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Sentenza 10 giugno 1960; Pres. Benedicenti P., Est. Tinebra; Gallo (Avv. Mirzan) c. Fallimento Gallo...

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Sentenza 10 giugno 1960; Pres. Benedicenti P., Est. Tinebra; Gallo (Avv. Mirzan) c. Fallimento Gallo (Avv. Pace) e Ditta Peveralli (Avv. Tanaro) Source: Il Foro Italiano, Vol. 83, No. 7 (1960), pp. 1217/1218-1221/1222 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23151846 . Accessed: 25/06/2014 04:45 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 195.78.109.162 on Wed, 25 Jun 2014 04:45:16 AM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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Sentenza 10 giugno 1960; Pres. Benedicenti P., Est. Tinebra; Gallo (Avv. Mirzan) c. FallimentoGallo (Avv. Pace) e Ditta Peveralli (Avv. Tanaro)Source: Il Foro Italiano, Vol. 83, No. 7 (1960), pp. 1217/1218-1221/1222Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23151846 .

Accessed: 25/06/2014 04:45

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

dichiararono improponibile detta « nuova domanda », rite nendo che rispetto ad essa fosse valido ed operante il divieto del non bis in idem. All'uopo osservarono che, per l'espli cito richiamo fattone dall'art. 101, la norma posta nel

3° comma dell'art. 98 devesi ritenere applicabile, in tema

di insinuazioni tardive di credito, in tutta la sua interezza, e cioè, sia nella parte che contiene la prefissione del termine entro cui il creditore opponente deve costituirsi, sia in

quella che prevede la « presunzione di abbandono della domanda » (vera e propria comminatoria di decadenza) come effetto della mancata costituzione in termine.

Di tale decisione si duole ora il Rossi, rimproverando al Tribunale di aver fatto cattiva applicazione della legge e di essere perciò pervenuto a conclusioni errate ed inaccettabili.

In particolare, egli sostiene che l'art. 101, col prescri vere che «le parti si costituiscono a norma dell'art. 98, 3° comma » ha inteso rendere applicabile alle dichiarazioni

tardive di credito soltanto la prima parte di detto comma,

quella cioè in cui è detto che « almeno cinque giorni prima della udienza i creditori devono costituirsi », e non anche

la seconda, in cui si stabilisce che « se il creditore non si

costituisce l'opposizione si reputa abbandonata » ; ed

aggiunge che, non potendoglisi opporre tale decadenza, lia ora il diritto di vedere esaminata nel merito, e perciò accolta, la insinuazione proposta.

Ma la doglianza non regge : e ciò, non solo perchè il

principio affermato dai primi Giudici trova puntuale ed

autorevole conferma in due recentissime decisioni della

Suprema corte regolatrice, indicative di un indirizzo ormai

costante e definitivo (cfr. Cass. 7 agosto 1959, n. 2490, Pres.

Torrente, est. Novelli, Foro it., 1960, I, 250 ; Cass. 5 aprile

1960, n. 779, Pres. CiViletti, est. Giannattasio, id., Mass.,

176), ma anche e soprattutto perchè le ragioni addotte a

sostegno della proposta censura si rivelano del tutto prive di consistenza giuridica.

Sul rilievo che l'opposizione di cui all'art. 98 si concreta

in una impugnazione, per effetto della quale una domanda

respinta in tutto o in parte viene sottoposta ad un giudice

superiore e diverso, l'appellante Eossi sostiene che la san zione della decadenza prevista come effetto della mancata

costituzione in termine, se è pienamente concepibile rispetto a chi, come il creditore escluso o ammesso con riserva, abbia già ottenuto una prima pronuncia giudiziale, in

tutto o in parte negativa, in ordine al credito dichiarato, non lo è invece affatto rispetto a chi, come il creditore che

si faccia per la prima volta ad insinuare il proprio credito

« tardivamente », dopo cioè che è stato già emesso il decreto che dichiara esecutivo lo stato passivo, e prima che siano

esaurite tutte le ripartizioni dell'attivo fallimentare, non

avendo ancora avuto alcuna pronuncia in ordine alla pro

posta domanda di ammissione al passivo, non può a rigore essere considerato, nè sotto l'aspetto formale nè sotto quello sostanziale, vero e proprio « creditore opponente ».

