sentenza 10 gennaio 1986; Giud. V. Paone; imp. PerinoSource: Il Foro Italiano, Vol. 109, No. 7/8 (LUGLIO-AGOSTO 1986), pp. 443/444-457/458Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23180781 .
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PARTE SECONDA
Tale norma è chiara nel richiedere la necessità dell'istanza
dell'imputato nel corso dell'istruzione e fino a quando non siano
esaurite per la prima volta le formalità di apertura del dibatti
mento, per far sorgere il dovere del giudice di decidere sulla
richiesta delle sanzioni sostitutive, con gli effetti, nell'ipotesi del
suo accoglimento, stabiliti dalla norma stessa. Un potere di
revoca successivo riconosciuto all'imputato non si rinviene né in
tale articolo né in tutti gli altri dedicati all'istituto. È, perciò, lecito dedurre che, ove una tale revoca purtuttavia intervenisse, essa non potrebbe avere che il significato di un nuovo atteggia mento difensivo dell'imputato, valutabile certamente ai fini della
decisione, ma al pari degli altri che l'imputato avesse ritenuto o
ritenesse utile osservare, senza per ciò stesso essere preclusivo della pronunzia ex art. 77.
Va, inoltre, rilevato che tra le finalità del c.d. patteggiamento vi
è, tra le altre (e pacificamente), quella di consentire una soluzio
ne anticipata del processo e, perciò, una sua semplificazione: donde la previsione della sua applicazione anche in sede istrutto
ria. Non per niente si parla a suo proposito anche di « procedi mento abbreviato ». Con questa ratio non è compatibile la tesi di
una revoca della richiesta, posto che essa potrebbe intervenire, in
mancanza di un contrario dato testuale, in ogni stato e grado del
procedimento fino alla regiudicata, con l'effetto di stravolgere e
vanificare un andamento e un impegno istruttori finalizzati al
l'applicazione dell'art. 77 e destinati ad appesantire il processo senza il vantaggio di una sua anticipata soluzione. Con buona
pace del principio dell'economia processuale alla mercé dei ri
pensamenti e magari dei capricci o dei programmi dilatori del
l'imputato. Non si dimentichi che la richiesta, ove intervenga in
fase istruttoria, comporta l'invio degli atti al pubblico ministero
che deve esaminarli ed esprimere un parere, il ritorno degli stessi
al pretore, la necessità, talora, di disporre accertamenti per stabilire l'esistenza di dati utili ai fini del provvedimento solleci
tato. È poi evidente che la soluzione prospettata del problema
per ragioni di coerenza non può atteggiarsi diversamente per la
fase del giudizio. Il legislatore ha previsto che la richiesta possa intervenire, con sacrificio dell'economia del processo che ha ormai
superato l'istruttoria (in cui pur poteva aversi per lo stesso mezzo
una sua anticipata chiusura), anche immediatamente prima che
siano compiute per la prima volta le formalità di apertura del
dibattimento. E ciò, evidentemente, per concedere all'imputato un
ulteriore spatium deliberandi. Consumato il quale, si deve ragio nevolmente escludere che l'imputato possa introdurre il tema del
patteggiamento nel dibattimento e in tal modo, per la sua parte,
quest'ultimo condizionare, per poi metterne in dubbio i risultati a
suo insindacabile arbitrio.
Per le esposte ragioni il pretore ritiene che la revoca della
richiesta ex art. 77, formulata dagli imputati Cioffi e Iollo, non
gli preclude, per i risultati probatori già esposti nel primo paragrafo, una pronuncia di applicazione di sanzioni sostitutive anche nei loro confronti, così come nei confronti dell'altro
imputato che ne ha fatto richiesta, il Varrecchia, con tutti gli effetti previsti dalla norma citata. (Omissis)
I
PRETURA DI ASTI; sentenza 10 gennaio 1986; Giud. V. Paone;
imp. Perino.
PRETURA DI ASTI;
Sanità pubblica — Rifiuti solidi — Nozione — Fattispecie (D.p.r. 10 settembre 1982 n. 915, attuazione delle direttive (CEE) n.
75/442, relativa ai rifiuti, n. 76/403, relativa allo smaltimento dei
policlorodifenili e dei policlorotrifenili e n. 78/319, relativa ai rifiuti tossici e nocivi, art. 1, 2).
Sanità pubblica — Rifiuti solidi — Riutilizzazione diretta dei c.d. scarti di lavorazione da parte di impresa produttiva — Attività di smaltimento dei rifiuti — Omessa richiesta di autorizzazione
regionale — Reato — Esclusione (D.p.r. 10 settembre 1982 n.
915, art. 1, 2, 6, 25). Sanità pubblica — Rifiuti solidi — Raccolta, trasporto e deposito
dei c.d. scarti di lavorazione — Attività di smaltimento dei rifiuti — Obbligo di autorizzazione regionale — Inosservanza — Reato — Fattispecie (D.p.r. 10 settembre 1982 n. 915, art. 1, 2, 6, 25).
Ai sensi dell'art. 2 d.p.r. 10 settembre 1982 ri. 915, per rifiuto deve intendersi tutto ciò che viene ceduto (a qualunque titolo, non importa) dal detentore perché questi, in seguito ad una
valutazione negativa circa la possibilità di ulteriore utilizzazio
ne del bene, ha deciso di sbarazzarsene o disfarsene (nella
specie si è ritenuto che anche gli scarti o residui di lavorazione
suscettibili di utilizzazione in settori produttivi diversi da
quello che li ha prodotti appartengono alla categoria dei
rifiuti). (1) Non è tenuta a chiedere l'autorizzazione regionale per lo smalti
mento dei rifiuti l'impresa che riutilizzi tal quali, ovvero senza
nessun preventivo trattamento, i c.d. scarti di lavorazione
provenienti da altri insediamenti produttivi. (2)
(1) La questione di cui alla massima è stata esaminata fin dai primi contributi dottrinali concernenti il decreto n. 915/82. F. Giampietro, Smaltimento e « scarico » di rifiuti nell'ambiente: rapporti tra il d.p.r. n. 915/82 e la legge Merli, in Giur. merito, 1984, 494 ss., infatti osserva che « è facile prevedere che non saranno né pochi né semplici i problemi interpretativi diretti ad accertare se, in concreto o da un
punto di vista economico, certi sottoprodotti industriali possano essere
utilizzati come materia prima nel ciclo produttivo di altro insediamen to rispetto a quello che li produce e intende liberarsene». Tuttavia
l'a., dopo aver dato atto delle indubbie difficoltà interpretative, esprime una posizione, circa la qualificazione come rifiuti dei c.d. residui di
lavorazione, che appare difforme da quella enunciata nella sentenza che si riporta. Infatti, l'a. sostiene che « in linea teorica dovrebbe
sfuggire alla disciplina del d.p.r. perché non qualificabile come rifiuto
quel sottoprodotto o quel materiale di scarto (per l'impresa che lo
produce) che può essere utilizzato da altra impresa (nel suo ciclo di
lavorazione) « tal quale » o, comunque, senza quelle specifiche opere di trasformazione necessarie per il recupero, il riutilizzo, l'innocuizzazione ecc. in presenza delle quali sembra consentito parlare di « rifiuto » e
di « trattamento » del medesimo con la conseguente applicazione della nuova normativa». In generale, sulla nozione di rifiuto F. e P.
Giampietro, Lo smaltimento dei rifiuti. Commento al d.p.r. n. 915/1982, Rimini, 1985, 19 ss., scrivono che « la nozione di rifiuto e quella di
smaltimento dei rifiuti rappresentano i due poli fondamentali della
nuova disciplina ». Gli a., dopo aver constatato che le direttive CEE,
recepite in Italia attraverso il decreto n. 915, rinviano ad una concezione di rifiuto in senso soggettivo e in senso oggettivo, rilevano che « il legislatore delegato ha accolto la definizione di rifiuto in senso
soggettivo allargandola con il richiamo sia ai rifiuti provenienti da cicli
naturali, oltre che da attività umane, sia alla destinazione degli stessi all'abbandono da parte del proprietario».
Osservano inoltre, in ordine alla difficoltà di accertare quando un
soggetto destini all'abbandono una cosa mobile, che « un primo passo per puntualizzare l'astratta definizione legislativa può essere compiuto attraverso il collegamento tra la volontà dell'agente di disfarsi della cosa e l'obiettivo di smaltirla o farla smaltire da altri ».
In senso analogo Di Fidio, Disciplina dei rifiuti, Milano, 1984, 15
ss., pone l'accento sul fatto che dal decreto n. 915 emerge un concetto
soggettivo di rifiuto, nel quale concetto rileva la volontà del detentore della cosa di disfarsene; peraltro, lo stesso a. evidenzia che occorre una « differenziazione tra la volontà del possessore di una cosa di disfarse ne rispetto ad altre volontà di alienazione che non hanno come risultato la produzione di rifiuti quali la vendita, la donazione, la
locazione, il prestito ». E su questa premessa l'a. conclude osservando che « chi si disfa di una cosa come rifiuto vuole liberarsene e non ha alcun interesse ad assicurare vantaggi a terzi e neppure a se stesso, a
prescindere dal vantaggio che consiste nell'essersi sbarazzato dalla cosa.
Questa impostazione — opina l'a. — rappresenta un sicuro criterio di
discernimento in molti casi dubbi ».
