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sentenza 1° febbraio 1983, n. 14 (Gazzetta ufficiale 9 febbraio 1983, n. 39); Pres. Elia, Rel....

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sentenza 1° febbraio 1983, n. 14 (Gazzetta ufficiale 9 febbraio 1983, n. 39); Pres. Elia, Rel. Ferrari; Pres. cons. ministri (Avv. dello Stato Carafa) c. Pres. regione Campania (Avv. Abbamonte) Source: Il Foro Italiano, Vol. 106, No. 6 (GIUGNO 1983), pp. 1549/1550-1555/1556 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23177080 . Accessed: 25/06/2014 09:52 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 185.2.32.58 on Wed, 25 Jun 2014 09:52:01 AM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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Page 1: sentenza 1° febbraio 1983, n. 14 (Gazzetta ufficiale 9 febbraio 1983, n. 39); Pres. Elia, Rel. Ferrari; Pres. cons. ministri (Avv. dello Stato Carafa) c. Pres. regione Campania (Avv.

sentenza 1° febbraio 1983, n. 14 (Gazzetta ufficiale 9 febbraio 1983, n. 39); Pres. Elia, Rel.Ferrari; Pres. cons. ministri (Avv. dello Stato Carafa) c. Pres. regione Campania (Avv.Abbamonte)Source: Il Foro Italiano, Vol. 106, No. 6 (GIUGNO 1983), pp. 1549/1550-1555/1556Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23177080 .

Accessed: 25/06/2014 09:52

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

dello straniero che acquista la cittadinanza italiana. Salvo voler va nificare gli effetti di tale disciplina, non si potrà infatti continuare a

subordinare l'acquisto al preventivo « svincolo » della cittadinanza da

parte del paese d'origine. A parte ogni considerazione su una prassi, a nostro avviso, illegittima, nulla impedisce a detto paese, senza

produrre alcun effetto sulla naturalizzazione italiana, di considerare l'individuo comunque proprio cittadino (38). Le valutazioni dello Stato in materia, data la sua competenza in linea di principio esclusiva sul

piano internazionale, non incontrano, come è noto, limiti, tranne quei pochi, invero, derivanti da accordi internazionali. La convenzione di

Strasburgo prima menzionata assume appunto rilievo sotto questo

profilo, anche se nell'ambito dei soli paesi (dieci) che l'hanno ratifica

ta. Proponendosi di eliminare le situazioni di cittadinanza plurima, lo

straniero appartenente ad uno di quei paesi, naturalizzato italiano, perderà la propria cittadinanza originaria, senza possibilità di essere autorizzato a conservarla; inoltre alla straniera coniugata con italiano, la quale intenda rinunciare alla cittadinanza italiana (art. 7 1. n.

123), come pure al figlio pluricittadino, che rinunci, raggiunta la

maggiore età, alla cittadinanza italiana (art. 5), non potrà essere

opposto ostacolo alcuno, dovendo sempre essere concessa quella « au torizzazione » alla perdita che la convenzione considera come atto

dovuto in presenza soltanto di determinati presupposti (39). 5. - Acquisto e rinuncia della cittadinanza italiana dovranno infine

essere valutati dai singoli per le conseguenze che un tale atto

comporta, sotto più profili. a) Sotto il profilo valutario, basterà ricordare che lo straniero

residente nel nostro paese, acquistata la cittadinanza italiana, sarà

soggetto alla disciplina valutaria italiana non più « limitatamente all'attività produttrice di redditi ivi esercitata » (art. 1, n. 3, d. 1. 6

giugno 1956 n. 476) ma ad ogni effetto, quale cittadino italiano residente nella repubblica (art. 1, n. 1, d. 1. cit.), e che lo straniero residente all'estero, acquistata la cittadinanza italiana, sarà invece

soggetto alla disciplina in questione « limitatamente all'attività pro duttrice di reddito» nel nostro paese (art. 1, n. 4, d.l. cit.). Quanto alla straniera che rinuncia alla cittadinanza italiana, rimarrà soggetto valutario italiano, ma solo per l'attività produttrice di reddito eserci tata nel nostro paese, sempre che qui conservi la residenza, mentre

nell'ipotesi in cui abbia la residenza all'estero — pur rientrando in teoria nel regime di cui all'art. 1, n. 4, d.l. cit. — si è sostenuto che se la persona è priva ormai da tempo della residenza in Italia, la rinuncia alla cittadinanza le faccia perdere ogni collegamento considerato rilevante dalla legge con lo Stato italiano, divenendo ininfluente la circostanza che conservi o meno una fonte di reddito in Italia (40).

l'abrogazione delle norme della 1. n. 555 incompatibili: ma si tratta di una disposizione che, non diversamente dall'art. 8 1. n. 123, e, come osserva Rasi Caldogno, Commento art. 219, cit., 936, nella sua ovvietà priva di concreto valore, ignorando i problemi di coordina mento della legge sulla cittadinanza con le innovazioni legislative. Si ricorda che la 1. n. 123, oltre a modificare le norme in precedenza ricordate della 1. n. 555 — art. 1, 2, 4, 10, 11 — modifica, data la nuova disciplina sulla cittadinanza dei figli minori, anche l'art. 12 (cittadinanza di figli minori non emancipati di genitore che acquista, recuperi o perda la cittadinanza): si vedano i rilievi e rifer. alle note 2, 3, 7 e 25.

(38) Si veda quanto si è detto in precedenza, rifer. alla nota 13, sulla prassi dello « svincolo »; sulla libertà dello Stato nel determina re i criteri di attribuzione della propria cittadinanza, sulla sua auto nomia legislativa e competenza esclusiva -— come si sottolinea pure oltre nei testo — ci si limita a ricordare gli scritti già menzionati di Ziccardi, Osservazioni, cit., 656 ss.; Quadri, Cittadinanza, cit., 320 ss.; Biscottini, Cittadinanza, cit., 143 s., e per rifer. giurisprudenziali il ns. Cittadinanza, cit., 755 ss.

