica giunge allaconsiderazione finale, cioè: se si riuscisse a rendere esplicito il significatointrinseco, ossia a tradurre in concetti ciò che la musica esprime, riusciremmoanche a trovare la spiegazione del mondo per mezzo di essi, il che equivar-rebbe alla vera filosofia. Siccome poi, guardata dal punto di vista empirico, lamusica è un mezzo per affermare in concreto dei grandi numeri e delle com-plicate relazioni numeriche (comprensibili solo per via dell’astrazione), sipotrebbe concepire la possibilità di una filosofia dei numeri, come quella diPitagora o dei Cinesi nell’Y-King124. I pitagorici avevano dato molta importanzaalla musica e Platone non è stato da meno. Nel Fedone, il filosofo greco affer-ma che la musica ha il compito di formare la ragione: si tratta, nel senso piùcomune, del ritmo dorico, perché dotato di particolare serietà e gravità; nelsenso più teorico, la musica viene considerata come ritmo regolato dal nume-ro e come armonia che ha il numero per sua essenza specifica.

Abbiamo già visto che la critica italiana rivela un’importanza molto concre-ta che si realizza anche in rappresentanti come Martinetti125 e Varisco126, permenzionarne alcuni. Vecchiotti, uno degli ultimi critici, richiama l’attenzione suun problema riguardante proprio il settore dell’arte127: la possibilità di concilia-re il pessimismo complessivo con la filosofia della musica e con l’esteticaschopenhaueriana. Più si conosce più si soffre, ma non si avverte la caducitàdel piacere quando si sa che nel mondo estetico non c’è dolore. Cosa com-porta questo concetto? Di certo ottimismo e non già pessimismo come vuoleSchopenhauer. L’arte ha, infatti, il compito di liberarci dalla volontà ma, in que-sto modo, insieme al dolore si elimina anche il piacere; Schopenhauer sostie-ne, invece, che l’arte porta alla liberazione dal dolore e, quindi, al piacere.

Riconda richiama l’attenzione sulla grande capacità di sofferenza che esi-ste nel secolo che va da Goethe a Nietzsche. Schopenhauer si pone fra l’unoe l’altro, è l’anello di congiunzione tra Goethe, a differenza del quale è più clas-sico, più tragico, più pessimista, insomma, e Nietzsche, in confronto al qualeè più imponente, deciso e forte. Già Georg Simmel, nel 1907, aveva collega-to l’idea goethiana di un Essere che incessantemente produce forme alle teo-rie di Nietzsche e Schopenhauer128.

La specificità di quest’ultimo pensatore è nell’impronta pessimistica della

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sua dottrina, dovuta al tentativo di negare il mondo e di creare un ideale asce-tico, di strappare l’uomo alla rappresentazione e di elevarlo a redentore di tuttele creature. “La sua spirituale sensualità, la sua dottrina, sgorgata dalla vita,che ci insegna esser conoscenza, pensiero, filosofia, non solo un affare delcervello ma di tutto l’uomo, col cuore e coi sensi, col corpo e con l’anima […]in una parola la sua arte, appartiene ad un’umanità ugualmente lontana dal-l’aridità della ragione e dall’idolatria dell’istinto, e può forse favorirne la nasci-ta. L’arte, infatti, con l’accompagnare l’uomo nel faticoso cammino verso sestesso, già ha conseguito sempre il suo specifico fine”129.

Nonostante tutte le critiche che gli sono state mosse o che gli si potrebbe-ro muovere, non si deve dimenticare perciò né la denuncia che Schopenhauerha fatto della realtà del dolore né la portata demistificatrice del suo filosofarené, infine, la profondità di molte sue analisi, coincidenti, almeno a livello di“fenomenologia della condizione umana”, con le voci alte della sapienza, nonsolo occidentale, dell’età moderna e contemporanea. Del resto, la ricchezza dimotivi del suo pensiero, anche per la parte estetica, al di là della cornice siste-matica, è confermata dall’ampia serie di influssi esercitati sulla cultura suc-cessiva130.

Possiamo fare nostra la conclusione posta da Simmel, alle analisi sull’artedi Schopenhauer: “L’insufficiente della liberazione per mezzo dell’arte è pro-prio in ciò stesso che questa liberazione riesce a fare: che essa si allontanasoltanto dalla volontà, da cui noi invece abbiamo bisogno di essere liberati; alcontrario, la liberazione reale, non revocata in ogni istante, deve impadronirsidella volontà stessa. E questo riesce nelle azioni dell’eticità e dell’ascesi, allequali ci rivolgiamo come la soluzione pratica dell’oscura problematica in cui lariflessione di Schopenhauer ha finora calato la vita”131.

1 Cfr. A. SCHOPENHAUER, Il problema dell’arte, trad. it., a c. di E. Oberti, Brescia 1959.2 Cfr. G. W. F. HEGEL, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, a c. di B. Croce,

(1907) Bari 1967; e ID., Estetica, trad. it., a c. di N. Merker e N. Vaccaro, Milano 1963.3 Su questo è ancora valida l’impostazione metodologica presentata a suo tempo da V. VERRA,

Hegel, in Questioni di storiografia filosofica, vol. III, a c. di V. Mathieu, Brescia 1974, p. 322.4 A. CRESSON, Schopenhauer, Paris 1962, p. 2.5 Cfr. T. MANN, Introduzione ad A. Schopenhauer, in Schopenhauer, Nietzsche, Freud, trad. it.,

Milano 1980, p. 5.6 Cfr. G. RICONDA, Schopenhauer, in Questioni di storiografia filosofica, cit., pp. 375-376.7 Cfr. S. ZECCHI-E. FRANZINI, Storia dell’estetica, v. II, Bologna 1995, p. 598.8 Cfr. A. SCHOPENHAUER, Il mondo come volontà e rappresentazione, trad. it., a c. di G. Riconda,

Milano 1985, p. 168.9 Ivi, p. 172.10 Cfr. I. VECCHIOTTI, Introduzione a Schopenhauer, Bari 1986, p. 46.11 Ibidem.12 Cfr. ibidem.13 Cfr. Ivi, pp. 47-48.14 Cfr. A. SCHOPENHAUER, Il mondo come volontà e rappresentazione, cit., p. 207.

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15 Cfr. Ivi, p. 217.16 Cfr. Ivi, p. 343.17 Cfr. Ivi, p. 218.18 Cfr. Ivi, p. 223.19 Cfr. Ibidem.20 Cfr. Ibidem.21 Ivi, pp. 223-224.22 Ivi, pp. 309-310.23 Cfr. Ivi, pp. 234-235.24 Ibidem.25 Cfr. Ibidem.26 Cfr. Ibidem.27 Cfr. Ibidem.28 Cfr. G. RICONDA, op. cit., p. 377.29 Cfr. A. SCHOPENHAUER, Il mondo come volontà e come rappresentazione, cit., p. 237.30 Cfr. Ibidem.31 Cfr. Ibidem.32 Ivi, p. 238.33 Cfr. Ivi, p. 224.34 Ibidem.35 Cfr. Ibidem.36 Cfr. Ibidem.37 Cfr. Ivi, p. 225.38 Cfr. Ibidem.39 Cfr. Ibidem.40 Cfr. Ibidem.41 Cfr. Ivi, pp. 225-226.42 Ivi, p. 22643 Cfr. Ivi, p. 227.44 S. GIVONE, Storia dell’estetica, Roma-Bari 1991, p. 91.45 Cfr. Ibidem.46 Cfr. Ivi, p. 228.47 Cfr. Ivi, 228-229.48 Cfr. F. DE SANCTIS, Schopenhauer e Leopardi, in Opere, vol. XIII, Einaudi, Torino 1969, p.

444.49 Cfr. G. LEOPARDI, nota 103 (20 gennaio 1820), in Zibaldone di pensieri, ed. critica e annota-

ta a c. di G. Pacella, v. I, Milano 1991, pp. 116-117.50 Ivi, p. 966; la nota 1647 è del 7 settembre 1821. Cfr. G. INVITTO, “Varia filosofia e bella let-

teratura”. L’uso del termine “filosofia” nello Zibaldone, in Narrare fatti e concetti, Lecce 1999, p.33. Vedi pure: A. PRETE, Schopenhauer e Leopardi (sull’origine del parallelo), in Schopenhauer ierie oggi, Atti del Convegno Internazionale svoltosi dal 22 al 25 settembre 1986 a Gargnano delGarda, a c. di A. Marini, Genova 1991, pp. 439-444.

51 Cfr. S. A. KIERKEGAARD, Aut Aut, trad. it., Milano (1956) 1977.52 Cfr. F. GALLO, Esistenza, arte, genialità. (Un itinerario schopenhaueriano), in Schopenhauer

ieri e oggi, cit., pp. 242-243.53 Cfr. Ivi, p. 243.54 Cfr. A. Schopenhauer, Il mondo come volontà…, cit., p. 229.55 Cfr. Ivi, p. 230.56 Ivi, p. 232.57 Ivi, p. 233.58 Cfr. Ivi, p. 241.59 Cfr. Ivi, p. 242.60 Cfr. Ivi, p. 244.61 Cfr. Ivi, p. 245.62 Cfr. Ibidem.63 Cfr. Ivi, p. 246.

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64 Ibidem.65 Cfr. Ivi, p. 247.66 Cfr. Ivi, p. 248.67 Cfr. Ivi, p. 252.68 Cfr. Ivi, p. 253.69 Cfr. Ibidem. 70 Cfr. Ivi, p. 254.71 Ibidem. “Bisogna che ogni parte sostenga un peso esattamente proporzionato alla sua resi-

stenza, e venga essa stessa sostenuta né più né meno del necessario: questa è, infatti, la condi-zione indispensabile per metter bene in luce quel conflitto tra la rigidità e il peso, in cui si manife-sta la vita, l’estrinsecazione della volontà nella pietra, e che manifesta con chiarezza ed eviden-za questi infimi gradi dell’oggettità della volontà stessa”.

72 Ivi, p. 256.73 Cfr. Ibidem.74 Ibidem.75 Cfr. Ivi, p. 257.76 Cfr. Ivi, p. 258.77 Ibidem. “Infatti, non appena ci sforziamo di contemplare tali oggetti con gli occhi dell’artista

che li ha dipinti, gioiamo subito, come per eco simpatica di sentimento, della serenità profonda dispirito dovuta al silenzio completo della volontà, i quali elementi si resero necessari affinché l’ar-tista potesse effondere la sua conoscenza in oggetti così privi di vita, e concepirli con tanto amore,con oggettità perfetta”.

78 Ivi, p. 259.79 Cfr. Ibidem.80 Ivi, p. 260.81 Ibidem.82 Cfr. Ibidem.83 Cfr. P. VINCIERI, Discordia e destino in Schopenhauer, Genova 1993, p. 140.84 Cfr. M. HORKHEIMER, Crepuscolo, trad. it. a c. di G. Backaus, Torino 1977, pp. 35-36.85 Cfr. A SCHOPENHAUER, Il mondo come volontà e rappresentazione, cit., p. 260.86 Ivi, p. 261.87 Cfr. Ibidem.88 Cfr. Ibidem.89 Ivi, p. 262.90 Ibidem. “Nell’anticipazione consiste l’ideale: l’idea, in quanto, almeno in parte, riconosciuta

a priori, e in quanto, associandosi con i dati a posteriori della natura, e completandoli, entra nellapratica dell’arte. La possibilità, per l’artista, di concepire il bello a priori, e per l’osservatore di con-statarlo a posteriori, deriva dal fatto che, tanto l’artista, quanto l’osservatore, sono essi stessi l’insé della natura, e la loro essenza coincide con la volontà che si oggettiva”.

91 Ivi, p. 263.92 Ibidem.93 Cfr. Ivi, p. 264.94 Ivi, p. 265.95 Cfr. Ivi, p. 269.96 Ivi, p. 270.97 Cfr. Ibidem.98 Cfr. Ivi, p. 271.99 Cfr. Ivi, pp. 271-272.100 Ivi, pp. 273-274.101 Ivi, p. 277.102 Cfr. Ivi, p. 278.103 Cfr. Ivi, pp. 279-280.104 Cfr. Ivi, p. 281.105 Cfr. Ivi, p. 283.106 Cfr. Ivi, p. 284.107 Cfr. Ibidem.

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108 Cfr. Ivi, p. 285.109 Cfr. Ibidem.110 Cfr. Ibidem.111 Cfr. Ibidem.112 Ivi, p. 287.113 Ivi, p. 290.114 Cfr. Ibidem.115 Cfr. Ivi, p. 292.116 Ivi, p. 294.117 Ivi, p. 295.118 Ibidem.119 Cfr. Ivi, p. 298.120 Cfr. Ivi, p. 300.121 Cfr. Ivi, p. 302.122 Ivi, p. 304.123 Ivi, p. 305.124 Cfr. Ivi, p. 307.125 Cfr. P. MARTINETTI, Antologia, Bologna 1971.126 Cfr. B. VARISCO, I massimi problemi. Brani scelti e coordinati a c. di G. Albiney, Firenze 1941. 127 Cfr. I. VECCHIOTTI, op. cit., pp. 138-139.128 Cfr. G. SIMMEL, Schopenhauer & Nietzsche, a c. di A. Olivieri, Firenze 1995.129 Cfr. G. RICONDA, op. cit., pp. 387-388.130 Per una ricostruzione complessiva della fortuna dell’estetica di Schopenhauer, cfr. S. GIVONE,

op. cit., pp. 238-241 e S. ZECCHI-E. FRANZINI, op. cit., pp. 1077-1978. Si ricordano alcuni contributispecifici: F. VISCIDI, Il problema della musica nella filosofia di Schopenhauer, Padova 1959; C.ROSSET, L’esthétique de Schopenhauer, Paris 1969; A. PHILONENKO, Schopenhauer. Une philoso-phie de la tragédie, Paris 1980; S. ZECCHI, Eros e decadenza nell’estetica di Schopenhauer, in S.ZECCHI, a c. di, Estetica 1994. Scritture sull’Eros, Bologna 1995.

131 G. SIMMEL, op. cit., p. 154. 61

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DALLA CITTÀ ALLA COSMOPOLI, UN CAMMINO POSSIBILE

di Carmela Stella

La discussione politico-culturale dell’ipotesi federalista e della sua singola-re portata storica –di un’istanza progettuale di grande attualità ed interesse–costituisce uno dei temi, o meglio dei problemi, affrontati da Mario Schiattonein un suo recentissimo scritto, Città Federazione Cosmopoli in Carlo Cattaneo,edito da Name (Genova, 2002). Essa non poteva non proporsi, nell’imposta-zione argomentativa dell’autore, come riflessione critico-teoretica sul significa-to della storia, sulla sua affermazione nell’Ottocento (il secolo, come ebbe adire Nietzsche, affetto dalla “malattia storica”, per il quale invocava l’oblio)come scienza indagativa, interpretativa di eventi e fatti, ma chiusa nelle gran-di costruzioni e idealizzazioni, il concetto di nazione di Fichte, l’eticità delloSpirito oggettivato, come Stato, fondamento ontologico dell’uomo, nella teo-rizzazione hegeliana; una storia prefigurata da una ragione immanente, daprincipi direttivi, solo nel Novecento aperta a nuova rielaborazione. Come sot-tolinea Schiattone, con Mannheim ed, in particolare, con Bloch si comprendeche la condizione prima della sua fattualità, non più definibile secondo preco-stituiti modelli evolutivi e di sviluppo, è una linearità progettuale, costante-mente in relazione con le istanze che maturano dal suo svolgimento e di cui èpossibile specificare la natura in quanto scaturienti dai fini che l’umanità per-segue. Si tratta di un concetto di non immediata acquisizione perché preludeall’individuazione nella storia di una continuità di svolgimento di “istanze uto-piche”, della presenza in essa di un progetto implicito che partendo da lonta-no –secondo alcune ricostruzioni già dal mito aureo– si è andato sempre piùchiarendo e manifestando lungo l’idea guida della giustizia. In questa direzio-ne procede Cattaneo: con il suo apporto “la storia italiana riconquista la sualinearità”, in anni già per se stessi densi di progetti, vivi per la forza propositi-va del dibattito risorgimentale che doveva portare a maturazione l’idea dell’in-dipendenza dallo straniero, dell’unità nazionale in Mazzini e dell’istanza fede-rativa in Ferrari e nello stesso Cattaneo (Mario Schiattone ha scritto, tra l’altro,un volume monografico su Ferrari dal titolo Alle origini del federalismo italia-no. Giuseppe Ferrari ).

Tenace animatore delle giornate insurrezionali del marzo 1848, Cattaneoavversò risolutamente i tentativi fusionisti dei fiduciari piemontesi inLombardia, attento ai possibili sviluppi storico-politici del Risorgimento che, asuo avviso, dovevano porsi in naturale continuità con la storia italiana, unastoria dominata dai particolarismi locali, elementi imprescindibili di un fecon-do policentrismo; per essa, per la sua evoluzione sin dalla fase rinascimen-tale, non poteva risultare consono un programma unitario. Un filo sottile, ma

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chiaramente percettibile, lega Cattaneo alla progettazione utopica, nonostan-te egli abbia espresso nei riguardi dell’utopia un giudizio non positivo, veden-do in essa una sorta di volontarismo o una scarsa attenzione, se non propriodisaffezione, per le concrete questioni economiche. Ed interessante è il per-corso –abilmente ricostruito da Schiattone– attraverso il quale vi perviene,definendo e chiarendo, nel contempo, la sua tesi sul federalismo: la relazio-ne liberalismo-transazione e ancora liberalismo-utopia. Infatti al federalismoCattaneo perviene attraverso il liberalismo, un liberalismo maturo che ha fattoproprie alcune istanze sociali consentendo una lettura della storia in terminiprogettuali. Fondamentale in esso è l’idea di progresso, fattore portante dellastoria umana, “deliberato e perpetuo”, indefinito nel suo sviluppo e nella suanatura, determinata di volta in volta dalle conquiste della scienza. Su taleidea, Cattaneo, come già Romagnosi, fonda la diretta e specifica responsa-bilità dell’uomo nella costruzione della sua storia, scevra da interventi sovran-naturali, giustificazioni metastoriche e pretesti provvidenziali. In questoassunto si rintracciano le radici culturali di Cattaneo, romagnosiane e vichia-ne da un lato e positiviste dall’altro, le premesse da cui dedurre un pensierocoerente: le tesi empiriste, baconiana e lockiana, confluenti nell’affermazionedella connessione tra senso e ragione come criterio di reciproca verificabilità,l’attacco alla metafisica (proprio del positivismo, ma non solo, si pensi alleriserve kantiane) e la conseguente negazione dell’innatismo, nella sua prete-sa di porre l’idea a fondamento della realtà, di porre principi universali a fon-damento della storia, presupposti dogmatici ad una scienza considerata vali-da nel suo deduttivismo aprioristico. L’idea di progresso rappresenta, perCattaneo, una conquista significativa, la radicale messa in discussione deilimiti prefissati e predefiniti all’emancipazione umana; su di essa egli impostail principio di uguaglianza, il diritto di opportunità, consistente nell’offrire a tuttigli stessi mezzi, poiché solo così inteso il progresso può essere per tutti eassumere un significato universale. Sono ancora prime intuizioni, ma le basiper una matura riflessione sono già poste.