Una nozione di rifiuto meno legata alle sorti della sostanza o
dell'oggetto abbandonato è espressa da altri autori. Secondo Caccin, Ambiente e sua protezione nella normativa sui rifiuti solidi, Padova, 1984, 300 ss., « rifiuto è ciò che viene rifiutato: cosi la cosa che viene
rifiutata, sia essa una sostanza, una materia, o un oggetto, diventa rifiuto cessando di essere utile nel momento in cui chi la possiede desidera disfarsene perché a conclusione della sua valutazione ritiene che non gli serva più. Perciò è chiaro che i rifiuti sono direttamente
legati al suo detentore perché è la valutazione e la decisione di
quest'ultimo che trasformano una cosa utile in cosa inutile, ovvero in rifiuto ». Aderisce alla tesi del Pretore di Asti Amendola, Smaltimento di rifiuti e legge penale, Napoli, 1985, 15 ss., secondo il quale «la nozione di rifiuto va sempre determinata con riferimento alla persona del detentore o del produttore, in funzione dell'utilità diretta ed immediata che la cosa può arrecargli cosi com'è». L'a., muovendo dalla analisi complessiva del decreto, osserva che la nozione di rifiuto
segue anche il criterio temporale nel senso che « il trattamento per il
riutilizzo, ecc. riguarda qualcosa che è già venuta a fisica e giuridica esistenza come « rifiuto » a prescindere dall'eventuale trattamento per il riutilizzo che viene dopo ».
(2) Nella sentenza che si riporta il pretore precisa che, se è vero che la riutilizzazione diretta ed immediata del rifiuto, consistente in un residuo di lavorazione, non costituisce smaltimento, « è altrettanto vero
che altre sono le fasi (o le operazioni) attraverso le quali si articola lo smaltimento dei rifiuti in senso lato ». Sulla scorta di tale premessa il
pretore ha ritenuto che « saranno soggette all'obbligo di autorizzazione
regionale quelle imprese produttive che provvedano alla raccolta, direttamente presso il produttore, dei residui, al loro trasporto, al
Il Foro Italiano — 1986.
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GIURISPRUDENZA PENALE
Commette il reato di cui all'art. 25, 1° comma, d.p.r. 10 settembre 1982 n. 915 il privato che, senza l'autorizzazione regionale,
prevista dall'art. 6, lett. d), del decreto, esegua la raccolta, la
cernita, il trasporto, il deposito e l'ammasso di sostanze o
oggetti riciclabili e/o riutilizzabili (nella specie, l'imputato svol
geva l'attività di raccoglitore di materiali di scarto o di
recupero che provvedeva successivamente a rivendere come « materia prima » alle imprese produttive). (3)
II
PRETURA DI ASTI; sentenza 10 gennaio 1986; Giud. V. Paone; imp. Bella.
Sanità pubblica — Rifiuti solidi — Attività di smaltimento dei rifiuti preesistente al 16 dicembre 1982 — Omessa presentazione della domanda di autorizzazione regionale entro il 16 marzo 1983 — Prosecuzione oltre tale data — Autorizzazione rilascia ta entro sei mesi dalla data di inoltro della domanda — Reato —
Sussistenza (D.p.r. 10 settembre 1982 n. 915, art. 25, 31). Sanità pubblica — Rifiuti solidi — Attività preesistente al 16
dicembre 1982 — Termine di sei mesi assegnato alla regione per rilasciare l'autorizzazione — Effetti sulla posizione giuridica del privato (D.p.r. 10 settembre 1982 n. 915, art. 31).
Risponde ugualmente del reato di cui all'art. 25, 1° comma d.p.r. n. 915/82 il titolare di attività di smaltimento dei rifiuti, preesistente al 16 dicembre 1982, il quale, presentata la doman da alla regione competente per il rilascio dell'autorizzazione oltre la data del 16 marzo 1983, ottenga la medesima entro sei mesi dalla data di inoltro della domanda. (4)
Il termine di sei mesi, entro il quale la regione è tenuta a
provvedere in merito alla domanda presentata tempestivamente da chi eserciti attività di smaltimento dei rifiuti alla data di entrata in vigore del d.p.r. n. 915/82 (16 dicembre 1982), opera quale causa di sospensione temporanea del precetto penale contenuto nell'art. 25 del decreto che vieta lo smaltimento dei
rifiuti senza autorizzazione; l'art. 31, 3" comma che prevede il citato termine contiene una norma eccezionale che pertanto non può essere applicata fuori dei casi espressamente previ sti. (5)
deposito e all'ammasso temporaneo presso il proprio stabilimento in attesa della reimmissione nel ciclo produttivo ».
La dottrina non ha dedicato particolare interesse alla problematica di cui alla massima. Amendola, op. cit., 18, pur senza specifico approfondimento, opina che « un riutilizzo diretto ed immediato di una sostanza, anche di scarto, non preoccupa il legislatore in quanto non crea di regola pericoli per l'ambiente diversi da quelli dell'uso di qualsiasi materia prima. Ma se tale sostanza ha bisogno di trasforma zioni preventive per divenire materia prima e se quindi essa acquista fisica e giuridica esistenza come prodotto non direttamente ed imme diatamente riutilizzabile, tale sostanza è un rifiuto ed il suo trattamen to di trasformazione preoccupa il legislatore per i possibili pericoli ambientali ».
Conclusione conforme a quella di cui alla massima, anche se con motivazioni diverse, come già sopra si è visto, è espressa da F. e P. Giampietro, op. cit., 309 ss. Gli a., attraverso un esame della possibile casistica, si pongono il problema dell'applicabilità del decreto in relazione alla destinazione finale del residuo o del sottoprodotto industriale. In particolare, ipotizzano il caso in cui il residuo è conferito ad enti o imprese che « ritirano, trasportano, raccolgono i residui in esame per utilizzarli come materia prima o combustibile (tal quali o previa combinazione con altri prodotti o con preventivo trattamento a seconda delle varie lavorazioni e tecnologie) ». In questo caso — sostengono gli aa. da ultimo citati — « sembrerebbe venir meno, con riferimento al menzionato residuo, l'attributo oggettivo ed attuale sia della « destinazione all'abbandono » che dell'essere abban donato (...). Pertanto, non ricorrerebbe neppure il presupposto per l'applicazione del decreto (e del regime autorizzatorio da esso introdot to) con riferimento alle attività — ricorrenti nell'esempio fatto — di raccolta dell'altrui residuo, cernita, trasporto, ammasso, deposito ecc. di cui all'art. 1 ».
In generale, sulla problematica della distinzione tra rifiuti e residui cfr. Di Fidio, op. cit., 16 ss.
(3) In dottrina, F. e P. Giampietro, op. cit., 308, aderiscono, sia pure in termini sommari, alla tesi del Pretore di Asti e ritengono che « soggette ad autorizzazione dovrebbero essere, altresì, quelle attività —
piuttosto elementari ed improvvisate — di raccolta, trasporto e com mercializzazione della carta, degli stracci, di inerti vari (svolte dai c.d.
robivecchi) limitatamente alle operazioni di raccolta, spazzamento, cernita, trasporto di «rifiuti speciali» ex art. 1, 2, 4° comma, e 25».
(4-5) Sulla questione di cui alle massime cfr. Pret. Roma 25 gennaio 1984, Foro it., 1985, II, 34 (con nota di richiami di Corbo e Paone) e
I
Fatto e diritto. — In seguito a segnalazione dell'assessorato am biente ed energia della regione Piemonte, con cui si portava a cono scenza di questa autorità giudiziaria che la società Perino e C. s.a.s. aveva presentato fuori termine la domanda per il rilascio dell'au torizzazione allo smaltimento di rifiuti, Perino Lorenzo veniva tratto a giudizio per rispondere dei reati di cui in epigrafe. Il dibattimento si dipanava attraverso varie udienze sia per l'escussio ne dei testi indotti dalla difesa sia per attendere notizie chiarifi catrici dalla regione Piemonte.
In proposito, va ricordato che il Perino in data 26 novembre 1985 ha ottenuto la prescritta autorizzazione regionale.
Il p.m. e la difesa concludevano come da verbale. In particola re la difesa insisteva su due punti: il primo relativo all'elemento
oggettivo del reato di cui all'art. 25 d.p.r. 10 settembre 1982 n. 915 deducendo che il Perino non svolge un'attività compresa nelle disposizioni del d.p.r.; l'altro relativo all'elemento soggettivo del reato con riferimento alla c.d. buona fede del prevenuto; all'uopo, la difesa ha prodotto la circolare del 16 gennaio 1984 emessa dall'assessorato competente. Il pretore ritiene che le tesi difensive debbano essere disattese e rileva che il presente proce dimento offre lo spunto per riepilogare la normativa in tema di rifiuti e fare chiarezza su alcuni dubbi interpretativi. Occorrerà perciò esaminare il primo argomento addotto dall'imputato a sua
discolpa. Sostiene il Perino che l'attività da lui svolta non si inquadra
in quelle disciplinate dal decreto n. 915 perché egli non provvede a raccogliere, stoccare e smaltire rifiuti, bensì « materiali di recupero o di riutilizzo ». Viene di conseguenza postulato che le cose oggetto dell'attività imprenditoriale del Perino non possono essere qualificate rifiuti secondo la definizione di cui all'art. 2.
Invero, questo pare essere uno dei problemi più spinosi dell'at tuale normativa in tema di rifiuti. Come è noto il d.p.r. n. 915 è stato emanato per attuare in Italia tre direttive CEE che negli anni 1970 si sono occupate della questione « rifiuti e tutela ambientale ». È difficile ammettere che l'obiettivo sia stato realiz zato in modo ineccepibile: la dottrina non ha infatti trascurato di evidenziare la farraginosità, confusione e contraddittorietà delle norme del decreto. E la stessa dottrina, proprio in relazione al tema che ci occupa, ha subito segnalato che saranno non poche le difficoltà di dare piena attuazione al d.p.r. in quei casi in cui venga dedotto dall'imputato che le cose raccolte, trasportate ed ammassate e via dicendo non sono « rifiuti », ma cose suscettibili di ulteriore utilizzazione all'interno del medesimo insediamento
produttore del rifiuto o in altre imprese. Da qui il corollario che non potrebbe applicarsi il sistema penale del d.p.r. in quanto l'attività non ha per oggetto propriamente i rifiuti.