Ed in base a tale considerazione, esso appellante crede

poi di poter affermare che il richiamo, che l'art. 101 fa

del 3° comma del precedente art. 98, ha in effetti una por tata ben più ristretta che non quella ritenuta dal Tribunale,

giacché con la dizione adottata («che le parti si costitui scono a norma dell'art. 98, 3° comma ») il legislatore ha inteso unicamente estendere alle dichiarazioni tardive il termine stabilito perle «opposizioni», senza affatto voler comminare a carico del « dichiarante tardivo » quella sanzione, che sol

tanto rispetto al creditore opponente trova una sua logica giustificazione.

Ma la tesi non convince. Ed a dimostrarne l'intrinseca

fragilità è sufficiente rilevare, da una parte, che, pur non

essendo una opposizione in senso tecnico, l'impugnazione tardiva, in quanto rivolta a modificare la situazione fis

sata dallo stato passivo e ad impedire conseguentemente che in base ad essa si possa giungere alla cessazione della

procedura concorsuale, è tuttavia trattata dal legislatore come una forma atipica di impugnazione dello stato pas sivo, e, dall'altra, che la dizione usata dall'art. 101 è per fettamente identica a quella del precedente art. 100, 2°

comma, rispetto al quale dottrina e giurisprudenza sono

concordi nel riconoscere che il rinvio normativo investe

l'intero 3° comma dell'art. 98, senza, possibilità di distin

guere tra prima e seconda parte. Senza dire infine die, essendo il suddetto comma costi

tuito da due elementi inscindibilmente collegati tra loro

(di cui il primo, relativo all'onere di costituzione, rappre senta il « precetto », ed il secondo, relativo alla comminatoria

di decadenza, la «sanzione»), ogni tentativo di introdurre distinzioni o limitazioni sarebbe, di fronte all'ampia locu

zione con cui viene disposto il rinvio, un inammissibile

arbitrio.

Posto che il citato 3° comma dell'art. 98 è stato rece

pito nella sua interezza dall'art. 101, si deve quindi conclu

dere che per effetto dell'abbandono del primo ricorso,

quello recante la data del 16 maggio 1957, il Rossi è deca

duto dal diritto di dichiarare tardivamente il proprio cre

dito. Col chiedere una prima volta di essere tardivamente

ammesso al passivo egli ha cioè, per così dire, consumato

la facoltà che la legge gli accordava, con la conseguenza che una nuova domanda urterebbe insanabilmente contro il

principio del non bis in idem, che vieta, come si sa, la ripro

posizione di una domanda, e quindi di un'azione, dalla

quale, dopo averla proposta, si è decaduto. Si potrebbe obiettare, e l'obiezione sembrerebbe, a

tutta prima, suggestiva, che, essendo il termine, entro cui

può esser fatta la dichiarazione tardiva, diverso e più ampio di quello concesso per l'opposizione ai creditori esclusi o

ammessi con riserva, l'unica limitazione temporale appli cabile dovrebbe essere quella risultante dal 1° comma del l'art.101. Ma all'obiezione è facile rispondere, osservando da

una parte che la natura pubblicistica del processo di falli

mento e la necessità di giungere al più presto ad una defi

nizione della procedura stessa esigono che, una volta chiesta

l'ammissione tardiva, il creditore uniformi la propria condotta processuale alle prescrizioni impostegli dalla legge, con la conseguenza che, ove a queste non si attenga, ne

sopporti gli effetti, e dall'altra che, con l'istituire la pre sunzione di abbandono della domanda (costituita, indif

ferentemente, per quel che si è detto dianzi, dalla opposi zione o dalla dichiarazione tardiva), il legislatore ha inteso ravvisare nella inerzia o nella negligenza del creditore un

fatto che, oltre che come rinuncia al processo, si atteggia in sostanza come rinuncia alla stessa « azione, implicante come tale l'impossibilità di riproporre la domanda ».

Ispirandosi a tali criteri la sentenza impugnata ha fatto

pertanto retta applicazione della legge, ond'è che l'appello deve essere rigettato, con la condanna dell'appellante alla

rifusione delle maggiori spese. Per questi motivi, ecc.

CORTE D'APPELLO DI MILANO.

Sentenza 10 giugno 1960 ; Pres. Benedicenti P., Est.

Tinebka ; Gallo (Avv. Mirzan) c. Fallimento Gallo

(Avv. Pace) e Ditta Peveralli (Avv. Tanaro).