Il liberalismo, cui egli fa riferimento, è propositivo, nella sua impostazioneoriginaria, di istanze di grande forza epocale: la libertà, suo presuppostoetico, il principio di rappresentanza, suo fondamento politico, la nozione didiritto, conquista-simbolo della demolizione del privilegio feudale-aristocrati-co; ma Cattaneo non ne coglie il vizio strutturale, l’ambiguità intrinseca. Comesottolinea Schiattone, il liberalismo “ha in sé l’ambiguità del rapporto indivi-duo-società, attribuisce all’individuo un primato sulla società; ripone nell’ini-ziativa individuale il presupposto dell’organizzazione sociale, riconoscendoalla storia individua la componente del disegno sopraindividuale della storia”.Esso è espressione della borghesia, ceto egemone economicamente e poli-ticamente, che ha introdotto la “democrazia liberale”, ma per perpetuare ilpotere e renderlo inattaccabile, ha introdotto il principio di popolo per sanci-re, attraverso l’istituzione della delega di potere, il diritto di “espropriazionedella sua sovranità”. Cattaneo è, comunque, consapevole che la borghesianon può proporsi come unico ceto interprete dei bisogni della società e indi-vidua nella transazione la volontà di pervenire ad una interrelazione con gli

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altri ceti, di equilibrare bisogni e aspettative, interessi e necessità; un princi-pio che può apparire “velleitario perché l’equilibrio tra le forze di potere risul-ta sempre inadeguato”, ma sicuramente rispondente all’intento propositivo.Cattaneo, infatti, crede di poter “immettere”, attraverso la transazione, “unprincipio di ragione nella storia” che induca a guardare oltre gli inevitabili con-flitti, a non vedere nella rivoluzione il loro momento risolutivo, anzi l’opposto,a riconsiderare intese e accordi, sempre possibili, tra le parti in causa; checonsenta di comprendere le ragioni delle controversie, di risolverle all’internodella realtà sociale, favorendo nei contendenti la maturazione della coscien-za individuale e sociale. Un sistema transattivo è un sistema che si apre allenuove istanze, che si autoprogetta ed evolve. Altro non vede Cattaneo; e tut-tavia egli rappresenta l’unico teorico che ha considerato la transazione comela possibile via del liberalismo verso l’utopia moderna. Non ha altro con cuiesprimersi il liberalismo, se non una vaga nozione di decentramento, nonsempre chiarificatrice della natura e delle mansioni delle autonomie chegenera. Ma Cattaneo affronta questo tema, trasferisce la riflessione dal pianogiuridico al piano politico, definisce le linee di un progetto di stato che costi-tuisca per il cittadino l’espressione più alta della democrazia. Giunge così aprefigurare una federazione di stati, a precisarne le categorie costitutive,libertà e autonomia: la libertà diritto primo ed inalienabile della persona com-porta l’autonomia, “cioè l’incondizionato riconoscimento della capacità diautogoverno in ciascuna persona in ciascun popolo”, come è affermato in unsignificativo inciso di Schiattone. Esplicita in tale definizione è, come egli sot-tolinea, la relazione individuo-società, la quale riporta a dimensioni sociali ilvolere del singolo che, in ragione del “valore sociale”, raccorda la propriavolontà all’altrui volontà, non intravedendo in questo un ridimensionamentodella propria persona ma un’opportunità di espansione della propria autono-mia e libertà, in un contesto espressione, già di per sé, di tutte le potenziali-tà sociali e politiche, riassumibili nelle associazioni, nei movimenti, nei parti-ti, nelle federazioni delle arti e dei mestieri, nelle federazioni dell’industria; intutte le possibili istanze e aspettative popolari. È l’idea di “pluralismo”, che inCattaneo si carica di un forte significato utopico in quanto, così inteso, essooltre che legittimare la pluralità delle prospettive sociali e politiche e ad espri-merne, nel comune senso della reciprocità e corresponsabilità, l’ampio con-corso risolvendo l’emarginazione e la differenziazione tra ceti, rende possibi-le l’universale rappresentanza delle forze sociali. Solo allora risulta compren-sibile il processo che fa sì che la società diventi stato, che la società concre-ta, luogo espansivo della propria libertà e autonomia, si dia un governo edun’amministrazione rispondenti ai suoi bisogni. Una precisazione questanecessaria per comprendere l’avversione di Cattaneo per un sistema centra-listico-autoritario e per l’ideologia unitaristica del Risorgimento, lesivi, a suoavviso, della sovranità popolare, correttamente esprimibile invece solo nellafederazione, il cui fondamento, sul piano politico, è l’autogoverno, la capaci-tà di “autorganizzarsi e autoamministrarsi, di autorappresentarsi”; sul pianoeconomico, l’autogestione. Il rifiuto di ogni forma di omologazione, pericolo-samente avvertita da Cattaneo (e Ferrari) anche nel progetto federalista di

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Pisacane, che prevedeva per gli Stati italiani la guida dello stato sabaudo,riporta l’attenzione sul problema di come sia comune ed ovvio rapportare lasocietà allo stato, ritenere una società tale solo nella forma statuale e “inve-stire lo stato di una ragione sovrindividuale contrapposta alla ragione dei sin-goli e dei popoli”. Per Cattaneo, la società diventa stato se sceglie di autode-terminarsi, di porre a proprio fondamento l’uguaglianza e la coesistenza paci-fica, se realizza politicamente la sua autonomia, quale grado di consapevo-lezza della propria libertà, se si riappropria del potere come diritto della sovra-nità del proprio popolo e della singola persona costitutiva di quel popolo. Inquesto, il singolo membro della comunità deve avvertire il senso etico dellaresponsabilità personale che impone “una prassi virtuosa”, cioè un formarsiconsapevole alla libertà e all’autonomia, un educarsi alla cosa pubblica, allasua difficile gestione, al suo governo che è poi il governo del popolo, uncementare in sé lo spirito comunitario, nella cooperazione e nel confronto. Ilpopolo rappresenta dunque il corpo dello stato, una comunità di eguali, sullabase del diritto e della dignità della persona. Solo un governo pienamentepopolare porta alla concorde unione di entità statali, autonome nello spirito enel valore della nazione. È la federazione il naturale esito delle insurrezionipopolari contro l’Austria. L’insurrezione, e non la rivoluzione, per Cattaneocome per Ferrari, rappresenta il momento in cui il popolo, cosciente della pro-pria potenzialità “matura la rivolta, il ripudio dell’oppressione: in un sol trattosi emancipa”. Ma perché il diritto rientri nella prassi quotidiana e la parteci-pazione alla vita pubblica sia pienamente consapevole, Cattaneo ritienenecessaria quella che egli chiama “prossimità” o vicinanza fisica del cittadinoalle istituzioni, vale a dire: il controllo diretto delle istituzioni, perché agevoleè l’accostamento ad esse del cittadino, la valutazione diretta dell’operato deigovernanti, con i quali immediato e rigoroso è il rapporto, il ritiro o la confer-ma del mandato di governo, il ripristino della sovranità ad ogni sua negazio-ne. La prossimità, nota Cattaneo, richiede che lo stato sia piccolo, piena-mente identificato con la comunità che lo costituisce, con il popolo che, in unatale realtà politica, rappresenta in forma democratica, semplicemente e pie-namente se stesso; uno stato dalle dimensioni di una città e del suo circon-dario. Si arriva al punto centrale del discorso di Cattaneo, il ruolo storico dellacittà, chiaramente delineato nel suo celebre saggio La città considerata comeprincipio ideale delle storie italiane, ma anche in altri suoi scritti. Egli rico-struisce storicamente la genesi della città –seguendo il modello ateniese,quello dei comuni medievali e delle repubbliche– constata la sua forza aggre-gativa, il dinamismo produttivo e mercantile, la capacità di autoregolamentar-si, il costituirsi in essa dell’autonomia legislativa, vale a dire della democrazia(sia pure nei limiti imposti dal momento storico); essa rappresenta dunque ilnucleo originario dello stato democratico. Cattaneo dimostra che, nella polisgreca, lucido modello di comparazione, la gestione diretta dello stato ha il suopunto d’inizio nell’autonomia della città, nel livello di autogoverno che vi siafferma, nelle iniziative decisionali e deliberative delle assemblee e dei con-sigli. Pertanto, la società giusta –secondo l’accezione tipica– per Cattaneo èrealizzabile nella città. Una funzione dunque feconda, prosegue Schiattone,

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ma non considerata, nel suo giusto valore, dagli storici che hanno visto sem-pre le città come emanazione degli stati, degli imperi, mentre esse ne hannocostituito le basi. Cattaneo, su uno spunto offerto da Ferrari, capovolge il pro-cesso: lo stato promana dalle città e non viceversa. La città, ancora, è il luogodella socialità, espressione di tutti gli elementi dell’agire umano, dell’emotivi-tà, come della spinta solidale, che realizza l’armonia e la coesione tra i citta-dini; la socialità è “disvelamento continuo dell’umanità dell’uomo”. Ma, conti-nua Schiattone, l’espressione più alta della umanità dell’uomo è data dalvalore che egli potrà attribuire alla libertà, per sé e per gli altri, poiché, nellalibertà degli altri vi è “la certezza”della propria libertà. Questo costituisce ilpunto più alto ma anche più problematico della proposta cattaneana in quan-to prerogativa di tutti gli uomini e di tutti i popoli diviene il diritto alla libertà eall’autonomia che postula il principio di universalizzazione della libertà, nellacoscienza di ognuno; un principio di ragione che Cattaneo individua nella“dignità –diritto della persona, nella dignità– diritto dei popoli”, reso così effi-cacemente dall’espressione di Schiattone. In questo, il punto autenticamenteutopico della riflessione cattaneana: la libertà, quale diritto universale, si con-trappone agli abusi, alle prevaricazioni egemoniche e all’affermazione dellapotenza di uno stato sull’altro; con essa si ha il superamento della discrimi-nazione e l’apertura verso la cosmopoli, verso una cittadinanza senza confi-ni. Forte è nei popoli, come la storia attesta, un’ineludibile volontà di pace,che emerge con forza dopo ogni guerra, in ogni trattato, in ogni armistizio; iltrattato è per Schiattone, riprendendo Cattaneo, “una conquista dellacoscienza, un atto di solenne giustizia che fa ringiovanire le istituzioni”, cosìcome “la storia è un continuo dibattito sulla libertà e la giustizia, una continuapetizione”. Nel diritto alla libertà si ritrova il principio di uguaglianza, nell’a-spirazione verso la giustizia il riconoscimento nell’altro della dignità d’essere.Per questo è necessario superare ogni limite e chiusura, abbattere le frontie-re, i confini, intesi da Cattaneo, come linee di contenimento delle diverse enti-tà dei popoli, ma anche, con un’immagine pregnante, linee “sulle quali tutti ipopoli confluiscono, scambiano comunicazioni e merci”, tracciando unacosmografia in cui tutti i popoli convivono nella loro “armoniosa varietà”; cosìognuno è cittadino del mondo, ma nella singolarità della sua identità etnico-culturale. Questo il senso del cosmopolitismo di Cattaneo: il “cosmopolita habisogno di solide radici su cui fondare il proprio spirito di appartenenza men-tre si aggetta sul mondo”. L’istanza straordinaria è il principio etico dellacosmopoli che insiste nel riconoscimento della universale dignità umana,riassunta nei principi guida delle rivoluzioni, libertà uguaglianza e fraternità,non ancora pienamente inverati.

Ancora altre e profonde sono le riflessioni di Schiattone, ma non è più possi-bile addentrarsi. Il rigore critico e analitico, l’essenzialità e insieme compiutezzadelle trattazioni, la ricchezza degli spunti, delle riflessioni, dei riferimenti costitui-scono il carattere saliente del suo apporto. Gli interrogativi, come egli afferma,rimangono: traspaiono nuove categorie, l’intersoggettività di Habermas, si affie-voliscono i principi democratici, si avverte la necessità di un superamento dellefederazioni storiche verso un federalismo più umano ed emancipato.

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I “LUOGHI DELL’ANIMA” DI MARIA ZAMBRANOdi Paolo Miccoli

Maria Zambiano (1904-1991) rappresenta una voce significativa del pen-siero al femminile nel Novecento. Voce della hispanidad che si è fatta sentirein varie parti dell’Europa e del Nuovo Continente (Parigi, L’Avana, New York,Roma) a motivo del lungo esilio dal 1939 al 1984.

Personalità di spicco, ella ha fatto tesoro del pensiero filosofico del suomaestro Ortega y Gasset e del magistero di Xavier Zubiri senza peraltro pre-giudicare l’intimo sentire poetico che pervade i suoi saggi a metà strada tra let-teratura e meditazione metafisica.

Occasione del ritorno alla lettura della Zambrano è la recente traduzioneitaliana del volume L’uomo e il divino, ed. Lavoro, Roma 2001, opera di densaintelaiatura filosofica, che dialettizza il destino della civiltà europea secolariz-zata, diagnosticandola tra il Sacro perduto e una forma di surrogata divinitàantropocentrica, di cui si è appropriato l’uomo dell’Otto-Novecento in cerca disignificati per poter sopravvivere.

La lettura dell’opera in sé complessa è agevolata da una puntuale introdu-zione di Vincenzo Vitiello sulla filosofia della storia espressa dalla Zambrano eda una postfazione di Giovanni Ferraro che rivisita il percorso mistico dellaparola poetica dell’autrice.

Riteniamo non superfluo un richiamo ad altri scritti della Zambrano alloscopo di agevolare i lettori che la conoscono meno. Leggendola, veniamo acontatto con una scrittura costantemente sollecitata dalla “conoscenza poeti-ca”: un “logos embrionario” che si alimenta di umori viscerali e tende alla“conoscenza pura”, cioè al “dialogo dell’anima con se stessa” che cerca diessere ancora parola, la parola unica, la parola indicibile, la parola liberata dallinguaggio” (Chiari del bosco, trad. it. 1991).

Vita e scrittura della Zambrano sono contrassegnate dalla cifra dell’esilio.I “claros” sono stazionamenti provvisori di tappe esistenziali raggiunte e

subito abbandonate in vista di ulteriori viaggi dell’anima in cerca di luce che,tuttavia, si offre solo in episodiche radure spirituali grazie a folgorazioniimprovvise che lasciano nostalgia nell’intimo.

C’è, nella confessione talora orante di Maria Zambrano, il carisma dell’ani-ma eletta che risponde a una misteriosa chiamata e pone la sua ‘vocazione’sotto l’egida della parola poetica che impera sulla pagina e si fa eco di unacarità assoluta nei confronti del popolo spagnolo e dell’intera umanità trava-gliati e storditi dagli eventi bellici della prima metà del Novecento.

Una prosa tersa, sebbene ellittica, mette il lettore sull’avviso di non pren-dere troppo sul serio certe incandescenze nicciane o heideggeriane o marxi-ste, come pure di saper ridimensionare un misticismo locutivo sui generis che

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a volte sembra apparentarsi col linguaggio di Eckhart, di s. Giovanni dellaCroce e persino con la lettura del Vangelo.

Certo, i “chiari del bosco” richiamano, per assonanza, la ‘radura’ diHeidegger quale condizione di corrispondenza dell’uomo alla voce dell’essere.Ma nella sensibilità della Zambrano l’essere neutro di Heidegger è già avvista-to e trasposto in presenza originaria dell’Amore preveniente e trasfigurante insenso di effettiva redenzione cristiana. L’uomo esiliato, che riesce a sottrarsialle lusinghe e agli abbracci degli idoli terrestri, dispone la sua esistenziale indi-genza alle pure invadenze “dell’amore che ci concerne e ci guarda, “che guar-da verso di noi”, convocandoci all’ appello di un “sentire originale” «soltanto inqualche ‘claros’, aperti tra cielo e terra nel seno dell’iniziale vegetazione».

Ogni creatura che vive di attitudine poetica è imparentata ai ‘Beati’: «vedeo indovina la chiarezza nascosta nell’oscurità». Si appropria proletticamentedell’invisibile nel visibile proprio perché è in grado di sintetizzare fede e ragio-ne, mistica amorosa e ricerca riflessiva nel vissuto quotidiano. Il “bienaventu-rado” è simultaneamente abitante del nostro mondo e insieme di un altro. Nelvolume Los Bienaventurados (1990) si tratteggia l’identità del beato: essere disilenzio, fasciato, ritirato nella parola, distinto dal ‘santo’ che “patisce e ardeper essere beato”, giacché mira ad approdare all’identità con se stesso. Il‘beato’ è ‘ostaggio’ nel mondo, un trattenuto nell’esilio, un sofferente eppurericonciliato con la vita “a partire dalla raggiunta identità”.

Questi richiami ci raggiungono come rimbalzo di luce che si sprigiona daivari libri della Zambrano e consentono di avvicinare la riflessione filosofica piùdensa delle pagine di L’uomo e il divino, dove si dispiega una visione della sto-ria che prende le mosse dal Sacro eclissato e da un equivoco modo di tra-sporre il Divino nell’uomo ad opera del razionalismo idealistico, poi fatto esplo-dere dal nichilismo nicciano che ha riservato al Superuomo i miseri onori del-l’utopia illusoria. Gli elementi cardini del discorso possono essere ravvisatinella progressione depotenziata di tre idee: anima, coscienza, spirito. Ecconelo schema argomentativo. Il ‘luogo’ arcaico di sentire dell’uomo è l ‘anima, inte-sa come elemento turgido della vita, come “viscere” (entranas) di memoriaorfico-pitagorica ed empedoclea, come ethos e pathos dell’essere che stanella vibrazione originaria dell’Aurora. L’uomo panico si riflette nell’orizzontedel Sacro, inteso quale cifra totalizzante di delirio, di sogno, di estasi festiva.Un ‘sacro’ che può essere avvertito anche in forma dionisiaca e tragica, mache trova le sue più congrue modalità esperienziali nella realtà femminile, lacui alta cifra simbolica è rappresentata dall’Antigone di Sofocle. Suggestiva lariflessione della Zambrano su La tomba di Antigone (ed. originale 1967).

L’umanità, rivisitata archetipicamente affonda le radici nella ingens sylvadel caos preistorico, da cui emergono troppo tardi gli ardimenti della trage-dia greca. Dunque un Sacro pagano, più che biblico, quello della scrittricespagnola. Un sacro naturalistico che troverà volto composto solo nella rive-lazione cristiana.

L’uomo moderno sta, invece, sotto il segno della coscienza razionalistica cheha già trasposto il delirio panico in certezza psicologica col cogito cartesiano.

La ragione cogitante pensa il divino cioè l’idea di infinito, e ne tira le con-

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seguenze, deducendo e calcolando persino la divina geometria del mondo, delmigliore dei mondi possibili. Trasposto in chiave filosofica, il divino si presen-ta come traccia illanguidita del Sacro archetipico.

Il delirio di onnipotenza della coscienza riflessiva ha infine raggiunto ilparossismo logico-dialettico con l’idealismo hegeliano che ha trascendentaliz-zato lo spirito (Geist ). Uomo, mondo e storia vengono ormai identificati inun’avventura dialettica inarrestabile all’insegna del protagonismo storico-eticodella Libertà del genere umano. Che cosa ha guadagnato l’umanità con l’e-splodere luciferino dell’orgogliosa conoscenza onnicomprensiva? Il dolenteprivilegio di un “occhio di troppo” e la deplorevole “nudità’” del “re mendico” incerca della propria identità. L’uomo della trasgressione si ritrova nella condi-zione di Edipo accecato, che ha bisogno di guida. Siamo nel cuore dellamodernità che ha obliato le Origini e si sforza di infrenare “l’invidia” nell’infer-no terrestre.

La via della redenzione additata dalla Zambrano nel suo stimolante saggiodi filosofia della storia e della cultura passa attraverso una forma peculiare diriappropriazione della Vita (vitalismo orteghiano) all’insegna della pietas che ciconsenta non tanto di conoscere ma di patire le cose come dolce carezza enon come algidi fantasmi. Riappropriarci delle cose con larica sollecitudinechiama a raccolta fede e ragione nella direzione operativa dischiusa dal cri-stianesimo, che dispiega l’insegnamento sapienziale più alto nella rivelazionedell’amore quale pedagogia del “saper trattare l’altro”. Alla luce dell’amoreevangelico la theorìa greca, sapienza umana troppo umana, va integrata conla dimensione mistica e poetica del sentire la Vita quale energia trasfigurantee additamento di destino umano che trova l’ultima e intrascendibile risorsa disenso nella misteriosa realtà del Dio-Amore.

Si spiega così anche la legittimazione mistica dell’angoscia e del sacrificio inseno alla religione della Vita che è vittoria luminosa di Gesù Cristo sulla morte.

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PER GIUSEPPE MUCCIARELLIPOSITIVISMO PSICOLOGIA E STORIA

di Girolamo De Liguori

Due convegni, promossi rispettivamente dalla Facoltà di Psicologia, sededi Cesena, e dal Dipartimento di Psicologia della Università di Bologna, hannointeso ricordare in modo costruttivo l’attività di ricerca, di organizzatore edito-riale e di coordinatore di studi del compianto Giuseppe Mucciarelli, psicologoprofondamente impegnato nella ricerca sia metodologica che storiograficadella sua disciplina. Il primo, dedicato specificamente a “Le biografie tra psi-cologia e storia”, si è tenuto a Cesena il 30 novembre 2001. Si è discusso dibiografia e autobiografia, di biografia e storiografia, dell’essere e del farsiuomini nell’Ottocento, di autobiografia e teorie psicologiche, di false autobio-grafie e meccanismi dissociativi, di memorie individuali e collettive e financhedi storie di vita, di uomini e donne fra guerra e resistenza. In definitiva, si èvoluto portare l’attenzione sul tema, particolarmente caro allo studioso scom-parso, della continua intersezione tra psicologia e storia e sviluppare, in chia-ve operativa piuttosto che sterilmente commemorativa, l’impegno interrotto diMucciarelli, psicologo e storico, attento alle frequenti connessioni disciplinarinel vasto campo della ricerca sul comportamento e le interrelazioni.

Il secondo convegno, tenutosi il 24 maggio 2002 a Bologna, è stato dedi-cato a “Problemi di storiografia e di epistemologia della Psicologia” ed haavuto relatori Renzo Canestrari, Riccardo Luccio, Guido Cimino, LucianoMecacci, Nino Dazzi, Sergio Cesare Masin, concludendosi con una tavolarotonda condotta da Marco W. Battacchi sulla identità metodologica della psi-cologia. Dei rapporti tra Etologia e psicologia avrebbe dovuto riferire StefanoParmigiani che per ragioni di forza maggiore ha dovuto disertrare l’incontro.

Dopo un breve profilo dello scomparso, tracciato con viva intensità, il prof.Canestrari ha ricordato le sue doti di impareggiabile ricercatore, meticoloso eaperto nelle scelte di campo; di docente sempre disponibile nella sollecitazio-ne e nel dialogo con gli studenti, ma anche la sua instancabile attività nell’edi-zione di testi poco noti, nella ricostruzione delle origini della psicologia italia-na, tanto da farne un polo di costante riferimento per gli storici non soltantodella disciplina quanto anche della filosofia, della scienza, della antropologia edella critica letteraria.

Sono quindi seguite le relazioni su quattro fondamentali momenti concer-nenti la storia della psicologia, connessa al problema epistemologico della pro-pria legittimazione metodologica.

Riccardo Luccio si è soffermato in modo particolare sui problemi di storio-grafia psicologica, mettendo in evidenza metodi errati e strade da evitare nelcampo della ricostruzione storica. Una pars destruens, la sua, di particolare

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finezza argomentativa e di acutezza filologica che ha messo l’accento sullanecessità dell’inedito, degli epistolari e dei carteggi, esemplificando e nonmancando di avvertire le difficoltà che si incontrano nel complicato percorsoricostruttivo sia di profili intellettuali di psicologi che di tematiche specificheriguardanti teorie e tecniche diagnostiche. Ha, tra l’altro, avuto il merito dirichiamare il nome di Felice Tocco, pur non lesinando critiche alla NadiaUrbinati che, nel 1984, ne avrebbe riesumato un Manuale scolastico “con uncommento –dice testualmente il Luccio– acritico e colmo di franche corbelle-rie”. Le critiche non vengono lesinate neppure al testo del Tocco, definito “ba-nale, bisognoso di molte correzioni che Tocco stesso ritenne di non pubblica-re”; operazione che, francamente, avrebbe fatto torto allo stesso autore, delresto uno dei maggiori, se non il maggiore, storico della filosofia che l’Italiaabbia avuto tra Ottocento e Novecento.

Senza volere entrare nelle convinzioni del relatore, va osservato che ilmanoscritto, reso noto dalla Urbinati, era non più che la bozza di letture di psi-cologi, in particolare tedeschi, e che il suo valore sta tutto nel fatto che docu-menta la buona informazione e la considerevole attenzione di un filosofo ita-liano di quegli anni ai più avanzati sviluppi della psicologia sperimentale e nonnella originalità sua di teorico della psicologia. Soprattutto se si tiene presen-te quanto, di lì a qualche anno, tali studi sarebbero stati avversati e sconside-rati dal trionfante neoidealismo; tanto che lo stesso Tocco avrebbe espresso ilsuo dissenso da Croce in termini che resta comunque merito della Urbinatiavere ricordato: “il Croce ed io, parlanti due lingue diverse, non potremmointenderci neanche a segni. Egli disdegna altamente la psicologia empirica, io,per l’opposto credo che una filosofia dello spirito senza una larga esperienzae psichica e storica non possa essere se non una bolla di sapone” (Cfr. N.Urbinati, Un manuale inedito di F. Tocco, Atti e memorie dell’Accad. toscana discienze e lettere “La Colombaria”, Firenze, 1984, pp. 193-225).