La tesi per la verità è stata sostenuta dal Pretore di Torino nella sentenza 21 gennaio 1985 (inedita, ma consultabile presso il C.E.D. al n. P.D. 850170) secondo il quale va assolto il titolare di
un'impresa che effettuava il recupero di materie plastiche che, dopo cernita e macinazione, venivano vendute come materiale di riutilizzo.
Tale argomentare, però, non convince questo giudice perché dimentica sia il dato testuale della legge sia la sua ratio comples siva.
Occorre prendere le mosse dall'art. 2, 1° comma, del d.p.r. n. 915 laddove si dà la definizione di rifiuto: « per rifiuto si intende qualsiasi sostanza o oggetto derivante da attività umane o da cicli naturali abbandonato o destinato all'abbandono ».
Pret. Asti 22 marzo 1985, ibid., 341 (la sentenza che si riporta, invero, costituisce una rielaborazione dei concetti già espressi nella decisione ora citata).
Sulla tematica del rapporto tra art. 25 e art. 31 d.p.r. n. 915 in senso parzialmente analogo Amendola, op. cit., 125, ritiene che « la fase transitoria è scaduta al massimo il 16 settembre 1983 e quindi quanto meno da questa scadenza tutte le attività di smaltimento dei rifiuti per cui è prevista dal d.p.r. 915 apposita autorizzazione regionale possono lecitamente proseguire solo se sono in possesso di tale autorizzazione espressa. In caso contrario ricorre il reato di cui all'art. 25 del d.p.r. 10 settembre 1982 ». Deve registrarsi anche l'opinione, di F. e P. Giampietro, op. cit., 372 e 378, i quali, commentando la sentenza del Pretore di Roma su citata, sosten gono che « suscita qualche perplessità la contestazione nella for ma concorrente dei due reati di cui all'art. 31, 1°, 2° e 3° comma, e art. 25, 1" comma, del decreto per un'impresa già esistente al 16 dicembre 1982 per cui sembra applicabile il solo art. 31 ».
Il Foro Italiano — 1986 — Parte 11-31.
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PARTE SECONDA
L'opinione della difesa si fonda sull'analisi dell'ultima parte della norma e sul significato da assegnarsi ai termini « abbando
nato o destinato all'abbandono ».
L'interpretazione che qui si contrasta consiste nel sottolineare
che una cosa « riutilizzabile », in quanto passibile di reimmissio
nc nel ciclo produttivo, non è « sostanza o oggetto abbandonato »
perché non ha concluso definitivamente il proprio ciclo naturale;
in altre parole, si dice che non può ritenersi abbandonato ciò che
sarà successivamente utilizzato e quindi ciò che conserva ancora
un valore d'uso. Inoltre, questa interpretazione fa leva sulla
espressione « destinato all'abbandono » intendendola in chiave
meramente soggettiva, nel senso che non sarebbe destinato all'ab
bandono l'oggetto di cui si liberi il detentore in vista non già
della sua eliminazione definitiva (attraverso le modalità tipiche dello smaltimento in senso stretto), ma in vista della successiva
riutilizzazione.
Più sono gli errori contenuti nell'interpretazione sopra riassunta.
Il primo errore fondamentale è quello di legare la qualifica di
« rifiuto » alla sorte dell'oggetto una volta che esso sia uscito
dalla sfera di proprietà del detentore (e produttore, come si
esprime il d.p.r., vedi art. 3). Di contro, il decreto fornisce una
nozione di rifiuto che prescinde del tutto dal destino della cosa o
della sostanza ceduta dal detentore: la lettera dell'art. 2 pare
alquanto inequivoca nell'indicare che il momento in cui la cosa
acquista la qualifica di « rifiuto », ai sensi della normativa, è solo
quello in cui la cosa stessa viene abbandonata attraverso un
comportamento umano volontario (ciò anche nelle ipotesi in cui
l'oggetto derivi da cicli naturali giacché occorre pur sempre
l'azione umana perché si possa parlare di sostanza abbandonata).
La dizione dell'articolo non consente affatto di ipotizzare una
nozione di rifiuto rilevante giuridicamente in funzione dell'attività
successiva che abbia per oggetto le cose abbandonate da altri;
anzi, da tutto il complesso delle norme del decreto è agevole
convincersi che la nozione di rifiuto, e pertanto la sua qualifica
giuridica come tale, precede temporalmente l'attività che con
termine onnicomprensivo è definita « di smaltimento ».
Cioè, non è l'attività materiale svolta da colui il quale acquisi
sce la cosa abbandonata che permette di qualificare quella cosa
come rifiuto, ma è vero esattamente il contrario nel senso che
determinate attività che abbiano a che vedere con i rifiuti
saranno rilevanti ai fini dell'applicazione del decreto se corri
spondenti a quelle indicate nell'art. 1 del decreto stesso.
Peraltro, quest'ultima affermazione pare incontestabile alla luce
del chiaro disposto dell'art. 1 il quale stabilisce che lo smaltimen
to dei rifiuti, nelle varie fasi ivi elencate, costituisce attività di
pubblico interesse: come si vede, la norma parla esplicitamente di smaltimento dei « rifiuti » segno che questi vengono a giuridica esistenza prima ancora dello svolgimento di una delle fasi elenca
te nell'articolo esaminato.
Ma allora quand'è che una sostanza diventa rifiuto? Già si è
anticipato che, a parere nostro, la definizione di rifiuto va
ancorata unicamente al momento in cui il detentore-produtto re abbandoni la cosa. In questa prospettiva, peraltro, acquista un
significato diverso, come diremo, anche l'espressione « destinato
all'abbandono ».
Va premesso, al riguardo, che il d.p.r. n. 915 non ha riprodotto fedelmente l'espressione, certo meno ambigua, che compare nelle
direttive CEE; in queste ultime, infatti, è definito rifiuto « qual siasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia
l'obbligo di disfarsi ».
La nozione comunitaria appare a prima vista analoga a quella
italiana; ma a ben guardare la regola CEE è più « asettica ». Con
ciò vogliamo dire che parte degli equivoci in cui cade l'interpre tazione non condivisa trae origine anche dall'uso del vocabolo
« abbandono » che evoca immediatamente l'idea di una cosa che,
avendo esaurito e/o concluso il suo ciclo normale di utilizzazione
funzionale, sia destinata unicamente alla eliminazione mediante
una delle forme di smaltimento in senso stretto (si ricorda in
proposito che esse consistono nella tecnica della discarica control
lata, del compostaggio e dell'incenerimento; sul punto si rinvia
comunque alle trattazioni tecniche in materia). Vi sarebbe quindi nel concetto di abbandono un contenuto deteriore (è stato giu
stamente scritto in dottrina che il termine ha un « significato
dispregiativo simile a ' gettare via una cosa ') » che urta con
l'idea di un possibile riutilizzo della cosa stessa: dal che
l'ulteriore opinione che non potrebbe dirsi abbandonato ciò che
in futuro sarà passibile di recupero o reimmissione nel ciclo
produttivo. Peraltro, è appena il caso di notare che questo concetto deteriore non è affatto evocato dal termine « disfarsi »
che più correttamente è stato utilizzato in sede CEE. Orbene,
proprio il riferimento alla normativa comunitaria deve costituire
uno dei criteri ermeneutici per assegnare il giusto valore al
vocabolo « abbandonare »: infatti, è palese che, in caso di
incertezza, l'interprete deve sciogliere il dubbio dando prevalenza a quella tesi che più sia coerente con la disciplina comunitaria
che costituisce in materia preciso e sicuro punto di riferimento e
di indicazione normativa.
Ciò posto, è fondato sostenere che il concetto di abbandono
equivalga a quello di « disfarsi » e che di conseguenza rilevi
qualunque atto dell'uomo mediante il quale egli si liberi di una
sostanza o oggetto per sé non più utile. E questo tra l'altro è il
punto focale della nozione di rifiuto: per esso deve intendersi
tutto ciò che viene ceduto (a qualunque titolo, non importa) dal
detentore perché questi, in seguito ad una valutazione negativa circa la possibilità di ulteriore utilizzazione del bene, ha deciso di
sbarazzarsene o disfarsene (il ché può avvenire anche gettando
via la cosa in modo incontrollato; vedi in proposito il divieto di
cui all'art. 9 d.p.r. n. 915). Quel che rileva, conclusivamente, è la
volontà del detentore di disfarsi di una cosa senza alcuna altra
preoccupazione circa il destino della cosa stessa, o meglio circa il
possibile riutilizzo della medesima da parte di altro soggetto.
D'altronde, questo significato corrisponde alla logica comune
secondo cui è rifiuto tutto ciò che non serve più al suo detentore
attuale, fermo restando che la stessa cosa potrebbe costituire un
valore per altre persone: si pensi, infatti, al caso di colui che,
dopo aver acquistato un bene durevole di consumo, decida di
sbarazzarsene perché ha deciso che non può usarlo; e pensi che
questo oggetto (in se e per sé ancora funzionante ed efficiente)
sia conferito al servizio di raccolta dei rifiuti urbani.
Ebbene, nessuno si sognerebbe di contestare che quel bene
diventa un rifiuto in quanto il suo proprietario se ne è comunque disfatto. E tale qualifica, ovviamente, non muta affatto se una
persona qualsiasi, vedendo il bene ancora utilizzabile, decida di
impossessarsene per soddisfare le proprie esigenze: non è certo
seriamente sostenibile che questa circostanza sia idonea a mo
dificare, rispetto al precedente detentore, il giudizio che questi
assegnava al medesimo bene. Il ché prova ancora una volta che
il concetto di rifiuto è legato unicamente alla persona del suo
produttore e che nessuna interferenza in detta nozione può avere
l'esito successivo della cosa ceduta o rilasciata. È stato esattamen
te scritto che il d.p.r. nell'art. 2 evoca una concezione soggettiva di rifiuto: ciò è esatto nella misura in cui al fine dell'applicazio ne del decreto è rilevante la volontà inequivoca del detentore di
liberarsi di una sostanza o di un oggetto. Ma forse è meno
precisa, o si presta anche ad altri equivoci, se con essa si vuol
dire che acquista rilevanza determinante lo scopo verso cui è
orientata la volontà del detentore. Questo concetto in verità deve
essere spiegato meglio.
