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sentenza 12 settembre 1980; Pres. ed est. F. Mancuso; ric. Isman, Russomanno, Emiliani

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sentenza 12 settembre 1980; Pres. ed est. F. Mancuso; ric. Isman, Russomanno, Emiliani Source: Il Foro Italiano, Vol. 104, No. 1 (GENNAIO 1981), pp. 29/30-49/50 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23171299 . Accessed: 25/06/2014 02:13 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 195.34.79.158 on Wed, 25 Jun 2014 02:13:53 AM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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sentenza 12 settembre 1980; Pres. ed est. F. Mancuso; ric. Isman, Russomanno, EmilianiSource: Il Foro Italiano, Vol. 104, No. 1 (GENNAIO 1981), pp. 29/30-49/50Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23171299 .

Accessed: 25/06/2014 02:13

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GIURISPRUDENZA PENALE

Nel caso in esame è pacifico in quanto si evince dalle stesse

dichiarazioni degli imputati e in particolare di Rossini e di Co

simi, che il progetto allegato alla domanda di licenza edilizia e

in relazione al quale venne concessa la licenza, prevedeva la

conservazione mediante restauro di tutta la parte centrale del

l'edificio ivi compreso lo scalone, mentre è del pari pacifico che

tutta la parte centrale fu demolita, il che è esattamente l'opposto di quanto autorizzato con la licenza. Pertanto palese è la viola

zione di quanto prescritto nella licenza. Gli imputati hanno os

servato che nel valutare il loro operato si deve tenere nel debito

conto che a loro fu impedito di ricostruire quanto demolito

rispettando almeno nelle sue linee esteriori il progetto iniziale

e cioè sostituendo a materiale antico materiale nuovo e ricor

rendo a sistemi di messa in opera moderni (cemento e ferro al

posto di trave di legna, ecc.) e che pertanto la eventuale diffor

mità si deve stabilire presupponendo che al posto del cortile,

dello scalone, ecc. ora vi fossero un cortile, uno scalone, ecc.

quanto più possibili riproducenti, diremo in copia, le vecchie

strutture. Questo collegio ritiene di dovere condividere questa

argomentazione posto che i lavori di ricostruzione furono fer

mati con ordinanza del sindaco.

Alla luce di quanto innanzi si ritiene che l'avere abbattuto la

parte centrale dell'edificio per poterla poi ricostruire esattamente

come era prima (ricostruzione quindi e non più restauro come

stabilito nella licenza) non costituisca quella difformità totale che

si delinea soltanto allorché i lavori riguardino una opera diversa

da quella contemplata nell'atto, diversa per conformazione, strut

turazione, destinazione, ubicazione.

Ricade quindi il reato de quo nell'ultimo provvedimento di

clemenza, che, mentre trova applicazione nei confronti del Ros

sini e del Cosimi, non si applica nei confronti dell'altro preve

nuto avendo questi fatto espressa rinuncia dell'amnistia con di

chiarazione resa alla odierna udienza.

Comunque deve qui ripetersi lo stesso discorso fatto per il

reato di cui al capo b) circa la prova del concorso nel reato da

parte del legale rappresentante della banca. Non vi sono agli atti

elementi tali da permettere di escludere con tranquillante cer

tezza che l'iniziativa di abbattere la parte centrale dell'edificio

non sia stata presa dal direttore dei lavori e dall'imprenditore

senza avvertire il presidente della banca il quale tra l'altro non

risiedeva in sito e certamente aveva numerose altre incombenze

a cui badare.

Pertanto il Mancinelli va assolto con formula ampia.

Il Rossini e il Cosimi vanno condannati a rifondere alla parte

civile le spese da questa sostenute nella misura come da dispo

sitivo.

Per questi motivi, ecc.

CORTE D'APPELLO DI ROMA; sentenza 12 settembre 1980;

Pres. ed est. F. Mancuso; ric. Isman, Russomanno, Emiliani. CORTE D'APPELLO DI ROMA;

Giudizio direttissimo in materia penale — Giudizio direttissimo

obbligatorio — Reati commessi con il mezzo della stampa —

Condizione di legittimità sostanziale — Ricorrenza — Esclu

sione — Accertamento in sede di cognizione — Ricorso al rito

ordinario — Esclusione (Legge 8 febbraio 1948 n. 47, dispo

sizioni sulla stampa, art. 21).

Concorso di persone nel reato — Rivelazione di segreti d'ufficio

— Concorso morale — Condizioni (Cod. pen., art. 110, 326).

Abuso di poteri e violazione dei doveri d'ufficio — Rivelazione

di segreti d'ufficio — Carattere proprio del reato — Fattispecie

(Cod. pen., art. 326).

Segreti (reati contro l'inviolabilità dei) — Segreto istruttorio —

Contrasto con la libertà di cronaca — Questione manifesta

mente infondata di costituzionalità (Cost., art. 21; cod. pen.,

art. 684; cod. proc. pen., art. 164).

Segreti (reati contro l'inviolabilità dei) — Segreto istruttorio —

Pubblicazione di atti di procedimento penale — Sussistenza —

Fattispecie (Cod. pen., art. 684).

Cause di non punibilità — Esercizio di un diritto o adempi

mento di un dovere funzionale — Violazione del segreto d'uf

ficio o istruttorio — Inconfigurabilità — Fattispecie (Cod. pen.,

art. 51, 326, 684; cod. proc. pen., art. 164, 165 ter).

Concorso di reati — Rivelazione di segreto d'ufficio e violazione

del segreto istruttorio — Concorso formale eterogeneo di reati

— Confìgurabilità — Necessità del ricorso al cumulo materiale

delle pene (Cod. pen., art. 81, 326, 684).