Guido Cimino ha presentato una sorta di carrellata sulla storia della storio-grafia in Italia negli ultimi trent’anni, relativamente alla psicologia nelle sueconnessioni con la storia della scienza, ricordando il ruolo giocato dalMucciarelli in questo campo di studi e leggendone la posizione raggiunta comeun superamento ed un arricchimento di prospettiva rispetto a precendentiinchieste storiografiche della disciplina in Italia dalle quali emergeva unaimmagine sostanzialmente negativa se non del tutto fallimentare –almeno seci si ferma al 1981, anno della diagnosi di Sadi Maharaba nel noto volume,Lineamenti di storia della psicologia italiana.

L’esigenza del resto di quella che viene chiamata storia esterna della psi-cologia (in realtà la leggittima istanza di riportare la psicologia alla sua stessastoria che fu quella di relazioni con altre discpline, anzi di faticosa gestazioneall’interno di statuti disciplinari che la tennero a battesimo, per così dire, dallafilosofia all’antropologia, dalla medicina alla neurologia, ecc.) era stata sentitadagli stessi padri fondatori della psicologia in Italia, da Giuseppe Sergi adArdigò, da Enrico Morselli a Bonaventura a Ferrari a De Sarlo, autori in cui fuevidente il travaglio di trovare il terreno sul quale dichiarare l’autonomia delladiscplina dalle sue matrici storiche.

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Mecacci, in un intervento del tutto originale, ha trattato dell’idea di mentecome spazio: contro l’abusata prospettiva dualistica di uno spazio tutto esteso edi una mente (pensiero) inestesa, secondo l’archetipo cartesiano di res extensae res cogitans. In realtà, quella di Cartesio, era una metafora: la metafora dellamente come spazio; e la sua eterogenità rispetto al corpo, come puro spazio,era data soltanto dalla sua indivisibilità di contro alla divisibilità della corporeità.La mente, in definitiva, era un modo per indicare una complessità di funzioni e,implicitamente, una sua scomponibilità non disgiunta dal luogo dove pur do-vevasi collocare. L’assoluta contrapposizione tra spazialità e mente, infatti, nonresse a lungo nella tradizione del pensiero moderno. Già Leibniz escogitò ilmodello del mulino per raffigurarla: una sorta di macchina che, pur non spie-gando come avvenga la percezione, ne mostrerebbe almeno gli ingranaggi. Delresto, tale immagine era stata preceduta da quella del teatro cartesiano: ungrande scenario interno, complesso e variegato, che è un po’ l’antefatto dell’in-terno della coscienza freudiana: un conscio e inconscio che sono come due vanidi un unico appartamento. Essa non ha un suo luogo ben determinato: non ècostituita di neuroni; perciò le teorie della localizzazione cerebrale le restanoestranee, come un ramo secco della evoluzione del concetto stesso di mente.Ha tuttavia una sua spazialità costituita da molti spazi: una sorta di scatola neradella esistenza, non fuori dello spazio ma connessa alla fisiologia del corpo,tanto da far dire a Freud che “la mente è estesa ma non lo sa”.

Il Masin ha tracciato una storia molto tecnica della psicofisica, da Fechner edalla legge di Weber ai nostri giorni, suscitando interventi e consentendo unserrato incontro con alcuni studiosi convenuti tale da arricchire la tematica pro-posta. Nino Dazzi, dal canto suo, ha offerto, da storico della psicologia, unainteressante trattazione delle somiglianze ma soprattutto delle differenze tradue cospicui protagonisti della psicologia tra Otto e Novecento, William James(1852-1910) e Karl Stumpf (1848-1936). Il raffronto gli ha offerto, in pari tempo,l’agio di ricordare la posizione che Giuseppe Mucciarelli aveva conquistatoanche tra gli storici della psicologia italiana; e su tale questione vorrei riportareuna mia più personale esperienza –della quale un rapido cenno avevo fatto,come testimonianza d’affetto e di stima, al convegno di cui si discute.

“Il contributo offerto dai pensatori del positivismo in Italia alla affermazionedella psicologia come scienza autonoma”. Questo il tema che con l’autoreavevo personalmente discusso e progettato di portare avanti, con sondaggistorico-critici circostanziati, tra gli anni 1986 e 1988. Ne sono testimonianzaalcune sue lettere che conservo e alcuni spunti che trapelano da suoi inter-venti di presentazione dei fascicoli della rivista da lui diretta e voluta, “Teorie eModelli”. Il progetto, per quel che riguardava la mia collaborazione, si arrestòa due contributi sulla polemica intorno alle teorie del parallelismo in Italia, usci-ti su “Teorie e modelli”, nell’ ’86 e nell’ ’87. Ma, dopo una lunga interruzionedurata più di un decennio, il nostro dialogo era ripreso; tanto che lo stessodirettore, nel presentare il numero doppio 1-2 del 2000, dichiarava con la chia-rezza che gli era consueta, di voler “dedicare spazio in modo sistematico allapubblicazione di lavori che riprendano argomenti “classici” della storia dellapsicologia in Italia ed allo studio di pensatori e di movimenti che sono stati tra-

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scurati e sottovalutati”. E, introducendo il mio nuovo articolo su Tito Vignoli,esplicitamente prometteva di “pubblicare in un prossimo numero materiale ine-dito del Vignoli […] con l’obbiettivo di ripubblicare alcune sue opere nellaCollana Classici della Psicologia Italiana edita da Pitagora Editrice e che rap-presenta una sorta di prolungamento dell’attività scientifica della rivista” (cfr.Premessa, in “Teorie e Modelli”, V, 1-2, 2000).

Una serie di circostanze, tra le quali, più pesante e irrimediabile, la mortedel nostro amico e, in più, del nipote di Tito Vignoli il dottor Antonio Cipollini,mi impedirono di portare avanti il disegno di completare definitivamente i mieistudi sulla figura e l’opera di questo positivista, con la pubblicazione di lettereinedite di suoi corrispondenti e la ristampa con introduzione e note delle suedue opere maggiori, interessanti la psicologia.

Se ben ricordo, del resto, il mio interesse specifico per Vignoli era nato pro-prio dalle nostre prime conversazioni, durante una pausa estiva nelle campa-gne pugliesi, nelle quali egli mi aveva confidato di volere riproporne alcunisaggi come Mito e scienza e La legge fondamentale dell’intelligenza nelmondo animale, testi che io avevo incontrato in quegli anni in cui andavofacendo indigestione di postivisti italiani di varia estrazione. Trascurati del tuttoin Italia, li avevo trovati citati nell’opera di Ernst Cassirer e nella biografia diWarburg scritta da Gombrich, nonché negli interventi censori del padre Previtie di “Civiltà Cattolica”, negli anni Ottanta del secolo XIX.

L’ipotesi storiografica che premettevo a tale ripresa del lavoro, era chequanti in Italia, tra la fine del secolo XIX e l’inizio del XX, si ponevano la com-plessa questione della fondazione dello statuto della psicologia collegavanosempre questa all’antropologia. Quanti sostenevano, contro vecchie preclu-sioni metafisiche o pregiudizi religiosi, l’autonomia della psicologia comescienza –sovente contro i gesuiti che, guarda caso, individuarono prontamen-te in Tito Vignoli un nemico della recta ratio, accusato di invocare autori stra-nieri e di indicare nella sperimentazione la risoluzione di problemi che soltan-to religione e filosofia, assieme coordinate, potevano impostare e corretta-mente provarsi a risolvere– tutti indistintamente, ritenevano che una correttafondazione della psicologia dovesse sottendere una nuova antropologia. Sutale terreno della stretta connessione tra psicologia e antropologia si impe-gnarono medici, fisiologi, neurofisologi, filosofi, antropologi: da Mantegazza aLombroso, da Sergi a Vignoli, da Ardigò a Morselli, da Canestrini a Livi, aTamburini, a Luciani, a Mosso, a Golgi, a tutto il fronte variegato e tormentatodella cultura scientifica di ispirazione positivistica dei primi decenni del secolo.Quello che si chiamò o si individuò polemicamente come “positivismo” non fuperciò una scuola di filosofia; ma più semplicemente (se non soprattutto) unnon sempre concorde schieramento di studiosi che, tra errori e tentativi fretto-losi di sintesi, cadute scientistiche e appiattimenti meccanicistici, tenne unafrontiera, contro le fughe idealistiche, in favore delle scienze dell’uomo, comescienze sperimentali. Grazie a Buccola, De Sarlo, Moleschott, Adolfo Faggi, ei già ricordati Sergi, Ardigò, Morselli fino a Piero Martinetti (filosofo, si badi,metafisico!) i nomi di Darwin, di Spencer, di Helmoltz, di Lotze, di Fechner, diWundt, di Mach, non furono richiami retorici; e i problemi della percezione, del

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rapporto mente-corpo, connessi alle questioni di neurologia, della scopertadella cellula prima e del neurone poi, cessarono di costituire campo chiusodegli anatomo-patologi da un canto e dei metafisici dall’altro, per diventareaspetti osservativi sistematici di una nuova metodologia di ricerca e analisi cheavrebbe portato alla fondazione della psicologia scientifica.

Certamente la connessione tra le due discipline comportava dei rischi,primo tra tutti quello, subito individuato e combattuto in Sergi, ad es., Morselli,Lombroso e compagni, del riduzionismo materialistico; ma per buona parte deinostri positivisti tale legame significava mantenere la nuova disciplina dei com-portamenti al riparo dalle prevaricazioni della metafisica spiritualistica cheintendeva riportare l’origine del pensiero e dei fatti psichici nonché dei com-portamenti in generale sotto la tutela della teodicea. L’antropologia significavauna nuova concezione dell’uomo, evoluzionistica, progressiva, non antropo-centrica, che legava l’essere umano agli animali e quindi all’universo in unascala ascendente senza soluzioni di continuità. Essa consentiva di leggere ifenomeni psichici come espressione complessa delle funzioni naturali e noncome manifestazioni di forze soprannaturali, spirituali o divine. Antropologiaera anche, di volta in volta, filosofia della natura e fisiologia; anatomia patolo-gica e fisiologica; era costruzione teorica di una immagine di essere umanobasata sui progressi della neurologia, sulle osservazioni degli esploratori, suidiari e i dagherottipi riportati dai viaggiatori in Asia, in Africa, in Oceania, inBrasile; sulle prime incerte conclusioni comparative di tratti somatici e com-portamenti di popolazioni da poco avvicinate e osservate; e, infine, sui turba-menti, sia pure, o, talvolta, l’agnosticismo che prendeva i ricercatori che pro-vavano ad avventurarsi in quei campi ancora oscuri degli organi di senso e delcervello in particolare che avrebbero costituito, tra non molto. il terreno di col-tura delle future neuroscienze.

Chi vorrà riprendere quest’ordine di ricerche storiche, del resto sempre fon-damentali per ogni nuovo impegno teorico nel campo della psicologia comedella storia della scienza, dovrà ricominciare da dove a Giuseppe Mucciarellinon è stato più consentito di procedere oltre.

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I LINGUAGGI DELLA RICERCA STORICA:I VOCABOLARI DI BRAUDEL*

di Sandro Ciurlia

I. Il nome di Braudel è soprattutto legato alla proposta di una storiografiaresa in grado d’indagare i “processi di lunga durata”, svincolata dai rigidi crite-ri di ricerca della tradizionale indagine storica di tipo evenemenziale. “Il tempoè come l’oceano”, ha dichiarato una volta lo storico francese: in superficiescorrono i fatti che caratterizzano lo sfuggente moto ondoso della cronaca; inprofondità sfilano le correnti responsabili degli equilibri di “lunga durata”. Lastoriografia di Braudel si è sempre mossa tra questi due estremi, nel tentativod’individuare i compositi ordini di configurazione dei fenomeni storici. Quellabraudeliana non è solo, però, una rivoluzione metodologica in storiografia. Èanche un’incessante ricerca volta a combinare metodi e linguaggi. Aggredire ifatti, disporsi a far luce sui processi storici significa dotarsi di un linguaggioteso ad isolare il singolo evento, immergendolo nel contesto di cui è espres-sione. Come può lo storico con il suo linguaggio attraversare il tempo, peri-metrare un’epoca, fare i conti con i vari livelli di profondità dell’oceano dellastoria? A tale interrogativo tenta di offrire una risposta Giovanni Mari in questovolume dedicato all’opera del massimo esponente della storiografia annalisti-ca e, in particolare, allo studio dei livelli linguistici della sua monumentalemonografia, pubblicata nel 1949, dal titolo La Méditerranée et le Monde médi-terranéen à l’époque de Philippe II.

Mari si propone, sin dalle prime battute, sia d’introdursi nel “laboratorio les-sicale” dello storico transalpino, sia di penetrare la sua concezione filosoficadella storia. Tutto ciò nel tentativo di ricavare un piú ampio significato cultura-le dalla rivoluzione storiografica degli annalisti. Il punto di partenza dello stu-dio è l’analisi della Prefazione braudeliana a La Méditerranée, dove Braudelspiega come il libro si articoli in “tre parti”, ciascuna delle quali costituisce un“tentativo di spiegazione a sé” (p. 15). Il primo tipo di spiegazione a cui si allu-de è quello relativo ad “una storia quasi immobile, quella dell’uomo nei suoirapporti con l’ambiente”; il secondo si riferisce ad una “storia lentamente rit-mata […], quella dei gruppi e degli aggruppamenti”; il terzo si lega alla tradi-zionale “storia événementielle”.

Il risultato piú immediato di tali distinzioni consiste nell’aver scomposto il

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* A proposito di G. MARI, I vocabolari di Braudel. Lo spazio come verità della storia, LucianoEditore, Napoli 2001, pp. 184. Le pagine delle citazioni tratte da questo libro sono indicate, nelcorpo del testo, in parentesi tonde.

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“tempo della storia” in “un tempo geografico, un tempo sociale, un tempo indi-viduale” (Ib.). In questo modo si scinde “l’uomo in un corteo di personaggi”. Leesigenze di ricerca e la progressiva analisi delle questioni potranno portare–avverte Braudel–, “strada facendo”, a “passare dall’uno all’altro” di questipiani della spiegazione storica. Ne discenderà “una storia vivente e necessa-riamente una”. Questo tipo di storia configura, in realtà, non tanto un superio-re piano ontologico, sintesi dialettica dei precedenti, quanto un orizzonte, unideale regolativo di tipo metodologico per comprendere le tante dimensionidell’azione umana immersa nel tempo, per far interagire i singoli nuclei disenso perseguiti da ciascun tipo di spiegazione: difesa ad oltranza, dunque,dell’unità della storia e del pluralismo storiografico.

In verità, ogni piano della ricerca si compone di brevi, ed altrettanto com-plesse, “storie trasversali” (p. 19), che tocca allo storico legare, combinare,cogliendo nessi ed analogie tra gli eventi, allo scopo di ricostruire e di descri-vere l’identità dei fatti e la policromìa degli sfondi. In questo senso l’unità dellastoria costituisce, per Braudel, “la totalità delle connessioni comprese” (Ib.) esi individua nello spazio che le ha rese possibili, nella fattispecie in quel cro-giolo di civiltà qual è stato il mondo mediterraneo. Ora, se i tre modelli di sto-ria sono stati presentati come “spiegazioni a sé” in qual modo dev’essere inte-so il suddetto piano della “storia vivente e necessariamente una”? (p. 17).Come si può osservare, i problemi raccolti in quest’impostazione sono molti efa bene Mari a giustificare il proprio libro come un lungo “commento” (Ib.) dellaPrefazione metodologica dell’opera braudeliana. Da essa emergono sia unadichiarazione di principio, sia un’evidente filosofia della storia protesa a ridefi-nire la natura dei rapporti tra le categorie storiche di spazio e di tempo.

A giudizio di Mari, per gettare luce sulla stratigrafia dell’opera di Braudel ènecessario, dunque, far luce sui suoi linguaggi. A tale scopo, l’autore non esitaa prodursi in un approccio “analitico” al problema al fine di consentire al signi-ficato nascosto tra le righe della suindicata Prefazione braudeliana di espri-mersi. Mari utilizza, anzitutto, la nozione wittgensteiniana di “gioco linguistico”,secondo la quale “il significato di una parola è nel suo uso linguistico”, essen-do ciascun gioco “una forma di vita”, un mondo a sé. Cosí, dichiaraWittgenstein, “quando comprendiamo il significato di una parola […] lo affer-riamo di colpo”1. Ne conseguono due risultati: è possibile considerare sia le tre“spiegazioni a sé” cui allude Braudel come altrettanti “giochi linguistici”, sia la“storia vivente e necessariamente una” come il momento della “comprensio-ne” e dell’esplicitazione di una certa visione del mondo.

Ciascuna delle dette “spiegazioni” –s’è detto– è legata ad un vocabolario.Parafrasando Rorty2, Mari intende per vocabolario “i giochi linguistici cometotalità” (p. 26). Quella di Braudel è stata un’autentica rivoluzione linguistica instoriografia grazie all’uso continuo di tropi tesi ad investire di senso quellespiegazioni “strada facendo” che possono risultare tanto illuminanti nel corsodella ricerca. La metafora non appartenendo, nel suo uso letterale, ad alcunvocabolario, forza il consueto assetto semantico del linguaggio e gioca con igiochi linguistici: distorce ed amplia, cosí, significati consueti e condivisi; spes-so “irrompe in un vuoto”, fino a proiettarsi sul “teoreticamente impossibile”3,

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rendendolo logico e coerente. La conseguenza piú diretta consiste, comun-que, nell’ampliamento dell’area semantica di un dato termine.

Secondo lo stesso schema, Braudel utilizza ed interseca i propri vocabola-ri, legati alle dette “spiegazioni a sé”, mentre l’uso ingente della metaforaoccorre a penetrare, attraverso il linguaggio, i tanti coni d’ombra del passato,cambiando registro, modulando toni, recingendo di nuovo senso gli spazi,ridefinendo la rettilineità del tempo in relazione a quel piccolo universo qual èl’area mediterranea ai tempi di Filippo II. In tal modo, si pone assieme una sto-riografia finalizzata a contemperare le tante anime di un’epoca con l’unità delsuo senso; un’unità sintesi del molteplice, che non si riduce dialetticamenteall’Uno, ma che vive della sua stessa varietà in seno ad un impianto unitario,conseguito mediante l’apporto dei risultati delle ricerche di varie discipline limi-trofe alla storia. In questa maniera, il mondo mediterraneo esprime tutta la suaricchezza di forme e si dimostra un nucleo di civiltà in cui si sono codificatiequilibri compositi, tali da condizionare in modo duraturo i futuri assetti dell’in-tera Europa.

Rimane in piedi un punto di enorme rilievo: nell’opera di Braudel, la ricercadi un significato complessivo della storia non compromette il valore dell’inda-gine evenemenziale perché convivono, nella sua produzione, i momenti dellacomprensione e della spiegazione. Pertanto, l’evidente presenza di una filo-sofia della storia non preclude la possibilità di immergersi nelle abissali pro-fondità dell’oceano del passato, vagliandone le increspature superficiali e leforti correnti che ne alimentano il moto nel profondo. L’utilizzo di vari vocabo-lari, cioè di termini significanti legati da sostanziali “somiglianze di famiglia”4,garantisce un adeguato scandaglio della superficie nascosta di quello spazio.Nel caso dell’opera braudeliana del 1949, i “tre piani” dell’indagine si leganoad altrettanti approcci linguistici, ciascuno sorretto da un vocabolario: quellodell’“ambiente”, quello dei “destini collettivi” e quello degli “avvenimenti”, a cuiMari dedica i tre capitoli centrali del libro.

Nella prima parte di La Méditerranée, Braudel significativamente pone l’ac-cento sull’ambiente geografico. Trova qui applicazione la teoria della metafo-ra prima evocata. Il vocabolario ambientale braudeliano opera una sorta dicontinua trasmigrazione linguistica dalla geografia alla storia: utilizza, infatti,termini designanti la morfologia fisica del territorio per disegnare nuovi sentie-ri di ricerca. Un esempio è costituito dall’utilizzo traslato del termine “istmo”.Quest’ultimo, nel linguaggio ordinario, indica una lingua di terra che mette incomunicazione ampi territori. Questi luoghi, in Braudel, divengono ponti dipassaggio di civiltà, “attori” della storia, strumenti attivi di trasmissione di tra-dizioni, di significati, di cultura. L’istmo diviene, cosí, “un fattore di unità, dicomprensione unitaria di mari, popoli, azioni e terre” (p. 44): ciò accade in rela-zione agli istmi russo, polacco e tedesco.

Un simile utilizzo metaforico del vocabolario della geografia permette dicogliere il sorgere delle civiltà nelle loro relazioni “durature” con l’ambiente, ilquale diviene, a sua volta, un “attore” di “irradiamento” delle culture dei popo-li, condizionandone gli spostamenti, gli scambi commerciali, l’economia. Laciviltà, in tal modo, letta nella “lunga durata” del suo manifestarsi, fa i conti con

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l’ambiente, rende flessibili i suoi confini, li lega allo spazio e non solo allo scor-rere del tempo. Lo stesso discorso vale per la trattazione braudeliana dellenozioni di “montagna” (per traslato da intendersi come una forma di ‘rifugio’),di “deserto” (la cui implacabilità richiama la ferrea fedeltà al dogma religiosotipica del mondo islamico), di “isola” (da leggersi come un luogo chiuso esenza confini dove si concentrano vita e storia) o di “mare” (inteso come lospazio in cui sorge la civiltà mediterranea).

La nozione di Mediterraneo costituisce, inoltre, un’unità umana, un puntod’“incontro” tra varie linee di forza; un mondo che finisce col diventare il mondolungo cui si snodano e si esprimono i destini della modernità. In questa manie-ra, si assiste alla creazione di un “vocabolario “geostorico”” (p. 66), volto adescrivere il rapporto tra evento ed ambiente. Quella ambientale rappresenta,dunque, una delle citate “spiegazioni a sé”. A sua volta, la tropizzazione del lin-guaggio geografico conduce a costituire una prima forma, ancorché provviso-ria, di unità della storia, colta attraverso la costituzione di un vocabolario fattodi strumenti linguistici che “permettono di parlare di cose di cui precedente-mente non si riusciva a parlare nello stesso modo […] e soprattutto congiunta-mente” (p. 68). Diviene possibile realizzare, cosí, quei passaggi di piano volti acompiere quelle “spiegazioni” trasversali resesi disponibili “strada facendo”, allequali Braudel si era riferito nella Prefazione alla sua opera maggiore.