Si tratta di chiarire (come ci eravamo ripromessi) l'espressione « destinato all'abbandono » che compare nel testo dell'art. 2
del d.p.r. Infatti, l'equivoco di leggere questa locuzione in chiave
soggettivistica è forte. Tale interpretazione infatti, partendo dalla
premessa di equiparare « abbandono » a eliminazione definitiva
della cosa, perviene ad escludere la qualifica di rifiuto per quegli
oggetti che siano ceduti dal detentore il quale sa o è consapevole che l'oggetto medesimo costituisce un valore economico per chi lo
acquisisce nel senso che è ancora utilizzabile. Tali concetti sono
del tutto estranei alla lettera e alla ratio legis. E anche qui viene
in soccorso la disciplina CEE la quale più correttamente stabilisce
che è « rifiuto ciò che il detentore abbia l'obbligo di disfarsi ».
Con questa locuzione in effetti viene posto l'accento sul fatto che
il legislatore potrebbe disporre in via generale che certe sostanze
acquistino in un dato momento la qualifica di rifiuto con il
conseguente obbligo per il detentore di disfarsene: tale potrebbe essere il caso di materiali di scarto deteriorabili o pericolosi per l'ambiente e la salute pubblica per i quali potrebbe essere
imposto al suo possessore l'obbligo di conferirli al servizio di
smaltimento dei rifiuti. Tale, peraltro, appare essere il caso
previsto esplicitamente dal d.p.r. in esame nell'art. 15 il quale
qualifica le carcasse di autoveicoli come rifiuti in senso oggettivo, destinate unicamente ad essere consegnate agli appositi centri di
raccolta e demolizione.
Tutto ciò dimostra che non sempre la nozione di rifiuto in
senso naturalistico corrisponde a quella giuridica.
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GIURISPRUDENZA PENALE
Ciò chiarito, è fuori discussione che con l'espressione « destina to all'abbandono » possa in qualche modo darsi rilevanza alla volontà del possessore di cedere una cosa con la consapevolezza che la medesima non sarà avviata alla sua distruzione o elimina zione definitiva. Anzi, si può sostenere che la caratterizzazione di una cosa come rifiuto in senso oggettivo potrebbe per ipotesi essere anche contrastante con la volontà del suo possessore di
non liberarsi della sostanza: in tale evenienza, le ragioni di tutela dei beni pubblici prevalgono sul diritto del privato a non sbarazzarsi di determinati oggetti o sostanze (vedi al riguardo il
disposto dell'art. 41 Cost.).
Le conclusioni cui siamo pervenuti ci consentono ora di affrontare la tematica specifica di questo processo. Come si è
ricordato, la difesa ha obiettato che l'imputato non svolgerebbe attività nel settore dello smaltimento rifiuti atteso ché egli tratta materiali di recupero e/o di riutilizzo.
Alla luce di quanto è stato osservato l'obiezione non convince affatto e a maggior conforto è sufficiente leggere l'art. 2, 4°
comma, n. 1 e n. 3, per rendersi conto che anche i materiali
trattati dal prevenuto appartengono senza ombra di dubbio alla
categoria dei rifiuti. Dice infatti la disposizione citata che sono rifiuti speciali i residui derivanti da lavorazioni industriali e
artigianali (oltre quelli derivanti da attività agricole, commerciali
e di servizi, che però non ci interessano nella fattispecie) e i materiali provenienti da demolizioni, costruzioni e scavi, nonché i macchinari e le apparecchiature deteriorati ed obsoleti. Facile
perciò concludere che per volontà del legislatore tutti questi oggetti o sostanze sono da qualificarsi come rifiuti nel momento in cui il produttore se ne liberi o se ne disfi. Di conseguenza, non ha alcun fondamento ipotizzare l'inapplicabilità delle norme del decreto sulla scorta del tipo di prodotti trattati (si impiega questo termine in senso atecnico dal prevenuto).
Altro problema è quello di accertare se per il contenuto e le modalità concrete l'attività eseguita dall'imputato sia riconducibile a quelle indicate nell'art. 1 del d.p.r. Ma, come si vede, trattasi di questione tutt'affatto diversa. E con questo rilievo entriamo nel vivo del problema che interessa quella vasta categoria di soggetti privati che sono inseriti nel tessuto economico del paese con attività di compravendita di materie c.d. di scarto e che con termine gergale vengono definiti « rottami ».
Invelo, è opinione del pretore che l'attività di colui il quale esegua la raccolta presso i detentori-produttori, la cernita, il
trasporto ed eventualmente il « trattamento » dei materiali di scarto o dei sottoprodotti industriali sia soggetta alle norme del
d.p.r. e segnatamente all'obbligo dell'autorizzazione di cui all'art.
6, lett. d). Riservando al prosieguo un'analisi più dettagliata della
posizione del Perino, occorre preliminarmente dar conto di un'al tra obiezione alla tesi qui sostenuta.
È stato infatti detto che nella c.d. economia dei « residui » è un dato incontestabile che alcuni prodotti possano essere utilizza ti come materia prima nel ciclo produttivo di altro insediamento
rispetto quello che li produce e se ne libera.
In proposito, è sufficiente fare l'esempio dei rottami metallici che sono soggetti alla rifusione da parte delle fonderie oppure al vetro delle bottiglie vuote che può essere nuovamente reimmesso nel ciclo produttivo. Questi esempi dimostrano che molte sostan ze, considerate come « rifiuti » per chi li produce, hanno ancora una potenzialità d'impiego in altri settori (o anche nel medesimo insediamento produttore, ma in diverse lavorazioni). Orbene, a
questo riguardo vi è un nodo da sciogliere, ovvero se le imprese che acquisiscono tali sottoprodotti o residui di lavorazione effet
tuino o meno lo smaltimento dei rifiuti rilevante ex art. 1 e 25 del decreto. La questione va posta perché potrebbe trarsi dalla soluzione negativa del quesito argomento per sostenere che non sono soggetti all'obbligo dell'autorizzazione regionale quelle im
prese che agiscono come intermediari tra il produttore dei rifiuti
(nel senso sopra detto) e l'insediamento che se ne avvarrà come materia prima. È opinione di questo giudice che il decreto n. 915 offra la soluzione del problema attraverso l'analisi puntuale del l'art. 1 e che al tempo stesso sia possibile pervenire a soluzione coerente anche il caso da ultimo prospettato.
Per quanto attiene il dubbio circa l'applicabilità o meno del
d.p.r. alle imprese che acquisiscono materiali di scarto per fini direttamente produttivi, si osserva che l'attività consistente in se e
per se nella riutilizzazione del rifiuto, cosi come esso si presenta all'atto della cessione da parte del suo detentore, non costituisce
smaltimento secondo la nozione che ne dà l'art. 1. E tanto deriva dal fatto che la disposizione stabilisce che è smaltimento il « trattamento inteso questo come operazione di trasformazione necessaria per il riutilizzo, la rigenerazione, il recupero, il riciclo dei rifiuti ». È agevole constatare che l'impresa, la quale reimmet ta direttamente nel ciclo produttivo i sottoprodotti di scarto, non effettua alcun trattamento dei medesimi in quanto non svolge nessuna operazione tecnica mediante la quale il rifiuto sia tra sformato (ovvero mutato nella sua condizione e nella sua essenza o nel suo stato fisico-chimico) per essere successivamente reimpie
gato. Si potrebbe paradossalmente dire che lo « smaltimento » si risolve nella stessa riutilizzazione immediata e diretta del residuo di lavorazione. Resta però fermo il principio opposto per cui se la stessa impresa che acquisisce il rifiuto prima di riutilizzarlo, lo
sottoponga ad operazioni di trasformazione, è corretto affermare che tale operazione costituisce trattamento di rifiuti secondo
quanto emerge dall'art. 1 del d.p.r. Si osserva inoltre che se è vero che la riutilizzazione nel caso prima descritto non costituisce
smaltimento, è altrettanto vero che altre sono le fasi (o le
operazioni) attraverso le quali si articola lo smaltimento dei rifiuti in senso lato. Infatti, basta leggere l'art. 1 e verificare che tra queste fasi è compresa la raccolta, il trasporto, la cernita, il
deposito e l'ammasso, ovvero attività che precedono quello che costituisce lo smaltimento in senso stretto, cioè il « trattamento ». Senza quindi indugiare su questo tema, non rilevante nella
fattispecie, è sufficiente rilevare che saranno soggette all'obbligo di autorizzazione regionale quelle imprese produttive che provve dano alla raccolta, direttamente presso il produttore, dei residui, al loro trasporto, al deposito e all'ammasso temporaneo presso il
proprio stabilimento in attesa della reimmissione nel ciclo produt tivo.
D'altronde, la giustezza di simile asserzione è ricavata anche dalla sua concordanza con la ratio legis del decreto secondo cui vanno impedite e/o controllate tutte le fonti di possibile inquina mento ambientale connesse con la gestione del rifiuto.
In proposito, va però segnalato che esiste una evidente lacuna normativa ed una disparità di trattamento tra il caso del produt tore che conferisce con i propri mezzi a terzi i residui di lavorazione rispetto al caso in cui sia il terzo a prendere in
consegna e quindi a trasportare quei residui nel proprio insedia mento. Secondo la nostra ricostruzione, il secondo dovrà munirsi di autorizzazione regionale, mentre il primo no, perché l'art. 6, lett. d), la esclude nella ipotesi di conferimento di rifiuti propri e non prodotti da terzi.