(39) Sugli effetti della convenzione in generale — entrata in vigore in Italia il 28 marzo 1968 — cfr. la nota 28 {la convenzione è stata ratificata soltanto da dieci dei ventun paesi membri del Consiglio d'Europa). Si vedano in particolare gli art. 1 e 2, e i nn. 1, 2, 4 dell'allegato alla convenzione, quanto alla possibilità di esprimere riserve in proposito: il nostro paese, all'atto del deposito dello strumento di ratifica, si è riservato di subordinare la perdita della propria cittadinanza di cui ai par. 1, 2, 3 dell'art. 1, alla condizione che il cittadino risieda abitualmente — o fissi la sua residenza abituale in

qualsiasi momento — al di fuori del territorio italiano (a meno che, in caso di acquisto volontario di cittadinanza straniera, sia dispensato da tale condizione da parte dell'autorità competente). Per quanto riguarda la cittadina straniera diventata italiana a seguito di matri monio (o di acquisto di cittadinanza italiana da parte del marito), lo Stato italiano ex art. 2 convenzione era obbligato a non rifiutare l'autorizzazione alla perdita della propria cittadinanza quando essa, maggiorenne, avesse stabilito da almeno dieci anni la residenza abi tuale fuori dal territorio italiano, e fissato tale residenza nel paese d'origine (una riserva in proposito consente allo Stato di non applica re gli art. 1 e 2 se la straniera ha acquistato una cittadinanza nuova

rispetto a quella derivante dal matrimonio, fino a che il marito conservi la cittadinanza italiana). Nel protocollo di emendamento del

1977, non sottoscritto dall'Italia, si modifica fra l'altro l'art. 2 e si

abrogano i nn. 2 e 4 dell'allegato, facilitando la possibilità di rinunciare alla cittadinanza del paese ove la persona non abbia la residenza abituale.

(40) Sull'ambito dei destinatari della disciplina valutaria cfr. art. 1 d. 1. 6 giugno 1956 n. 476, conv. in 1. 25 luglio 1956 n. 786, e sulle

conseguenze di tale definizione ai fini dell'applicazione delle norme rilevanti — in particolare il noto d.l. 4 marzo 1976 n. 31, conv. in 1. 30 aprile 1976 n. 159, e successive modificazioni — cfr. Santa

Maria, Residenza, cit., spec. 1595 ss. e Residente, cit., spec. 278 ss.:

ivi, 302 ss., sull'interpretazione dell'espressione « limitatamente all'atti

vità produttrice di reddito esercitata nel territorio della repubblica », e 338 ss., sul criterio della cittadinanza (si noti che anche sotto il

b) Lo straniero che intenda acquistare la cittadinanza italiana non potrà certo limitarsi a valutare, al momento di tale scelta, i soli aspetti positivi derivanti dalla naturalizzazione, in particolare la liber tà da vincoli e restrizioni posti dal nostro ordinamento alla circola zione e soggiorno dello straniero e all'esercizio da parte sua di una qualunque attività di lavoro, subordinato o autonomo. Lo stranie ro naturalizzato italiano, pur libero da tali vincoli, potrà infatti essere costretto a prestare il servizio militare, non essendo in linea di principio esonerato dagli obblighi di leva, salvi i limiti di età, e gli accordi internazionali (di numero e rilievo, però, limitato) che riten gano assolti tali obblighi quando sia stato prestato il servizio militare in altro paese (41).

La straniera che rinunci alla cittadinanza italiana, o non la intenda acquistare, dovrà viceversa valutare le conseguenze di tale scelta quanto alla condizione di precarietà e inferiorità che il nostro ordi namento ricollega allo status di straniero (42), ma anche in questo caso agli aspetti negativi potranno opporsene di positivi, quale per esempio la possibilità di « trasmettere » la propria cittadinanza ai figli, consentendo loro l'esercizio dell'opzione al raggiungimento della maggiore età.

Si tratta, come si vede, di una valutazione complessa. Ai non pochi problemi che nascono dalle norme in materia di cittadinanza, che anticipano solo in modesta misura la tanto auspicata organica riforma legislativa, si aggiungono quelli derivanti, pure, da una man cata riforma, e riordinamento, delle norme sull'ingresso e soggiorno dello straniero, non diversamente sollecitata dalla Corte costituziona le (43). Fra tanti inviti, sollecitazioni e auspici, in gran parte disattesi, non resta che augurarsi che, almeno in futuro, le iniziative in proposito abbiano quel minimo di coordinamento che le materie, senza dubbio, richiedono, con vantaggio reciproco per cittadini e Stranieri.

Bruno Nascimbene

profilo valutario vi è parificazione fra apolide-residente e straniero-re sidente; cfr. la nota 10); si veda pure, anche per ulteriori rifer., C. Biscaretti Di Ruffia, Alcune osservazioni, cit., 1007 ss. Quanto agli obblighi incombenti su chi abbia duplice cittadinanza cfr. la circolare UIC, n. 345, dell'I 1 novembre 1976; sulla nozione di residenza in ge nerale cfr. gli autori citt. alla nota 12, e sulla particolare rilevanza della residenza ai fini fiscali (e criteri di collegamento con il territorio dello Stato) cfr. spec. art. 2, 19 d.p.r. 29 ottobre 1973 n. 597.

(41) Si ricorda che l'art. 101 d.p.r. 14 febbraio 1964 n. 237 dispone che « Gli stranieri che acquistano la cittadinanza italiana sono dispensati dal compiere la ferma di leva, salvo l'obbligo di rispondere alle eventuali chiamate della loro classe, quando, per compierla, dovrebbero iniziare il servizio dopo il compimento del trentesimo anno di età» (l'art. 27 1. 31 maggio 1975 n. 191 dispensa invece dagli obblighi di leva, in presenza di determinate condizioni, i cittadini italiani nati all'estero che « investiti per nascita della citta dinanza estera locale, provino di aver prestato nelle forze armate del paese di nascita un periodo effettivo di servizio alle armi non inferiore a sei mesi, salvo quanto diversamente stabilito da conven zioni stipulate con Stati esteri »). 'Per alcuni cenni sugli accordi in ternazionali in vigore con il nostro paese — sette bilaterali, oltre alla convenzione di Strasburgo cit. — cfr. recentemente Clerici, Cittadinan za, cit., 1275 s.; cfr. pure i rifer. alla nota 1 sull'illegittimità dell'art. 8, 2° comma, sull'obbligo del servizio militare anche per gli ex cittadini.