Ma che tipo di relazione sussiste tra la prospettiva della spiegazione stori-ca e l’utilizzo delle unità linguistiche dei vari vocabolari di senso? ChiarisceMari: “La spiegazione è guidata dalle metafore, non le spiega […]. La spiega-zione interviene dopo che la metaforizzazione ha già predisposto l’unità disenso e si sofferma solo su alcuni aspetti di questa” (p. 69). In altri termini, lametafora sollecita il linguaggio a configurare orizzonti unitari a tutto vantaggiodel momento della spiegazione, il quale, invece, “illustra il significato dellametafora” (Ib.) e ne utilizza l’avanzamento di senso nel frattempo conseguitoper risolvere certi quesiti e porne altri. Se, viceversa, il momento logico dellaspiegazione fosse a fondamento dell’uso metaforico dei vocabolari si perde-rebbe di vista l’attività storiografica di illustrazione della testimonianza e deldocumento appartenenti ad un altro presente. La capacità, insita nella cate-goria della spiegazione, di far uso delle varie risorse del linguaggio rende laricerca storica un’impresa critica.

II. Oltre al vocabolario dell’“ambiente”, Braudel propone un altro tipo di“spiegazione a sé”, quella relativa al vocabolario dei “destini collettivi”. Si trat-ta di una sezione della ricerca di Le Méditerranée che si occupa dell’analisi deiprocessi socio-economici posti a determinare gli assetti di una civiltà com-plessa qual è quella mediterranea del Seicento. “È chiaro –sottolinea Mari–che [qui Braudel] crea un vocabolario dai confini lessicali meno precisi e uni-formi di quelli del vocabolario dell’ambiente, ma in compenso in grado di par-lare e di riportare sullo stesso piano una maggiore varietà di accadimenti” (p.74). In questo modo, si persegue la costituzione di un vocabolario finalizzatoa descrivere i caratteri di un’intera epoca senza che, con ciò, esso assuma icrismi di una sorta di meta-vocabolario finalizzato a descrivere la “globalità”

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degli eventi. Si rende possibile cogliere, cosí, “la misura del secolo” dai gran-di spostamenti finanziari, dallo studio dei traffici di spezie e di metalli preziosi.In quest’aspetto “non vi è alcun segno di una considerazione fondativa dei fattieconomici” (p. 82), ma solo l’applicazione di quel programma storiografico diricerca volto a rintracciare i fattori che determinano l’evolversi dei processicomplessi. L’economia è tra questi.

Infatti, non si tratta solo di tenere conto delle dinamiche finanziarie tardorinascimentali, quanto di osservare come lo spazio storico definisca il proprioassetto attraverso la valutazione del fattore economico. L’economia regge lesorti di un’epoca come fattore coagulante e come “misura” di un tempo, nonconfigurandosi alla maniera di una “categoria strutturale” della storia: in que-sto consiste l’elemento metodologico di differenziazione tra l’approccio brau-deliano e quello di un qualunque storico marxista. L’economia, dunque, comeparte integrante del “vocabolario dei destini collettivi”. Lo stesso si può dire perla politica, l’etnografia, l’analisi sociale e la storia delle battaglie. In relazioneal primo aspetto, Braudel tratta la vicenda della formazione dei grandi “colos-si politici”. La loro “lunga evoluzione” conduce alla costituzione degli imperi,quelli turco e spagnolo. Quando parla di civiltà, invece, Braudel intreccia i pro-pri percorsi di ricerca con quelli dell’etnologia, secondo un piano programma-tico teso ad intersecare l’ordine dell’indagine storiografica con quello delladescrizione delle condizioni complessive della vita civile. Si costituisce, in talmodo, la nozione di “spazio lavorato”, vale a dire riccamente tramato di sensoin quanto luogo di convivenza civile e culturale tra gli uomini. Calato in que-st’ottica, lo storico si mette nelle condizioni di osservare “permanenze” ed epi-fenomeni, seguendo i “piani” delle sue indagini.

Nella Parte terza di La Mèditerranée, Braudel discute gli sviluppi deglieventi relativi al periodo del regno di Filippo II e mette a punto un terzo tipo di“spiegazione a sé”, legato alla costituzione di un “vocabolario degli avveni-menti”. Lo scorrere degli eventi è dominato dalla complessità dei meccanismidi lunga durata e dalle singole azioni degli individui: che rapporto c’è tra que-sti due poli? Ad un simile interrogativo Braudel offre una risposta nella conclu-sione dell’opera. A suo giudizio, isolare uno dei due aspetti è deleterio. La sto-ria non è fatta né solo dagli “uomini”, né solo da “forze massicce”.Ciononostante, la libertà individuale, la sagacia e la prontezza dell’intuizionehanno il loro peso nel condizionare, in seno a certi processi, l’apertura delle“pesanti porte” della storia. Al riguardo, Braudel pensa a personaggi quali donGiovanni d’Austria e Pio V. Mari suggerisce di denominare tali figure “individuisuper-evenemenziali” (p. 136), perché collocati ““oltre” il tempo degli avveni-menti”, capaci di “forzare il corso degli eventi” (p. 137). Ben oltre lo stessoFilippo II, Solimano o Dragut, alla volontà dei due detti protagonisti si deve l’a-ver forzato l’ordinato circuito degli avvenimenti: sono, questi, alcuni degli ele-menti “trasversali” che lo storico può analizzare “strada facendo”.

L’individuo super-evenemenziale è spesso legato ad un fenomeno di ‘rot-tura’, frutto della sua prorompente personalità. Vi sono anche, però, perso-naggi o avvenimenti per cosí dire di contesto, la cui caratura storica comecapacità d’incidere sugli eventi tocca allo storico stabilire, e che assumono un

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valore per lo piú contingente. In questo scontro tra “profondità” e “superficie”si gioca la dialettica della storia. Secondo Mari, Braudel pare assumere unatteggiamento “doppio” (p. 151): per un verso preferisce privilegiare lo spazioentro cui gli uomini agiscono e le cose accadono; per l’altro s’avvede di come“la storia [sia] l’immagine della vita in tutte le sue forme”, ridando tono, in que-sta maniera, all’evenemenziale. La storia, infatti, è una sorta di “gioco di spec-chi” (p. 153) tra la volontà individuale che contribuisce a determinare il profilodell’evento ed i processi entro cui quest’ultimo si specifica in una continua lottaper il “riconoscimento” della propria identità. Entro questa prospettiva finaliz-zata a legare l’accadimento e l’azione dell’individuo alla lunga durata della sto-ria tende a configurarsi un’idea complessiva di storia in grado di combinare idue aspetti (gli “uomini” e le “forze” della storia), senza arrivare a far leva suun télos, come accadeva nelle grandi prospettive storicistiche della tradizione.Torna qui il tema dell’unità della storia e dello spazio come sua unica verità.

III. La Méditerranée –s’è detto– è un’opera nella quale confluiscono reso-conti, approcci trasversali, passaggi di piano “strada facendo”, verso una “sto-ria vivente e necessariamente una” che ha come protagonista uno spazio, ilmondo mediterraneo, lungo cui si snoda una civiltà complessa e dai tanti volti,quella dell’età di Filippo II. Secondo il ragionamento induttivo di Mari, si puòconcludere che, nello studio di Braudel, “una certa idea [di spazio] è la veritàdella storia” (p. 161). Per chiarire la questione, Mari cita il giudizio su Braudelelaborato da Paul Ricoeur in Temps et récit. Quest’ultimo aveva colto l’unitàdell’intreccio di storie di cui si compone l’opera braudeliana in una certa con-cezione della temporalità responsabile di tale “sintesi dell’eterogeneo”5. Mariinterpreta la proposta di Braudel, viceversa, come un invito a liberarsi dall’os-sessione del tempo. Già Hegel, parlando del Mediterraneo come dell’“assedella storia universale”, aveva riscattato lo spazio dalla sua connotazionemeramente geografica, anche se la disposizione degli eventi era sempre dacollocarsi in seno alla Weltgeschichte6.

Superare il fondamento temporale significa tornare a fare i conti con lacategoria storica di spazio. L’unità dello spazio, cosí, contrassegna l’unità dellastoria. “In Braudel l’unità è un ulteriore significato che la pluralità acquisisce”(p. 173): quando Braudel parla di unità della storia non allude al culmine di unpercorso teleologico, ma al modo in cui si combinano le tante storie che si rac-colgono in un dato spazio. In questo senso la ricerca dell’unità coincide con lapiena esaltazione della molteplicità tanto dei punti di vista narrativi, quantodegli approcci metodologici. Una storia senza télos, dunque, capace di valo-rizzare le “spiegazioni” e di sottrarsi a qualsivoglia neostoricismo speculativo.Importante questione, questa, secondo Mari, da proporsi nell’età della globa-lizzazione, nella quale il primato del tempo sancisce l’oblio dello spazio versoforme sempre piú astratte ed impersonali di dominio e di concentrazione dipotere. In questo punto si concentra il significato culturale della rivoluzione sto-riografica braudeliana.

L’immagine complessiva di Braudel che emerge dallo studio di Mari è quel-la di uno storico attento a combinare tante nicchie di significati da cui attinge-

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re l’unità della storia, detronizzando la “storia evenemenziale” per focalizzarel’attenzione sulla “storia lentamente ritmata”. L’approccio di Mari, inoltre, risul-ta assai suggestivo in relazione soprattutto alla definizione dei tre vocabolariin quanto “spiegazioni a sé” di cui si serve Braudel. In tale prospettiva è risul-tata assai utile la “lettura […] analitica” (p. 11) messa a punto da Mari perdescrivere l’impianto de La Mèditerranée. Discutere i concetti di spiegazione,metafora, forma linguistica al fine di ritornare ad illuminare le traiettorie storio-grafiche braudeliane si è dimostrato un modo efficace per gettare nuova lucesull’imponente opera dello storico francese, in un momento in cui sono matu-rate, forse, le condizioni per stendere un severo bilancio critico dell’esperien-za annalistica.

Distinguere le tre forme di vocabolario allo scopo di rendere ragione di unasimile forma di storiografia pluralistica suscita, però, qualche osservazione.Nell’enfasi ‘analitica’ di Mari tesa a giustificare i piani braudeliani del linguag-gio appare, in verità, troppo netta la distinzione tra i vocabolari, proprio allaluce delle fluidificazioni “strada facendo” sulla cui necessità lo stesso Braudelnon esita spesso ad indugiare. I confini tra i vocabolari sono davvero cosí nettida poter essere riconosciuti? Ed ancora, quella data trattazione che si erigesul loro confine di quale vocabolario fa uso visto che partecipa di piú d’uno? Èun vocabolario questo tipo di vocabolario? In altri termini, nel momento vivodella ricerca la complessità dei problemi, al di là delle dichiarazioni di princi-pio, non richiama spesso l’ausilio di piú vocabolari, passando da un pianoall’altro per rispondere alla necessità di contestualizzare il dato storico e, nelcontempo, all’esigenza di esprimere la compiuta fisionomia dell’evento?

I tre vocabolari esprimono rispettivamente gli orizzonti dell’“unità”, dell’“uni-versalità” e della “globalità” degli avvenimenti. Ciascuno, a suo modo, avendocitato Wittgenstein, configura un “gioco linguistico”, una “forma di vita” o unaprospettiva narrativa nel nostro caso. Ora, esiste un Vocabolario dei vocabo-lari, un Gioco attraverso cui si determinano e si esprimono morfo-sintattica-mente i singoli giochi? Le stesse difficoltà, queste, dell’impostazione wittgen-steiniana. Il riferimento di Mari all’opera del filosofo austro-britannico nel men-tre guida a comprendere la complessità dei piani su cui si fonda l’attività sto-riografica braudeliana si accompagna a tutti i problemi legati alle condizioni diautodicibilità dei vocabolari che, in Braudel, condividono la stessa sintassi e lastessa semantica, pur possedendo una diversa capacità euristica di aggredi-re le dinamiche storiche. Dunque, il fatto che tali vocabolari abbiano un’esten-sione parallela, richiamandosi in una sorta di dialettica corrispondenza di reci-procità ed indipendenza, rappresenta il loro punto di forza e, insieme, il lorolimite. Braudel, in realtà, li usa nelle tre sezioni del libro, ma li interseca peraffrontare molti passaggi problematici o per scardinare numerose stereotipieevenemenziali. Risulta, pertanto, difficile continuare a tenerli distinti e, soprat-tutto, ritenere di poterli riconoscere e definire data la loro frastagliata e pro-blematicissima superficie di estensione.

Non va trascurato, inoltre, il fatto che una visibile filosofia della storia s’in-sinua nelle maglie delle indagini braudeliane con inevitabili costi di opacità sto-riografica. L’idea dell’unità della storia, la tesi della presenza di figure emble-

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matiche poste a guidarne gli sviluppi, il programma di descrizione della plani-metria complessiva dei processi depongono a favore della costituzione, inBraudel, di una concezione della storia stessa come Weltanschauung, proba-bilmente frutto di suggestioni tratte dall’opera di Kojéve7. È proprio quest’a-spetto, però, ad impensierire. Certo, nessuna operazione storiografica è maineutra; pensare, tuttavia, ad un certo percorso unitario della storia rende laquestione alquanto piú problematica. Braudel propone il proprio punto di vistacon chiarezza: ciò gli consente di sfuggire alle angustie delle indagini evene-menziali e di cogliere i processi di lunga durata. Ma gli permette anche di con-cepire un adeguato concetto di comprensione tale da rendere la ricerca stori-ca un procedimento ermeneutico, una combinazione di elementi alla voltadella penetrazione delle oscurità del passato, in un processo continuo di inter-pretazione dei dati a disposizione.

Braudel ha dichiarato a conclusione de La Méditerranée: “In storia non esi-ste un libro perfetto […] che non si riscriverà mai piú. Al contrario, la storia èun’interrogazione-interpretazione sempre differente del passato, perché deveseguire i bisogni e talvolta le angosce dell’ora presente. Si presenta a noicome un mezzo per la conoscenza dell’uomo, non come fine a se stessa”. Inquesta dialettica presente-passato riecheggiano le parole di Febvre, il qualeaveva esortato lo storico a non scindersi, a non volgere un occhio al passatoed uno al presente, ma a “mescolarsi alla vita”, perché “fra pensiero e azionenon c’è separazione”8. Una simile forma di neostoricismo, pur con tutti i suoilimiti, assimila la storia ad un’impresa critica e la rende sia un modo per par-tecipare al dibattito del presente, sia una maniera di fare domande al passatoper capire da dove veniamo e per elaborare ragionevoli congetture su doveandiamo. Un tratto comune, questo, a tutta la scuola degli annalisti: si pensiancora a Febvre ed a Bloch9.

Una simile suggestiva impostazione, tuttavia, contrae un debito da pagare,quello di una storia dei lunghi processi che pecca, però, di tanto in tanto, di uneccesso di qualitativismo. Bernard Baylin, nel 1951, parlò dello studio diBraudel come di un “saggio enorme e sconnesso […] che ha l’ambizione diparlare di tutto […] procedendo per classificazioni, separazioni, compartizio-ni”10. La frequente genericità dei riferimenti, la larga estensione dell’oggetto ela rigidità delle divisioni sarebbero, dunque, responsabili di non aver sollevato“buone questioni storiche”11. Giudizio, questo, in buona parte condiviso in que-gli anni, ma che spesso trascura di fare i conti con gli autentici motivi della rivo-luzione metodologica della storiografia braudeliana.

La richiesta di un vero pluralismo storiografico era, per Braudel, unaforma di riconoscimento dell’irriducibile complessità del passato e rappre-sentava la pianificazione di un rigoroso piano metodologico per mettersinelle condizioni di “fare” storia. Detto altrimenti, non bastano il solitariosguardo e la sagacia dello storico per intendere il fitto intrico di eventi delpassato. Un’indagine storiograficamente avveduta, infatti, deve sapersi sin-tonizzare sulla stessa lunghezza d’onda delle altre scienze dell’antichità,sapendo penetrare metodologicamente in esse allo scopo di riuscire a tene-re conto dei risultati delle loro ricerche. Una storiografia metodologicamente

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duttile, perciò, consapevole del fatto che studiare il passato dev’essereun’impresa collettiva e che per raggiungere tale scopo vanno combinatiassetti e statuti disciplinari, creando addentellati e linguaggi comuni, pur nelrispetto della loro specificità. Una lezione di metodo, quella di Braudel, eduna lucida esortazione a dotarsi di una cultura all’altezza sia del passato, siadel vorticoso evolversi del presente.

Mari insiste a lungo sui tre vocabolari di La Méditerranée. In verità, appareassai poco condivisibile il suo entusiasmo per l’ultimo di questi. In particolare,la teoria dei protagonisti “super-evenemenziali” della storia ricorda molto davicino la teoria hegeliana degli “individui cosmico-storici” di cui si serve “conastuzia” la “Ragione” per realizzare i suoi piani terreni12. Quest’attenzioneverso le figure emblematiche di un’epoca costituisce, forse, la piú limpida testi-monianza della dimensione speculativa che agita il gesto storiografico diBraudel e, forse, uno dei segni della sua debolezza. Infatti, anche Pio V e donGiovanni d’Austria vanno inseriti nel contesto delle relazioni socio-politico-cul-turali di cui sono espressione. Enfatizzare la loro volontà d’azione (e di poten-za) significa isolarne le figure come se avessero acquisito una dimensione diautonomia rispetto al loro tempo. Tutto ciò può avere un senso nel sistemahegeliano dell’Assoluto, ma lascia perplessi quando si tratta di studiare l’arti-colata planimetria degli equilibri europei del Seicento.

Altra questione altamente problematica è la distinzione braudeliana tra“grandi avvenimenti” ed accadimenti ordinari, tra fenomeni profondi e di super-ficie, anche perché le correnti marine –per ritornare alla metafora dell’oceano–possono avere un andamento ondivago, insieme ascensionale e discensiona-le, per cui, ad un tratto, la superficie può diventare profondità e viceversa. Sinota, ancora, un malcelato hegelismo anche dietro la teoria del “riconosci-mento”, secondo la quale la storia configura il teatro dello scontro (magarisenza sintesi) di determinazioni che si fronteggiano. Del resto, la tradizionedell’hegelismo francese di cui sono pervasi Braudel ed un gran numero diintellettuali d’oltralpe degli anni Quaranta e Cinquanta è stata a lungo scanda-gliata. Quanto qui, tuttavia, importa rimarcare non sono i limiti –accanto ai suoiindubitabili meriti– dell’impostazione di Braudel, su cui si discute da decenni.Interessa, piuttosto, evidenziare come alle sue spalle occhieggi una robustafilosofia della storia.

Lo studio di Mari, nel complesso, orienta l’attenzione sul tema del linguag-gio dell’indagine storiografica e costituisce una sicura guida in quel vortice distorie e di personaggi qual è La Méditerranée. Mari isola le unità lessicali enarrative, scandisce i rilievi e gli sfondi, percorre i sentieri ora distesi ora inter-rotti della ricerca di Braudel. L’approccio analitico gli permette di cogliere ilsenso della distinzione braudeliana dei piani narrativi e di offrire lo stimolo perun rinnovato approccio ad un’esperienza storiografica che ha fatto della mol-teplicità dei punti di vista e della capacità di coordinare metodi e piani dell’in-dagine storica il suo vero punto di forza; una metodologia storiografica, quelladi Braudel, capace ancora oggi di offrire il suo contributo in quel confrontoimpari ma affascinante tra i tanti volti del passato e la limitata estensione del-l’orizzonte di ricerca dello storico.

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1 L.WITTGENSTEIN, Ricerche filosofiche, ed. it., a c. di M. Trinchero, Einaudi, Torino 1974, § 138,p. 74.

2 Cfr. R. RORTY, La filosofia dopo la filosofia: contingenza, ironia e solidarietà, tr. it., a c. di G.Boringhieri, Laterza, Roma-Bari 1989, p. 12. Per un’analisi dei rapporti tra la concezione rortyanadella storia e la sua posizione in seno alla filosofia analitica contemporanea cfr. G. MARI,Postmoderno, democrazia, storia, ETS, Pisa 1998.

3 H.BLUMENBERG, Paradigmi per una metaforologia, tr. it., a c. di M.V. Serra Hansberg, Il Mulino,Bologna 1969, p. 183.

4 L’espressione ricorre in L. WITTGENSTEIN, Ricerche filosofiche, cit., § 67, p. 47.5 Cfr. P.RICOEUR, Tempo e racconto, voll. 3, tr. it., a c. di G. Grampa, Jaka Book, Milano 1986-

1988, vol. I, p. 110. Com’è noto, Ricoeur articola la propria posizione in costante dialogo critico epolemico con le proposte di P.VEYNE elaborate in Comment on écrit l’histoire, Èditions du Seuil,Paris 1971.

6 Cfr. G.W.F.HEGEL, Lezioni sulla filosofia della storia, voll. 4, tr. it., a c. di G. Calogero e C.Fatta, La Nuova Italia, Firenze 1941, vol. I, p. 235.

7 Dell’A. KOJÉVE studioso di Hegel e della sua filosofia della storia cfr. soprattutto Introduzionealla lettura di Hegel, ed. it., a c. di G.F. Frigo, Adelphi, Milano 1996. Il testo raccoglie i seminari diKojéve tenuti dal 1933 al 1939 presso l’École des Hautes-Études di Parigi, raccolti e pubblicati daRaymond Queneau nel 1947.

8 L. FEBVRE, Problemi di metodo storico, tr. it., a c. di C. Vivanti, Einaudi, Torino 1976, p. 152.9 Cfr. M. BLOCH, Apologie pour l’histoire ou métier de l’historien, Colin, Paris 1949.10 B. BAYLIN, La géohistoire de Braudel: une relecture critique, in AA.VV., Fernand Braudel et

l’histoire, a c. di J. Revel, Hachette, Paris 1999, p. 79. Il saggio di Baylin, per la prima volta, appar-ve nel 1951.