L'obbligatorietà del giudizio direttissimo previsto dall'art. 21 leg

ge 8 febbraio 1948 n. 47 per i reati commessi col mezzo della

stampa, mentre fa salva la insindacabile discrezionalità del p.m.

procedente in sede di valutazione della ricorrenza di tale con

dizione di legittimità sostanziale, esclude, una volta positiva

mente riscontrata la stessa, il ricorso al rito ordinario; pertanto

il venir meno, in sede di cognizione, del fondamento del posi

tivo riscontro, non determina di per sé una causa sopravvenuta

di invalidità del procedimento direttissimo né l'obbligo per il

giudice del dibattimento di restituire gli atti al p. m. o di rimet

terli al g. i. per formale istruttoria (si legge in motivazione che

la legge sulla stampa, imponendo il rito direttissimo come ob

bligatorio, prescinde dall'esistenza del presupposto negativo del

la non necessarietà di speciali indagini). (1)

La determinazione e la istigazione del pubblico ufficiale a fare

la rivelazione, e non il mero accordo con esso, sono le sole

modalità attraverso le quali il soggetto estraneo può moralmen

te concorrere con il pubblico ufficiale nel delitto di rivelazione

di segreti d'ufficio, di cui all'art. 326 cod. penale. (2)

L'obbligo di non violare il segreto d'ufficio, nel reato previsto

dall'art. 326 cod. pen., si rivolge propriamente ed esclusiva

mente al pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio,

custode del segreto, e non si estende anche all'estraneo-ricettore

del segreto medesimo; pertanto la diffusione dello stesso, an

che a mezzo della stampa, da parte del soggetto estraneo non

è punibile ai sensi dell'art. 326 cod. pen. (si rileva che il ca

rattere plurisoggettivo del reato di rivelazione di segreti d'uffi

cio, per quanto si riferisce alla partecipazione dell'estraneo,

sta ad indicare piuttosto il mero dato naturalistico della fatti

specie bilaterale, che un elemento di struttura giuridica). (3)

È manifestamente infondata la questione di costituzionalità degli

art. 684 cod. pen. e 164, n. 1, cod. proc. pen., nella parte in cui

vietano la pubblicazione di atti o documenti di un procedimento

penale, in riferimento all'art. 21 Cost. (4)

È sufficiente, ai fini della configurabilità del reato di cui all'art.

684 cod. pen., la mera pubblicazione di atti o documenti di

un procedimento penale, essendo invéce irrilevante l'esistenza

di un testo di commento o di presentazione degli stessi (nella

specie, pubblicazione sul quotidiano « Il Messaggero » di am

pi stralci dell'interrogatorio del brigatista Patrizio Peci). (5)

(1) In termini Cass. 16 dicembre 1975, Massarelli, Foro it., Rep.

1976, voce Giudizio direttissimo, n. 55. V. pure, citate in mo

tivazione, Cass. 27 giugno 1977, Marini, id., Rep. 1978, voce cit.,

n. 42, commentata da Carli, in Riv. it. dir. proc. pen., 1978, 759;

14 marzo 1977, Pizzi, 17 dicembre 1976, Marino, 28 aprile 1976,

De Arcangelis e 12 aprile 1976, Maddalena, Foro it., Rep. 1977,

voce cit., nn. 25, 35, 28, 38, commentata da Gaito, in Riv. it. dir.

proc. pen., 1977, 773; 5 marzo 1976, Daniele e Di Iorio e 5 novem

bre 1975, Mancini, Foro it.. Rep. 1976, voce cit., nn. 33, 37, 29.

Nel senso che, in caso di giudizio direttissimo obbligatorio (nella

specie per i reati contemplati dalla normativa in materia valutaria)

il giudice deve proseguire con lo stesso rito, senza possibilità di re

gresso in istruttoria, v. Cass. 6 marzo 1979, Zara e 13 dicembre 1978,

Nicolardi, id., Rep. 1979, voce cit., nn. 16, 17.

Sull'art. 21 legge sulla stampa cfr. Cass. 24 novembre 1978, Pa

gnani, id., 1979, II, 422, con nota di richiami, circa la inestensibi

lità analogica di tale disposizione ai reati commessi a mezzo di

trasmissione televisiva diffusa via etere. Per l'infondatezza della que

stione di costituzionalità dell'art. 21 legge 47/1948, nella parte in

cui, rendendo obbligatorio il giudizio direttissimo anche per i reati

commessi col mezzo della stampa di competenza della corte d'assise,

impedisce ai difensori delle parti di assistere al sorteggio dei giu

dici popolari, v. Corte cost. 19 giugno 1975, n. 153, id., 1975, I,

2429, con nota di richiami. In materia di reati commessi col mezzo

della stampa cfr., da ultimo, Trib. Melfi 15 gennaio 1980, id., 1980,

li, 250, con nota di richiami.

Sul requisito della « non necessità di speciali indagini » nel giu

dizio direttissimo si rinvia al punto 3 della nota di richiami alla

sentenza di primo grado del Trib. Roma 24 maggio 1980, id., 1980,

II, 391, secondo cui, ai fini del giudizio direttissimo, tale condizione

esclude solo quelle indagini che presentino carattere di specialità ri

spetto a quelle ordinarie che costituiscono l'essenza di ogni attività

istruttoria. In dottrina v. Gaito, In tema di giudizio direttissimo obbligatorio,

in Mass. pen., 1979, 131.

(2-3) Sugli estremi integranti il delitto di rivelazione di segreto d'ufficio

di cui all'art. 326 cod. pen. ed il carattere di reato plurisoggettivo

dello stesso v. la nota di richiami, punti 1-4-6, a Trib. Roma 24

maggio 1980, cit.