Fallimento — Opposizione allo sentenza dichiarativa — Termine — Carattere perentorio (R. d. 16 marzo

1942 n. 267, disciplina del fallimento, art. 18). Fallimento — Art. 17 e 18 della leyjje fallimentare

— Questione di incostituzionalità — Manifesta in

fondatezza (Costituzione della Repubblica, art. 24 ; r. d. 16 marzo 1942 n. 267, art. 17, 18).

Il termine per proporre opposizimie avverso la sentenza dichia

rativa di fallimento ha carattere perentorio. (1)

(1) Vedi, in conformità, Cass. 30 luglio 1951, Foro it., 1952

I, 1551, con osservazione di A. De Martini, che richiama anche

precedenti contrari ; Trib. Napoli 13 agosto 1953, id., Rep. 1953, voce Fallimento, nn. 100-102 ; Trib. Roma 20 maggio 1954, id., Rep. 1955, voce cit., n. 138 ; Trib. Roma 19 luglio 1957, id., Rep. 1957, voce cit., n. 138 ed implicitamente App. Napoli 26

giugno 1954, id., Rep. 1954, voce cit., n, 96 ; Cass, 7 luglio 1952, id.. Rep. 1952, voce cit., n, 83,

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1219 PARTE PRIMA 1220

È manifestamente infondata la eccezione di illegittimità co

stituzionale degli art. 17 e 18 della legge fallimentare per contrasto con Vart. 24 della Costituzione, per non essere

il sistema da quelle norme stabilito idoneo a portare a

conoscenza del debitore la notizia della emanazione della

sentenza dichiarativa di fallimento, e a mettere quindi in grado esso debitore di proporre opposizione e di agire così in giudizio per la tutela del proprio diritto. (2)

La Corte, ecc. — La prima delle questioni che si presen tano' all'esame della Corte è quella sulla natura perentoria

oppure ordinatoria del termine per proporre l'opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento.

Il primo Giudice, pur ritenendo perentorio detto ter

mine, ha osservato che non è neppure lecito superare i

termini ordinatori a meno di una proroga tempestivamente concessa.

Tale motivazione però, ispirata soltanto ad un criterio

di compiutezza, non era neppure necessaria essendo suffi

ciente, allo scopo, attenersi ai principi ripetutamente espressi da questa Corte e dal Supremo collegio sulla perentorietà del termine suindicato.

La principale obiezione, che si è sempre mossa contro

il suddetto principio, viene tratta dal raffronto tra gli art. 325, 326 cod. proc. civ., 100, 101 e 102 legge fallimen

tare e l'art. 18 della legge medesima, nel senso che, mentre

le disposizioni prima citate dichiarano esplicitamente la

perentorietà dei termini d'impugnazione, ciò non avviene

per il termine di quindici giorni stabilito per l'opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento. Da ciò si vorrebbe

trarre l'illazione che, essendo i termini normalmente ordi

natori, a meno che la legge li dichiari espressamente peren tori (art. 152 cod. proc. civ.), non si potrebbe attribuire, nel silenzio della legge, natura perentoria al termine di

quindici giorni stabiliti dall'art. 18 legge fall, per l'opposi zione alla sentenza dichiarativa di fallimento.

Tutte le argomentazioni sopra riferite urtano, come già detto, contro la giurisprudenza e la dottrina prevalenti.

Scarso peso ha infatti il ricorso agli art. 100, 101, 102

legge fall., trattandosi di termini stabiliti dal giudice, il

quale non li può rendere perentori senza che una disposi zione di legge lo consenta espressamente (art. 152 cod.

proc. civ.). Quanto alle altre considerazioni deve essere affermato

il concetto che gli art. 325 e 326 cod. proc. civ., comple tati dal successivo art. 327, hanno lo scopo di rendere

definitivi, dopo il decorso di un determinato e congruo periodo di tempo, i provvedimenti giurisdizionali al fine

della loro esecuzione, senza di che tali provvedimenti reste rebbero privi di pratica efficacia.

Da ciò discende, come logica conseguenza, che la forza normativa delle disposizioni sopra citate si deve ritenere estesa a tutte le impugnazioni, non soltanto per la posi zione sistematica delle disposizioni medesime, collocate tra le regole che disciplinano le impugnazioni in generale, nelle

quali si deve ritenere indubbiamente compresa la opposi zione alla sentenza dichiarativa di fallimento, quale atto tendente ad annullare gli effetti di un provvedimento giu risdizionale, ma anche, come si è ripetutamente osservato in giurisprudenza, per lo scopo che il termine persegue e

per le funzioni che è destinato ad assolvere. Decisa in tale senso la questione che è oggetto del primo

motivo, si deve passare all'esame del secondo, concernente la sostenuta illegittimità costituzionale del citato art. 18

legge fall., in quanto limitativo del diritto di difesa e per ciò in contralto con l'art. 24 della Costituzione.

