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sensoprg

Date post: 22-Mar-2016
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sensoprg, tm2011
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Luchino Visconti con Francesco Rosi sul set del film “Senso”.

Cinema e teatro non son la stessa cosadi Hugo de Ana

Quando il Teatro Massimo di Palermo mi chiamò per affidarmi la realizzazione della prima assoluta di Senso di Marco Tutino, mi sono sentito grato e lusingato, ma anche molto preoccupato dall’eredità del film di Luchino Visconti, riferimento culturale noto a tutti. Però mi sono subito accorto che l’opera di Tutino partiva da un’ottica di-versa, dove tutto è visto, come succede già nel racconto di Boito, in flashback, con Livia che evoca il proprio passato. Sono molti i punti di contatto col film, ma il linguaggio cinemato-grafico è molto diverso dal linguaggio teatrale e la scrittura musicale di Tutino è molto più attuale. Anche la psicologia dei personaggi è diversa ed è sempre presente il contrasto di lotta di classe, tra l’ari-stocrazia e i patrioti borghesi. La vittoria e la sconfitta sono manife-stazioni dell’animo umano e come tali sono presentate. Non può mancare il riferimento a Verdi, con alcuni spunti dal Trovatore ma, siccome «il teatro e la vita non son la stessa cosa»… an-che il cinema e il teatro non son la stessa cosa: costituiscono infatti due espressioni assolutamente diverse della drammaturgia anche se oggi, con l’introduzione delle nuove tecnologie, è possibile collegarli. Questo spettacolo gioca simbolicamente su teatro, opera, sogno, realtà e irrealtà, coi conflitti storici, politici e sociali a fare da sfondo al dramma personale di Livia. Anche se in Senso si allude a un popolo in guerra che cerca la sua liberazione, in primo piano c’è sempre lei, Livia, vittima e carnefice della propria passione. Livia, chiusa nella sua gabbia di specchi, chiusa in un mondo al quale non appartiene, cerca la libertà attraverso l’amore, la passione e la scoperta del sesso in un conflitto tra mente e cuore.

Papa Pio IX.

Risorgimentodi Salvatore Lupo

Allorquando fu comunicata la sentenza non si turbarono punto; che anzi chiesero

da mangiare e bere e vari caffè. I confortatori fecero inutili sforzi per convertirli,

ed in tale contumacia furono condotti al patibolo. Dodici tamburi dovettero di

continuo battere per confondere col loro suono le orrende bestemmie che lungo

la strada profferirono, e la nota canzone Chi per la patria muore ha vissuto assai.

Bello incontrar la morte gridando libertà. Il primo, senza voler entrare nella con-

sorteria, ascese il palco festevole e colà giunto si pose a ballare all’usanza roma-

nesca gridando “Viva l’Italia, viva la Repubblica. Morte ai preti. Forti compagni”.

Questo brano, tratto da una cronaca del 1854, ci mostra tre patrioti repubblicani salire sul patibolo nella Roma papalina maledicendo preti e tiranni, invocando la Repubblica e una rivoluzione nazionale. Il grido li contrappone ad austriacanti, legittimisti e fautori del Papa re, ma anche ai patrioti di ispirazione monarchico-liberale: i cui lea-der si mostrano in questi stessi anni impegnati di fronte ai regnanti europei, all’opinione pubblica internazionale e italiana, a contrasta-re la rivoluzione ordita dalla setta mazziniana. Invece i versi tratti delle arie di Mercadante e Bellini disegnano un terreno comune a moderati e radicali, l’idea di una patria soggetta allo straniero da riscattare al prezzo del massimo sacrificio. Non a caso è prevalso, per definire il complesso del grande moto italiano del 1861-70, il secondo aspetto e con esso il termine Risorgi-mento. Noi stessi continuiamo a usarlo oggi per quanto il suo suc-cesso sia dovuto all’occultamento, piuttosto che al chiarimento, del legame tra l’idea nazionale, quella liberale, quella democratica; per quanto esso rifletta una retorica ottocentesca decisamente fuori dal