(4) Questioni di costituzionalità degli art. 684 cod. pen. e 164, n. 1,

cod. proc. pen. in riferimento agli art. 3 e 21 Cost., sollevate da Trib.

Palermo, ord. 31 maggio 1977, Foro it., 1977, II, 460, con nota di

richiami, e da Trib. Macerata, ord. 3 aprile 1978, id., Rep. 1979,

voce Segreti (reati contro l'inviolabilità dei), n. 17, sono .state dichia

rate non fondate da Corte cost. 10 febbraio 1981, n. 18 che sarà

riportata in uno dei prossimi fascicoli.

Un diverso profilo della questione di costituzionalità delle norme

citate è stato evidenziato nell'ordinanza di rimessione Pret. Bologna

25 ottobre 1979, Foro it., 1980, II, 384, con nota di richiami.

(5) In termini Trib. Roma 24 maggio 1980 cit., con nota di ri

chiami.

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PARTE SECONDA

Non è configurabile l'esimente dell'esercizio di un diritto funzio nale (o dell'adempimento di un dovere funzionale) nell'ipotesi in cui la rivelazione del segreto d'ufficio o la violazione del se

greto istruttorio siano realizzate per un fine del servizio di si

curezza, perseguito dall'imputato quale esponente di alto grado del SISDE (nella specie, la rivelazione mirava a promuovere le condizioni psicologiche di una possibile resa di venti-trenta

terroristi, favorendone i motivi di crisi o di convenienza attra

verso la cognizione del travaglio rivelato, nei propri interroga

tori, dal « brigatista pentito » Patrizio Peci). (6)

È giuridicamente configurabile il concorso formale eterogeneo di

reati, ai sensi dell'art. 81, 1° comma, cod. pen., con conseguente necessità del ricorso al cumulo materiale delle relative pene, tra il delitto di cui all'art. 326 cod. pen. e la contravvenzione

prevista dall'art. 684 cod. pen., quando sussista la identità del

processo volitivo e di quello esecutivo dei due reati da parte

dell'imputato e la pluralità delle distinte violazioni unigene rate, con lesione di autonomi interessi penalmente tutelati. (7)

La Corte, ecc. — Svolgimento del processo. — (Omissis). Alla

vigilia dell'apertura del dibattimento di appello del 9 settembre

1980, il Russomanno faceva pervenire a questa corte la propria dichiarazione di rinuncia a comparirvi, ed altresì una memoria a

sua firma, a carattere narrativo e con funzione difensiva, portan te la data del 6 settembre 1980.

In questo documento (che da ora in avanti sarà per brevità

chiamato « memoriale »), il Russomanno attribuisce a sé l'ini

ziativa della trasmissione della copia dei verbali Peci all'lsman; trasmissione da lui concepita come limitata ad una scelta del

materiale contenuto nei verbali stessi, e per il fine della loro

pubblicazione su « Il Messaggero » in funzione strumentale alla

riuscita di una operazione di istituto, intesa a favorire le condi

zioni psicologiche della possibile resa, alla quale sapeva dispo sto un consistente gruppo di terroristi, giusta riservate informa

zioni pervenutegli. Aggiungeva che il detto criterio di limitazione

funzionale della scelta era stato però male inteso dal dipendente (de! quale tace il nome), a ciò da lui incaricato, il quale aveva

finito col trasmettere al giornalista più larga misura dei fatti ver

bali. Il testo del menzionato memoriale è il seguente: « La mia vicenda è infinitamente più sottile e complessa di

quanto non sia apparso al processo di primo grado e forse di

venta assolutamente incomprensibile se non si tiene conto di

alcune premesse. « Infatti, la ricostruzione degli avvenimenti, cosi' come è stata

compiuta in maggio, certamente non ha soddisfatto molti e forse

nemmeno gli stessi magistrati cui si deve la prima sentenza: essi

si sono trovati di fronte ad almeno due irresolvibili paradossi. « Un funzionario con vent'anni di esperienza specifica, da mol

ti considerato capace, che all'improvviso regala senza alcun va lido motivo ad un giornalista un documento riservato ed all'epo ca piuttosto ambito; ed un giornalista riconosciuto come dina

mico ed « aggressivo » che, ricevuto quel documento, cade come in letargo per tre giorni e pubblica i suoi articoli soltanto dopo essersi visto battuto e superato dalla concorrenza.

« Io adesso mi accingo ad esporre la verità, spiegando anche

perché in precedenza non mi è stato possibile, prima, tuttavia, devo precisare che: io ero un funzionario impegnato nell'antiter

rorismo, specializzato nel settore internazionale; nel corso della mia lunga attività, mi si permetta di ricordarlo, ho ottenuto nu merosi attestati di correttezza, competenza e prestigio; da anni ormai i servizi informativi italiani sono ingiustificatamente accu sati di burocratismo, inerzia, inefficienza, mancanza di intelligen za e di immaginazione, sicché da più autorevoli parti dell'appa rato e dell'opinione pubblica si reclamava una attività più sottile, più acuta e poliedrica, più efficace, sempre nel rispetto della

legge con cui i servizi di informazione sono stati riformati dal

Parlamento; infine, devo aggiungere che dopo venti anni di ap partenenza al servizio del ministero per l'interno, ogni mio pen siero ed ogni mia iniziativa erano rivolti all'interesse non già

(6) Non si rinvengono precedenti editi sulla questione specifica. Per l'inapplicabilità dell'esimente di cronaca giornalistica al reato di cui all'art. 684 cod. pen., v. Trib. Roma 24 maggio 1980 cit., con nota di richiami.