(42) Sui vari aspetti della condizione dello straniero nel nostro ordinamento cfr. Cassese, in Commentario della Costituzione, cit., 1975, 508 ss., sub art. 10; Giardina, Dell'applicazione della legge in generale (art. 16), cit., 1 ss.; Ballarino, Diritto internazionale, cit., 557 ss.; Mengozzi, Le disposizioni, cit., 282 ss. (spec, con riferimento all'art. 16 disp. prel.). Per riferimenti giurisprudenziali e di dottrina, per quan to attiene in particolare alla circolazione, soggiorno ed esercizio di at tività di lavoro si permette rinviare al ns. Cittadinanza, cit., 803, 825 ss., e Soggiorno e lavoro dello straniero: verso una nuova disciplina nella legislazione italiana, in Dir. scambi internaz., 1982, 655 ss. Si veda anche quanto si è detto in precedenza, nota 9, sul divieto di espulsione ed estradizione della cittadina straniera divenuta italiana per matrimonio.

(43) Cfr. Corte cost. 20 gennaio 1977, n. 46, Foro it., 1977, I, 766; per rifer. cfr. la nota precedente.

Bruno Nascimbene

CORTE COSTITUZIONALE; sentenza 1° febbraio 1983, n. 14

(Gazzetta ufficiale 9 febbraio 1983, n. 39); Pres. Elia, Rei.

Ferrari; Pres. cons, ministri (Avv. dello Stato Carafa) e.

Pres. regione Campania (Avv. Abbamonte).

Regione — Campania — Istruzione professionale — Scuole di

ostetricia — Disciplina — Questione infondata di costituziona

lità (Cost., art. 17; d.p.r. 24 luglio 1977 n. 616, attuazione

della delega di cui all'art. 1 1. 22 luglio 1975 n. 382, art.

27, 30).

È infondata la questione di legittimità costituzionale della legge della regione Campania approvata il 20 luglio 1978 e riappro vata il 25 settembre 1978, recante « attività formative per la

professione di ostetrica», in riferimento all'art. 117 Cost., ed

in relazione agli art. 27, leti, i, e 30, lett. s, d. p. r. 24 luglio 1977 n. 616. (1)

(1) Sulla formazione professionale dell'ostetrica e sui compiti delle relative scuole, Corte cost. 14 luglio 1977, n. 128, Foro it., 1977, I,

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1551 PARTE PRIMA 1552

Diritto. — 1. - La legge riapprovata dal consiglio regionale della Campania il 25 settembre 1978 ed impugnata dal governo con ricorso notificato il 14 del successivo mese di ottobre e

depositato il 24 dello stesso mese (reg. ric. n. 29/78), ha inteso

disciplinare « l'attività formativa per la professione di ostetrica »

(art. 1, cpv.). All'uopo, essa ha stabilito di affidare l'esercizio di

tale attività agli enti ospedalieri, traendo esclusivamente da que sti il personale docente, assistente e subalterno (art. 2) e facendo

rinvio alle norme dell'anteriore 1. reg. 30 luglio 1977 n. 40 per ciò

che concerne, non solo « la formulazione, il finanziamento, l'at

tuazione », ma anche « il controllo dei programmi di formazione

professionale, le prove di esame, gli attestati ed i diplomi di

ostetrica », ed al r. d. 24 luglio 1940 n. 1630, per ciò che

concerne « l'ordinamento degli studi » (art. 3, penult, ed ult.

comma); ha disposto altresì che « per il conseguimento del

diploma di ostetrica », i corsi, cui possono iscriversi le donne « in possesso del diploma di infermiera professionale », hanno la

durata di due anni, e che « la vigilanza compete alla giunta

regionale » a mezzo dell'assessore alla sanità (art. 4, 1°, 2° e 4°

comma). La legge in parola risulta dichiaramente emanata « ai

sensi dell'art. 1, lett. b), d.p. r. 15 gennaio 1972 n. 10 e degli art. 27, lett. i), e 35 d. p. r. 24 luglio 1977 n. 616, nel quadro delle funzioni regionali in materia di formazione professionale».

2. - L'impugnativa del governo poggia sul presupposto che la

formazione professionale dell'ostetrica, nonché l'ordinamento del

le relative scuole, pertengono esclusivamente al settore universi

tario, a norma del r. d. 15 ottobre 1936 n. 2128 e del relativo

regolamento 24 luglio 1940 n. 1630, « con la conseguenza che i

corsi di cui tratta la legge regionale impugnata rientrano nella

competenza statale e sono esclusi dalla competenza regionale a

norma della lett. i) dell'art. 27 d. p. r. 24 luglio 1977 n. 616 e

della lett. s) dell'art. 30 stesso d. p. r. ». Tanto è vero ciò —

prosegue la difesa dello Stato — che: le scuole di ostetricia o

sono annesse alle cliniche ostetrico-ginecologiche universitarie o

sono istituite con decreto presidenziale e « vigilate dalle univer sità » ; il direttore delle scuole annesse è lo stesso direttore della

clinica universitaria e quello delle altre scuole è nominato, per concorso o per trasferimento, con le stesse modalità e con lo

2089, con nota di richiami, commentata da De Simone, in Riv. giur. scuola, 1979, 637, la quale dichiarò infondate le questioni di costitu zionalità relative ad alcune leggi statali nella parte in cui non prevedono a favore dei direttori delle scuole autonome di ostetricia una progressione economica analoga a quella dei professori universita ri (in motivazione la corte affermò, tra l'altro, che le predette scuole non possono essere considerate di livello universitario, cosi come le relative funzioni dei docenti).

Sul carattere professionale delle scuole di ostetricia, Daniele, Scuo la d'istruzione professionale, voce del Novissimo digesto, 1969, XVI, 861; più in generale, sulle scuole professionali, Rossi, La legge quadro sulla formazione professionale, in Le regioni, 1981, 71, anche per ulteriori indicazioni bibliografiche.