Il primo Giudice ha dichiarato l'eccezione manifesta mente infondata e la Corte non ha motivo di dissentire da tale decisione, data la sua evidente esattezza.

L'invocato art. 24 Cost., con l'affermazione solenne che la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del pro

(2) La sentenza confermata Trib. Milano 9 aprile 1959 si legge retro, 341, con nota di richiami, cui adde la nota critica di Stendardi, in Foro padano, 1959, I, 881.

cedimento, non ha fatto altro che conferire efficacia norma

tiva ad un principio etico, insito in ogni popolo civile, secondo cui nessuno può essere giudicato senza avere espo sto le proprie ragioni, personalmente quando gli è concesso,

oppure a mezzo di difensore.

Ma questo principio, per quanto sia dettato da evidenti

motivi di giustizia, e faccia sorgere un diritto inviolabile, non è così illimitato come la lettera della legge costituzionale

possa fare apparire, essendo intuitivo che ogni diritto deve

essere disciplinato al fine d'impedire che la sua trasmo

dante attuazione diventi arbitrio. Per questo il diritto alla

difesa, come tutti gli altri diritti, viene regolato dalle varie

leggi, civili, penali ed amministrative, che stabiliscono come

deve essere esercitato, armonizzando le esigenze della parte con quelle della collettività.

Pertanto la disciplina di tale diritto non può intaccare

il principio stabilito dalla legge fondamentale, a meno che

si risolva in ostacoli tali da annullare anche soltanto da

menomare l'esercizio della difesa.

L'appellante sostiene che l'art. 18 (necessariamente col

legato al precedente art. 17) perviene a tale risultato no

civo, in quanto le forme di pubblicità stabilite dalla legge fallimentare per rendere nota la sentenza dichiarativa del

fallimento non sono atte allo scopo, di guisa che il fallito, il quale, come nel presente caso, siasi allontanato per lungo

tempo dal domicilio o dal luogo di sua abituale residenza, non può apprendere tempestivamente la dichiarazione di

fallimento, e non è in grado di proporre l'opposizione nei

ristretti termini stabiliti dalla norma sopra richiamata. Il

che, secondo l'appellante, si risolve in una grave limita

zione, o addirittura nell'annullamento del diritto di difesa.

Deve però osservare la Corte che non sembra esatta

mente identificato il contenuto di tale diritto, il quale con

siste in modo esclusivo nella possibilità che la parte, in un

giudizio regolarmente istaurato, possa fare valere tutte le

ragioni che militano in suo favore nelle forme e nei limiti

stabiliti dalla legge, la quale, senza violare la Costituzione,

può stabilire termini ordinatori o perentori. Senonchè questa attività, che, come già accennato, si

esercita nel giudizio già in atto, è ben diversa da quella che compete alla parte per istaurare il giudizio medesimo,

quando la legge gliene conferisce la facoltà. In questo caso

il legislatore, non potendo trascurare gl'interessi generali sacrificandoli incondizionatamente all'interesse del singolo, ha il potere di porre limiti al diritto di iniziare il giudizio,

imponendo termini, decorsi i quali il diritto medesimo non

può essere esercitato.

In altre parole non si può confondere il diritto alla difesa

col diritto ad. iniziare un giudizio, giacché la legge costitu

zionale proclama l'inviolabilità del primo, e, per quanto concerne il secondo, si limita ad affermare che tutti possono

agire in giudizio per la tutela dei propri diritti o interessi

legittimi ; il che giustifica la distinzione sopra posta. Ma questa differenza, pur tanto notevole, viene trascu

rata dall'appellante il quale, sostenendo la illegittimità co

stituzionale dell'art. 18 legge fall, che, regolando i termini

per l'opposizione, viene a disciplinare implicitamente il

diritto ad agire in opposizione ed ha attinenza con l'art. 24, 1° comma, Cost., svolge tutti gli argomenti come se si trat

tasse invece di una violazione del diritto di difesa (norma citata, 2° comma) in un giudizio già iniziato.