11 Ibid.12 Cfr. G.W.F. HEGEL, Lezioni sulla filosofia della storia, cit., vol. I, pp. 98 e sgg.

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IL DOPPIO VOLTO DELLA MENZOGNA. LA DIMENSIONE SOLIDALE DEL MENTIRE*

di Mariella Spadavecchia

Che il mentire sia un evento quotidiano è noto da secoli, ma che sia intesocome uno degli strumenti di comunicazione solidale tra gli esseri umani è statoin particolar modo messo in evidenza di recente da alcune pubblicazioni sultema. In queste pagine si vogliono analizzare i percorsi tracciati da tre scritti,quelli di Maria Bettetini (Breve storia della bugia. Da Ulisse a Pinocchio) e diAndrea Tagliapietra (Filosofia della bugia. Figure della menzogna nella storiadel pensiero occidentale), pubblicati nel 2001, e quello di Vladimir Jankélévitch(La menzogna e il malinteso), la cui traduzione italiana è avvenuta nel 2000benché i due saggi, che compongono il testo, siano stati scritti dal filosofo nel1940. Tutti e tre i testi hanno come comune denominatore la menzogna inte-sa come una delle più importanti e diffuse manifestazioni del quotidiano esi-stere dell’uomo.

Il lavoro di Tagliapietra, che si snoda temporalmente tra le “figure dellamenzogna” del pensiero occidentale, prende avvio dalla mitologia greca attra-versando la Genesi, la nascita del pensiero filosofico occidentale, da Socratea Tommaso, da Cartesio a Kant fino a Jaspers e Derrida. Filosofia della bugianasce dall’arduo tentativo dell’autore, peraltro ben riuscito, di mettere insiemein maniera sapiente interrogativi e riflessioni non solo appartenenti ad epochestoriche diverse ma anche legate ad ambiti disciplinari diversi. E cosìTagliapietra attinge da una variegata produzione: dai classici greci ai testi direligione, filosofia e letteratura, dal teatro alle opere d’arte.

Divertente e di agile lettura, pur nel rigore dell’analisi, è il lavoro dellaBettetini che elabora una attenta ricognizione dell’alterna fortuna della bugiaanalizzando il pensiero di alcuni tra i più grandi filosofi, quali Platone,Aristotele, Agostino, Spinoza, Kant, e scrittori politici come Machiavelli, e lefavole letterarie di Boccaccio, Swift, Collodi, Carrol, Rodari fino al modernomito di Dylan Dog. Decantazioni e condanne del mentire si avvicendano nelloscritto che segue le tracce dei differenti contesti storici e che ci porta a com-prendere che non basta dire tutta la verità per essere autenticamente sinceri.

E una fenomenologia del quotidiano sono le pagine del testo diJankélévitch, scritte di getto mentre si trovava presso l’Ospedale complemen-

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* A proposito di A. TAGLIAPIETRA, Filosofia della bugia. Figure della menzogna nella storia delpensiero occidentale, Bruno Mondadori, Milano 2001; M. BETTETINI, Breve storia della bugia. DaUlisse a Pinocchio, Raffaello Cortina, Milano 2001; V. JANKÉLÉVITCH, Du mensonge, Flammarion,Paris 1998, trad. it. a c di M. MOTTO, La menzogna e il malinteso, Raffaello Cortina, Milano 2000.

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tare di Marmande, nel giugno-agosto 1940. Il filosofo, fatto oggetto di recentedi notevole attenzione presso il pubblico italiano, aveva già da tempo rilevatol’importanza di un fenomeno così difficilmente eliminabile dal nostro esistere,visto che la menzogna e il malinteso costituiscono il fulcro dell’agire quotidia-no dell’essere umano. Questo scritto riflette in pieno la riflessione filosoficajankélévitchiana denunciando un aspetto drammatico dell’essere umano: ilsuo barcamenarsi nel difficile equilibrio degli opposti. L’uomo è un essereintermedio che non può essere analizzato o giudicato se non nel suo esserenel mondo. E nel difficile equilibrio delle convenzioni quotidiane si sviluppa lameditazione del filosofo.

Legge universale o vita concreta? Sincerità assoluta o intermediarietà del-l’essere umano? È sulle tracce di questo interrogativo che si può condurre unaricerca sul significato e sul ruolo della bugia nel pensiero occidentale. Chi hadetto, dunque, la prima bugia? Con questa domanda si introduce il lavoromolto complesso di Tagliapietra che, in un cammino ampio e articolato, certa-mente interessante ma allo stesso tempo impegnativo, segue i cambiamentistorici, sociali e culturali di circa venticinque secoli. Un elogio della bugia e nonun inno alla verità: è questo l’aspetto sorprendente di uno scritto che non vuoleperorare la causa della sincerità e infliggere nuove condanne morali alla men-zogna bensì vuole recuperare l’uso pratico e la valenza autenticamenteumana del mentire.

Anche la menzogna richiede la virtù del coraggio; se infatti per dire la veritàbisogna avere coraggio, anche per mentire bisogna averne. Così l’Introduzionedel lavoro di Tagliapietra è affidata a due personaggi: Socrate, padre della tra-dizione critica della filosofia, e Jakob il bugiardo, dell’omonimo romanzo diBecker, personaggi accomunati dallo stesso tragico destino di morte inflitto lorodai propri simili. Entrambi, il primo attraverso la verità, il secondo attraverso lamenzogna, vogliono esprimersi, vogliono ribellarsi contro un comune destino disopraffazione, di violenza. Socrate difende quella verità critica con la quale siimpegna a negare il mondo esistente, quello stesso mondo che viene negatoda Jakob attraverso la sua bugia con cui vuole creare un mondo nuovo.Socrate non dice mai il falso perché il ruolo del filosofo è quello di dire la veri-tà anche a scapito della propria vita. È la verità critica di Socrate, la coerenzatra il dire e il fare, esercizio ed esempio di sincerità. Questa verità è sine cera,senza impurità. Così Socrate mette in gioco tutto se stesso, la sua intera esi-stenza per testimoniare la verità di cui si fa portavoce perché questo è il verocompito del filosofo. Lui si batte per la dignità dell’essere umano ma lo stessofa Jakob, in modo diverso, con la sua bugia coraggiosa.

Chiunque sia stato il primo a mentire, scrive Wilde ne La decadenza dellamenzogna, è stato sicuramente il fondatore delle relazioni sociali. La menzo-gna infatti nasce e si sviluppa in relazione all’altro, chiunque sia quest’altro,anche quell’altro che siamo noi stessi. La bugia ha un carattere relazionale, habisogno dell’altro per prendere forma, ha bisogno di quel dialogo di cui puòinvece fare a meno chi dice la verità. Chi mente deve innanzitutto penetrarenella mente dell’altro, operazione che può esimersi dal fare chi dice il vero,deve immedesimarsi nel suo interlocutore tanto da comprenderne le aspettati-

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ve e anticiparne i desideri. Il bugiardo mente in quanto è capace di immedesi-mazione e questo perché ha la capacità di sdoppiarsi. La coscienza alloranasce dallo sdoppiamento del proprio io che, come in una finzione scenica, ciconsente di guardarci dal di fuori; lo sdoppiamento e l’immedesimazione sonoalla base dell’inganno. Mente l’uomo che occulta la verità, mente quello che neinventa una sua. L’intelligenza si esprime anche attraverso l’immaginazione;mentire, scrive Tagliapietra ricordando le parole della Arendt, vuol dire infatticreare dal nulla e quindi iniziare qualcosa che prima non c’era. La menzogna èdunque “metafora del nulla, è reazione alla cavità del mondo” (p.48) che ci per-mette di riempirlo e di inventarne nuovi. Senza tale capacità creativa forse nonsarebbe neanche nata quella cosa che noi chiamiamo cultura umana. Così l’ar-te, il teatro, la letteratura mettono in scena storie non vere grazie alla capacitàdella coscienza di sdoppiarsi. La menzogna fonda la cultura, la menzognafonda le relazioni sociali. Diverse possono essere le circostanze che portano amentire. Mente il sopraffattore ma mente anche il debole. Si nasconde l’uomocome l’animale, mente l’uomo di fronte al nemico. La menzogna è anche giocod’astuzia e di intelligenza. Si comprende di essere più deboli e si ricorre all’in-ganno al fine di salvarsi. La menzogna è dunque uno strumento, un gioco d’in-telligenza che permette alla preda di sfuggire al suo cacciatore. La menzognanon è solo tecnica di sopravvivenza, è un terreno sfumato fatto di astuzia, caso,necessità, dovere. Sin dalle prime movenze, la bugia sembra essere, in questolavoro, riabilitata dalla sua condanna etica per diversi motivi. Essa infatti nonviene esaminata esclusivamente dal punto di vista morale, anzi le viene rico-nosciuta quella valenza positiva che spesso le è stata negata.

La bugia del protobugiardo è una menzogna strumentale, simile a quelladell’animale e del bambino. Anche gli animali attuano delle tecniche di soprav-vivenza, tuttavia queste bugie non vengono mantenute nel tempo: sono ingan-ni strumentali, quegli stessi inganni che si raffineranno e diventeranno semprepiù complessi nel passaggio dall’Iliade all’Odissea, testo quest’ultimo in cui siavverte la formazione della coscienza. La coscienza, infatti, consente di “nar-ratizzare” il tempo, di estendere l’inganno in una progettualità temporale. Èstata proprio tale capacità a permettere all’uomo di sopravvivere vista la suascarsa dotazione fisica, a fronte di una forte capacità intellettiva.

Menzogna e verità si intrecciano nelle relazioni con gli altri ma anche nelrapporto con se stessi nella forma della maschera, della doppiezza, dell’au-toinganno. Riflettendo sulla storia della bugia, si nota che tante sono le sfu-mature del mentire. È complesso e difficoltoso delinearne un quadro univoco.Mentire è occultare la verità o inventarne una propria? La bugia non è identi-ficabile con la metafora; allora quanto l’intenzionalità pesa sulla responsabili-tà del mentire? La menzogna è forse una violenza invisibile? Che senso haquella bugia gratuita che il protobugiardo di Wilde racconta al ritorno dei pro-pri compagni cacciatori mentre lui resta nella caverna? L’autore cerca di dis-tricarsi nei diversi interrogativi che si pongono. Varia è la casistica della men-zogna. C’è chi considera poco importante una bugia riferita al di fuori dell’am-bito giudiziario e tuttavia gravissima se lo fosse creando conseguenze negati-ve per gli altri; basti pensare ai raggiri, alle trappole, ai plagi, allo spergiuro. Ma

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ci sono anche bugie di cortesia, dette per consolare o per pacifica conviven-za; o la menzogna come scelta tattica dell’uomo di potere detta per necessitào interesse. E ancora la menzogna raccontata per semplice piacere estetico.C’è chi mente agli amici e chi ai nemici; per ingannare o per sedurre o sem-plicemente per millanteria. È possibile ancora seguire il percorso della since-rità tracciato dai diversi autori, da Diogene di Sinope agli Epicurei e la scholéaccademica, da Epitteto a Seneca. Passando così in rassegna circa venticin-que secoli, emerge come il mentire sia presente nella storia dell’uomo sin dallesue origini. È nella Genesi che fa il primo ingresso la menzogna con Adamoed Eva. Mentivano gli dei dell’Olimpo, mentono nel paradiso terrestre Dio e ilserpente così come mentono Abramo, sua moglie Sara, Lot, Raab e Giobbe.Eppure la dottrina della Chiesa ha ottusamente difeso la verità perché chi viveseguendola, vive in conformità con Dio, laddove la menzogna è la “fonte onto-logica” di tutti i mali. Numeroso è l’elenco dei teologi che non condannano net-tamente la bugia giustificando quella necessaria: da Clemente Alessandrino aOrigene, da Cassiano a Girolamo e tanti altri ancora. Lunga è la tradizione deifilosofi che si sono divisi ed interrogati sulla menzogna, da Montaigne aCartesio, da Rousseau a Kant, da Kierkegaard a Sartre ed altri ancora com-preso lo stesso Nietzsche.

Un cenno va fatto alle osservazioni che l’autore, spesso con tono critico,riferisce prendendo in esame la grande bugia dell’età contemporanea: il mitodel progresso. Gli uomini, esseri dotati di grande intelligenza, hanno nei seco-li raggiunto un dominio sul mondo circostante che è ormai da tempo sottopo-sto ad una aspra critica. Sotto accusa, adesso più che mai, sono la scienza ela tecnica il cui sviluppo non ha solo contribuito a trovare soluzioni a problemiesistenti ma si è spinto oltre, avanzando senza una meta precisa e creandosempre nuovi squilibri e nuovi bisogni. La tecnica è il più ambiguo di tutti i donied è proprio leggendo il mito di Prometeo che si evince il legame esistente tradòlos e téchne. Nelle favole di Esopo, Igino e Fedro, si delinea il legame tra“l’originaria dotazione antropologica fornita da Prometeo all’uomo e la sua“naturale” predisposizione all’inganno e la menzogna” (p.54). Esopo infattinarra che a Momo, dio della critica e dello scherno, venne dato il compito digiudicare le opere di Zeus, Prometeo ed Atena. Zeus realizzò un toro,Prometeo creò l’uomo, Atena una casa. Nel giudicare il lavoro di Prometeo, ildio Momo rilevò un limite nella sua creazione ossia quello di non aver riporta-to il cuore dell’uomo all’esterno bensì all’interno del corpo, in modo tale che lesue intenzioni potessero rimanere nascoste.

La tecnica si identifica con quel voler avere di più che, nella tradizione clas-sica occidentale, trova la sua rappresentazione nella figura di Ulisse. Ulisseinterpreta “un tipo d’uomo e un modello d’umanità che è già il nostro” (p.126).Ma perché parlare di Ulisse in un lavoro sulla menzogna? Perché “chi voles-se scrivere una tipologia del bugiardo nella cultura occidentale non avrebbedubbi nel trovarne l’archetipo più eminente e antico nell’eroico protagonistadell’Odissea” (p.89). La menzogna a cui ricorre Ulisse sembra, secondo alcu-ne tradizioni, incarnare quel “piacere insano” che ha trovato manifestazionenei suoi innumerevoli travestimenti e nelle sue diverse rappresentazioni.

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Ulisse ha una naturale ed indomabile propensione per l’inganno, ha unavolontà acquisitiva. Dunque, Ulisse rappresenta il desiderio che non si appa-ga mai, Ulisse mente perché vuole sempre di più. Il testo di Tagliapietra è riccodi particolari ed utile per chi volesse seguire le tracce di antichi racconti mito-logici, dalla vicenda del Re d’Ausonia alla storia della Regina di Lab delle Millee una Notte. Di Odisseo spesso sono state messe in evidenza con diversi epi-teti l’astuzia, la furbizia, ma non tutte le letture del personaggio concordano neldare una valutazione negativa al suo atteggiamento. Ulisse è anche l’emble-ma della razionalità e dell’ingegno. Egli adotta un movimento curvilineo, a spi-rale, diverso dal procedere rettilineo dei personaggi dell’Iliade. Ulisse non sipone in maniera diretta di fronte alla realtà ma obliqua, in quanto è convintoche sia possibile sconfiggere il nemico anche per via indiretta. Prudenza o fur-beria? Ulisse non è solo ciò che appare. Nella sua figura emerge la caratteri-stica di fondo del mentire ossia la separazione radicale tra esteriorità ed inte-riorità. Spesso la bugia assume la stessa forma della verità ma non per que-sto coincide con essa. La bugia per essere credibile deve aderire perfetta-mente alla realtà, apparire perfetta nella sua esteriorità, addirittura più perfet-ta della stessa realtà in cui a volte l’interiorità emerge attraverso lapsus e lacu-ne. Ulisse ha mille volti, realizza il proprio inganno attraverso il corpo, la paro-la, il tono di voce; ogni cosa può essere utile alla menzogna, come gli stru-menti della tecnica che ingannano sulle reali capacità di un individuo. Ulisse èl’astuzia gratuita e sovrabbondante del voler avere di più, è un simulatore,polymetis, polyméchanos, polytropos; è la menzogna prudente, è la gloria e lavendetta, è attore, è Nessuno. Tanti sono i volti della menzogna.

Ma la menzogna di Ulisse ha una finalità anche difensiva: egli è dunquecolui la cui bugia è necessaria per la propria e altrui sopravvivenza. La pub-blica utilità o la sopravvivenza personale giustificano la necessità della men-zogna. In alcuni contesti come quello di Ulisse il primo valore seguito non èquello della verità bensì quello della solidarietà. Se in effetti si volessero trac-ciare i confini etici del mentire si potrebbe sicuramente affermare che la veri-tà, come legge universale, non può imporsi come un dovere oggettivo senzaconsiderazione della concretezza dell’essere umano. L’uomo vive con gli altried è lecito mentire per salvare la loro vita. Il valore dell’ospitalità vale una men-zogna. L’episodio biblico di Lot è il prototipo di quella menzogna necessariache, pur negando i legami di stirpe, lo fa in nome della difesa del valore del-l’ospitalità. È lecito mentire e quindi non rispettare la legge se così si rispettala physis, il naturale rapporto tra l’io e l’altro. Dopo il sacrificio estremo di Gesù,si interrompe quella ritualità sacrificale presente nella Bibbia, inaugurandoun’epoca post-sacrificale in cui si afferma l’etica dell’ospitalità assoluta: non sichiede a nessuno di sacrificarsi al proprio posto ma ci si assume la responsa-bilità dell’altro. Forse ancora troppo poco ospitale, ancora troppo sacrificale,annota Tagliapietra, è la nostra società globalizzata.

E alle manifestazioni del mentire nella società contemporanea dedicaattenzione la Bettetini sottolineando come la menzogna riguardi oggi il nostromodo di essere. Mentire nella civiltà tecnologica vuol dire disfare la propriaidentità, ricostruirsene una totalmente nuova e correre il rischio di smarrirsi e

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non trovarsi più. È questo ciò che accade nel circuito virtuale, è questo ciò cheaccade nel tubo catodico dove le persone vengono risucchiate, decostruite ereimpostate. Siamo ingannati e ci lasciamo sottomettere all’inganno dal nostrotipo di società che ci insegna a non interrogarci più, che ci fa assorbire tuttociò che ci propone. Quella della Bettetini è una polemica nei confronti delnostro nuovo mondo, quello dei mass media, della pubblicità, di Internet in cuiil confine tra verità e menzogna si è ridotto sino a scomparire. La verità si ètrasformata in fatto. Siamo costretti a vedere ogni giorno in televisione la crudarealtà, quella di popoli che soffrono, di situazioni di disagio a volte così tantorappresentate nelle fiction televisive da non consentirci più di distinguere traverità e menzogna; “quale tragica situazione di popolo terremotato o qualedrammatica scena di film potrà pretendere il mio coinvolgimento dopo l’inter-ruzione che ha invitato a perdere chili nei punti critici, a provare il nuovo cioc-colato che ricopre il nuovo conturbante gelatone, a concedersi un’auto chesembra proprio come quelle dei veri ricchi?” (p. X).

L’aspetto rilevante del lavoro consiste nell’aver sottolineato lo stretto lega-me esistente tra verità, linguaggio e potere. Il linguaggio è frutto di un accor-do naturale tra gli uomini. Nel tempo si è affermata l’idea che esistesse un rap-porto di diretta corrispondenza tra linguaggio e verità. Così molti pensatorimoderni, tra cui Grozio, Montaigne e Swift, hanno condannato ad oltranza lamenzogna in quanto lesiva del diritto di ognuno alla conoscenza. Ma il lin-guaggio è una convenzione e spesso la verità dipende dall’opinione diffusa.Così dimostra la novella di Pirandello intitolata La Patente che la Bettetiniricorda nel suo testo: “viene ritenuto vero ciò che vien ripetuto con convinzio-ne” (p.109). La richiesta paradossale del protagonista della novella, RosarioChiàrchiaro, di ottenere dal giudice la patente di iettatore fa emergere “un datodi fatto: l’opinione pubblica ritiene vero ciò che è detto, ripetuto, creduto tale,indipendentemente dall’assurdità di ciò che è sostenuto” (p.111). Oggi, disovente, la comunicazione passa attraverso lo strumento dell’informazione ela verità viene identificata con il “fatto” grazie ai reality-show e alle inchieste-verità. Sennonché, in questo modo, si corre il rischio di smarrire il confine traverità e menzogna, di perdere il senso della realtà visto che, di fronte allo scor-rere delle immagini, nulla sembra più avere il peso della verità.

Non è detto che sia necessario mentire per ingannare gli altri. Infatti, ammo-nisce nella prefazione al testo la Bettetini, “da sempre si è mentito molto meglioe molto più crudelmente senza dire bugie” (p.XI). Così nell’Otello di ShakespeareIago trama un inganno senza quasi proferir menzogna. La forza di Hitler, in fondo,è consistita proprio in questo; è la lucida sincerità che inganna, la più perversacome sosteneva lo storico della scienza Alexandre Koyré ricordando che tutticoloro che sono stati a capo di governi totalitari hanno annunciato il loro pro-gramma proprio perché sapevano che non sarebbero stati creduti. Verità e men-zogna hanno in ogni caso avuto un peso decisivo nello svolgersi degli eventi. Chidifatti può negare il peso che nella storia hanno avuto documenti ritenuti veri erivelatisi in seguito falsi? Come dimenticare che queste false informazioni hannomodificato il corso della storia, basti pensare alla scoperta dell’America e allaserie di invenzioni casuali che hanno modificato la nostra esistenza. È questa la

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“serendipità”, “il ritrovamento di qualcosa di prezioso rinvenuto mentre non lo sistava cercando, anzi mentre si era occupati in altro” (p.112).

Il grande merito di questo testo è sicuramente quello di aver risvegliato innoi la consapevolezza che ciò che comunemente riteniamo vero è solo il frut-to delle costruzioni sociali e del comune assenso; le verità vengono costruitequotidianamente sui giornali, in televisione o in rete. In realtà bugia e veritàpossono essere decifrate soltanto guardando all’intenzione di chi agisce. Ilvero o il falso infatti non vanno visti e giudicati in sé, bensì guardando all’in-tenzione che chi parla vuole dare al suo discorso. Non a caso, il “tema dellabugia”, scrive l’autrice, “è l’inganno, ossia il “voler far credere” vero o falso ciòche vero o falso non si ritiene, indipendentemente dal fatto che lo sia davve-ro” (p.3). Scrive la Bettetini, ricordando il messaggio di Agostino di Ippona chela menzogna “dipende dall’intenzione dell’animo e non dalla verità o falsitàdelle cose” (p.11); è la direzione che si dà ad un atto che ne stabilisce la bontà.