Sulla portata della materia « istruzione professionale » e la riparti zione di essa tra Stato e regione, Corte cost. 30 maggio 1977, n. 89, Foro it., 1977, I, 1621, con nota di richiami, commentata da Ma stropasqua, in Riv. giur. scuola, 1979, 33.

In dottrina, De Simone, Istruzione artigiana e professionale e siste ma scolastico, id., 1978, 162; Così, in La disciplina delle funzioni nel d. p. r. 616, Quaderni Formez, 1980, I, 279; Franchi, Sistema di istruzione e formazione professionale, Firenze, 1980.

La decisione contiene un ampio excursus definitorio degli elementi caratterizzanti le università degli studi e gli istituti di alta cultura, sui quali, in dottrina: S. Cassese-Mura, in Commentario della Costi tuzione, a cura di G. Branca, 1987, 210 ss., sub art. 29-34; S. Fois, Università e libertà, in Dir. e società, 1978, 355; Modugno, Riserva di legge e autonomia universitaria, ibid., 757; Correale, L'autonomia universitaria, 1979; Barettoni Arleri, Università e autonomia, in Riv. giur. scuola, 1979, 632; De Simone, Autonomia universitaria e norme generali sull'istruzione, ibid., 837; P. G. Grasso, Libertà d'insegnamento, autonomia universitaria e programmi della ricerca scientifica, in Dir. e società, 1979, 161; Mazziotti, L'autonomia universitaria nella Costituzione, id., 1980, 229; Mazzarolli, L'auto nomia delle università e delle accademie nella Costituzione italiana, id., 1981, 267; Camilli, La normativa regionale in materia di istituti culturali, in Riv. trim. dir. pubbl., 1981, 63.

Sul nuovo ordinamento universitario introdotto dal d. p. r. n. 382/80, nonché sul nuovo ordinamento delle scuole di specializzazio ne e perfezionamento varato con il d. p. r. n. 162/82, Giuffrè-La bruna, Il nuovo ordinamento universitario, Napoli, 1980; Id., L'attua zione del nuovo ordinamento universitario, 1982; Id., Scuole di spe cializzazioni, scuole a fini speciali e corsi di perfezionamento (Com mento al d. p. r. n. 162J82) Napoli, 1983; Capocrossi Cologne si-Cerulli Irielli {a cura di), La riforma universitaria, Mila no, 1980; Stumpo, Il riordinamento della docenza, Roma, 1981; Pe trocelli, Il docente universitario, oggi, Roma, 1981; Azzena-Cecca Relli, Prime considerazioni sul nuovo ordinamento della docenza universitaria, in Riv. giur. scuola, 1982, 1.

stesso stato giuridico prescritti per i professori universitari; « per quanto poi concerne lo stato giuridico del personale assi stente tecnico e subalterno si applicano, in quanto possibile, le

disposizioni relative alle corrispondenti categorie universitarie»; alle suddette scuole sono ammesse le donne in possesso del

diploma di infermiera rilasciato dallo Stato ovvero le studentesse in medicina e chirurgia che superino le « prove di esame di

anatomia, fisiologia, patologia generale, elementi di igiene, tecni ca assistenziale infermieristica » o abbiano già superato « gli esami dei corsi di medicina e chirurgia (art. 3 1. 23 dicembre 1957 n. 1252) »; « i diplomi abilitanti alla professione vengono rilasciati dall'università a firma del rettore »; « il parto dev'es sere assistito da una levatrice o da un medico chirurgo » e, a norma dell'art. 18 del già menzionato r. d. 1. n. 2128/36, l'una è

tenuta, al pari dell'altro, a redigere il prescritto certificato di

assistenza, che deve poi essere prodotto all'ufficiale sanitario del comune. Ancora secondo la difesa dello Stato, non sarebbe rettamente invocata dalla regione Campania la sentenza n. 128 del 1977 (Foro it., 1977, I, 2089), con la quale questa corte ha

negato che la formazione dell'ostetrica sia a livello universitario, giacché allora « la corte era stata chiamata a decidere della costituzionalità o meno del diverso trattamento economico dei direttori delle scuole autonome statali di ostetricia di Trieste e di Venezia — determinato per legge in ragione della loro posi zione di impiegati dello Stato — rispetto a quello dei professori direttori delle altre scuole autonome di ostetricia». A sostegno, infine, della tesi dell'equiparazione tra professori universitari e direttori di scuole di ostetricia, l'avvocatura dello Stato ricorda che la 1. 30 novembre 1973 n. 766 ha disposto il passaggio di

questi ultimi, a domanda, nel ruolo dei professori universitari, e che già la 1. 24 giugno 1950 n. 465 (art. 4) aveva consentito tale

passaggio agli assistenti delle medesime scuole.

3. - L'art. 33, ult. comma, Cost, comprende le università tra « le statuizioni di alta cultura » e riconosce a queste « il diritto di darsi ordinamenti autonomi».

a) Appaiono conformi alla configurazione delineata dal legisla tore costituente non solo la 1. 11 luglio 1980 n. 382, il cui art.

63, 1° comma, recita testualmente che « l'università è sede

primaria della ricerca scientifica », ed il cui capo V, titolo I, prevede il ruolo dei « ricercatori », come il titolo III è dedicato alla « ricerca scientifica », ma persino il testo unico delle leggi sull'istruzione superiore, approvato con r. d. 31 agosto 1933 n. 1592 ed in larga parte ancora vigente. Anche questo, infatti, proclama solennemente all'art. 1, 1° comma, che «l'istruzione

superiore ha per fine di promuovere il progresso della scienza e di fornire la cultura scientifica necessaria per l'esercizio degli uffici e delle professioni». Ne deriva che non basta, perché una scuola attinga livello universitario, che ivi siano impartiti, sia

pure da professori universitari, insegnamenti a fini professionali, ma occorre che vi venga svolta anche la ricerca scientifica. Sono due, insomma, ed inscindibili i compiti istituzionali delle

università; l'attività didattica e quella scientifica, là dove venga esercitata soltanto questa, si può avere un'istituzione di alta cultura — ed è il caso del consiglio nazionale delle ricerche —, e là dove venga esercitata esclusivamente attività didattica, non si ha università.