(7) Nel senso che la continuazione non è applicabile tra reati pu niti con sanzioni eterogenee cfr. Cass. 18 dicembre 1978, Polignano, 1° giugno 1978, Muscas, 14 aprile 1978, Riccardi, 17 marzo 1978, De Santis, Foro it., Rep. 1979, voce Reato continuato, nn. 6, 10, 8, 7; Trib. Vicenza 25 agosto 1977, id., 1978, II, 186, con nota di richia mi; Corte cost. 18 gennaio 1977, n. 34, id., 1977, I, 776, con nota di richiami, commentata da Maccagno Benessia, in Giur. costit., 1978, I, 964. In dottrina cons. Messina, Concorso formale di reati, 1979.

della mia persona, non di un gruppo di potere né tanto meno di

un partito politico, bensì' della Repubblica e delle sue istituzioni,

come se questo fosse ormai divenuto in me una sorta di riflesso

condizionato. Ho preso sul serio le parole che il presidente Per

tini ha pronunciato sulla bara di non ricordo quale ennesima

vittima del terrore, « Ormai siamo in guerra », ritenendo che

fosse doveroso impegnarsi in ogni modo e forma possibile per far tornare la pace.

« Devo infine aggiungere che avevo rilevato che in Germania

si erano già verificati numerosi episodi di « pentimento », di ri

nuncia cioè alla pratica della lotta armata. Già nel 1975 l'avv.

Mahler, l'ideologo (sic) della « Rote Arme Fraktion », aveva ri

fiutato d'essere liberato in cambio del rilascio da parte dei terro

risti dell'esponente cristiano-sociale dott. Peter Lorenz, affermando

che tale tipo di lotta criminosa non faceva gli interessi della

classe operaia; nel 1977, Hans Joachim Klein, braccio destro

del celebre terrorista « Carlos », aveva abbandonato il campo con un atto clamoroso, inviando, tramite un pacco postale indi

rizzato al corrispondente del settimanale tedesco « Der Spiegel »

a Roma, la sua pistola accompagnata da una lunga lettera in cui

illustrava le motivazioni del suo recesso; in tempi più recenti, in

seguito ad una iniziativa di pacificazione del ministro federale

per l'interno Baum, i terroristi Astrid Proli, Berster, Goerlich e

Herminghausen erano rientrati indenni in patria, processo a pie de libero e pena praticamente dichiarata già scontata.

« Ciò premesso, vengo ai fatti che mi riguardano direttamente.

Il 28 aprile scorso ebbi un incontro con un mio informatore di

alto livello, il quale mi avverti che una ventina-trentina di terro

risti, dei quali non posso rilevare i gruppi di appartenenza, ave

vano incaricato un intermediario di «trattare la resa».

« Io formulai tre ipotesi: un recesso personale, « il getto del

l'arma » con un valore puramente soggettivo ed in questo caso

non vedevo quale potesse essere la mia funzione né quella di

alcun altro funzionario dello Stato; una rinuncia accompagnata da una dichiarazione pubblica — tipo Klein — con un valore

politico, la capacità di influenzare altri nella medesima situazione

e la possibilità di vedersi riconosciute, in eventuali processi, al

cune attenuanti; infine una resa accompagnata da rilevazioni extra

giudiziali e da spunti informativi di interesse (indicazioni di

« covi », anche non più in uso, recupero di armi, ecc.) nel quale caso — sentiti i miei vertici — mi sarei messo volentieri a di

sposizione quale tramite.

« Il 29 aprile, leggendo nelle prime e nelle ultime pagine del

verbale Peci di Torino concetti motivazionali ed un appello alla

rinuncia alla lotta armata molto simili, anche se formalmente

più grezzi, a quelli espressi dall'avv. Mahler, considerando che

con il pentimento di Fioroni, con i numerosi arresti di elementi

delle Brigate Rosse e di Prima Linea, con la pratica distruzione

delle « colonne » di Genova e di Torino, con il desiderio di « resa » già abbastanza diffuso, si era venuta a creare un'atmo

sfera favorevole e lo Stato finalmente si trovava in posizione di

vantaggio, mi sembrò favorevole il momento per agevolare il fe

nomeno della resa. « Ritenevo cioè che l'occasione andasse sfruttata con sollecitu

dine in tempi brevi, proprio a causa di quanto aveva saputo. « Si poteva quindi tentare, e con esito positivo secondo le mie

valutazioni, di « ripulire » Roma da quei venti o trenta elementi

che costituivano tuttavia ancora un pericoloso « serbatoio ».

« Tale tentativo, dunque, mi sembrò essenziale, soprattutto nella

sua urgenza, per impedire il rigenerarsi, a breve termine, di nu

clei più pericolosi e in quel momento già intaccati sensibilmente dalla tenace azione delle forze dell'ordine.

« Io non nego ora d'aver messo in azione, in una certa misura,

quella catena di causalità che mi ha condotto davanti ai giudici, ma affermo che il movente (rimasto un interrogativo assolutamen

te irrisolto — mi pare — anche per gli stessi giudici di primo

grado) era esclusivamente l'interesse delle istituzioni democrati

che, quindi un movente onesto e, aggiungerei, anche professio nalmente doveroso.

« Quale « cassa di risonanza » della operazione psicologica che mi accingevo a compiere, scelsi il « Messaggero », a totale

insaputa sia dei vertici di quel giornale sia dello stesso Isman,

per una serie di motivi.

« Primo fra tutti la sua posizione politica progressista, che lo

rendeva non malvisto dagli ambienti marginali del terrorismo cui

l'operazione era necessariamente indirizzata, poi la città della sua maggior diffusione, che era quella interessata all'operazione « resa ».