Esiste infatti un’unica eccezione al mentire: la generosità del cuore. È lecitochiedersi se sia giusto che il paziente debba conoscere sempre tutta la veritàsul suo stato di salute. Il problema del rapporto medico paziente è un problemadelicato e complesso allo stesso tempo. Al medico si vuol credere perché nellesue mani è la nostra vita, pur tuttavia ci sono delle situazioni difficili da gestire.Come potrà un medico comunicare lo stato di salute al malato considerando adesempio la situazione di solitudine in cui è possibile che si trovi, parlare conuomini soli “perché vivono soli, soli perché lo sono di fatto o soli per scelta, perproteggere dalla loro malattia i cari, per orgoglio, per vergogna, insomma perprecisa determinazione” (p.100). Non è forse giusto mentire al malato sul lettodi morte per regalargli un’ultima speranza? Si può in nome di un principio uni-versale, quello della sincerità, sacrificare l’altro, le sue emozioni? Di certo no. Èquello che sostiene Jankélévitch, nei cui due saggi, che compongono La men-zogna e il malinteso, non tralascia di tracciare le due facce del mentire. Quelledi Jankélévitch sono pagine che invitano a recuperare un autentico rapportocon l’altro, inquinato troppo spesso da mascheramenti, doppi sensi e menzo-gne. Menzogna e malinteso sono così presenti nell’agire comune da esserediventati delle vere e proprie convenzioni che, è inutile negarlo, servirebbero arendere più accettabile la quotidianità dell’incontro con l’altro altrimenti resoimpossibile dallo scontro di due identità che si pongono in maniera assolutal’una di fronte all’altra. Ma la riflessione di Jankélévitch è molto sottile; il filoso-fo non vuole affermare a tutti i costi la validità di un valore come la sincerità,cosa assolutamente improbabile per un filosofo così attento alla complessitàdell’esperienza umana. Jankélévitch infatti osserva l’uomo nel suo agire in rap-porto agli altri perché è nell’ambito della concreta esperienza umana che l’uo-mo può e deve essere giudicato. Non deve stupire la quotidianità delle argo-mentazioni del filosofo poiché proprio ciò che appare assolutamente banale èin realtà difficilmente esprimibile o addirittura comprensibile. E ciò che di bana-le c’è in questa riflessione è l’esperienza umana vista nella sua quotidianità. Ilfilosofare di Jankélévitch si rivela come la negazione totale di ogni intellettuali-smo grettamente razionalista e rivalutazione del piano dell’esistenza, con un’at-tenzione dunque all’uomo in quanto essere morale ma anche alla fragilità stes-

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sa di questo suo essere morale. È un pensiero concentrato sul vissuto umano,sulla durata del tempo umano, un pensiero che si fonda proprio sulla capacitàstessa del filosofo di cogliere ogni trasalimento dell’animo umano in quanto luistesso essere umano come gli altri. Jankélévitch si insinua dunque nel difficileintreccio delle questioni umane, nei dilemmi costanti dell’esistenza morale del-l’uomo, nelle infinite contaminazioni del suo agire.

Guardando il volto negativo della menzogna il filosofo può così dire che labugia non va assecondata in quanto fonda delle relazioni false e superficiali tragli uomini basate sulla misconoscenza e determina l’impossibilità della com-prensione autentica. La menzogna non è certo un evento indifferente nella vitadi ognuno, anzi, è proprio la prima menzogna, quella innocente del bambino,che costituisce “la prima ruga sulla fronte ben liscia dell’innocenza, la primacomplicazione annunciatrice di doppiezza” (p.11). Non è la bugia in se stessache preoccupa quanto l’intenzione che si fa strada grazie alla comparsa dellacoscienza e della volontà e, di conseguenza, la consapevolezza di avere unostrumento di potere nelle nostre mani. La doppiezza è una caratteristica dell’es-sere umano, propria della sua struttura; l’uomo è un essere anfibio, duplice, scis-so. Analizzando la genesi quotidiana del mentire, Jankélévitch spiega che l’uo-mo ha avvertito tale necessità in quanto il proprio io isolato si è imposto all’altrocon il suo egoismo. “La menzogna trova la sua ragion d’essere in un mondo dicreature parziali, opache, incomunicabili e segrete l’una per l’altra” (p.22); nonc’è spazio per tutti in questo mondo. Ma la menzogna mostra sì, l’intelligenza,ma anche la debolezza dell’essere umano; ha un carattere sociale e antisocia-le. È vero infatti che aiuta la coesione sociale, ma si tratta di una coesione appa-rente, basata semplicemente sulla conciliazione provvisoria dei reciproci inte-ressi. La menzogna è infatti la soluzione facile che l’egoismo trova per risolverei suoi problemi. È quell’astuzia che permette a breve termine di superare gliostacoli. “La menzogna costituisce il modello archetipo della difficoltà facile edella profondità superficiale” (p. 25), è l’“oppio del minimo sforzo”. Allo stessomodo il malinteso permette l’accordo che è, sì, preferibile alla discordia, ma sitratta di un accordo debole. “Il malinteso, come nel suo genere la gaffe, appar-tiene alla specie di quegli errori ben fondati che diventano possibili mediante ilcommercio scabroso delle coscienze, non semplice confusione, ma caratteristi-co falso-calcolo, falso-senso rivelatore, interessato e passionale” (p.51). La pos-sibilità del malinteso è data dall’orientamento dei nostri desideri che ci portano adar credito ad una cosa piuttosto che ad un’altra mettendo in atto una “falsamagia” in quanto il desiderio di qualcosa, non implica necessariamente che essasia vera; “ecco in cosa consiste tutto lo sbaglio. Si crede ciò che si desidera e siintende ciò che si crede” (p.52). Chi si arrende o approfitta del malinteso non sipone seriamente di fronte alla vita. Così col malinteso si crea un dialogo di soli-tudini che comunicano solo apparentemente. Il malinteso distrugge la comunio-ne tra sé e l’ciurliaaltro. Anche Jankélévitch, diversi anni prima della Bettetini,accusa la società di essere la responsabile dei malintesi in quanto “sbrigativa” e“frettolosa”, si interessa a ciò che si fa piuttosto che alle ragioni per cui lo si fa;“che la riuscita sia meritata o fortuita, il successo, si dice, è pur sempre il suc-cesso. La nozione di Merito, al contrario, sposta l’accento dal fine al come, su

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questo elemento invisibile della vittoria sulle difficoltà, che scava le rughe, incur-va le schiene, lascia dappertutto dietro di sé la pensosa patina dell’infelicità”(p.62). Occorre il coraggio di sopportare un’esistenza complessa e difficile.Contro la durezza della realtà bisogna resistere, anche se la sincerità ha uncosto. Viviamo con addosso delle maschere e ciò per colpa dell’aridità del nostrocuore che domina la nostra vita, laddove basterebbe essere ispirati da un po’ disimpatia e di serietà per incontrarsi in maniera autentica. Basta la semplicità delgaffeur per far crollare, con un gesto scandaloso, il nostro castello di carta. Ed èproprio tale semplice serietà che deve ispirare il nostro agire.

Così che senso ha quella verità che viene detta per uccidere? Ciò che contaè l’intenzionalità del cuore, la sua purezza. Bisogna cercare dentro se stessiquella verità che ci permette di instaurare un’autentica relazione con l’altro esoprattutto una relazione d’amore. Al di là della denuncia dei diversi ed innu-merevoli malintesi, al di là dell’invito a togliersi la maschera che si indossa ognigiorno, Jankélévitch difende il buon uso che della menzogna si può fare quan-do la questione è vitale. Ogni uomo ha peccato di ascolto, di generosità doveinvece soltanto lo slancio fino al quasi-niente dell’amore poteva rendere auten-tica la nostra esistenza. Ciò che conta, ammonisce Jankélévitch, è la maniera:è questa che “fonda il valore dei nostri atti, così come fonda il pregio dellenostre opere” (p.60); è la maniera che fa la differenza, è il frutto doloroso dellamediazione. Le difficoltà dell’agire morale non devono scoraggiare l’uomo che,al contrario, deve incessantemente impegnarsi a rinnovare il proprio impegnoetico. La lacerazione che si produce nell’essere umano deriva proprio dallaconsapevolezza della sua natura limitata e dall’aspirazione ad un’esistenzacontinuamente e autenticamente morale. L’uomo non è né angelo né bestia mauna creatura mediana che oscilla tra due estremi: l’amore di sé e lo slancioverso l’altro. Compito dell’uomo etico deve essere il suo impegno costante con-tro le sue istanze “egotropiche” perché la morale è, secondo Jankélévitch, uncostante appello ad amare, a rispettare l’altro, alla tolleranza, alla generosità ealla giustizia. L’“odissea morale” corrisponde a questo infaticabile agire semprepronto a ricominciare e sempre così vicino al proprio annichilimento, un agiretutto proteso alla realizzazione dell’amore.

In questo complesso cammino è stato possibile constatare come la men-zogna sia strettamente legata alla quotidianità dell’agire umano e come essa,nella sua dimensione vitale, cerchi di difendere valori quali la dignità umana,l’ascolto, la generosità che scavalcano ogni principio di verità. La menzognarende possibile l’accoglienza e l’ospitalità. Ciò a cui ogni uomo deve ispirarsiè semplicemente la sincerità del cuore piuttosto che l’adesione a vuoti eastratti principi che si scontrano con il bene di quella stessa umanità di cui noifacciamo parte. Occorre accettare che, al di là della ricerca della verità cheogni uomo deve porsi come scopo, esiste una contaminazione menzogneranel suo agire necessaria ed umana.

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O. DE BERTOLIS, Il diritto in San Tommaso d’Aquino. Un’indagine filosofica,Giappichelli, Torino 2000, pp. 107.

L’A. mira in questo libro a fornire elementi decisivi alla ricostruzione delpensiero giuridico di Tommaso d’Aquino, nella convinzione che le sue istan-ze di fondo siano ancora valide e capaci di dare un orientamento sicuro nellasoluzione dei gravi problemi che oggi dobbiamo affrontare. Il problema giuri-dico in Tommaso, nella prospettiva dell’ A., non è posto nei soli termini dellalex, cioè nell’ambito della scienza deduttivo-sillogistica, ma può essere coltoin modo adeguato solo avendo ben presente il suo referente metafisico, l’ ense la conoscenza ad esso propria. Il quadro di riferimento è quindi quello delrealismo metafisico e giuridico. “Come per spiegare una scienza devo risali-re all’ente, così, parallelamente, per spiegare la scienza giuridica devo risali-re all’ente (sensibile) giuridico, al ius, la singola cosa giusta, in via resolutio-nis. Il diritto (cioè: la giustizia, in quanto ciò che è giusto) viene dunque primadella legge, e quest’ultima ne articola, ne svolge le esigenze: la legge costi-tuisce come i gangli linfatici, i vasi sanguigni, nei quali fluisce il diritto, inner-vando tutto il sistema” (p. 31). Il giusnaturalismo che ne deriva non rende tut-tavia superflue le leggi positive, ma addirittura le esige, perché per Tommaso,come per Aristotele, la legge, senza esaurire il giusto, ne costituisce tuttaviaun’espressione privilegiata, “riuscendo così ad assurgere di volta in volta atutte le possibili determinazioni concrete” (p. 39). Questo tipo di giusnaturali-smo, a differenza di quello moderno (di Hobbes, Locke, Pufendorf,Thomasius, Wolff e Leibniz e i loro epigoni), non mira all’elaborazione di codi-ci di diritti naturali, pure proiezioni delle idee del nostro spirito all’interno delreale, ma è un approccio che “privilegia l’effettività”, non “la validità formale”(p. 41). Per Tommaso la legge naturale è a sua volta partecipazione dellalegge eterna di Dio, così come l’essere della creatura è partecipazione all’es-sere di Dio e la ragione è lume partecipato dell’intelletto divino. Perciò “il pro-blema delle scienze pratiche è costruire le regole dell’ agire libero secondo leesigenze ed i fini iscritti in natura” (p. 57). La legge naturale non è altro chel’ordine divino manifestato dagli impulsi, dalle tendenze fondamentali, dalleesigenze prime della natura umana razionale” (p. 59). Di modo che il dirittonaturale e la legge positiva hanno il i loro fondamento ontologico in Dio stes-so. In questo senso, la ragione, sebbene costitutiva della legge, non è auto-noma, nell’ accezione moderna del termine, perché non trova in sé l’ordinedei valori, ma si fa interprete di essi “quali emergono nella logica fluida delreale” (p. 75). La derivazione della legge umana dalla legge naturale avvienein due modi, come una conclusione o come una determinazione. La leggeumana non può avere l’infallibilità che hanno le conclusioni delle scienze spe-culative. In quanto, tuttavia, essa fa riferimento alla natura e quindi alla leggedivina, “obbliga in coscienza” (p. 83).

In definitiva, per l’A., nell’ambito giuridico la preminenza assoluta spetta alius, che è il primo referente della lex, la sua anima, il suo baricentro. “Lalegge quindi è proiezione, nel campo dell’agire, di un procedere razionaleinteso ad un fine, ad un effetto qualificato, il bene comune, fine che ha ragio-

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ne di bene” (p. 92). Il giusnaturalismo di Tommaso esige le leggi positive, madà loro consistenza ontologica. La conclusione cui perviene l’A. è la seguen-te: “La giustizia non si dà senza la legge, la legge senza la giustizia è corposenza anima: nel loro fondersi reciproco, nel loro continuo reciproco impli-carsi ed esaltarsi sta l’autonomia della scienza (giuridica) ed il valore impre-scindibile della filosofia (giuridica)” (p. 93).

Questo volume raggiunge certamente i propri obiettivi, che non sono cer-tamente quelli di proporre prospettive originali e nuove, ma di presentare lelinee fondamentali della filosofia del diritto di Tommaso d’ Aquino, nella con-vinzione della sua attualità e della sua capacità di concorrere a “creare unacultura politica e giuridica più conforme a verità” (p. 3).

Albino Babolin

P. PONZIO, Tommaso Campanella. Filosofia della natura e teoria della scienza,Levante ed., Bari 2001, pp.330.

Questa monografia si impone all’attenzione del lettore per il tracciato tema-tico e costituisce un valido contributo alla chiarificazione del pensiero filosofi-co e scientifico di Campanella, o, meglio, della sua philosophia naturalis.

L’analisi attenta delle fonti e il confronto con l’aggiornata letteratura criticaconsentono di focalizzare l’originalità e l’ardimentosa coerenza del pensatorerinascimentale che mette a frutto la lezione del corregionale Bernardino Telesionel fronteggiare lo studio della natura iuxta propria principia, discutendone leconseguenze in un serrato dibattito su questioni scottanti quale, ad esempio, lateoria copernicana sposata da Galilei, nei confronti della quale sa anche avan-zare limiti e riserve, come è dato leggere in Apologia pro Galileo (1622).

Osservatore attento del mondo a partire dall’autorità dei sensi e da ragio-namenti deduttivi, ma altresì metafisico di razza che si muove a suo agio nelrivendicare la fondatività ontologica della realtà cosmica sia pur in chiave antia-ristotelica, Campanella ha scritto numerose opere di filosofia della natura.Rispetto a Galileo che dilata ad artem l’osservazione dei cieli restando pur sem-pre vincolato ai calcoli matematici, e, quindi ai limiti delle “sensate esperienze”e delle “necessarie dimostrazioni”, il filosofo calabrese, accomunato al confra-tello domenicano Giordano Bruno dall’eros platonico di voler ‘vedere’ specula-tivamente l’unitotalità del mondo, o “de li infiniti mondi”, aguzza l’ingegno fan-tastico (talora fantasioso!), sporgendosi al di là delle barriere del sapere verifi-cabile in un ardimento temerario che lo rende eretico di Chiesa. Né potevaessere diversamente per un entusiasta vessillifero del sapere enciclopedicoche coniuga disinvoltamente teologia, metafisica e scienza. Campanella puòrivendicare a sé il grande merito di aver aperto alla dimensione storica delsapere scientifico, incrinando non poco le presunzioni dogmatiche degli eccle-siastici suoi contemporanei in fatto di cosmologia.

Ha avuto buon destro l’autore di questo ragguardevole volume a fronteg-

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giare “la nozione di scienza in quanto historia e la ripartizione del sapereumano”: ambedue ritenute giustamente come i “modi più rilevanti della filoso-fia campanelliana” (p. 23). Sono pagine lucide ben documentate sugli scrittiscientifici dello Stilota che si leggono con profitto storico e rendono ragione deldestino di colui che si sentiva “nato a debellar tre mali estremi: tirannide, sofi-smi, ipocrisia”, pagando di persona. Era convinto che “senza scienza nemme-no chi è santo può giudicare rettamente”.

Paolo Miccoli

R. RUSSO, Ragione e ascolto. L’ermeneutica di John Locke, Guida, Napoli2001, pp.267

La tesi fondamentale del libro è che la problematica ermeneutica si impo-se a Locke lentamente, ma progressivamente, “fino a diventare il centro ditutta la sua riflessione” (p. 8). All’evoluzione intellettuale di Locke corrisponde“una progressiva insoddisfazione” nei confronti del lavoro esegetico. “Lockeebbe il merito di rendersi conto della necessità di affrontare il problema allaradice, e quindi di stabilire un criterio in base al quale interpretare il testosacro: il problema ermeneutico si pose così come problema di metodo” (p. 9).La teoria dell’interpretazione di Locke è un’estensione al campo biblico “diquelle stesse esigenze di rigore, chiarezza e distinzione che erano propriedella sua impostazione teoretica” (p. 10). Parallelamente a questa tesi svolgeun ruolo centrale nel libro di Russo la convinzione che vi sia una sostanzialecontinuità nel pensiero lockiano, un pensiero che, “pur orientato fin dall’inizioin senso religioso, e pur riconoscendo i limiti della ragione, non ha mai abdi-cato alle sue esigenze” (p. 20).

Il punto di partenza della ricerca di Russo è l’esame del lavoro esegeticosvolto da Locke anzitutto nel First Tract on Government, in polemica conEdward Bagshaw, e nel First Treatise of Government, in contrasto con RobertFilmer. A proposito del primo opuscolo, l’A. osserva che Locke, fin dall’iniziodel suo percorso, si avvale di un metodo che mira a un’interpretazione conte-stuale e storicizzante del testo sacro e nell’applicazione di questo metodo pre-suppone una distinzione fra nucleo essenziale della fede e cose indifferenti(secondo un modulo interpretativo che sarà poi ripreso, trentacinque annidopo, nella Reasonableness of Christianity, in un contesto ideologico radical-mente diverso). Naturalmente l’A. prende in considerazione tutti i testi rilevan-ti, comprese le Questions concerning the Law of Nature (che costituiscono unanaturale prosecuzione dei due giovanili Tracts, e l’Essay on lnfallibility ad essicoevo). Quanto al Patriarcha di Filmer, l’A. osserva che “sarà proprio la parteesegetica, apparentemente meno ‘a rischio’, quella su cui si abbatterà con piùforza dissolvente la critica sistematica del First Treatise di Locke” (p. 59).L’accusa fondamentale che Locke muove a Filmer è la mancanza di una

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coerente derivazione delle sue posizioni da quella Scrittura su cui pretende-vano fondarsi. Con spirito analitico e spesso mordace Locke dimostra che lededuzioni che Filmer trae dai numerosi riferimenti biblici sono “insostenibili” (p.62). Nel suo lavoro esegetico Locke continua a dare per scontata la con-gruenza di ragione e rivelazione e mira a mostrare come ci siano clamorosediscrepanze tra l’uso che Filmer fa di un testo citato e il significato di quel testonel contesto generale. Uno dei presupposti fondamentali del metodo esegeti-co lockiano nel First Treatise of Government è la coerenza razionale dellaparola di Dio, che si rivolge agli uomini in maniera adeguata alla loro com-prensione, e rispettosa delle regole del loro linguaggio. Per Locke condizioneessenziale di questa convergenza fra il lume della ragione e la verità biblica(convergenza che egli condivide con molti suoi contemporanei, tra cui soprat-tutto il platonico di Cambridge e latitudinario Benjamin Whichcote) è “nonsovrapporre al dettato biblico arbitrarie interpolazioni umane, spesso interes-sate, che ne distorcono la coerenza e ragionevolezza”, un principio regolato-re dell’esegesi biblica, che “aprirà poi la strada ad una scelta ermeneutica cheavrà un grande sviluppo nelle future riflessioni di Locke: quella secondo cuinell’interpretazione di ogni passo biblico controverso ‘la Scrittura è la miglioreinterprete di se stessa’”, e sarà proprio questo “il principio guida delle succes-sive opere ermeneutiche di Locke” (pp. 65-66). Occorreva a Locke definire laspecificità e i limiti del compito ermeneutico e approntare gli strumenti pergiungere a definire incontrovertibilmente il nucleo essenziale della parola diDio, un criterio che permettesse di discriminare, tra le interpretazionì dellaScrittura, quelle aperte a un effettivo ascolto della lettera del testo.