b) Ancora dalla Costituzione si ottiene un altro elemento ca ratterizzante l'università e, quindi, la istruzione superiore: è la

potestà statutaria, sia pure « nei limiti stabiliti dalle leggi dello

Stato», come testualmente enuncia il già richiamato art. 33, ult. comma, Cost. Si tratta di una potestà non conculcata neppure nel periodo autoritario, come comprovano: l'art. 17 t. u. n. 1592 del 1933, ai sensi del quale « ogni università... ha uno speciale statuto » (1° comma), « gli statuti sono proposti dal senato

accademico, uditi il consiglio di amministrazione e le facoltà »

(2° comma), « le modificazioni sono proposte ed approvate con le medesime modalità » (3° comma); l'art. 18, 3° comma, ai sensi del quale « lo statuto di ogni università determina, per ciascuna facoltà..., le materie d'insegnamento, il loro ordine ed il modo con cui debbono essere impartite»; l'art. 20, 8° ed ult.

comma, ai sensi del quale « la durata degli studi per le scuole ed i corsi... è determinata dagli statuti », ecc. E proprio nel l'autonomia dell'ordinamento universitario può dirsi che trovi fondamento la regola, ancorché esplicitata mediante una norma regolamentare — art. 42, 2° e 3° comma, r. d. 4 giugno 1938 n. 1269 — secondo cui le commissioni per gli esami, tanto di profitto, quanto di laurea o di diploma, possono costituirsi sol tanto « di professori ufficiali..., di liberi docenti o cultori delle

discipline che fanno parte della facoltà », con esclusione di professionisti estranei. Da quanto precede discende che non pos sono considerarsi a livello universitario le scuole e gli istituti che siano assoggettati alla vigilanza del potere governativo, che

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

non abbiano autonomia di determinazione per quanto riguarda le materie d'insegnamento, il loro ordine, la durata degli studi e

che debbano comporre le commissioni per gli esami, o di

profitto o di diploma, con membri non appartenenti alla stessa

scuola od istituto.

4. - Compito esclusivo delle scuole di ostetricia, invece, è l'in

segnamento, un insegnamento di carattere prevalentemente prati

co, e perciò a fini esclusivamente professionali. Nel r. d. 24

luglio 1940 n. 1630, infatti, col quale è stato approvato il

regolamento, che in parte è ancora in vigore, per le scuole di

ostetricia, come modificato con d. m. 12 novembre 1958, prima, e

con d. p. r. 27 settembre 1980 n. 1029, poi, non è rintracciabile

una sola norma che contenga qualche cenno all'attività di ricer

ca scientifica, la quale pertanto, almeno allo stato, è preclusa alle predette scuole. E sul punto non si registra alcuna innova

zione sostanziale nel già menzionato d. p. r. n. 1029 del 1980, recante « modificazioni all'ordinamento degli studi delle scuole

di ostetricia », ma solo la conferma della riduzione del corso di

studi da un triennio ad un biennio, già disposta dall'art. 1 1. n.

1252 del 1957.

Tali scuole, inoltre, non godono di alcuna autonomia: non

solo non hanno la potestà statutaria che è riconosciuta alle

università per quanto attiene alla didattica, ma questa non risul

ta disciplinata neppure con legge, bensì con un regolamento,

qual è il d.p.r. n. 1029 del 1980 e qual era appunto il già menzionato r. d. n. 1630 del 1940, adottato di concerto tra il

ministro per l'educazione nazionale e « quelli per l'interno, per la grazia e giustizia, per le finanze e per le corporazioni » ; « per l'esame di diploma, la commissione è composta », non

solo del professore-direttore e di un professore o libero docente

delle facoltà o cultore della materia, ma anche « del medico

provinciale e di un medico-chirurgo scelto dalla facoltà in una

terna proposta dal sindacato professionale medico » (art. 32, 3°

comma, r. d. n. 1630 del 1940); il r. d. 1. 15 ottobre 1936 n.

2128, convertito nella 1. 25 marzo 1937 n. 921, statuisce all'art.

3, 1° comma, che « spetta al ministro per l'educazione nazionale

la vigilanza delle scuole di ostetricia autonome », anche se poi

precisa nei due comma successivi che tale « vigilanza » è eserci

tata tramite una università.

5. - Le rilevazioni ed i raffronti di cui sopra inducono a

disattendere l'opinione, su cui si basa il ricorso de quo, che

l'attività formativa per la professione di ostetrica e, quindi, l'ordinamento delle relative scuole siano da considerarsi equipa rati al livello universitario. La conclusione cui si perviene nel

presente giudizio trova, del resto, un precedente in termini nella

pronuncia n. 128 del 1977, con la quale questa corte ha te

stualmente sentenziato che le « scuole, ove si svolgono i corsi per il conseguimento del diploma di ostetrica, non possono conside

rarsi a livello universitario ». E basta la trascritta proposizione della surricordata sentenza a dimostrare quanto sia inesatta

l'affermazione dell'avvocatura dello Stato, secondo cui, stante la

diversità di quella fattispecie, « il richiamo alla citata sentenza

non appare pertinente ».

Certo, gli elementi più sopra evidenti non sono i soli caratte

rizzanti l'istruzione universitaria; altrettanto certamente, tuttavia,

si deve ritenere che, se non sono sufficienti, sono peraltro neces

sari, perché possa ravvisarsi in una scuola dignità di istituzione

di alta cultura. Non varrebbe in contrario osservare che, per il conseguimento

del diploma di ostetrica, la legge (art. 1 r. d. 1. n. 2128 del 1936)

conosce, non solo le « scuole di ostetricia autonoma », ma anche

le « scuole di ostetricia annesse alle cliniche ostetrico-ginecologi che delle università », giacché allo stato attuale della legislazione

la conclusione conserva validità anche nei confronti di queste

ultime, che non mutano natura, fermi rimanendo la loro funzio

ne, i loro insegnamenti ed il tipo di questi, sol perché inserite

nelle strutture universitarie. Se fosse altrimenti, si dovrebbe ri

conoscere grado universitario persino a tutte quelle scuole di

chiaratamente professionali, che le università sono autorizzate ad

istituire, quali « le scuole-convitto professionali per infermiere »