« Infine, la mia intima convinzione che l'Isman, notoriamente abbastanza competente in materia di terrorismo, qualora avesse

avuto informazioni riguardanti il settore non avrebbe mancato

di diffonderle rapidamente.

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GIURISPRUDENZA PENALE

« Spero che egli, venendo a conoscenza ora dei motivi che sono stati alla base della mia azione di maggio, non me ne voglia, né si senta in alcun modo strumentalizzato: io approfittavo sol tanto di una convergenza di interessi: il mio finalizzato a com

piere una « campagna » diretta a favorire (sic) il pentimento e la resa ed il suo nel nome della professione in cui ha sempre di chiarato di credere.

« A seguito di tali considerazioni, il 30 aprile sera, convocai un giovane collega e lo misi al corrente delle avances di resa.

« Avevo assoluta necessità di un collaboratore, poiché nel giro di pochissimi giorni avrei dovuto partire per una lunga missione

all'estero, e qualcuno doveva essere posto in condizione di ri trasmettermi eventuali novità sull'argomento.

« Il pranzo del 30 aprile fu quindi la cosa più innocente e normale del mondo.

« Venerdì due maggio verso mezzogiorno, il collaboratore di cui ho parlato venne nel mio ufficio per discutere nuovamente il problema della « proposta di resa » ed io gli chiesi di estra

polare dai verbali quanto potesse servire ai miei fini, « facendomi

una bella selezione » ed informandolo anche, sia pur sommaria

mente, circa l'uso che intendevo farne e i motivi. « Per non dover ricopiare a macchina le prime due pagine

dell'interrogatorio Peci di Torino contenenti «l'appello», né l'ul tima in cui questo appello era ripetuto, né quelle frasi che qua o là dimostravano come il recesso anche individuale fosse possi bile, con l'intesa che mi avrebbe dovuto effettuare la selezione, da consegnarmi nel pomeriggio, dei brani utili affinché altri se

guissero l'esempio del Peci e degli altri terroristi tedeschi pentiti, ed agevolare la resa di quelle 20-30 persone di cui mi era stata

proposta la trattativa (sic).

« Mi restituì l'incartamento dopo una mezz'ora. « Non ebbi possibilità materiale, per le mie occupazioni, di

rivedere il collega nella serata: io infatti volevo avere il tempo di elaborare quella « selezione », riducendola ad un collage

dell'essenziale; intendevo pure instaurare una sorta di paralle lismo fra l'appello e le dichiarazioni dell'avv. Mahler, il gesto di Klein e la rinuncia degli altri quattro tedeschi che ho nomi

nato prima, allegando articolo e ritagli di giornali già pubblicati all'estero valorizzandoli nella prospettiva italiana.

« La mattina di sabato 3 maggio, chiamai questo mio collega e gli chiesi il materiale che egli nel frattempo avrebbe dovuto

aver selezionato e rifotocopiato; ma egli, con mia grande sor

presa, mi riferì che « aveva già provveduto », facendola perve nire al giornalista.

« Protestai vivacemente con lui, ma questi giustificò il suo com

portamento affermando che aveva capito male.

« Tale fatto mi ha impedito di dare a quei verbali tutt'altra

dimensione, davvero assai più esigua, ed anche ben altra forma.

Mi ha tra l'altro impedito di aggiungervi quei ritagli di stampa

riguardanti i precedenti stranieri che erano invece nel mio pro

getto. « Certamente poi non avrei, comunque, mai fatto pervenire

all'lsman né copia né estratti dei verbali 'Peci di Roma, molto

più recenti e meno noti di quelli di Torino; questi ultimi erano

praticamente già di dominio pubblico, perché i giornali ne ave

vano diffuso abbondantemente il contenuto; i verbali romani li

conoscevo assai poco, perché li avevo soltanto sfogliati di sfug

gita. « Riepilogando, mentre ammetto che era nelle mie intenzioni

la diffusione di esigui estratti dei verbali Peci (ed esattamente

quelli che si riferivano non già a fatti bensì alle motivazioni

psicologiche e politiche del « pentimento ») nell'intento di di

mostrare che l'abbandono della lotta armata, specialmente da

parte di alcuni « marginali » o comunque non troppo compro

messi, era non soltanto doveroso ma anche possibile, riaffermo

che fui impedito, per il malinteso innanzi spiegato, sia di com

piere una rigorosa selezione del materiale, sia di completare con

altra documentazione il mio intento teso unicamente al predetto obiettivo.

« Le pagine in questione vennero consegnate da un altro a mia

insaputa, dopo una cernita che per errore dovuto, forse, alla fret

ta, alla tensione o anche ad un semplice fraintendimento, non

corrispondeva affatto nella forma e nella misura alle mie in

tenzioni. « Che la selezione di quel materiale sia stata effettivamente

compiuta da una terza persona, è dimostrato da tre fatti: io

non avrei mai lasciato nemmeno una riga concernente i rap

porti internazionali delle Brigate Rosse, per tutti quei motivi

che ho già ampiamente esposto fin dal primo interrogatorio da

vanti al sostituto procuratore generale dott. Ciampani; non avrei

certamente lasciato proprio la pagina con le parentesi da me

apposte o le famose «crocette», che nell'originale sono scritte

a pennarello rosso; soprattutto, con la mia esperienza ormai ven

tennale, non avrei mai lasciato episodi, nomi ed indicazioni i

quali non avessero ormai altro che un puro valore storico. « La stessa mattina di sabato 3 maggio, la « Repubblica » ri

portò il testo dell'appello del Peci, tratto — ma questo lo avrei

saputo soltanto in seguito — dalla documentazione a disposi zione per il processo di Torino con Giuliano Naria, accusato dell'omicidio del giudice Cocco. In una certa parte, quindi, il mio obiettivo era raggiunto, ma d'altro canto era piuttosto de

luso, poiché la mia intenzione era di raggiungere lo scopo attra verso anche la divulgazione di altri analoghi episodi verificatisi all'estero.