L’A. mette in evidenza quali siano per l’Essay concerning HumanUnderstanding le difficoltà e i limiti del compito ermeneutico: soprattutto laforza dei pregiudizi, particolarmente rilevanti nell’ambito della religione e dellamorale, le difficoltà che nascono dalla strutturale imperfezione del linguaggio,l’antichità e l’oscurità dei testi sacri. Infine individua con precisione il ruolosvolto dalla ragione. Essa deve “fornire gli strumenti e le procedure che per-mettono di misurare l’attendibilità delle ‘credenziali’ di tutte le proposizioni cheambiscono al titolo di rivelazione divina ed anche di intenderle” (p. 116). Laragione non è uno strumento di scoperta di verità religiose, ma è, in questocampo, uno “strumento di regolazione dell’assenso”. L’A. mostra quindi anali-ticamente come, dopo aver identificato, con l’Essay, l’oggetto e i limiti del com-pito ermeneutico, Locke si risolve a verificare le riflessioni metodologiche sulcampo dell’interpretazione vera e propria, attraverso l’interpretazione biblicafornita nella Reasonableness of Christianity e poi nella Paraphrase and Noteson the Epistles of St. Paul. Per quanto concerne la Reasonabless, l’A. affron-ta anche i contenuti dottrinali dell’opera: la fede nella messianicità di Gesù,necessaria per dirsi cristiani, la necessità delle opere per la salvezza, l’insuffi-cienza della ragione per rinvenire un sistema di regole morali capaci di orien-tare sulla via della salvezza e la conseguente necessaria integrazione offertadalla rivelazione. In particolare tuttavia l’A. si sofferma sul tema della con-gruenza fra messaggio evangelico e ragione, sull’impossibilità che la parteispirata della Scrittura presenti contraddizioni, e quindi sul tema della “concor-

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danza evangelica”, sul tipo di erudizione religiosa volta alla “ricostruzione del-l’armonia tra le varie parti della Scrittura, condotta in modo da ricavarne uncorpus di verità coerenti” (p. 145). La posizione di Locke è ben determinatadall’A. in rapporto alla tradizione latitudinaria e all’arminianesimo di Limborch,alle tesi contrastanti di Richard Simon e Jean Le Clerc. La strategia ermeneu-tica di Locke mira a escludere ogni precomprensione dottrinale e filosofica, nelsenso che il signìficato del testo non dev’essere cercato in una dottrina estra-nea alla Scrittura, ma nella Strittura stessa collazionata con se stessa. Russoosserva acutamente che di qui nasce un problema di difficile soluzione perLocke. Locke ha impiegato un’esegesi di tipo storico della Scrittura, in baseall’idea che il linguaggio usato nella Scrittura avesse, per l’appunto, un carat-tere storico, e lo ha fatto per spiegare alcune difficoltà che il lettore modernoincontra nel leggere il testo sacro. Ma Locke sapeva bene, in quanto espertodi cronologia biblica e di concordanza evangelica, che i testi sacri apparten-gono a epoche storiche diversissime e gli scrittori sacri usarono le parole“secondo il linguaggio del tempo e del paese in cui vissero”. “Come si può,dunque, applicare il principio di comparazione per spiegare i passi più oscuri,se deve valere anche il principio storico?” (p. 159).

I principi generali del metodo ermeneutico, le cui premesse erano state ela-borate nell’Essay e riprese nella Conduct of Understanding, rimangono saldiin Locke, ma si rivelano insufficienti a dare forma organica e soddisfacente allavoro di interpretazione applicato alle epistole di S. Paolo. Di qui l’impresalockiana della Paraphrase and Notes on the Epistles of St. Paul. “Lo scopo diLocke nell’intraprendere il suo nuovo lavoro ermeneutico era quindi quello direndere accessibili a tutti le epistole di Paolo nel loro autentico significato” (p.206). Rimane il ricorso alla ragione, che in Paraphrase and Notes risulta lostrumento più adatto “per la comunicazione di un contenuto altro –un conte-nuto che la trascende” (p. 216). Russo mette in evidenza come, seguendo inparticolare le indicazioni metodologiche fornite da Robert Boyle inConsiderations Touching the Style of the Holy Scriptures, Locke si impegni nelricostruire la linea argomentativa delle epistole punto per punto, “ritrovandonetutti i nessi, gli snodi e le digressioni, per mostrare come tutto il testo siacoerentemente organizzato, in rapporto al fine che ciascuna epistola si propo-ne” (p. 216). Risulta alla fine che lo scopo principale della lettura lockiana delleepistole di Paolo è quello di fondare su base scritturistica e paolina l’impor-tanza della vita morale per la salvezza. “Ancora una volta –osserva acuta-mente Russo–, giunto ormai alla fine delta sua carriera intellettuà1e e dellasua vita di studioso, Locke affronta la questione decisiva, quella intorno a cuiaveva ruotato l’intero suo percorso. Lo fa, ancora una volta, da una prospetti-va nuova, scegliendo il terreno apparentemente più sfavorevole: appuntoquelle epistole di Paolo che erano l’arsenale preferito dei predestinazionisti,ovvero i testi biblici, che più apertamente svalutavano l’importanza delle opereper il conseguimento della salvezza eterna” (p. 219). Dal punto di vista dottri-nale Russo sottolinea ancora una volta la sostanziale continuità dell’interpre-tazione lockiana di Paolo con l’impostazione di fondo dell’Essay e dellaReasonableness: “‘Salvare le opere’ è in effetti l’obiettivo primario dell’erme-

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neutica di Locke, che aveva fatto ricorso alla rivelazione proprio per fondaresu basi il più possibile sicure il dovere morale di ciascuno, e attraverso quelloil dovere politico” (p. 250).

Il volume ha il pregio di affrontare direttamente il tema specifico dell’esege-si e dell’ermeneutica, tra i più trascurati nella vasta letteratura critica su Locke,collocandosi peraltro nel solco dei contributi critici più recenti che sottolineanola centralità del pensiero religioso nello sviluppo della filosofia lockiana. Russodimostra una sicura padronanza delle fonti lockiane edite e inedite, del conten-to intellettuale e della letteratura secondaria. Attraverso lo studio critico dell’er-meneutica lockiana viene offerta una riconsiderazione complessiva del pensie-ro di Locke e del suo sviluppo storico.

Mario Micheletti

M. SCHOEPFLIN, Maurice Blondel, San Paolo, Cinisello Balsamo 2002, pp. 96.

Tra i primi volumi di una intelligente collana (“Scrittori di Dio”) pubblicata d’in-tesa con il Progetto culturale della Chiesa italiana è giunto in libreria quello dedi-cato a Maurice Blondel (1861-1949) e che è stato curato da Maurizio Schoepflin.

L’agile volumetto si articola in una breve, ma densa introduzione ed un’am-pia antologia di testi blondeliani tra i più significativi.

“Cattolico convinto e praticante –scrive Schoepflin–, cresciuto in una fami-glia profondamente religiosa, lettore attento e partecipe, fin dalla giovinezza,di autori caratterizzati da una forte tensione spirituale, Maurice Blondel, che fue si sentì per tutta la vita un professore di filosofia, avvertì con una sensibilitàparticolarmente spiccata un problema che è risultato costantemente presentee vivo all’interno del pensiero di ispirazione cristiana fin dalle origini: ovveroquello concernente il rapporto che può e deve intercorrere tra la fede e la spe-culazione filosofica”.

Blondel studiò nella celebre Scuola Normale Superiore di Parigi, dove ebbeper maestri Léon Ollé-Laprune ed Emile Boutroux. Nel 1893 discusse la tesidi dottorato L’azione e nel 1895 iniziò la carriera universitaria. Egli è stato il piùprestigioso rappresentante della filosofia dell’azione, una filosofia che è statastrettamente interconnessa con il movimento modernista.

“L’azione –egli scrisse– nella mia vita è un fatto il più generale e costantedi tutti”. Nell’azione l’uomo esprime la sua volontà, il suo essere. E la vita èuna dialettica della volontà e non già come pensava Hegel della ragione. Èuna dialettica tra la volontà volente e la volontà voluta (cioè il risultato real-mente ottenuto).

E in questa dialettica l’uomo sperimenta la sproporzione esistente tra i due tipidi volontà or ora ricordati e si apre così alla trascendenza e al soprannaturale.

L’uomo, per Blondel, è un essere finito che tende “naturalmente” all’Assoluto.L’uomo, infatti, si accorge che non può bastare a se stesso e “sente fino all’an-

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goscia di non essere il proprio autore e il proprio padrone”. L’idea di Dio, egliafferma, “si sappia o no, è l’inevitabile compimento dell’azione umana, ma l’a-zione umana ha inoltre l’inevitabile ambizione di raggiungere ed adoperare, didefinire e realizzare in sé questa idea della perfezione. Non possiamo conosce-re Dio senza voler diventare Dio in qualche modo”.

Il metodo dell’immanenza fatto proprio da Blondel fu condannato nel 1907dal Sant’Uffizio insieme al modernismo. Tuttavia, in tempi a noi recenti, nonpochi studiosi hanno dichiarato di poter considerare Blondel tra gli ispiratori delConcilio Vaticano II ed altri, tra cui Giovanni Ferretti, hanno visto in lui uno deipadri della cosiddetta “svolta antropologica” che ha condotto la teologia e lafilosofia cattoliche “dalla considerazione primaria, se non esclusiva del pianoreligioso oggettuale e concettuale, alla considerazione primaria, anche se nonesclusiva, del piano esistenziale personale del soggetto che effettivamentevive la religione”.

Massimo Baldini

E.AFFINATI, Un teologo contro Hitler. Sulle tracce di Dietrich Bonhoeffer,Mondadori, Milano 2002, pp. 172.

Per l’orientamento del pensiero filosofico e teologico, Bonhoeffer si inscri-ve nel filone della teologia liberale (Liberalitat) del Novecento, alla quale hannoprestato attenzione speciale studiosi insigni quali Jaspers, Gogarten, Bethge,Mancini, Caracciolo, Moretto.

Nella realtà esistenziale la biografia del grande teologo evangelico è con-trassegnata dall’appartenenza alla Chiesa confessante che ha fatto sentire lasua voce di condanna per i crimini commessi da Hitler e dal nazismo.Bonhoeffer ha incarnato nella sua vicenda esistenziale la tipologia del cristianoeroico che testimonia gli ideali del Vangelo senza cedimenti e senza compro-messi con ideologie politiche. Egli ha vissuto la sua breve ma intensa vita nelladoppia tensione di fedeltà a Cristo e ai fratelli di peregrinazione missionaria.

L’eroica coerenza di vita cristiana ha condotto Bonhoeffer a morire impic-cato nel campo di concentramento di Flossenburg, nell’aprile del 1945, conl’accusa di aver cospirato alla vita del Führer.

Per incondizionata fedeltà a Cristo il giovane pastore d’anime ha rinuncia-to alla carriera dell’insegnamento, ha sacrificato nobilmente l’amore dellafidanzata, ha fatto sentire la sua voce per la conquista della libertà personale,educando gli uomini della sua generazione, con scritti provocatori, a superarela psicologia dell’uomo diviso in se stesso (aner dìpsychos) in direzione dimarcia etica e religiosa verso la ritrovata unità spirituale del credente (anthro-pos teleios). Assiduo lettore e interprete della Bibbia, Bonhoeffer ha vissutosulla propria pelle la tragedia degli ebrei perseguitati ed ha scosso il torporedei cristiani acquiescenti della Chiesa luterana, come del resto ha fatto ancheKarl Barth, alla vigilia della seconda guerra mondiale.

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Lo scrittore Eraldo Affinati traccia, nella presente biografia, un ritratto esal-tante dell’autore di Ethica, rivisitando, sulle tracce della memoria, i luoghi dellavita e della morte del rinomato pastore e raccogliendo preziose testimonianzedi persone che lo hanno conosciuto, fra le quali Dante Curcio. Una biografiache si legge con viva emozione e che può essere compendiata in questa rifles-sione di Bonhoeffer: “Essere libero significa essere-libero-per-l’altro perchél’altro mi ha legato a sé. Solo in rapporto all’altro sono libero”.

Paolo Miccoli

F. BIANCO, G. MATTEUCCI, E. MATASSI, Dilthey e l’esperienza della poesia,Centro Internazionale Studi di Estetica, Palermo 2001, pp.65.

Il volume comprende tre saggi: Franco Bianco tratta Del profetico e dellafollia. Note sulla lettura diltheyana di Hölderlin; Giovanni Matteucci scriveSull’idea diltheyana della poesia; Elio Matassi affronta il seguente tema:Walter Benjamin e l’esperienza vissuta: una ricezione controversa. In appen-dice è offerta una traduzione italiana (a cura di Giovanni Matteucci) del saggiodi Dilthey del 1867: Hölderlin e le cause della sua follia.

Il tema del saggio di Dilthey pubblicato in appendice, è presente nel primocontributo, quello di Franco Bianco, che mette in evidenza le considerazioniche inducono Dilthey a veder culminare l’evoluzione poetica di Hölderlin nelleliriche nate al limite della follia. “In esse giungeva infine ad una totale libera-zione il ritmo interiore del sentimento, che prendeva congedo da ogni forma dichiusura esercitata fino ad allora” (p. 14).

Per il Matteucci, se l’idea diltheyana di poesia si riassume nello stabilire unrapporto di reciprocità organica tra forma e vissuto, sembra giustificato sotto-lineare che “tale rapporto vale come principio di comprensione, in quanto desi-gna una relazione a geometria variabile, plastica, aperta a contesti imprevedi-bili” (p. 27). L’idea di poesia che ha Dilthey è indice di uno schema d’espe-rienza alieno da intenti prescrittivi e inefficace sul piano delle definizioni.

Il Matassi rende conto nel suo saggio della lettura radicalmente critica delparadigma diltheyano di Das Erlebnis und die Dichtung fornita da WalterBenjamin. “L’accusa alla Lebensphilosophie ed al Dilthey epigonale –osservail Matassi– di far sfumare nell’indeterminatezza del mito la vita dell’artista, ren-dendola inqualificabile dal punto di vista morale, rappresenta il nucleo teoreti-camente centrale di una teoria della critica, declinata essenzialmente sullaquestione della verità” (p. 41).

Naturalmente, la stessa traduzione italiana del saggio di Dilthey su Hölderline le cause della sua follia è un contributo significativo.

Il volumetto, in definitiva, presenta alcune prospettive interessanti sull’e-stetica di Dilthey, con particolare riguardo alla figura di Hölderlin.

Albino Babolin

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AA. VV., Filosofia - dialogo - amicizia. Studi in memoria di Dario Faucci, a c. diA. Scivoletto, FrancoAngeli, Milano 1998, pp. 361.

Il filo che lega i contributi piuttosto eterogenei di questo volume è l’affet-tuoso ricordo di Dario Faucci, lo studioso, già docente all’Università di Parma,alla cui memoria questi saggi sono dedicati.

La terza parte è espressamente dedicata a testimonianze relative alla per-sonalità di Faucci e al suo tempo. C’è anche un’interessante intervista aFaucci, già pubblicata nel 1991, a cura di Pietro Leandro Di Giorgi. Il percor-so filosofico, culturale e umano di Faucci è invece ricostruito nel contributo ini-ziale di Angelo Scivoletto.

Mi limito qui a ricordare i principali contributi di carattere filosofico. AlbertoSiclari tratta il seguente argomento: La fede e il mondo per Soren Kierkegaard.Il Siclari nota che, per il pensatore danese, in quanto costituisce l’unico rapportoesistenziale con l’eterno dell’uomo, la fede è il necessario fondamento di tuttoil suo essere e di tutto il suo mondo: quando manca la fede, la realtà si trasfor-ma, anche nella sua dimensione socio-politica, in un vortice dove ogni cosa ètravolta e dissolta. “Questa funzione della fede, che Kierkegaard ribadisce sinonel suo ultimo scritto, rimasto inedito, non deve però far dimenticare che per ilcristianesimo l’impegno negli affari del mondo ha un valore soltanto strumenta-le. È un punto sul quale, con il passare degli anni, Kierkegaard ha insistito consempre maggiore decisione” (p. 193). Kierkegaard ha voluto riaffermare conassoluta chiarezza che la rinuncia al mondo è un’ esigenza reale e indeclinabi-le del cristianesimo. “Richiamando l’uomo al dovere dell’onestà intellettuale edesistenziale, stimolando nel credente la coscienza del peccato e un’ adeguataconsapevolezza del valore della grazia, ha cercato di restituire al cristianesimola sua serietà e la sua dignità di fede difficile” (p. 198).

Il saggio di Ferrucio Andolfi Attualità di una polemica ottocentesca su fram-mentazione e ordine sociale è imperniato sulla figura di Stirner e sulle critichea lui rivolte da Marx. Andolfi sottolinea l’attualità di quella polemica, anche inrapporto al problema-religioso. Egli nota che la risacralizzazione del soggetto,resa necessaria dal fallimento stirneriano di una totale abolizione del ‘sacro’,può essere tentata secondo vie del tutto opposte. “Così Nietzsche allarga iconfini dell’io, mettendolo in relazione con l’intero divenire cosmico, ma l’ope-razione finisce pur sempre da ultimo per inglobare il mondo nell’io, che vieneperciò stesso reso ipertrofico. La filosofia umanistica e sociale di Feuerbach eMarx suggerisce al contrario una ‘trasformazione del sacro’ consistente nelriconoscimento dell’appartenenza e della dipendenza dai propri simili e dal-l’intero universo. Per questa via la grandezza dell’io non è esclusa ma ricer-cata attraverso la sua ‘deflazione’” (p. 207).

Angelo Marchesi si sofferma invece sulla figura di Del Noce, considerandoin particolare le sue riflessioni sull’ attualismo gentiliano, sul modernismo e sullametafisica classica. Appare piuttosto discutibile il fatto che il pensiero di DelNoce sia studiato prevalentemente attraverso il filtro dell’ interpretazione diRocco Buttiglione, peraltro aspramente criticata dal Marchesi. L’A. in particola-re rivendica, specialmente nei confronti della interpretazione dell’attualismo

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gentiliano, la prospettiva filosofica e metafisica bontadiniana, trascurata da DelNoce. Alla fine si mette in discussione che la frequentazione da parte di DelNoce di idealismo, tomismo e modernismo sia e rimanga “criticamente valida eapprezzabile o, addirittura imprescindibile, per riuscire a capirli” (p. 311).

Vorrei concludere, ricordando la frase finale dell’intervento di AngeloScivoletto, che sintetizza il suo approccio commosso alla figura e al pensierodi Faucci: “Dal dialogos al Logos: mi è caro riassumere in questo binomio lapensosa esistenza, solerte e tenera, di Dario Faucci, filosofo del dialogo e del-l’amicizia” (p. 17).

Albino Babolin

A. G. MANNO, Quis est homo? Ricerche scientifiche, storiche e teoretiche,Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2002, pp. 568.

Questo ultimo volume di Ambrogio Giacomo Manno, dal sottotitolo Un cammi-no pensante tra scienza, filosofia, religione alla ricerca delle radici divine, spiritua-li e umane dell’uomo, è una vera enciclopedia del sapere divino e del sapere antro-pologico, inteso, quest’ultimo, a livello psicologico, epistemologico, etico, sociolo-gico, storico, comunitario. È impensabile, sotto tutti gli aspetti, una separazione traDio e uomo, tra trascendenza e immanenza, tra rivelazione e scienza, tra Creatoree creato, tra Infinito radicato nel cuore dell’uomo e fìnitudine dello stesso uomo.

C’è una voce della ragione, c’è una voce del cuore, c’è ancora una voce del-l’anima, e c’è anche una voce della natura, della scienza, della storia dell’uo-mo, dalle origini fino ad oggi, che parlano di Dio e dell’itinerario spirituale eumano dell’uomo verso Dio. Cosa sarebbe, si chiede Manno, “un mondo senzaDio” e “un uomo senza Dio”? (p. 489) . Non si comprenderebbe il perché del-l’esistenza di un mondo. “Tutto sarebbe senza un perché, come afferma l’ateoSartre. E chi avrebbe potuto dare origine al mondo, alla sua intelligibilità, allemeraviglie delle specie vegetali e animali? Soppresso Dio resterebbero le tene-bre, l’assurdo, il non senso di tutto il reale; anzi niente di tutto questo: reste-rebbe solo il Nulla. Soppresso Dio, l’uomo sarebbe un essere mostruoso eincomprensibile: bramoso di Dio, diretto a Dio, esigente Dio, sarebbe vittima diun ideale inconsistente, non si sa perché e da chi ispirato” (p. 489).

L’attenzione particolare che emerge da questa estesa e profonda ricerca,dall’introduzione alla prima parte dedicata al Mondo ambiente e alcuni modellistorici (pp. 15-434), e alla seconda parte dedicata alle Linee di antropologia teo-retica (pp. 437-555), è quella di porre alla riflessione di chi studia o legge que-ste pagine il nesso ontologico, logico, divino e umano tra Dio e l’uomo, e poi tramondo, uomo e Dio. Manno studia, attraverso le ultime ipotesi sull’origine e sultempo dell’universo, la storia del cosmo secondo le conoscenze attuali, i pro-blemi epistemologici e filosofici riguardanti l’origine delle specie, l’origine del-l’uomo e l’antropologia dei Veda delle Upanishad, il cammino di Dio nella storia

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del mondo e, quindi, dell’uomo, e come tale cammino è stato visto dall’uomocomune e dagli studiosi. A conclusione della sua indagine sulla spiritualità deiVeda egli afferma: “Nella Bagavad-Gita, una delle ultime opere della grande tra-dizione brahmanica, si esprime la gratitudine alla Persona Suprema per il ritor-no nella Patria; e nelle Upanishad, in generale, l’elevazione a Brahman, anchein vita, è considerata una sua grazia, un suo dono. Riportiamo in fase conclusi-va la sentenza della Gita: “Colui che è libero dall’illusione, dall’orgoglio e dallefalse relazioni, che comprende l’eterno, che è libero dalla lussuria e dalla duali-tà della gioia e del dolore, e sa come sottomettersi alla Persona Suprema, rag-giunge questo regno eterno” (p.172). L’immortalità viene data a chi raggiunge laforma suprema di conoscenza, innalzandosi al “mondo soprasensibile”.

Vi è quindi una discesa divina nella storia degli uomini, cui corrisponde unaascesi degli uomini verso il divino. “Ed è impressionante, scrive Manno, comequesta spiritualità, non illuminata dalla luce del pensiero cristiano, ne abbiaprecorso molti aspetti” (p.167).

Manno, dopo questa ricerca sulla spiritualità non cristiana e sui problemiepistemologici riguardanti le ipotesi sull’ origine del mondo e dell’uomo, rivol-ge la sua attenzione all’uomo inteso come persona che, creata da Dio conun’anima immortale, vive intensamente questa armonia di discesa di Dio nellasua storia e in quella dei suoi fratelli di fede e la forte tensione ascensionaleverso Dio. A questa tematica è dedicata la maggior parte dell’opera, dallaConcezione dell’anima in S. Agostino all’uomo “come tempio della Trinità”, allaCharitas come “via di acceso a Dio”, all’eternità della verità e all’immortalitàdell’anima (cap. 6-15).