Tale arbitraria unificazione di concetti non giova alla chiarezza dell'impugnazione.

Comunque è opportuno specificare che, se l'appellante volesse alludere ad una violazione di legge costituzionale

per gli ostacoli posti all'esercizio del diritto di proporre l'opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento, tale

eccezione sarebbe manifestamente infondata per le consi

derazioni già svolte, non potendo essere cioè in contrasto con la Costituzione i termini stabiliti dalla legge nell'inie

resse generale che è quello di rendere definitivi, col decorso

di un determinato periodo di tempo, i provvedimenti giu risdizionali ; il che non ha nulla in comune col diritto di difesa di cui al 2° comma del citato art. 24 Cost.

Ma se anche l'appellante volesse identificare tale diritto

con quello di difesa che spetta al fallito nella procedura

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1221 GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE 1222

concorsuale in atto, la soluzione del quesito giuridico non

potrebbe essere diversa. È noto che l'art. 912 del cessato cod. comm. prescriveva

la pubblicazione della sentenza dichiarativa di fallimento

mediante la sua affissione alla porta esterna del tribunale e in altri luoghi ove la sentenza stessa avrebbe potuto avere

notevole diffusione, oltre la inserzione per estratto nel

giornale degli annunzi giudiziari dei luoghi suddetti e, facol

tativamente, in altri giornali. Alla dubbia efficacia di tali adempimenti si volle ovviare

con la nuova legge, imponendo la comunicazione della sen

tenza per estratto a norma dell'art. 136 cod. proc. civ. (e cioè mediante biglietto di cancelleria consegnato dal can

celliere al destinatario, o rimesso per posta in piego racco

mandato, oppure a mezzo di ufficiale giudiziario) al debi

tore, al creditore richiedente ed al curatore non più tardi

del giorno successivo alla data della sentenza stessa. Altri

adempimenti coevi sono : 1) l'affissione di altro estratto alla

porta esterna del tribunale ; 2) la comunicazione al pubblico ministero, all'ufficio del registro delle imprese e alla cancel

leria del tribunale nella cui giurisdizione il debitore è nato

o la società fu costituita ; 3) la pubblicazione per estratto

della sentenza nel Foglio degli annunzi legali della pro vincia.

Contro questi mezzi di diffusione (sui quali sostanzial

mente si basa la motivazione del primo Giudice) vengono dirette le censure dell'appellante, che riecheggiano le obie

zioni mosse in dottrina all'impugnata sentenza.

Si sostiene infatti che nessuno dei mezzi suddetti è

idoneo ad assicurare una elevata probabilità di conoscenza

del provvedimento all'interessato, e quindi di consentirgli una ragionevole probabilità di difesa, con la conseguente violazione sostanziale della più volta richiamata norma della

Costituzione.

Si potrebbe aderire alla tesi dell'appellante per quanto concerne l'affissione alla porta esterna del tribunale e la

pubblicazione sul Foglio degli annunzi legali della pro

vincia, giacché, sebbene sia dubbio che tali mezzi, nella

loro incompiutezza, conducano direttamente ad una ille

gittimità costituzionale, si deve nondimeno riconoscere che

essi sono ben lontani dall'effettuare quella conoscenza del

provvedimento, che è necessaria per proporre una tem

pestiva opposizione. Senonchè un più diligente esame della norma fa risal

tare che i due adempimenti sopra descritti non sono diretti

a portare a conoscenza dell'interessato il provvedimento, ma a dare ad esso una notevole pubblicità affinchè possa venire appreso da coloro che, oltre il debitore, hanno inte

resse all'opposizione e che non essendo noti all'ufficio, non

potrebbero altrimenti essere informati.

Viene imposta anche la comunicazione diretta a vari

uffici per i provvedimenti di loro competenza.

L'adempimento più importante però, agli effetti della

eccezione sollevata dall'appellante, consiste nella comuni

cazione della sentenza dichiarativa di fallimento, per

estratto, al debitore, a norma dell'art. 136 cod. proc. civile.

Si sostiene anche l'inefficacia della comunicazione stessa, in quanto la sua esecuzione non possiede le garanzie della

notificazione e sussiste la possibilità, che non venga effet

tuata per irreperibilità del destinatario, senza che la legge

preveda la sostituzione di quest'ultimo almeno col difen

sore dell'ufficio, come nel processo penale. Tali argomentazioni, per quanto suggestive, non possono

incontrare il favore della Corte.