« Subito dopo la pubblicazione dei verbali dell'interrogatorio mi lamentai molto vivacemente con Isman di quanto era acca duto.

« Mi si può chiedere, a questo punto, perché mai io non abbia dato questa spiegazione né alla procura il 13 maggio, né in tri bunale al processo di primo grado. Perché, secondo me, a quel l'epoca, l'« operazione resa » del gruppo romano, se io in qual che modo fossi tornato libero o fosse stata da altri ripresa, era ancora fattibile, e, quindi, non volevo comprometterla con di chiarazioni che inevitabilmente sarebbero state divulgate.

« Mi si potrebbe inoltre chiedere perché io non abbia fatto il nome del mio collega, in un qualsiasi momento tra l'arresto e la sentenza o in occasione delle due istanze di libertà provvisoria, né intenda farlo neppure oggi. Vi è una risposta abbastanza de licata: se da un lato nominare il collega, che involontariamente aveva causato un increscioso errore, avrebbe magari dato maggior tono alla difesa, confermando anche le mie primissime dichiara zioni alla magistratura, dall'altro lato rilevare questo nome mi

apparve e in buona misura ancor oggi mi appare, certamente

traumatico, visto che nell'ambiente in cui ho lavorato per tanti

anni, la pubblicità sconvolge la vita stessa delle persone.

« La vicenda è nata come un'operazione che forse — mi si conceda questo merito — precedeva di qualche mese il dibattito

sull'opportunità e sul modo con cui permettere ad alcuni margi nali della lotta armata una via di ritorno.

« Poi, strada facendo, quest'operazione, le cui finalità erano

estremamente omogenee agli interessi dello Stato, si è tramutata

in qualcosa di molto diverso per un puro ma — lo riconosco —

inconcepibile errore, dovuto ad una erronea interpretazione delle

mie idee e delle mie parole, pur nell'intento di alleviarmi da uno dei numerosissimi compiti e doveri.

« Giunti a questo punto con una sentenza di primo grado che,

per come funzionano le cose nell'ambiente dei servizi occulti

di tutto il mondo, mi ha definitivamente da questo estromesso, mi interessa soltanto rettificare alcuni punti.

« E precisamente: non ci fu alcun pactum sceleris con

Isman, nessun accordo né il 30 aprile, né dopo. Anzi non mi

sarei nemmeno sognato di mettere Isman al corrente di quelli che erano i miei veri proponimenti, destinati a restare riservatis

simi se da essi volevo trarre qualche risultato positivo; l'idea

di questa operazione era esclusivamente mia: era un'idea che

all'origine e nelle finalità rispondeva ai canoni di quella profes sionalità comune a tutti i servizi segreti di qualsiasi paese che

davvero vogliano operare in difesa dello Stato; un involontario

equivoco altrui mi ha scavalcato, dando alla cernita del mate

riale dimensioni non volute e annullando il vero e più profondo senso dell'operazione; non sono un « traditore » del mio Stato

e del mio servizio, né un ingenuo o stupido personaggio che con

segna ad altri pagine con annotazioni e segni di proprio pugno. « Non ho altro da aggiungere: ho obbedito all'imperativo mo

rale di riferire ai miei giudici quale sia stato il mio operato ed

1 motivi che lo hanno ispirato, senza nulla omettere.

« Vorranno comprendere, sig. presidente e sigg.ri consiglieri,

quanto sia stata e sia traumatica questa vicenda per me.

« Ho preferito affidare allo scritto ciò che avevo da dire, poi ché il turbamento che tutt'ora travaglia il mio animo mi avrebbe

reso oltremodo gravoso e penoso l'esternare verbalmente in pub blica udienza quanto sopra: ed è questa l'unica ragione per la

quale ho rinunziato a presenziare al dibattimento.

« La mia coscienza ora non ha più pesi ed è tornata libera, il

resto è rimesso alla vostra scienza. — Roma li 6 settembre 1980 ».

Procedutosi al giudizio di appello (dibattuto dal 9 al 12 set

tembre 1980), questa corte, nella volontaria assenza del Russo

manno e datasi lettura del menzionato memoriale, l'Isman rece

deva dal proprio precedente atteggiamento e rendeva interroga torio. E confermava, per quanto riguardamelo, la versione dei

fatti esposta nel memoriale medesimo, con la precisazione: che

questi lo aveva telefonicamente interpellato (alle ore 9 circa del

2 maggio) — avendosene risposta affermativa — se lo interes

sasse conoscere i motivi del pentimento del Peci e indi assicu

Il Foro Italiano — 1981 — Parte //-3.

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PARTE SECONDA

rato di potergli procurare tale conoscenza. Riferiva altresì' che i

verbali Peci gli erano stati consegnati da altro funzionario (vero

similmente) del SISDE, a lui già personalmente e nominativa

mente noto, presso l'abitazione di questi, dove era stato apposi tamente convocato con telefonata delle ore 14,30-15 di detto

giorno. Con la quale telefonata gli era stato anzitutto consentita

la identificazione personale dell'interlocutore, indi reso agevole il collegamento della convocazione presso costui con la antece

dente iniziativa del Russomanno nella mattinata. Soggiungeva che

erasi reso conto, immediatamente alla estrazione dalla busta, del fatto che il materiale ricevuto era costituito da atti giudiziari in copia, evidentemente riferentesi al noto Peci e, quindi, per lui di grande interesse giornalistico. Di ciò aveva reso subito

edotto l'Emiliani in redazione, in un colloquio il cui ulteriore

contenuto veniva dall'Isman riferito sostanzialmente negli stessi

termini del secondo interrogatorio dell'Emiliani in tribunale.