nostro tempo. Penso alle ossessive metafore imperniate sul suolo, il sangue e la stirpe, così sospette, più che obsolete, ai nostri occhi di posteri che hanno conosciuto la Shoah e le varie forme di pulizia et-nica. Meno sospetta, ma altrettanto distante da noi, è l’identificazio-ne della nazione con una famiglia simbolica, per cui gli italiani sono tenuti a sentirsi “fratelli” e a difendere col loro sangue padre e madre (la madre-patria), spose e sorelle. A risorgere, come nella tradizione cristiana che funge da modello di questa simbologia, è il corpo di una creatura vivente, uguale a se stessa nel passato, nel presente, nel fu-turo e nel passato. Da qui l’uso e l’abuso della dimensione storica. Il termine Risorgimento entrò nell’uso in età napoleonica. Già al-lora Foscolo esprimeva al massimo livello, nel suo carme Dei sepolcri, un concetto che di maggior fortuna avrebbe goduto in seguito: quel-lo della coincidenza dell’identità nazionale con la grande tradizione culturale italiana. Il concetto valeva a rispondere sul loro stesso ter-reno ai viaggiatori provenienti dall’Europa progredita, che – ammi-rando le rovine classiche, le testimonianze di cultura medievale e ri-nascimentale, e confrontando il tutto con la presente miseria mate-riale e morale – guardavano all’Italia come alla terra dei morti, e agli italiani viventi agli eredi degeneri di un grande passato. Rispondeva anche all’oppressore per antonomasia, il principe di Metternich, e alla sua sprezzante definizione dell’Italia come mera “espressione geografica”. In quegli anni, libretti di melodrammi, poemi e romanzi procla-marono la necessità che il popolo italiano ritrovasse la perduta “vir-tù” per uscire dalla condizione vergognosa di “volgo disperso”. Tra i prodotti di modesto livello, ma di largo successo, che confusamente sovrapposero gli ideali patriottici del secolo XIX alla storia del passa-to, citiamo il romanzo Ettore Fieramosca, ossia la disfida di Barletta, pub-blicato dal patriota piemontese D’Azeglio nel 1833: storia ambientata nell’Italia del 1503 percorsa da contrapposti eserciti stranieri, dove un pugno di eroi riusciva a tenere alto – contro la preponderanza nemica e le trame degli stessi traditori locali – l’onore militare della patria.

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Senso

È chiaro che il senso della comune identità non esisteva nei tem-pi cui D’Azeglio si riferiva, ma nemmeno in quelli in cui scriveva: o meglio, non coinvolgeva tutti gli italiani a cominciare dagli anal-fabeti che formavano la grande maggioranza della popolazione. Va detto peraltro che quell’immagine del rapporto tra passato e pre-sente era tipicamente moderna, per i fini come per i mezzi. Essa si accompagnò a un flusso di mobilitazione politica che nel complesso della stagione 1815-1860 fu quasi continua, che si concretizzò non solo in un forte flusso di opinione ma in una diffusa militanza, e in particolare in quel fenomeno straordinario di partecipazione col-lettiva che fu il volontariato militare. Vennero coinvolti molti ele-menti giovani provenienti dagli strati sociali che generalmente (e genericamente) definiamo borghesia, ma anche non pochi settori dei ceti popolari urbani: come si vide chiaramente nel corso delle insurrezioni di Milano, Venezia, Palermo, e di molte altre città. In questi casi emersero motivazioni politico-identitarie (municipaliste, localiste) non riconducibili direttamente al “canone” risorgimentale. Non era interamente riconducibile ad esso nemmeno l’idea di rivolu-zione che da Cuoco a Pisacane a Garibaldi ne spezzò a tratti la logica unanimistica, nonché i conati di guerra civile che in più occasioni, e in particolare tra il 1860 e il 1866, squassarono il campo patriottico. Invece sta del tutto fuori da quel canone la guerra civile che oppose in effetti nel Mezzogiorno continentale, tra il 1860 e il 1863, patrioti e legittimisti borbonici. Ciò sia detto per introdurre il tema della complessità e anche del-la contraddittorietà di quel moto che continuiamo a definire come Risorgimento; tema che non autorizza affatto conclusioni svalutanti da parte dei posteri, ma anzi dovrebbe aiutarli a comprenderne il carattere grandioso. In generale, non credo si possano ignorare le parole di libertà e di emancipazione che in questo come in altri casi risuonavano – tra le altre – nel linguaggio ottocentesco della nazio-ne. Ne erano ben certi non solo i patrioti, ma anche i loro nemici: che vedevano dietro l’uno e le altre le mene di una setta capace di travia-re le menti dei “semplici”, di avviare il mondo verso un rivolgimento

Risorgimento

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Bibliografia essenziale

Boito, C. Senso, introduzione di Alberto Moravia, illustrazioni di Piero Guccione, Roma, Franca May Edizioni, 1986.Buono, M. Marco Tutino neoromantico, Testo musicale italiano fra avanguar-dia e postmoderno, Trento, UNI Service, 2010.Camillo Boito e il sistema delle arti. Dallo storicismo ottocentesco al melodram-ma cinematografico di Luchino Visconti, Milano, Il Poligrafo, 2002.Luchino Visconti. Senso, a cura di G.B. Cavallari, Bologna, Cappelli, 1955.Lupo, S. Il passato del nostro presente. Il lungo Ottocento 1776-1913, Bari, Laterza, 2010.Maraldi, A. Senso, un film di Luchino Visconti, Firenze, Il Ponte Vecchio, 2004.Pellanda, M. Senso, Palermo, L’Epos, 2008.Romantica, edizione discografica della Sinfonia n. 4 di Anton Bruckner con audiolibro di Senso, a cura di P. Daverio, Milano Classica Italia, 2009.Storia del candore. Studi in memoria di Nino Rota nel ventesimo della scom-parsa, a cura di G. Morelli, Firenze, Olschki, 2001.