La comunicazione eseguita nelle forme suindicate pre senta le stesse garanzie della notificazione, potendo avve

nire in tre modi, i quali tutti offrono la sicurezza che il

provvedimento sia portato a conoscenza del debitore, e

cioè con la consegna del cancelliere al destinatario che ne

rilascia ricevuta, o per posta in piego raccomandato oppure,

infine, a mezzo di ufficiale giudiziario.

Quanto poi all'ipotesi della irreperibilità del debitore,

l'argomento giunge all'estrema ed inaccettabile conse

guenza di Volere addebitare al legislatore una negligenza

della parte.

Nessuno, e specialmente un imprenditore o persona

investita dal mandato di amministrare un'impresa, può essere negligente al punto di assentarsi per lungo periodo dal proprio domicilio, residenza o dimora, senza lasciare

tracce di sè, col pericolo d'impedire importanti comunica

zioni dalle quali può dipendere la vita economica propria o quella dell'impresa che amministra ; e se lo fa, non si

può certamente affermare clie tale evento, sommamente

dannoso, sia da ascriversi ad imperfezione o deficienza

legislativa. Meno ancora si può sostenere clie il suddetto inconve

niente si potrebbe ovviare con l'istituzione di un difensore

d'ufficio, anzitutto perchè questi non potrebbe reperire il

debitore, ed in secondo luogo perchè, in sua assenza, non

potrebbe agire, non essendo investito di mandato e non

essendo sicuro se il debitore intenda o meno proporre op

posizione. Sostanzialmente dunque, considerata la questione sotto

il duplice profilo si deve pervenire alla necessaria conclu

sione che il legislatore, con gli art. 17 e 18 legge fall, ha

posto il debitore in condizioni di poter proporre opposi zione nel termine di quindici giorni a decorrere dall'affis

sione della sentenza.

Pertanto l'eccezione d'illegittimità costituzionale solle.

vata dall'appellante si presenta manifestamente infondata, e la decisione del primo Giudice merita piena conferma

con la condanna dell'appellante a rimborsare all'appel lato le spese di questo giudizio.

Per questi motivi, ecc.

CORTE D'APPELLO DI MILANO.

Sentenza 12 aprile 1960; Pres. Benedicenti P., Est. Della

Valle ; Nissim (Avv. Lacovara) c. Impresa Battaglia

(Avv. Cremonesi).

Società — Società in accomandita semplice — Tras

formazione in società per azioni — Fallimento —

ltesponsahilit à dell'accomandatario per i pre esistenti debiti sociali (Cod. civ., art. 2499, 2304).

Trasformatasi un'accomandita semplice in società per azioni

il socio accomandatario resta responsabile per i debiti

sociali preesistenti alla trasformazione, se non prova il

consenso del creditore alla trasformazione, e non può invo

care il beneficio di escussione qualora la società sia nel

frattempo fallita. (1)

La Corte, ecc. — Muovendo dal duplice rilievo che la

illimitata responsabilità personale del Nissim quale socio

accomandatario della S.a.i.t.a. era rimasta del tutto integra ed impregiudicata, non essendo risultato in alcun modo che

la creditrice Ditta Battaglia avesse esplicitamente o taci

tamente prestato il proprio consenso alla trasformazione

della società debitrice da «accomandita semplice» a «so

cietà per azioni », e che d'altra parte a seguito del falli

mento della S.a.i.t.a. era divenuta praticamente impossi bile quella « preventiva escussione del patrimonio sociale »

che l'art. 2304 cod. civ. fa obbligo al creditore sociale di

esperire, prima di agire nei confronti del socio illimitata

mente responsabile, i primi Giudici, dato atto che sull'am

montare del credito azionato non era sorta alcuna seria

contestazione, accolsero la domanda attrice e condannarono

il convenuto Nissim al pagamento della somma chiesta

dalla Impresa Battaglia con la sola detrazione di L. 54.093,

portata dall'annualità di interessi relativa al periodo, durante il quale era rimasta pendente la procedura di con

cordato preventivo promossa dalla S.a.i.t.a.

Di tale decisione si duole ora il Nissim, sostenendo con

(1) Non risultano precedenti specifici. Sul beneficio di escussione in caso di fallimento della società,

v. Ferri, La società in nome collettivo, in Commentario a cura

di A. Scialoja e G. Branda, 1955, pag. 330,

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