(art. 2 r. d. 21 novembre 1929 n. 2330; 130, 1° comma, t. u.

delle leggi sanitarie, approvato con r. d. 27 luglio 1934 n. 1265;

1, 2° comma, 1. 25 febbraio 1971 n. 124); le «scuole per

infermiere generiche e per infermieri generici » (art. 1 1. 20

ottobre 1954 n. 1046); « le scuole per l'abilitazione all'esercizio

dell'arte ausiliaria sanitaria di tecnico di radiologia medica »

(art. 4, 1° comma, 1. 4 agosto 1965 n. 1103), ecc. Ed i richiami

testé fatti mostrano che una cosa è l'ambito universitario, altra

cosa è il livello universitario, e che pertanto non basta operare

nell'uno per conseguire il riconoscimento dell'appartenenza al

l'altro.

6. - Da ultimo, le considerazioni che al riguardo precedono

non appaiono scalfite dai residui argomenti della difesa dello

Stato. È senz'altro vero che alle scuole di ostetricia sono am

messe, sia le donne in possesso del diploma di infermiera rila

sciato dallo Stato, sia le studentesse in medicina e chirurgia, le

quali sostengono o abbiano sostenuto positivamente taluni esami

(art. 2 e 3, 1" comma, 1. 23 dicembre 1957 n. 1252). Ma è vero

altresì che, per conseguire il diploma di infermiera, previa am

missione alle apposite scuole-convitto professionali, basta posse dere la « licenza di scuola media inferiore o... altro titolo

equipollente » (art. 20, 1° comma, r. d. n. 2330 del 1929, come

modificato con l'art, unico d. p.r. 13 ottobre 1959 n. 1354), e

basta un « corso biennale teorico-pratico, con relativo tirocinio »

(art. 135, 1° comma, t. u. n. 1265 del 1934). L'equiparazione tra

studentesse al compimento del terzo anno della facoltà di medi

cina ed infermiere con licenza di scuola media inferiore che

abbiano compiuto un corso biennale teorico-pratico — può an

che ritenersi un'incongruenza, dalla quale peraltro non è corretto

argomentare. È una delle tante incongruenze di una normazione

a strati sovrapposti e di livelli diseguali — qual è appunto

quella concernente il personale sanitario —, in cui, oltre a

modifiche ed abrogazioni puntuali, a deroghe particolari e tem

poranee, a rettifiche (d. p. r. 5 maggio 1966 n. 280) di errori nel

testo promulgato di una legge, alle abituali norme transitorie —

per non dire del provvedimento che sostituisce il titolo di « oste

trica » a quello di «levatrice» (r. d. 1. 1° luglio 1937 n. 1520)

—, accade di riscontrare persino l'abrogazione di un regolamento adottato con decreto del capo dello Stato (r. d. n. 1630 del 1940) con un decreto ministeriale (12 novèmbre 1958) sostituito a sua

volta con un decreto presidenziale (n. 1029 del 1980).

Nessun rilievo, contrariamente a quanto mostra di ritenere

l'avvocatura dello Stato, ha la « circostanza che i diplomi abili

tanti alla professione vengono rilasciati dall'università a firma

del rettore » : competendo innegabilmente al rettore di rilasciare

i diplomi conseguiti presso le scuole di ostetricia annesse alle

cliniche ostetrico-ginecologiche, il legislatore ha stimato che po trebbe apparire illogico — e dar motivo ad equivoci sul diffe

rente valore dei titoli — non estendere la competenza del retto

re ai diplomi conseguiti presso le scuole autonome, su cui del

resto l'università esercita la vigilanza per conto del ministro. E

si può per completezza aggiungere che nulla proverebbe in

contrario il richiamo, peraltro non fatto dalla difesa dello Stato, all'art. 5 d.p. r. n. 162 del 10 marzo 1982, il quale statuisce che

« i corsi di studio delle scuole dirette a fini speciali sono corsi

ufficiali universitari » ed « hanno durata biennale o triennale ».

Ai sensi dello stesso articolo, infatti, il rilascio del diploma è

subordinato al «previo superamento di un esame di Stato» (1°

comma) e prevede esplicitamente « attività scientifica » (2° e 4°

comma), oltre che didattica. Bastano queste precisazioni a dimo

strare la non assimilabilità delle scuole di ostetricia ai suddetti

« corsi di studio delle scuole dirette a fini speciali ».

Infine, non giova e, anzi, nuoce all'assunto della difesa dello

Stato il richiamo che questa fa al r. d. 1. n. 2128 del 1936, e

propriamente all'art. 18, il quale dispone che « il parto deve

essere assistito da una levatrice o da un medico chirurgo e che

nell'un caso o nell'altro sarà redatto dalla levatrice o dal medico

chirurgo apposito certificato di assistenza che deve essere prodot to all'ufficiale sanitario del comune ». Il « regolamento per l'e

sercizio professionale delle ostetriche » (r. d. 26 maggio 1940 n.

1364) dispone che l'ostetrica ha il « compito specifico dell'assi

stenza alla donna durante la gestazione, il parto, il puerperio normale» (art. 1); che «coadiuva i sanitari» nell'assistenza

normale » (art. 2); che « nei casi di aborto, anche se sospetto, deve astenersi da ogni riscontro vaginale » (art. 4, cpv), con

esplicito divieto di « praticare interventi manuali e strumentali »

(art. 5), dovendosi limitare a « praticare tutto quanto è consen

tito dalle disposizioni in vigore alle infermiere generiche » (art.

9, la parte) ed ancora « dovrà chiedere l'immediato intervento

del medico » persino « nei casi di temperatura febbrile, di polso

troppo frequente » (art. 6 cpv.). Altrettanto chiare sono norme

di valore legislativo: cosi gli art. 139, la parte, t. u. n. 1265 del

1934 e 40 d. p. r. 27 marzo 1969 n. 128, i quali dispongono,

rispettivamente, che la « levatrice deve richiedere l'intervento

del medico chirurgo non appena nell'andamento della gestazione o del parto o del puerperio di persona alla quale presti la sua

assistenza riscontri qualsiasi fatto irregolare», e che «la ostetri

ca capo è posta alle dirette dipendenze del primario e dei

sanitari ostetrico-ginecologi ... (ed) ha tutte le attribuzioni pre viste per il capo-sala».