Dopo aver analizzato il rapporto diretto tra il produttore del rifiuto e l'impresa che ricicli il medesimo, possiamo esaminare il diverso problema inerente il c.d. intermediario dei residui di lavorazione.
Ebbene, diciamo subito che non vi è alcun motivo di opinare che questo soggetto non debba essere assoggettato alle norme del
d.p.r. È certamente inoppugnabile tale tesi in tutti quei casi in cui l'impresa non si limiti a raccogliere e successivamente a vendere (il ché avviene normalmente trattandosi di attività pret tamente commerciali) i residui ad altro insediamento produttivo « tal quali », ma al contrario effettui nel proprio stabilimento
quelle operazioni di trasformazione necessaria del rifiuto che ne consentano il successivo riutilizzo, recupero e riciclo. L'evidenza della lettera della legge non dà adito a nessun dubbio in proposito. È il caso ad esempio dell'impresa che esegua la c.d.
pirolisi ovvero il trattamento cui sono sottoposti i residui di lavorazione delle materie plastiche i quali sono poi avviati al settore petrolchimico.
Ma la medesima conclusione vale anche in tutti i rimanenti casi in cui il c.d. trattamento non venga affatto eseguito. L'opi nione contraria ritiene che identico dovrebbe essere il trattamento riservato a chi raccolga e ammassi residui destinati ad imprese terze rispetto a queste ultime che reimmettano il residuo « tal
quale » nel proprio ciclo produttivo. In verità, già si è posto in evidenza quanto fallace sia il richiamo a questa seconda situazio ne per dedurne conseguenze contrarie alla lettera e allo spirito della legge. In entrambe le situazioni, infatti, e lo si è dimostrato
prima, ricorrono certamente alcune delle fasi tipiche dello smal timento dei rifiuti, ovvero la raccolta, il trasporto, la cernita, il
deposito e l'ammasso e non si vede come potrebbe fondatamente sostenersi che queste operazioni o attività sfuggano alla applica zione del decreto n. 915. Si tratta infatti di quelle fasi che l'art. 1
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PARTE SECONDA
elenca come costituenti lo smaltimento dei rifiuti in senso lato e
posto ché l'art. 6, lett. d), implicitamente rinvia a questa disposi zione per stabilire quali soggetti, e per quali attività, devono munirsi di assenso regionale, è logico concludere che ci troviamo in presenza di attività di smaltimento dei rifiuti tanto nell'uno
quanto nell'altro caso (con le precisazioni già esposte). Non senza
trascurare il particolare che appare del tutto adeguato alla ratio
legis ipotizzare un controllo pubblicistico su queste attività eco nomiche che sono potenzialmente idonee ad arrecare danni al
l'ambiente e all'uomo; basti pensare al pericolo derivante dal
trasporto di sottoprodotti di lavorazione oppure al loro ammasso
sul suolo.
In conclusione, ci sembra di aver provato esaustivamente che i
c.d. rottami e in genere tutti i raccoglitori di materiali di scarto, riciclabili e/o riutilizzabili, sono soggetti alle norme del d.p.r. 10
settembre 1982 n. 915.
Un'ultima annotazione riguardante il caso concreto. Ha detto il
difensore che il Perino non effettua lo « stoccaggio » dei rifiuti. Il
rilievo oltre ad essere infondato in fatto, è altresì irrilevante in
diritto. Da un lato si osserva che lo stesso prevenuto dichiarò; nella domanda rivolta alla regione Piemonte, che egli effettuava
lo « stoccaggio provvisorio » dei materiali in immobili di cui la
società amministrata dal richiedente ha la proprietà. Dall'altro
lato si rileva che il reato di cui all'art. 25 è consumato in
conseguenza dell'effettuazione delle altre fasi dello smaltimento
ovvero la raccolta, la cernita, e il trasporto dei rifiuti: queste
operazioni sono assolutamente incontestabili, di tal ché nessuna
influenza spiega la circostanza addotta dalla difesa quale scusante
dell'imputato.
Prima di chiudere la trattazione delle questioni generali, occor
re accennare ad un ulteriore problema che, per vero, non è stato
dibattuto dalla difesa. Si allude, cioè, alla tematica del rapporto tra art. 31 e art. 25 d.p.r. n. 915.
Riassumiamo i termini della questione.
Il d.p.r. n. 915/82 contiene una disposizione transitoria, l'art.
31, in base alla quale si è stabilito che il titolare di un'attività di
smaltimento dei rifiuti, compresa tra quelle contemplate nell'art.
1 del decreto e già in corso alla data del 16 dicembre 1982, doveva presentare entro tre mesi da quest'ultima data la doman
da per il rilascio della prescritta autorizzazione; si è poi fissato
un termine per la regione competente, indicato in mesi sei dalla
presentazione della domanda, entro il quale la regione aveva
l'obbligo di pronunciarsi in ordine alla domanda proposta: o
rilasciando un'autorizzazione provvisoria oppure negando la me
desima.
Accanto a questa norma transitoria vi è la disposizione genera le prevista dall'art. 25 che prevede il divieto di smaltimento dei
rifiuti senza autorizzazione. Poiché tale norma è da ritenersi
vigente fin dal 16 dicembre 1982, ci si domanda quale sia il
rapporto tra il divieto generale e la particolare disciplina transito
ria per le attività in corso; in altre parole, il divieto di smalti
mento è operante anche nei confronti dei titolari di attività
preesistenti e se sì in quali casi e a quali condizioni?
La prima questione è di facile soluzione. Invero, non vi sono
argomenti logici e testuali per escludere che il reato di cui all'art.
25 possa essere commesso anche da colui che abbia iniziato Io
smaltimento dei rifiuti prima dell'entrata in vigore della legge. L'art. 25 infatti è inserito nel capo del decreto dedicato espres samente al sistema sanzionatorio e data la sua generalità è
applicabile a chiunque venga a trovarsi nella condizione oggettiva descritta dalla norma incriminatrice. Né in questo capo, né in
quello dedicato alle disposizioni transitorie vi sono elementi
letterali che consentano di ritenere non applicabile il divieto di
smaltimento senza autorizzazione anche a carico dei vecchi inse
diamenti. Vero è che l'art. 31, 1° e 3° comma, prevede un
obbligo specifico penalmente sanzionato solo per i titolari di
un'attività preesistente, ma non pare fondatamente corretto farne
derivare che nei confronti di quella categoria non sia cogente la
disposizione dell'art. 25.
In realtà, il rilievo dimostra semplicemente che il legislatore, ha
ritenuto di dover sanzionare particolarmente i titolari di impianti
già esistenti che non prestino la dovuta collaborazione con gli
organi pubblici. Infatti, la presentazione delle domande entro
termini perentori avrebbe consentito alla p.a. di avere una
« fotografia » del settore al fine di stabilire la priorità di interven
to e di predisporre il contenuto precettivo della emananda
autorizzazione. Pertanto, l'assenza di dati letterali che dimostrino
la chiara voluntas legis di escludere l'applicabilità della norma
penale dell'art. 25 nei confronti delle imprese preesistenti, legitti ma la soluzione che qui si propugna. Soluzione che peraltro
appare del tutto coerente e concordante con la ratio legis: infatti, sarebbe oltremodo iniquo e non giustificato razionalmente punire chi intenda iniziare ex novo attività di smaltimento e non abbia l'as
senso regionale e chi, invece, prosegua nella medesima attività
senza preoccuparsi di mettersi in regola con le nuove disposizio ni. Non vi è nessuna sostanziale differenza tra le situazioni
configurate poc'anzi ed entrambe sono idonee a ledere l'interesse
pubblico tutelato dalla normativa sui rifiuti che, tra l'altro, indica
come principio generale cui deve sottostare lo smaltimento dei
rifiuti quello di « evitare ogni danno o pericolo per la salute,
l'incolumità, il benessere e la sicurezza della collettività e dei
singoli » (art. 1, lett. a). Concludendo, il titolare di vecchio
insediamento risponderà penalmente della contravvenzione di cui
all'art. 31 se ha presentato la domanda fuori termine oppure se
non l'abbia affatto presentata — si rileva, comunque, che detto
reato risulterà non più punibile dal 16 marzo 1986 trattandosi di
reato istantaneo con termine prescrizionale di anni tre — e a
determinate condizioni — come diremo in appresso — risponderà in concorso materiale anche della contravvenzione di cui all'art.
25 d.p.r. n. 915.
È giunto quindi il momento di esaminare più attentamente i
rapporti tra art. 31 e art. 25 del decreto sui rifiuti. In quali casi i
due reati concorreranno per il titolare di attività di smaltimento
preesistente al d.p.r. 915? Il quesito non è di agevole risposta in
quanto le ipotesi prospettabili sono svariate e il decreto, sul
punto, non offre particolare aiuto per la loro soluzione razionale.
Infatti, quel che è certo è che il rapporto tra le due norme non è
di natura sostanziale, ma legato unicamente al dato cronologico. Non si vede, infatti, come sia possibile conciliare la norma penale che vieta lo smaltimento senza autorizzazione, entrata in vigore dal 16 dicembre 1982, con l'altra che consente di fatto l'esercizio
di quella attività, anche in difetto dell'autorizzazione, per un
tempo più o meno lungo. Questo è il significato derivante
dall'attenta lettura dell'art. 31: la disposizione, infatti, stabilisce
che, entro sei mesi dalla presentazione della domanda, la p.a. deve pronunciarsi espressamente rigettando o accogliendo l'istan
za.