La centralità dell’uomo come persona è uno dei punti più caratteristici e ori-ginali di questa ricerca, sia attraverso l’indagine agostiniana, sia attraverso lostudio delle opere di Bonaventura da Bagnoregio. Certi temi, come l’umanesi-mo cristiano di Bonaventura, la facoltà dell’anima e l’ascesi a Dio come itine-rario della mente, la dottrina dell’illuminazione, le ali della ragione e della fedeper salire verso Dio, e tre vie della perfezione cristiana, purgativa, illuminativa,unitiva, che provocano “l’incendio amoroso” dell’anima, sono tutti in funzionedella centralità della persona (cap.16-23). Il valore dell’uomo come personasta proprio in questo itinerario ascensionale e in questo incontro con Dio chesi è fatto uomo, croce, storia umana, Maestro “più vicino all’uomo e insiemepiù comunicativo” (p. 284). La persona umana, con la sua anima, con la ric-chezza della sua intelligenza e con la bellezza della sua corporeità, pur restan-do “sempre nell’abissale distanza ontologica tra il creatore e la creatura” com-prende allora “la grandezza infinita del suo Autore e l’immensità dell’amoreche ha per lei” (p. 295), ma anche, nello stesso tempo, la dignità della propriapersona e la sua nobiltà, oltre che la sua grandezza divina e antropologica.

Il cammino della e sulla centralità della persona attraversa così il Tracciatoantropologico nel pensiero moderno (cap.24), da Malebranche all’esistenziali-smo ateo e teistico, per fermarsi ad approfondire il personalismo di Rosmini(pp. 325-358), il quale su questo tema, in pieno Ottocento, deve ritenersi unmaestro di spiccata originalità e di elevata attualità per i nostri giorni. Mannoriprende il suo itinerario presentando il personalismo di Mounier, di Maritain, di

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La Pira, parlando del “personalismo comunitario” che si basa “sulla dottrinadella persona come valore in sé, e come ‘valor assoluto’, ma, nello stessotempo, comunicante intersoggettivamente” (p.361), e che rifiuta il liberalismoagnostico e individualistico, incapace di avere un respiro europeo e mondiale.

Accanto a questi maestri della persona Manno colloca giustamente il pen-siero di Michele Federico Sciacca che, seguendo la linea filosofica, pedagogi-ca e giuridica di Rosmini, vede l’uomo-persona in tutte le sue dimensioni. Nella“charitas”, L’uomo, questo squilibrato della società moderna, può ritrovare lapienezza dell’essere e gustare l’Infinito (p. 391). L’uomo-persona può ritrova-re il gusto della libertà e può uscire dalle strettoie di un pessimismo esisten-ziale passando dalla strada dei filosofi, cioè dal Dio dei filosofi, al Dio dellaRivelazione biblica. E in questo passaggio Luigi Pareyson, con il suo perso-nalismo, è maestro e guida di alto valore (pp. 413-434).

Gli ultimi capitoli (29-36) sono dedicati al rapporto tra anima e corpo allaluce delle nuove frontiere della neurologia, alla volontà libera e responsabile,all’immortalità dell’anima. Il volume termina con una voce di speranza: “Nelletenebre che avvolgono tante coscienze nell’ attuale momento culturale, CristoVia, Verità e Vita, appare come la grande luce che possa guidare e illuminarel’umanità nel suo cammino” (p. 555).

Pietro Addante

G. STRUMMIELLO, Il logos violato. La violenza nella filosofia, Dedalo, Bari 2001,pp. 416.

Il volume mette in luce il rapporto tra il logos, inteso come il discorso ragio-nevole, e la violenza, intesa come ciò che, in apparenza, è altro dalla ragione,dal logos appunto, e che pertanto gli si opporrebbe. In quella che sembrereb-be un’esclusione reciproca si palesano i termini di una coappartenenza: la vio-lenza è tratto caratterizzante dell’uomo almeno quanto la razionalità, difatti“solo l’animale razionale, così come recita la sua classica definizione filosofi-ca, può essere violento, e quasi invariabilmente lo è” (p. 6).

L’ampia e puntuale trattazione della Strummiello colloca al centro dellariflessione il proprio dell’esercizio della filosofia come logos e permette, attra-verso le analisi svolte, di riconoscere la violenza come il portato che permanesempre al fondo della razionalità filosofica.

Questo nesso viene sviluppato ed indagato attraverso quattro sezioni chel’Autrice organizza come un percorso volto ad una graduale ed ampia deco-struzione di ogni suo aspetto.

La prima sezione, intitolata “Logos e violenza”, definisce non solo i terminidella questione ma sonda già l’ambiguità intera del rapporto: la posizione delproblema è quella hegeliana, l’assunzione della negatività come momentointerno del processo dialettico che fa della filosofia un sapere (dell’) Assoluto.Il negativo –l’alterità, l’esterno– svolge nella dialettica hegeliana un ruolo fon-

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damentale: esso rappresenta per Hegel il finito, l’immediato, il contingente, equindi ciò che ha parvenza di esteriorità rispetto all’affermarsi dell’universale,dell’Assoluto, che regna nella storia. Il suo addomesticamento, il suo supera-mento, la sua ricostituzione nel movimento dialettico serve dunque a toglierequesta parvenza e a liberare l’universale in esso dissimulato, a riconoscere l’i-dentità dell’Assoluto con se stesso. L’alterità non è altro dunque che unmomento dell’identico.

Viene qui però messa in rilievo l’ambiguità essenziale di questo gesto: con-vergendo nell’affermazione dell’universale, inverandosi, il negativo lungi dal-l’essere destituito, viene, per così dire, elevato a potenza: “Si può così dire cheHegel non solo allestisce effettivamente lo scenario, ma definisce l’esattaposta in gioco del rapporto tra filosofia e violenza: la filosofia (il corso storicoe teorico del logos) è sì una risposta al negativo e alla violenza (nella misurain cui si serve di essi per ricomporre una superiore conciliazione), ma solo inquanto essa stessa si fa portatrice di negatività e di violenza –una violenza disecondo grado, una metaviolenza nei confronti di ciò che è semplicementedato e dev’essere tolto” (p. 35).

A questa posizione Giusi Strummiello affianca quella di Eric Weil. Nellasua Logica della filosofia, Weil sostituisce la concezione classica dell’uomocome animal rationale con quella di animal rationabile e, come Hegel, fa dellanegazione, dell’affrancamento, il tratto costitutivo dell’uomo. La negazione èinfatti l’attività con la quale l’uomo si affranca dalla sua condizione animalenaturale per fare della ragione –la ragionevolezza– il proprio compito: essereragionevole è per Weil il modo di liberarsi dallo scontento, dall’insoddisfazio-ne, e maturare così la propria libertà. La violenza diviene quindi la contro-parte del divenire esseri ragionevoli, diventa l’irragionevole. La ragionevolez-za si costituisce quindi come lo sforzo di una graduale armonia tra gli uomi-ni, come dialogo, e rappresenta la libertà stessa come tratto proprio dell’uo-mo poiché è essa stessa scelta libera. A questo fa appello l’ideale weilianodel “discorso assolutamente coerente”, ad un ideale di logos come ragionerealizzata tale da non contrastare più la possibilità della violenza ma piutto-sto ricomprenderla in positivo.

Ed ecco che l’Autrice mostra ancora la circolarità di questa ulteriore posizio-ne del problema, circolarità in qualche modo strutturale: con le parole di Weil, “ilrisultato paradossale è dunque che la violenza non ha senso che per la filoso-fia, la quale è rifiuto della violenza” (cfr. p. 72); nelle parole della Strummiello,“senza la violenza […] la filosofia non sarebbe concepibile, non potrebbe darsineppure come possibilità” (p. 73); “perché ci sia scelta consapevole del discor-so filosofico […] ci si deve rappresentare la violenza” (p. 80).

La seconda sezione, intitolata “Metafisica e violenza”, pone una domandaben più radicale: questo “inizio” violento che genera la filosofia non porta invecea concepire il logos come già permeato di violenza, attraversato cioè, per la suastessa pretesa di organizzare un senso, da un imprescindibile vena violenta?

Fondamentale per l’Autrice si rivela qui quella riflessione radicale ancora inatto sull’inizio stesso, sul gesto originario del pensiero che inaugura la metafi-sica e la conseguente esigenza di pensare la possibilità di un superamento

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della metafisica stessa, in particolare attraverso le riflessioni di Heidegger,Adorno, Lévinas e Derrida.

La filosofia trova al fondo della propria urgenza la percezione di qualco-sa di inquietante, di qualcosa di terribile che si situa più in là del thaumázein,e che Heidegger ritrova nel primo coro dell’Antigone di Sofocle: “Di moltespecie è l’inquietante, nulla tuttavia/di più inquietante dell’uomo s’aderge” (p.91). Nel 1935 Heidegger considera l’uomo come essenzialmente violento inquanto corrisponde all’apparire dell’essere che è un imporsi, un vigere nelmezzo dell’essente, esponendosi così alla percezione dell’inquietante, dellospaesamento, della perdita di ciò che è familiare: “L’uomo fa violenza domi-nando […] la violenza del predominante” (p. 96). L’uomo è violento in sensoontologico perché l’evento dell’essere è un imporsi violento. La cifra dellaviolenza di questo corrispondimento tra uomo ed essere è il logos pensatocome légein, come un raccogliere l’essere nel suo insieme con la lotta, eser-citando la violenza che tiene aperto, nel seno dell’essente, il varco per lamanifestazione dell’essere.

Il logos originario sta dunque, per Heidegger, nella decisione di corrispon-dere all’imporsi dell’essere e nella lotta volta a mantenere questa apertura.Platone e Aristotele avrebbero in seguito tradotto/tradito questa verità dellogos pensandola come ambito della rappresentazione degli enti.

Ma già con Heidegger è raggiunto un importante risultato ai fini di questaricerca: anche nel suo darsi aurorale, il logos si dà nella lotta, nella violenza,è percorso trasversalmente dalla conflittualità.

Questo significa, con l’Autrice, che anche posizioni fortemente avverse allatradizione metafisica della filosofia, avverse ad Heidegger stesso, devono farei conti con una negatività insita nello stesso statuto del logos: Adorno opponeun rifiuto netto alla metafisica considerata come la matrice teorica della trage-dia nazista, pur mantenendo il semplice senso in essa presente di aperturasull’alterità assoluta ma svuotando questa promessa di ogni contenuto con-cettuale, come una promessa che sottrae sempre il proprio dovuto. Anche inLévinas l’alterità più radicale da appello morale diviene fondamento puro checi si impone come un comandamento, e che si impone senza possibilità ulte-riori, nel silenzio.

È allora con Derrida che l’Autrice giunge a considerare che non si dà logospuro, esso è sempre insieme violato e violento: la filosofia allora non può cheessere quella scelta unica e radicale di riconoscere questa compromissione edi optare per la minore violenza possibile: essa è l’ambito esclusivo in cui sirende possibile una economia della violenza.

Nella terza sezione, intitolata “Cristianesimo e violenza”, viene analizzatal’altra matrice fondamentale dell’Occidente, e cioè quella giudaico-cristiana, eil suo rapporto con la violenza. Non si può a tal proposito non ricordare la sen-tenza nietzscheana di condanna del cristianesimo, ma ad essa l’Autrice con-trappone la lettura in chiave antropologica che Girard fa delle Scritture, inter-pretandole come custodi di una teoria dell’uomo e come un epocale sma-scheramento della violenza quale fondamento della costituzione delle comu-nità e del sacro. La secolarizzazione del cristianesimo sta dunque nella tradu-

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zione in termini storico-antropologici della colpa umana che sta al fondo diogni comunità, quella con la quale si esorcizza il negativo attraverso il sacrifi-cio umano. Il cristianesimo, con la figura del Cristo, ha additato per primo l’in-nocenza della vittima sacrificale, minando così la possibilità di allontanare lacolpa o di occultarla nel culto del sacro.

Altro concetto fondamentale della tradizione cristiana è la creazione exnihilo che l’Autrice rivisita attraverso le tesi di María Zambrano. Per laZambrano la violenza che scuote l’Europa nel Novecento deriva da lontano,fin dalla dottrina cristiana della creazione dal nulla considerata come un attoassoluto, una violenza che squarcia la notte dei tempi generando le cose, unatto violento esso stesso ma di una violenza positiva poiché propria della divi-nità. Il creazionismo rappresenta l’elemento di originalità che il cristianesimo el’ebraismo introducono rispetto alla tradizione greca: esso è dunque “ciò checostituisce la matrice dell’Europa, poiché è l’adorazione del suo Dio che giu-stifica nell’uomo europeo la sua attività creatrice” (p. 257). La capacità creatri-ce è dunque motivo autentico di una intimità dell’uomo con Dio ed ha pertan-to una valenza positiva come, secondo la Zambrano, pensava ancheAgostino. Ora, l’attività umana si è piuttosto sviluppata nella più completadistanza da quel suo essere originaria prosecuzione dell’attività creatrice divi-na, avanzando la pretesa di sostituirsi ad essa in tutto, divenendone dunqueuna “variante perversa” (p. 260). Il cristianesimo è quindi portatore di una ori-ginaria consapevolezza della condizione di incompiutezza e contingenza del-l’uomo ed in essa radica il senso autentico della capacità creatrice umana inte-sa come compito di progettarsi: esso insegna all’uomo a vivere nel fallimentodella propria presunzione di assolutezza.

Un’ultima sezione analizza i modi di concepire le forme storiche concretedi violenza. Vengono qui percorse in modo particolareggiato le principali tesiche interpretano la violenza nel suo darsi storico: come strumento ai fini degliequilibri economici (Engels), mezzo pedagogico (Sorel), fondamento del dirit-to (Benjamin), tratto attuale e fondamentale dell’apertura all’altro in sede diontologia trascendentale (Sartre), controparte nella definizione del potere(Arendt). Ma l’Autrice si sofferma, sulla scorta di quanto fin’ora guadagnato,soprattutto sulla concezione di Foucault: con essa infatti scompare l’immaginemonolitica del potere –e quindi della violenza– che diventa il dato di rapportidiscontinui, mutevoli, locali, diviene cioè parte della trama di rapporti in cuisempre siamo. In questi rapporti, la violenza rappresenta un mezzo, e per dipiù non necessario: ritorniamo così alla filosofia come sede di una concezio-ne economica della violenza sostenuta da un lavoro di ricerca genealogica elocale dei rapporti di cui la violenza stessa si compone.

Ed è nella storia che il logos, compromesso con il negativo, incontra il logosdel testimone, del sopravvissuto, e la sua soggettità destituita. Siamo, con latestimonianza, davanti ad un linguaggio che non appartiene ad un soggetto, ela violenza che lo anima è sempre tale da tenere in scacco il pensiero, il senso.L’Autrice sottolinea che sebbene la testimonianza sia sempre necessaria (ilsilenzio non è che il perpetuarsi eterno e a-storico dell’orrore subito) non pos-siamo però rendere il testimone un puro “portatore di storia”, nella misura in

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cui si rischia non solo la spettacolarizzazione della testimonianza, ma anche ilsuo inglobamento in una “dimensione industriale” (p. 376).

La pratica filosofica esce, dall’indagine di Giusi Strummiello, sezionata nelsuo legame con la violenza e smascherata nelle sue pretese assolute, richia-mata ad una consapevolezza fatta di un paziente ed accurato lavoro di deco-struzione delle interpretazioni conflittuali e della sua comunanza con questastessa conflittualità.

Proprio tale consapevolezza permette di evidenziare uno dei tratti più rile-vanti del discorso dell’Autrice: sull’importanza e sull’urgenza di considerare unlegame diretto tra filosofia e violenza, come si dice fin dalle prime battute delvolume, regna la luce sinistra dei drammi storici e umani del secolo scorso ela consapevolezza che proprio il rigore di una organizzazione razionale deimezzi ne ha reso possibile il compimento. Questo imporrebbe il dovere diimputare una certa responsabilità proprio al fallimento della “ragionevolezza”della filosofia di fronte a simili tragedie.

Dice dunque l’Autrice a questo proposito: “Questo è forse il vero circolo incui la filosofia si dibatte: il dolore, l’ingiustizia, la violenza richiedono risposteforti che la filosofia non può e non deve, in tutta onestà, dare” (pp. 390-391).Questo significherebbe infatti tradire una volta di più ciò che è davvero da pen-sare: il tentativo della Strummiello di sottrarre la violenza al monopolio di unariflessione etico-morale o di una considerazione “destinale” se da un lato per-mette di rilevare la profondità e difficoltà della questione, dall’altro attribuisceal pensiero un compito gravoso.

Se di responsabilità della filosofia si deve parlare essa non può che con-sistere nel misconoscere il suo legame con la violenza, e per il logos dissi-mulare la consapevolezza che il proprio statuto si fonda sulla possibilità stes-sa della violenza. Esso dovrà allora progettarsi, crearsi su questa misura esenza alcuna garanzia di successo. In breve: dovrà prendere consapevolez-za della propria radicale finitudine. Arginare meticolosamente la possibilitàdella violenza: questo il proprio del pensiero e la dimensione della sua auten-tica finitudine.

Ed in questo sta allora anche la impossibilità di un superamento della meta-fisica, “perché questa è l’unica storia che abbiamo” (p. 121): se ogni discorsonon solo è compromesso statutariamente con la violenza, è esso stesso aper-tura del violento, e partecipa sempre delle manifestazioni storiche della vio-lenza e della sua rete locale di equilibri e discontinuità, dobbiamo, insiemeall’Autrice, pensare che “alcune forme di violenza rimangono, con tutte le cau-tele che si vogliono, preferibili ad altre. Questo è il senso dell’espressione, cheabbiamo mutuato da Derrida e a cui abbiamo più volte fatto riferimento nellepagine precedenti, ‘economia della violenza’: non si può uscire fuori da que-sto regime (così come non si può saltare tout court fuori dal testo della meta-fisica), ma si può e anzi si deve optare per la violenza minore, per quella chenon solo cerca di evitare, ma si impegna a combattere le forme più distruttivedi violenza” (p. 384).

Roberto Ferrario

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novitàIn questi due testi teatrali l’autore porta fino alle conseguenze estremel’andatura della sua prosa che si compatta in un narrato contratto, sintetico,molto ritmico, giungendo fino alla forma poetica.In Catarsi è messo in scena il suicidio di un Empedocle contemporaneo. Ilmomento estremo prima della morte in un luogo anch’esso estremo, l’Etna.Ape Iblea èun’elegia per Noto dove si canta del terremoto, della ricostruzionee del degrado ambientale.Appare, in filigrana ma ben evidente, l’impegno civile sotteso a tutta l’operadi Consolo.

Vincenzo ConsoloOratorioDue testi teatrali

novitàIl libro raccoglie l’ultimissima produzione di Alda Merini; è articolatoin tre sezioni: nella prima (“Dediche”) si ricostruiscono le relazioniintellettuali ed umane della poetessa; la seconda (“Canzoniered’amore”) è dedicata a d un tema dominante della poesia della Merini:la ricerca dell’amore in tutte le sue accezioni, da quella religiosa aquella sensuale, che in Alda si coniugano, in quanto la sensualità èinsieme spiritualità; la terza sezione, che dà il titolo alla raccolta, èuna riflessione sul mestiere del poeta, sul senso della poesia.

Alda Mer in iIl maglio del poeta

pp. 64 - t 8,00

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PUBBLICAZIONI RICEVUTE DA «SEGNI E COMPRENSIONE»(oltre quelle recensite nella rivista)

Volumi:

F. DAL BO, Società e discorso, con inedito di J. Derrida, Mimesis, Milano 2002,pp. 218.P. DALLA VIGNA, A partire da Merleau-Ponty, Mimesis, Milano 2002, pp. 232. D. FELICE, a cura di, Dispotismo. Genesi e sviluppo di un concetto filosofico-politico, voll. 2, Liguori, Napoli 2001, pp. 702. F. LEONI e M. MALDONATO, a cura di, Al limite del mondo. Filosofia, estetica, psi-copatologia, Dedalo, Bari 2002, pp. 240.E. LISCIANI PETRINI, La passione del mondo. Saggio su Merleau-Ponty, E. S. I.,Napoli 2002, pp. 292.A. MONTANO, Il prisma a specchio della realtà. Percorsi di filosofia italiana traOttocento e Novecento, Rubbettino, Soveria Mannelli 2002, pp. 268. A. NAPOLI, Thomas Hobbes e gli italiani. 1981-2000. Bibliografia recensioni,Cuen, Napoli 2002, pp. 372.S. DE SIENA, La sfida globale di E. Morin, Besa, Nardò 2002, pp. 272.L. VALENTINO, Il saluto dell’errante. Tra poesia e pensiero in Heidegger,Sugarco, Milano 2002, pp. 170. S. VUSKOVIC ROJO, Allende en el mundo, Colectivo Itinerante, Valparaiso s. d.(2002).

Periodici:

Antologia Vieusseux, n. 22, gennaio-aprile 2002.Aquinas, n. 1, a. XLV, 2002. E. FRANZINI, Il teatro, la festa e la rivoluzione. Su Rousseau e gli enciclopedi-sti, Aesthetica Preprint, Centro internazionale Studi di Estetica, n.65, 2002,pp.104.Idee, n.49, 2002. L’incantiere, n. 58, a. XV, maggio 2002.Máthesis. Revista de Educaçao, v. I, n. 1, jan.-jun. 2000; v. 1, n. 2, jul.-dez.2000; v. 2, n. 1, jan.-jul. 2001.G. MORPURGO-TAGLIABUE, Il Gusto nell’estetica del Settecento, a c. di L. Russoe G. Sertoli, Aesthetica Preprint-Supplementa, Centro internazionale Studi diEstetica, n.11, 2002, pp. 254.Proyección, teologia y mundo actual, n. 204, a. XLIX, enero-marzo 2002.Studia patavina, a.XLIX, n.2, maggio-agosto 2002. Uomini e idee, n. 11, 2002.

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La capacità del testo letterario di andare oltre il contesto nelquale è prodotto. Saggi su Bachtin, Jakobs, Lotman e DeMartino.I saggi qui raccolti focalizzano, all’interno del rapporto traletteratura e significazione, un problema che interessa lospecifico della parola letteraria: il suo essere discorso dalsenso oltrepassante (non solo aperto, dunque) rispetto alsignificare determinato, necessario, chiuso entro il codicetipologico della cultura che lo emette.

Carlo Alberto AugieriLa letteraturae le forme dell’oltrepassamento

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