La normativa sopra trascritta non abbisogna di interpretazione, tanto chiaramente i suoi dettati letterali mostrano quali sono,

almeno allo stato attuale del sistema sanitario, la natura ed i

limiti dell'assistenza che l'ostetrica è tenuta a prestare e quali,

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Page 5: sentenza 1° febbraio 1983, n. 14 (Gazzetta ufficiale 9 febbraio 1983, n. 39); Pres. Elia, Rel. Ferrari; Pres. cons. ministri (Avv. dello Stato Carafa) c. Pres. regione Campania (Avv.

1555 PARTE PRIMA 1556

quindi, siano l'esatto significato e portata dell'art. 18 r. d. 1. n.

2128 del 1936, che l'avvocatura dello Stato a torto invoca nel

l'intento di convalidare l'asserita dimensione universitaria dell'at

tività formativa per la professione di ostetrica. Proprio la con

traria conclusione, viceversa, sembra trovare convalida nel

d. 1. c. p. s. 13 settembre 1946 n. 233, recante la « ricostituzione

degli ordini delle professioni sanitarie e per la disciplina delle

professioni stesse », il cui art. 1, disponendone la ricostituzione

in ogni provincia, parla di « ordini dei medici chirurghi, dei

veterinari e dei farmacisti », ma parla dei « collegi delle ostetri che », come l'art. 44 1. 4 agosto 1965 n. 1103 parla di costitu

zione in ogni provincia di un « collegio degli esercenti l'arte ausiliaria sanitaria di tecnico di radiologia medica ». Si deve

pertanto ritenere che la formazione professionale dell'ostetrica e

l'ordinamento delle relative scuole rientrano nella materia « i

struzione artigiana e professionale», che l'art. 117 Cost, attri buisce alla competenza delle regioni.

7. - Con il ricorso de quo, il presidente del consiglio ha

denunziato l'illegittimità costituzionale della legge della regione Campania, con la quale questa, in vista della « formazione degli operatori sanitari » (art. 1, 1° comma) e nell'ambito della « disciplina delie attività di formazione professionale per le

professioni sanitarie ausiliarie » (art. 1, cpv.), ha inteso istituire « corsi di formazione per la professione di ostetrica » (art. 2,

cpv., e 4, 1° comma) ed ha coerentemente disposto l'automa

tica decadenza delle sole « convenzioni in precedenza stipulate tra università ed enti ospedalieri » (art. 5, 1° comma). Premesso

pertanto che non sono in discussione le altre scuole di ostetricia, tanto quelle autonome, quanto quelle annesse alle cliniche oste

trico-ginecologiche delle università, le quali tutte continuano ad essere disciplinate dalla normativa statale, e riconosciuta, in base

alle argomentazioni sopra svolte, la competenza regionale in

tema di « attività formative per la professione di ostetrica », va

rilevato che il ricorso, promosso per asserito contrasto con l'art. 117 Cost., fa richiamo agli art. 27, lett. i), e 30, lett. s), d.p. r. n. 616 del 1977. Senonché, a parte la considerazione che tali

motivi, una volta dichiarata l'infondatezza della questione in

riferimento all'art. 117 Cost., non hanno una loro propria auto

nomia, le norme in parola risultano a torto invocate. L'art. 27, lett. i), infatti, attribuisce alla regione, in materia

di assistenza sanitaria ed ospedaliera, le funzioni amministrative « che tendono ... alla formazione degli operatori sanitari », e sclusa «la formazione universitaria e post-universitaria». Ma

quest'ultima nella specie non ricorre, come si è più sopra moti

vatamente affermato ed è del resto esplicitamente dichiarata estranea all'indole dei corsi in parola dall'art. 1, p. p., della legge impugnata. In quanto, poi, all'art. 30, lett. s), che affida allo Stato « la determinazione dei livelli minimi di scolarità necessari

per l'ammissione alle scuole per operatori sanitari », sembra corretto interpretare tale norma nel senso che essa demanda allo Stato il compito di enunciare i principi generali, cui il legislato re regionale deve ispirarsi. La legge impugnata, prescrivendo all'art. 4, 2° comma, che « possono essere iscritte ai corsi le donne che siano in possesso del diploma di infermiera profes sionale », ha appunto stabilito il livello minimo, senza divergere dai criteri già fissati con la normativa statale, e pertanto non

può dirsi che violi il menzionato art. 30, lett. s). Per questi motivi, dichiara non fondata la questione di legit

timità costituzionale della legge della regione Campania (« attivi tà formative per la professione di ostetrica»), riapprovata il 25 settembre 1978, proposta con ricorso 14 ottobre 1978 (reg. ric.

29/78) dal presidente del consiglio dei ministri, in riferimento all'art. 117 Cost, ed in relazione agli art. 27, lett. i), e 30, lett.

s), d.p.r. 24 luglio 1977 n. 616.

CORTE COSTITUZIONALE; sentenza 1° febbraio 1983, n. 13

(Gazzetta ufficiale 9 febbraio 1983, n. 39); Pres. Elia, Rei. La

Pergola; Commissario dello Stato per la regione siciliana

(Avv. dello Stato Azzariti) c. Pres. regione siciliana (Aw. Defina, Villari).

Sicilia — Promulgazione della legge — Omissione delle disposi zioni impugnate — Cessazione della materia del contendere

(Cost., art. 3, 51, 81, 97, 128; statuto speciale per la Sicilia, art. 17).