Qual è dunque il regime penale nel periodo intercorrente tra il
16 marzo 1983 — termine ultimo per la presentazione della
domanda — ed il 16 settembre 1983 — termine ultimo per la
regione per provvedere in merito? Anche se la legge tace sul
punto, si deve opinare che in tale periodo il disposto dell'art. 25
non è applicabile. La deroga al generale divieto dell'art. 25
implicitamente prefigurata dall'art. 31 appare razionale e opportu na: infatti, non potrebbe pretendersi che il privato, il quale abbia presentato la domanda nei termini legali, debba sospendere l'attività già in corso nei sei mesi che la regione ha a sua
disposizione per decidere sull'istanza e ciò non solo per ragioni
pratiche — evitare la sospensione di attività che potrebbero anche avere rilevanza pubblicistica (basti pensare alla raccolta e
al trasporto dei rifiuti solidi urbani) — ma anche per motivi di
equità essendo indubitabile che lo spatium deliberandi conces
so alla p.a. non può determinare un sacrificio del diritto del
privato che sia sproporzionato ed ingiustificato.
Con la disciplina che si è illustrata il legislatore ha cercato di
contemperare l'interesse del privato di non vedersi paralizzato per sei mesi nello svolgimento di un'attività che potrebbe risultare
conforme alle disposizioni del decreto, e quindi autorizzabile, con
l'interesse a non rinviare eccessivamente nel tempo l'adozione dei
provvedimenti amministrativi (e se del caso penali) a tutela
dell'ambiente e della salute pubblica mediante l'eventuale diniego di autorizzazione per quelle attività che non presentino i requisiti di accettabilità e di sicurezza.
È appena il caso di notare che il discorso svolto riguarda un
esempio in cui i termini temporali assegnati al privato e alla
regione erano assunti nella loro massima estensione. Analoga conclusione deve formularsi in tutti gli altri casi in cui il privato
presenti la domanda prima del 16 marzo 1983 e la regione
provveda in merito entro i sei mesi decorrenti da quel momento.
Questo passaggio però merita una sottolineatura.
Infatti, non è certo corretto intendere il termine del 16
settembre 1983 come termine massimo di deroga del divieto
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generale di smaltimento senza autorizzazione anche nelle fattispe cie concrete in cui risultasse che la domanda era stata presentata
prima del 16 marzo 1983. Invero, la legge non pone la scadenza
del regime speciale ancorandola ad una determinata data del
calendario, ovvero il 16 settembre 1983, ma al contrario prefigura diverse date di scadenza della disciplina transitoria a seconda del
momento in cui siano decorsi sei mesi dalla presentazione della
domanda del privato.
Perciò una volta trascorso quel termine il privato incorrerà
nella contravvenzione di cui all'art. 25 se nel frattempo la regione non gli abbia concesso la prescritta autorizzazione e se continui
nell'effettuazione dell'attività preesistente. Si ricorda, al riguardo, che nella materia de qua non vale la regola del silenzio -
accoglimento come previsto espressamente dalla legge Merli. Tut
tavia, la questione non va approfondita in questa sede perché non rilevante ai fini del decidere.
In realtà, finora ci siamo occupati del caso tipico del privato che ottemperi alla disposizione dell'art. 31 e presenti domanda
nei termini: ma quid iuris per il privato che non presenti affatto
la domanda oppure la presenti in ritardo?
È opinione del giudicante che in questa ipotesi il titolare di
attività di smaltimento dei rifiuti preesistente al 16 dicembre 1982
commetta sia il reato di cui all'art. 31 sia quello di cui all'art. 25.
Chi presenti la domanda entro il termine del 16 marzo 1983
non solo ottempera ad un precetto penalmente sanzionato, ma
può usufruire del periodo di vacatio dei 6 mesi durante i quali continua ad esercitare la stessa attività senza però sapere se al
definitivo egli sarà autorizzato o meno allo smaltimento dei
rifiuti. Trattasi dunque di un beneficio consistente (ovvero l'esen
zione dall'applicabilità dell'art. 25, pur sussistendone in astratto
gli estremi oggettivi) ricollegabile ad un comportamento positiva mente valutato dall'ordinamento, cioè l'osservanza di quel dovere
di collaborazione con le autorità pubbliche di cui si è fatto cenno
in precedenza. Solo in questa prospettiva potrebbe giustificarsi razionalmente l'effetto derogatorio alla generale applicazione della
legge penale. Ma uguale trattamento di favore non può riservarsi
a colui che non abbia prestato analoga collaborazione con gli enti
competenti venendo in tal modo a frustrare gli obiettivi e gli
scopi per i quali il d.p.r. aveva fissato un termine perentorio per la presentazione delle domande alle regioni competenti.
In sostanza, l'ipotesi qui presa in considerazione è equiparabile a quella in cui versa il privato che intenda dar corso ad una
nuova attività di smaltimento dei rifiuti: nessuno contesterebbe
che la mancanza della preventiva autorizzazione non renda illegit timo l'esercizio già avviato dall'attività di smaltimento. Perciò, l'unica soluzione ragionevole e coerente con la ratio legis è quella di individuare la data del 17 marzo 1983 come quella di inizio
della consumazione del reato di cui all'art. 25 per coloro che,
soggetti all'obbligo previsto dal 1° comma dell'art. 31, abbiano
perduto la possibilità di beneficiare della sospensione temporanea del precetto penale a causa della tardiva presentazione della
domanda all'autorità competente.
La tesi appare non solo in linea con gli obiettivi del decreto n.
915 — che non consistono certo nel favorire l'inquinamento da
rifiuti e nel « premiare » i disubbidienti —, ma sembra anche
coerente con i principi generali del diritto penale: infatti, se è
vero, come abbiamo sostenuto, che l'art. 31 opera quale causa di
deroga del divieto penale di smaltimento senza autorizzazione, è
conseguente postulare la eccezionalità della disposizione stessa la
quale non può essere applicata oltre i casi espressamente previsti dal legislatore (vedi infatti art. 14 preleggi). Ogni altro intervento
manipolatorio dell'interprete sarebbe assolutamente non consenti
to; pertanto, posto ché la lettera e la ratio del decreto non
giustificano altre soluzioni, è opinione del pretore che non si
possano nutrire dubbi circa l'interpretazione qui enunciata.
Per effetti della regola giuridica ricavata dal combinato dispo sto degli art. 31 e 25 d.p.r., ne deriva che il Perino ha commesso
la contravvenzione prevista dall'art. 25, 1° comma, per aver egli continuato nello smaltimento dei rifiuti senza essere preventiva mente in possesso dell'autorizzazione prevista dall'art. 6, lett. d),
del decreto. Il reato concorre materialmente con quello di cui
all'art. 31; infatti, è certamente diversa la condotta tipica descrit
ta nell'una e nell'altra norma incriminatrice.
Va infine preso in considerazione l'argomento difensivo relativo
all'invocata buona fede.
La questione merita apprezzamento perché indubbiamente in
questo settore l'ignoranza della legge è un dato obiettivo (non
foss'altro perché neppure gli organi pubblici si sono mostrati
preparati ad affrontare l'impatto del d.p.r. 915 nel sistema norma
tivo vigente!). Tuttavia non possono condividersi le argomenta
zioni della difesa le quali si basano in particolar modo sull'equi
vocità derivante dalla circolare del 16 gennaio 1984 della regione
Piemonte che avrebbe indotto il Perino a credere di essere
esonerato dall'obbligo di chiedere il permesso di cui all'art. 6,
lett. d).
In primo luogo, va dato atto all'imputato che egli non è
rimasto inerte e passivo; si è anzi affidato alle cure di un
professionista e si è attivato presso gli organi competenti per
avere lumi sul da farsi.
Ciò nonostante, non ricorrono le condizioni che la giurispru denza ha elaborato per annettere rilevanza alla c.d. buona fede
sub specie di ignoranza o di errore circa la portata del precetto
penale.
Va infatti osservato che l'iter della pratica è stato il seguente. In data 4 ottobre 1983 il Perino invia una bozza di domanda alla
regione Piemonte; questa fa sapere con nota del 28 ottobre che
occorre presentare la domanda di autorizzazione corredata di
ulteriori informazioni; in data 5 marzo 1984 la ditta invia
regolare domanda alla quale però fa seguito l'ulteriore nota della
regione del 29 marzo con cui venivano chieste altre integrazioni. L'autorizzazione infine è stata rilasciata soltanto il 26 novembre
1985.
Orbene, la difesa erra nel postulare che la circolare del 16
gennaio 1984 avrebbe indotto legittimamente in errore il Perino
circa la ricorrenza dell'obbligo di cui all'art. 6, lett. d). Come si
può constatare, la circolare è posteriore cronologicamente ai primi scambi di missive tra il Perino e la regione e non vi è dubbio
che, in questa prima fase, la condotta della regione sia stata
inequivoca. Non vi è stato, pertanto, alcun comportamento della
p.a. che abbia indotto il prevenuto a convincersi positivamente
della liceità della propria condotta. Anzi, è vero esattamente il
contrario, visto che l'assessorato competente ha subito risposto al
Perino dicendo che la comunicazione iniziale non era sufficiente,
segno però che l'obbligo di presentare la domanda sussisteva.
La circolare del 16 gennaio, del cui contenuto tra poco si dirà,
non si è affatto inserita in questo iter come elemento di « distur
bo »: infatti, era già stata avviata la procedura per il rilascio
della prescritta autorizzazione e quindi l'errore del Perino sulla
portata del precetto penale non può farsi ricondurre al contenuto
della circolare stessa. La quale, oltretutto, non dice affatto quello che vuole farle dire la difesa.
La regione Piemonte in verità ha precisato che « il riutilizzo, la
rigenerazione, il recupero ed il riciclo propriamente intesi come
reimmissione della sostanza nel ciclo produttivo, non devono
essere autorizzati (ad es. la rifusione dei rottami) ». Appare evidente che l'ipotesi formulata dalla regione non corrisponde affatto all'attività svolta dal Perino, ma caso mai a quella svolta
dall'impresa che acquisisce il residuo industriale e direttamente, ovvero tal quale e senza nessun'altro trattamento, lo reimmetta
nella produzione. Non si capisce quindi in che modo la circolare
abbia potuto trarre in inganno il Perino.