L'Emiliani, infine, confermava il contenuto dei propri esami

precedenti. In sede di discussione il p. g. e la difesa svolgevano le rispet

tive ragioni e concludevano ciascuno come da relativo verbale.

Motivi della decisione. — Con i primi due motivi di appello, il Russomanno, e con i rispettivi motivi di appello iniziali, PIsman

e l'Emiliani hanno parimenti dedotto la inesistenza giuridica, l'abnormità o nullità del giudizio, e della relativa sentenza: per essersi fatto ricorso al rito direttissimo di cui all'art. 21 legge 8

febbraio 1948 n. 47, pur mentre si sviluppava, o non si arrestava, una vera e propria (non legittima) attività istruttoria; per essersi

ritenuto, da parte del primo giudice, consentita l'adozione di

tale rito, pur mentre se ne escludeva la condizione di legittimità sostanziale della commissione del reato di cui all'art. 326 cod.

pen. col mezzo della stampa, opinandosi cioè la rimediabilità

di tale sopravvenuto difetto in base al criterio della ricorrenza

della sufficiente (diversa) condizione di legittimità sostanziale,

prevista dall'art. 502 cod. proc. pen. per il giudizio direttissimo

tipico; e per essersi violato, da parte dello stesso giudice comun

que il principio per cui, in caso di concorso di reati postulanti diverso regime processuale, il rito ordinario prevale su quello direttissimo.

1 - Giudizio direttissimo: sua legittimità. — Delle surriferite

censure, la prima e la terza sono infondate, e tanto basta a ren

dere irrilevante l'errore (solo concettuale, come si vedrà), dedot

to con la seconda, il quale è effettivamente presente nella sen

tenza impugnata.

Va, al riguardo, subito precisato che, nella specie, si è proce duto con le forme del giudizio direttissimo previsto, per i reati

commessi col mezzo della stampa, dall'art. 21 legge 8 febbraio

1948 n. 47, posto che la rivelazione del segreto di ufficio (come la contravvenzione di cui all'art. 684 cod. pen.) risultava dalla

pubblicazione giornalistica dei menzionati estratti dei verbali

Peci (« Il Messaggero » del 4 e 5 maggio 1980).

La obbligatorietà del quale rito — che, in principio, è quello

già esistente nell'ordinamento processuale, pur coi necessari adat

tamenti (cfr. Corte cost. 1961 n. 56, Foro it., 1961, I, 1275) —

mentre fa salva la insindacabile discrezionalità del p. m. proce dente in sede di valutazione della ricorrenza di siffatta condizio ne di legittimità sostanziale (arg. ex Cass., Sez. I, 2 marzo

1977, Marino, id., Rep. 1977, voce Giudizio direttissimo, n. 35), esclude, una volta positivamente riscontrata la condizione mede

sima, il ricorso al rito ordinario. Si' che, sotto questo aspetto, il

venir meno in sede di cognizione del fondamento di questo po sitivo riscontro non determina, di per sé, una causa sopravvenuta di invalidazione del procedimento direttissimo; né, mai, per il

giudice del dibattimento, obbligo di restituire gli atti al p. m.

(obbligo che si impone, invece, nell'ordinario giudizio direttis

simo, solo nel caso di accertato difetto delle condizioni legitti matrici formali del rito). Né impone, per lo stesso giudice del

dibattimento, obbligo di rimettere il processo al g. i. per formale istruttoria (obbligo che ordinariamente sussiste, invece, solo nel

caso, qui escluso, di inesperibilità, nel dibattimento stesso, delle

indagini necessarie alla decisione). (Cfr., per tali principi: Cass. 10 luglio 1976, Maddalena, id., Rep. 1977, voce cit., n. 38; 6 feb

braio 1976, Mancini, id., Rep. 1976, voce cit., n. 29; 27 luglio 1976, De Arcangelis, id., Rep. 1977, voce cit., n. 28; 3 maggio 1976, Daniele e Di Iorio, id., Rep. 1976, voce cit., n. 33, 37; 5 maggio 1977, Pizzi, id., Rep. 1977, voce cit., n. 25). Nella spe cie, è da tener conto, peraltro, che la legge sulla stampa, impo nendo il rito direttissimo come obbligatorio, prescinde dalla esistenza del presupposto negativo della non necessarietà di spe ciali indagini.

La previsione legale di un giudizio direttissimo, atipico e ob

bligatorio, per i reati (apprezzati come) commessi col mezzo della

stampa, in definitiva, comporta per il p. m., una volta espletate le attività di acquisizione probatoria ai fini dei sufficienti indizi di colpevolezza, esattamente ed esclusivamente l'obbligo, pur nella ipotesi in cui fossero necessarie le dette speciali indagini, di investire il tribunale del giudizio, preclusa ogni altra alterna

tiva prccedimentale (arg. ex Cass. 21 agosto 1977, Marini, id.,

Rep. 1978, voce cit., n. 42; Corte cost. 26 giugno 1970, n. 109,

id., 1970, I, 2070). (Né, comunque, il requisito della non neces

sità di speciali indagini potrebbe, in ogni caso, venire inteso

nel senso irrealistico e restrittivo preteso dagli appellanti, vale

a dire come esclusione, per il p. m. in fase predibattimentale, di qualsiasi attività di investigazione, comportando, all'evidenza,