È cessata la materia del contendere, perché il presidente della

regione siciliana ha omesso di promulgare le disposizioni im

pugnate dal commissario dello Stato, in ordine ai ricorsi con i

quali il predetto commissario ha proposto questioni di legitti mità costituzionale degli art. 2, 3, 4, 6, 7, 8, 12, 23, 24, 25 del d. d. I. approvato dall'assemblea regionale siciliana il 13 no vembre 1980; 9, 10, 11 del d.d.l. approvato dalla medesima as semblea il 22 gennaio 1981; 2, 3, 4, 10 del d. d. I. approvato dalla medesima assemblea il 18 dicembre 1981, concernenti l'inserimento delle giovani leve nella p. a. e nelle attività pro duttive e sociali, in riferimento agli art. 3, 51, 81, 97, 128 Cost, e 17, lett. f, dello statuto siciliano. (1)

(1) La decisione costituisce una puntuale (ed ora motivata) confer ma deila soluzione adottata dalla corte nella sent. 21 luglio 1981, n. 142, Giur. costit., 1981, I, 1366, la quale senza motivazione alcuna rovesciò il costante orientamento del tutto tollerante verso la prassi della promulgazione parziale (per le parti non toccate o coinvolte dall'impugnazione statale) delle leggi siciliane; mai infatti prima della sentenza n. 142/81 la corte aveva tratto alcuna conseguenza in ordine al proprio giudizio dall'esclusione dalla promulgazione delle sole norme impugnate di un testo legislativo, mostrando di ritenere siffatta operazione come un pacifico dato di fatto (per quanto non confortata da alcun elemento testuale dello statuto): v., da ultimo, sent. 15 febbraio 1980, n. 13, Foro it., 1980, 1, 569, con nota di C. M. Barone, commentata da Mangiameli, in Giur. costit., 1980, I, 107 e da Teresi, in Le regioni, 1980, 687.

La predetta prassi è stata oggetto di severe critiche in dottrina sia di vecchia che di recente data; critiche in gran parte fondate sulla considerazione (invero, legittima) che, scindendo il testo legislativo, il presidente della regione comunque interferisce nell'attività di legisla zione riservata all'assemblea, traendo in tal modo la funzione mera mente « documentale » propria dell'atto di promulgazione; cfr. Man giameli, Promulgazione parziale di una legge siciliana retroattiva, in materia urbanistica, in Giur. costit., 1979, I, 974; Palmeri, La pro mulgazione parziale delle nostre leggi regionali in Sicilia, in Le regioni, 1981, 965; con riferimento alla natura e funzione della promulgazione, Bartholini, La promulgazione, 1955, 531 ss.; Galeot ti, Contributo alla teoria del procedimento legislativo, 1957, 295; A. M. Sandulli, in Studi per il XX" anniversario dell'Assemblea costituente, 1969, VI, 449; G. U. Rescigno, in Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca, 1978, 205, sub art. 83-87; con riferimento alla posizione e ai poteri del presidente della regione, Chevallard, in Riv. trim. dir. pubbl., 1968, 892; Paladin, Diritto regionale, 1979, 306; tende invece a giustificare questa prassi, anno tando la cit. sent. n. 142/81, Teresi, in Foro amm., 1982, II, 2020.

Assorbendo nella propria la competenza in origine assegnata dallo statuto speciale (art. 25, 28, 29) all'Alta corte per la Sicilia, la corte ha modellato sulle proprie esigenze il sistema di impugnazione e controllo delle leggi siciliane, mantenendo, da una parte, fermi i modi ed i termini della proposizione del giudizio di legittimità avanti alIAlta corte; dall'altra, assegnando un carattere ordinatorio al termi ne di venti giorni dalla ricevuta dell'impugnazione prevista dall'art. 29, 1° comma, statuto, per emanare la sentenza e stabilendo correla tivamente che il termine di trenta giorni dall'impugnazione, entro il quale, ai sensi dell'art. 29, 2° comma, va promulgata la legge, per ia quale non sia intanto pervenuta al presidente regionale sentenza di annullamento, crea non già un obbligo di promulgazione e pubblica zione immediata, ma soltanto ia facoltà del presidente di promulgare e pubblicare la legge anche in pendenza del proposto giudizio di legittimità: cfr., in tal senso, sent. 8 luglio 1957, n. 112, Foro it., 1957, I, 1382; lì marzo 1958, n. 9, id., 1958, I, 1237; 24 novembre 1958, n. 60, ibid., 1774; 9 giugno 1961, n. 31, id., 1961, I, 1058.

Era prevedibile, del resto, che la corte, onde garantirsi il potere di sindacare validamente ed efficacemente senza limiti di termini le leggi siciliane ed anche per non sancire formalmente la trasformazione del controllo sulle leggi siciliane da « preventivo » in « successivo » alla loro entrata in vigore, abbia definito come facoltà quel potere di promulgazione del presidente che la dottrina aveva prevalentemente considerato un dovere: cfr. Crisafulli, Controllo preventivo e con trollo successivo sulle leggi regionali siciliane, in Riv. trim. dir. pubbl., 1956, 645, e in Giur. costit., 1957, 1031 e 1961, 584; Ausiello Orlando, Dedin, Gaeta, Guarino, Virga, Promulgazione e pubblicazione delle leggi siciliane in pendenza del giudizio di legitti mità costituzionale, in Riv. amm., 1961, 305; ritiene, invece, che i ricorsi di costituzionalità relativi a norme legislative siciliane pro mossi in via diretta divengano inammissibili non automaticamente per la scadenza del termine di 30 giorni, ma solo se dopo tale scadenza il testo legislativo sia stato effettivamente promulgato dal presidente, Andrioli, Controllo preventivo della Corte costituzionale sulle leggi siciliane, in Riv. dir. proc., 1957, 626, e, sempre sui problemi aperti dall'art. 29 statuto Sicilia, in Giur. costit., 1956, 1218 e in Foro it., 1957, I, 1724 e 1892.

Di conseguenza, la corte, attraverso le illustrate « correzioni » al sistema di controllo delle leggi siciliane ed ancora evitando di sindacare in alcun modo il sempre più consolidato potere presidenzia le di promulgazione parziale e di « scissione » della legge impugnata, ha notevolmente ampliato la sfera di discrezionalità del presidente nell'ambito del suddetto sistema di formazione e controllo delle leg gi, affidandogli in piena « solitudine » la preliminare decisione di porre in vigore la legge (o parti di essa) prima della decisione della corte oppure di posporre la promulgazione della legge (o di parti di

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