Con ciò non si discute della oggettiva difficoltà di interpreta zione del d.p.r. (basti vedere le pagine di questa sentenza!) e
delle convinzioni più o meno giustificate che ogni cittadino se ne
è fatto. Non può però darsi rilevanza a tutto ciò stante il
disposto dell'art. 5 c.p.
In conclusione, il prevenuto è responsabile di entrambi i reati
ascrittigli.
Il Perino merita ampiamente le attenuanti generiche; tenuto
conto che non è possibile applicare l'art. 81, cpv., c.p. perché le
contravvenzioni contestate sono state commesse con colpa e non
con dolo (il ché rende impossibile configurare l'unicità del
medesimo disegno criminoso), si ritiene giusto condannare il
prevenuto alla pena di lire 500.000 di ammenda per il capo A)
(pena base di lire 700.000; la misura modesta si giustifica per la
obiettiva modestia del fatto); per il capo fi) è equa la condanna
a mesi due di arresto e lire 800.000 di ammenda oltre le spese
(p.b. mesi tre e lire 1.000.000; anche tale fatto è di modesta
entità e merita una sanzione mite).
Si può concedere il beneficio della sospensione condizionale
della pena, sussistendone i presupposti.
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PARTE SECONDA
II
Fatto e diritto. — L'imputato è stato tratto a giudizio per
rispondere delle contravvenzioni di cui in rubrica in seguito a
denuncia dell'assessorato ambiente della regione Piemonte. Il Bella
ha dichiarato di non essere a conoscenza che occorresse l'autorizza
zione della regione per effettuare lo smaltimento dei rifiuti; ha
inoltre precisato che detta autorizzazione gli è stata rilasciata nei
primi mesi del 1985.
Il p.m. e la difesa concludevano come da verbale. Va affermata
la penale responsabilità del prevenuto per i reati a lui ascritti.
In fatto, è pacifico che il Bella ha iniziato l'attività di smalti
mento dei rifiuti prima dell'entrata in vigore del d.p.r. 10
settembre 1982 n. 915: tanto deriva dalla sua stessa dichiarazione
contenuta nella domanda rivolta alla regione Piemonte per otte
nere l'autorizzazione. Di conseguenza egli era obbligato a presen tare entro il 16 marzo 1983 la domanda all'autorità competente
per ottenere quantomeno l'autorizzazione provvisoria per lo svol
gimento dell'attività di smaltimentimento dei rifiuti in corso
all'entrata in vigore della normativa n. 915. Poiché la domanda è
stata presentata nel dicembre del 1984 e poiché non vi sono
ragioni che giustifichino il comportamento del prevenuto, non
potendosi ovviamente dare rilevanza alla sua ignoranza della
norma penale, deriva che egli ha commesso il reato ascritto sub
A).
Per quanto riguarda il secondo capo di imputazione, mentre
non è contestato che il Bella abbia continuato, dopo il 16 marzo
1983 nello svolgimento dell'attività di smaltimento preesistente al
d.p.r. n. 915 senza aver ottenuto prima la prescritta autorizzazio
ne, vi è da chiedersi se a tale fatto in astratto sia applicabile la
sanzione penale prevista dall'art. 25 del decreto e se in concreto
la fattispecie sia riconducibile a quanto previsto in quella dispo
sizione tenuto conto che tra la domanda del Bella ed il rilascio
dell'autorizzazione non sono decorsi i sei mesi che l'art. 31 del
d.p.r. assegna alla regione per provvedere in merito all'istanza del
privato.
La tematica non è priva di importanza perché accogliendo una
tesi piuttosto che l'altra la conseguenza per il prevenuto verrà a
diversificarsi: in un caso condanna, nell'altro assoluzione.
Riassumiamo i termini della questione.
Il d.p.r. n. 915/82 contiene una disposizione transitoria, l'art.
31, in base alla quale si è stabilito che il titolare di un'attività di
smaltimento dei rifiuti, compresa tra quelle contemplate nell'art. 1
del decreto e già in corso alla data del 16 dicembre 1982, doveva
presentare entro tre mesi da quest'ultima data la domanda per il
rilascio della prescritta autorizzazione; si è poi fissato un termine
per la regione competente, indicato in mesi sei dalla presentazio
ne della domanda, entro il quale la regione aveva l'obbligo di
pronunciarsi in ordine alla domanda proposta: o rilasciando
un'autorizzazione provvisoria oppure negando la medesima.
Accanto a questa norma transitoria vi è la disposizione genera
le prevista dall'art. 25 che prevede il divieto di smaltimento dei
rifiuti senza autorizzazione. Poiché tale norma è da ritenersi
vigente fin dal 16 dicembre 1982, ci si domanda quale sia il
rapporto tra il divieto generale e la particolare disciplina transito
ria per le attività in corso- :n altre parole, il divieto di smaltimen
to è operante anche nei confronti dei titolari di attività preesi stenti e se si in quali casi e a quali condizioni?
La prima questione è di facile soluzione. Invero, non vi sono
argomenti logici e testuali per escludere che il reato di cui all'art.
25 possa essere commesso anche da colui che abbia iniziato
lo smaltimento dei rifiuti prima dell'entrata in vigore della legge.
L'art. 25 infatti è inserito nel capo del decreto dedicato
espressamente al sistema sanzionatorio e data la sua generalità è
applicabile a chiunque venga a trovarsi nella condizione oggettiva
descritta dalla norma incriminatrice. Né in questo capo, né in
quello dedicato alle disposizioni transitorie vi sono elementi
letterali che consentano di ritenere non applicabile il divieto di
smaltimento senza autorizzazione anche a carico dei vecchi inse
diamenti. Vero è che l'art. 31, 1° e 3° comma, prevede un
obbligo specifico penalmente sanzionato solo per i titolari di una
attività preesistente, ma non pare fondatamente corretto farne
derivare che nei confronti di quella categoria non sia cogente la
disposizione dell'art. 25.
In realtà, il rilievo dimostra semplicemente che il legislatore ha
ritenuto di dover sanzionare particolarmente i titolari di impianti
già esistenti che non prestino la dovuta collaborazione con gli
organi pubblici: infatti, la presentazione delle domande entro
termini perentori avrebbe consentito alla p.a. di avere una
« fotografia » del settore al fine di stabilire la priorità di interven
to e di predisporre il contenuto precettivo della emananda
autorizzazione. Pertanto, l'assenza di dati letterali che dimostrino
la chiara voluntas legis di escludere l'applicabilità della norma
penale dell'art. 25 nei confronti delle imprese preesistenti, legitti
ma la soluzione che qui si propugna. Soluzione che peraltro
appare del tutto coerente a concordare con la ratio legis: infatti,
sarebbe oltremodo iniquo e non giustificato razionalmente punire
chi intenda iniziare ex novo attività di smaltimento dei rifiuti e
non abbia l'assenso regionale e chi, invece, prosegua nella mede
sima attività senza preoccuparsi di mettersi in regola con le
nuove disposizioni. Non vi è nessuna sostanziale differenza tra le
situazioni configurate poc'anzi ed entrambe sono idonee a ledere
l'interesse pubblico tutelato dalla normativa sui rifiuti che, tra
l'altro, indica come principio generale cui deve sottostare lo
smaltimento dei rifiuti quello di « evitare ogni danno o pericolo per
la salute, l'incolumità, il benessere e la sicurezza della collettività
e dei singoli » (art. 1, lett. a).
Concludendo, il titolare di vecchio insediamento risponderà
penalmente della contravvenzione di cui all'art. 31 se ha presen
tato la domanda fuori termine oppure se non l'abbia affatto
presentata — si rileva, comunque, che il detto reato risulterà non
più punibile dal 16 marzo 1986 trattandosi di reato istantaneo
con termine prescrizionale di anni tre — e a determinate condi
zioni — come diremo in appresso — risponderà in concorso
materiale anche della contravvenzione di cui all'art. 25 d.p.r. n.
915.
È giunto quindi il momento di esaminare più attentamente i
rapporti tra art. 31 e art. 25 del decreto sui rifiuti. In quali casi i
due reati concorreranno per il titolare di attività di smaltimento
preesistente al d.p.r. 915? Il quesito non è di agevole risposta in
quanto le ipotesi prospettabili sono svariate e il decreto, sul
punto, non offre particolare aiuto per la loro soluzione razionale.
Infatti, quel che è certo è che il rapporto tra le due norme non è
di natura sostanziale, ma legato unicamente al dato cronologico.
Non si vede, infatti, come sia possibile conciliare la norma penale
che vieta lo smaltimento senza autorizzazione, entrata in vigore
dal 16 dicembre 1982, con l'altra che consente di fatto l'esercizio
di quell'attività, anche in difetto dell'autorizzazione, per un tem
po più o meno lungo. Questo è il significato derivante dall'attenta
lettura dell'art. 31: la disposizione infatti stabilisce che, entro sei
mesi dalla presentazione della domanda la p.a. deve pronunciarsi
epressamente rigettando o accogliendo l'istanza. Qual è dunque il
regime penale nel periodo intercorrente tra il 16 marzo 1983 —
termine ultimo per la presentazione della domanda — ed il 16
settembre 1983 — termine ultimo per la regione per provvedere
in merito —? Anche se la legge tace sul punto, si deve opinare
che in tale periodo il disposto dell'art. 25 non è applicabile. La
deroga al generale divieto dell'art. 25 implicitamente prefigurata
dall'art. 31 appare razionale e opportuna: infatti, non potrebbe
pretendersi che il privato, il quale abbia presentato la domanda
nei termini legali, debba sospendere l'attività già in corso nei sei
mesi che la regione ha a sua disposizione per decidere sulla
istanza e ciò non solo per ragioni pratiche — evitare la sospen
sione di attività che potrebbe anche avere rilevanza pubblicistica
(basti pensare alla raccolta e al trasporto dei rifiuti solidi
urbani) — ma anche per motivi di equità essendo indubitabile
che lo spatium deliberandi concesso alla p.a. non può determina
re un sacrificio del diritto del privato che sia sproporzionato e
ingiustificato.
Con la disciplina che si è illustrata il legislatore ha cercato di
contemperare l'interesse del privato di non vedersi paralizzato per
sei mesi nello svolgimento di un'attività che potrebbe risultare
conforme alle disposizioni del decreto, e quindi autorizzabile, con
l'interesse a non rinviare eccessivamente nel tempo l'adozione dei
provvedimenti amministrativi (e se del caso penali) a tutela
dell'ambiente e della salute pubblica mediante l'eventuale diniego
di autorizzazione per quelle attività che non presentino i requisiti
di accettabilità e di sicurezza.
È appena il caso di notare che il discorso svolto riguarda un
esempio in cui i termini temporali assegnati al privato e alla
Il Foro Italiano — 1986.
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GIURISPRUDENZA PENALE
regione erano assunti nella loro massima estensione. Analoga conclusione deve formularsi in tutti gli altri casi in cui il privato presenti la domanda prima del 16 marzo 1983 e la regione provveda in merito entro i sei mesi decorrenti da quel momento. Questo passaggio perciò merita una sottolineatura.
Infatti, non è certo corretto intendere il termine del 16 settembre 1983 come termine massimo di deroga del divieto
generale di smaltimento senza autorizzazione anche nelle fattispe cie concrete in cui risultasse che la domanda era stata presentata prima del 16 marzo 1983. Invero, la legge non pone la scadenza
del regime speciale ancorandola ad una determinata data del
calendario, ovvero il 16 settembre 1983, ma al contrario prefigura diverse date di scadenza della disciplina transitoria a seconda del
momento in cui siano decorsi i sei mesi dalla presentazione della domanda del privato.
Perciò una volta trascorso quel termine il privato incorrerà nella contravvenzione di cui all'art. 25 se nel frattempo la regione non gli abbia concesso la prescritta autorizzazione e se continui
nell'effettuazione dell'attività preesistente. Si ricorda, al riguardo, che nella materia de qua non vale la regola del silenzio -
accoglimento come previsto espressamente dalla legge Merli. Tut
tavia, la questione non va approfondita in questa sede perché non rilevante ai fini del decidere. Rilevante, invece, è porsi un'altra domanda legata logicamente a quanto siamo andati fin
qui sostenendo.
In realtà, finora ci siamo occupati del caso tipico del privato che ottemperi alla disposizione dell'art. 31 e presenti domanda nei termini: ma quid iuris per il privato che non presenti affatto la domanda oppure la presenti in ritardo? e soprattutto quid iuris
per il privato che, pur avendo presentato la domanda fuori
termine, ottenga comunque, l'assenso regionale entro sei mesi dalla presentazione della medesima? (Tale è il caso dell'imputa to).
In via di estrema sintesi, è opinione del giudicante che in tutte le ipotesi sopra riportate il titolare di attività di smaltimento
rifiuti preesistente al 16 dicembre 1982 commetta sia il reato di cui all'art. 31 sia quello di cui all'art. 25.
Per quanto attiene la fattispecie concretamente giudicata osser viamo quanto segue.
Due sono le possibili interpretazioni: secondo una prima tesi
potrebbe ricavarsi dalla lettura dell'art. 31 il principio per cui il rilascio dell'autorizzazione entro sei mesi dalla domanda ancorché tardivamente presentata giustifica il passato e quindi esime da
responsabilità penale l'imputato; secondo un'altra tesi, invece, la
responsabilità non sarebbe esclusa dalla circostanza relativa al rilascio dell'assenso entro il termine semestrale dalla presentazione della domanda alla regione. Noi propendiamo per la seconda
interpretazione per le seguenti ragioni. Chi presenti la domanda
entro il termine del 16 marzo 1983 non solo ottempera ad un
precetto penalmente sanzionato, ma può usufruire del periodo di vacatio dei sei mesi durante i quali continua ad esercitare la
stessa attività senza però sapere se al definitivo egli sarà autoriz zato o meno allo smaltimento dei rifiuti. Trattasi dunque di un
beneficio consistente (ovvero l'esenzione dall'applicabilità dell'art.
25, pur sussistendone in astratto gli estremi oggettivi) ricollegabile ad un comportamento positivamente valutato dall'ordinamento, cioè l'osservanza di quel dovere di collaborazione con le autorità
pubbliche di cui si è fatto cenno in precedenza. Solo in questa prospettiva potrebbe giustificarsi razionalmente l'effetto derogato rio alla generale applicazione della legge penale. Ma uguale trattamento di favore non può riservarsi a colui che non abbia
prestato analoga collaborazione con gli enti competenti venendo in tal modo a frustrare gli obiettivi e gli scopi per i quali il d.p.r. aveva fissato un termine perentorio per la presentazione delle domande alle regioni competenti.
In questa ipotesi il termine di sei mesi, contenuto nel 4°
comma dell'art. 31, non può assolutamente funzionare quale causa di sospensione dell'applicabilità del precetto penale dell'art.
25 e quale ragione di non punibilità per il passato.
In sostanza, l'ipotesi qui presa in considerazione è equiparabile a quella in cui versa il privato che intenda dar corso ad una
nuova attività di smaltimento dei rifiuti: nessuno contesterebbe che la mancanza della preventiva autorizzazione non renda illegit timo l'esercizio già avviato dell'attività di smaltimento. Perciò, l'unica soluzione ragionevole e coerente con la ratio legis è quella
di individuare la data del 17 marzo 1983 come quella di inizio
della consumazione del reato di cui all'art. 25 per coloro che,
soggètti all'obbligo previsto dal 1° comma dell'art. 31, abbiano
perduto la possibilità di beneficiare della sospensione temporanea del precetto penale a causa della tardiva presentazione della
domanda all'autorità competente.
La tesi appare non solo in linea con gli obiettivi del decreto n.
915 — che non consistono certo nel favorire l'inquinamento da
rifiuti o nel « premiare » i disubbidienti —, ma sembra anche
coerente con i principi generali del diritto penale: infatti, se è
vero, come abbiamo sostenuto, che l'art. 31 opera quale causa di
deroga del divieto penale di smaltimento senza autorizzazione, è
conseguente postulare la eccezionalità della disposizione stessa la
quale non può essere applicata oltre i casi espressamente previsti dal legislatore (vedi infatti art. 14 preleggi). Ogni altro intervento
manipolatorio dell'interprete sarebbe assolutamente non consenti
to; pertanto, posto ché la lettera e la ratio del decreto non
giustificano altre soluzioni, è opinione del pretore che non si
possano nutrire dubbi circa l'interpretazione qui enunciata.
Per effetto della regola giuridica ricavata dal combinato dispo sto degli art. 31 e 25 d.p.r. ne deriva che il Bella ha commesso la
contravvenzione prevista dall'art. 25, 1° comma, per aver egli continuato nello smaltimento dei rifiuti senza essere preventiva mente in possesso dell'autorizzazione prevista dall'art. 6, lett. d), del decreto. Il reato concorre materialmente con quello di cui
all'art. 31: infatti, è certamente diversa la condotta tipica descrit
ta nell'una e nell'altra norma incriminatrice.
Ciò posto, il pretore osserva che è del tutto inaccettabile la
linea difensiva di dare rilievo alla c.d. buona fede dell'imputato al fine di mandarlo assolto per carenza dell'elemento soggettivo del reato.
A parte le considerazioni relative ad una non meglio precisata influenza che sul Bella avrebbe esercitato il fatto di svolgere la
propria attività di smaltimento a favore del comune di Castello
d'Annone, il giudicante ritiene che nella fattispecie mancano
quelle condizioni rigorosissime (stante il chiaro disposto dell'art. 5
c.p.) indicate dalla consolidata Cassazione in tema di rilevanza
della buona fede. In particolare, è stato esattamente sostenuto che
la « buona fede assume rilevanza nei reati contravvenzionali
allorché risulti la sussistenza di elementi positivi idonei ad
ingenerare nell'agente la convinzione della liceità della sua con
dotta e risulti altresì' che egli ha fatto tutto quanto poteva per osservare la legge onde nessun rimprovero gli può essere mosso ».
Alla luce di questi semplici e incontestabili principi non vi è
dubbio che il caso in esame non rientri tra quelli per cui può rilevare la buona fede dell'agente; il Bella ha agito per colpa, ovvero per imprudenza e negligenza, e la sua ignoranza o la sua
errata conoscenza delle norme penali non lo scusano affatto.
Al prevenuto possono essere concesse le attenuanti generiche in
considerazione della sua incensuratezza e del modesto grado della
colpa riscontrabile nella sua condotta. La pena per entrambi i
reati può essere contenuta nei minimi perché non si tratta di
gravi violazioni (in proposito si ricorda che il Bella è attualmente
munito di regolare autorizzazione).
Di conseguenza, si stima giusto condannare il prevenuto alla
pena dell'ammenda di lire 500.000 per il capo A) (p.b. lire
600.000) e per il capo B) alla pena di mesi due di arresto e lire 1.500.000 di ammenda oltre le spese (pena base tre mesi e lire 1.800.000 di ammenda). Non ritiene il pretore che possa essere accolta la tesi della difesa di unificare i reati sotto il vincolo della continuazione; infatti, nella fattispecie non è in discussione il problema dell'applicabilità dell'istituto nei casi di reati puniti con pene eterogenee, ma è in discussione la sussistenza stessa dei
presupposti sostanziali posti dall'art. 81, cpv., c.p. Infatti i reati
sono stati commessi con colpa e tale elemento psichico è assolu
tamente incompatibile con l'unicità del disegno criminoso che per l'art. 81 c.p. è uno degli estremi costitutivi indispensabili per ritenere uniti più reati dal vincolo della continuazione.
Al Bella possono essere concessi i doppi benefici di legge.
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