ogni specie di giudizio e quindi anche quello direttissimo, ti

pico o atipico, durante questa fase, la necessità di ricerche e di

valutazioni, fermo restando il solo limite che essa non snaturi

la sostanza e la peculiarità del giudizio stesso. Ovvero essere

inteso ccme esclusione, in fase dibattimentale, di attività istrut

torie, dovendosi anzi ritenere, salvo sempre questo limite, che

proprio per le caratteristiche del giudizio in parola il processo e l'istruzione devono essenzialmente svolgersi proprio nel dibat

timento) (in tali sensi, cfr. Cass. 15 maggio 1980, Altieri; 21

settembre 1977, Maggi, id., Rep. 1978, voce cit., n. 13; 21 no

vembre 1977, Alvarez; 1° maggio 1976, Daniele, cit.). Condi

zioni e limiti, gli anzidetti, puntualmente, tutti osservati, si ri

leva per completezza, nel presente giudizio; il quale ha del resto veduto la più ampia esplicazione del diritto di difesa nel co

stante rispetto dei canoni del contraddittorio e del controllo giu diziale delle fonti di prova.

Ora, se, come visto, il giudizio direttissimo atipico è stato in

questo caso validamente promosso, non poteva non essere così

promosso e non fu necessario neppure mutarlo, ciò bastava e basta per esaurire negativamente ogni ciontestazione circa la esi stenza e la validità di esso e della relativa sentenza. Senza ne

cessità, quindi, di ritenere, a questo fine, che sarebbero state

comunque formalmente e sostanzialmente rispettate, per il reato

di cui all'art. 326 cod. pen., ancorché deprivato della qualifica zione di reato commesso col mezzo della stampa, le norme del

rito direttissimo tipico di cui all'art. 502 cod. proc. penale. 11

ricorso a cotesto preteso fenomeno sanante è, invero, da rite

nere (anche ad ammetterne la configurabilità tecnica) non ne

cessario nella specie, sf che la sua ipotizzazione da parte del

tribunale (secondo il criterio di conversione formale o di equi valenza sostanziale, questo non è chiaro), si risolve in mero irri

levante errore concettuale della sentenza, piuttosto che in un

vizio del procedimento e, derivativamente, della decisione.

Queste, e non altre, sono le ragioni del nessun interesse, ri

spetto alla specie, della fatta evocazione del principio (peraltro non cosi tassativo come si vorrebbe: cfr. Cass. 8 settembre 1977,

Patrizio, id., Rep. 1978, voce cit., n. 9; 23 giugno 1977, Rovella,

ibid., n. 10) della prevalenza, in caso di concorso di reati

commessi col mezzo della stampa con altri, delle forme ordi

narie di giudizio, e della estraneità del principio medesimo al caso

di cui trattasi.

Con successivi, rispettivi, mezzi il Russomanno e l'Isman hanno variamente contestato, ciascuno dalla propria posizione, la decisione del tribunale per quanto attiene alla loro dichiarata

responsabilità (concorsuale ex art. 110 cod. pen.) nel reato di

rivelazione di segreto di ufficio.

In sintesi ed essenzialmente: il Russomanno ha dedotto: che

il fatto a tale titolo addebitatogli non costituisce reato perché trattavasi di « segreto » già reso altrimenti di pubblico dominio.

(Ovvero perché non risulta — profilo ora superato — da lui com

messo, o, quanto meno, da lui sicuramente commesso). (Ha dedotto anche — profilo anch'esso superato — di non aver com

messo, o non esservi sufficienti prove al riguardo, anche il fatto

ascrittogli a titolo contravvenzionale). Tali tematiche sono state, in questa sede, impoverite della

parte materialmente e giuridicamente incompatibile con la nuo

va posizione processuale assunta dal Russomanno e, al tempo stesso, arricchite, nella discussione, da ulteriori profili connessi, come infra si vedrà, appunto al memoriale confessorio da costui

prodotto.

L'Isman, a sua volta, ha dedotto: che il fatto anzidetto, ascrit

togli a titolo di delitto (art. 326 cod. pen.) concorsuale: non è

previsto dalla legge come reato; ed altresì' che esso — se con

siderato in termini di concorso eventuale — non risulta sussi

stente (o certamente sussistente) sotto il profilo della ritenuta

determinazione o della ipotizzata istigazione (o « dell'accordo »); e — se considerato in termini di concorso necessario dell'estraneo,

quale mero percettore della rivelazione vietata (art. 326 cod. pen.) — non costituisce reato. Ha dedotto inoltre non costituire reato anche il fatto ascrittogli a titolo contravvenzionale.

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GIURISPRUDENZA PENALE

L'esame unitario delle riferite istanze modificative, da svilup

parsi attraverso il vaglio progressivo delle sottostanti questioni di fatto e di diritto, dimostrerà come esse siano sostanzialmente

fondate per quanto riguarda l'Isman, limitatamente, però, al de

litto; e come invece non lo siano, nella parte superstite e tenuto

conto dei sopraggiunti profili difensivi, per quanto riguarda il

Russomanno, nei cui confronti peraltro il fatto, dal quale nasce

la di lui responsabilità singolare per il delitto e concorsuale per la contravvenzione, va ora visto alla luce dell'inedito sviluppo. Il quale, pur senza incidere in funzione "del titolo o in funzione

della di lui penale responsabilità, ne modificano l'ambientazione

e la circostanziazione.

1 primi giudici — ritiene doveroso notare la corte in premes sa — furono chiamati a decidere di una vicenda problematica e ancora collocata nell'alone della immanenza, e lo fecero con

alto impegno, come dimostra l'assiduità della sentenza nel voler

schiudere una realtà che le veniva del tutto negata o del tutto

taciuta. Anche per questo, è da pensare, pervenendo a risultati

che, ora, meglio si dimostrano essere non per intiero appro vabili.

2 - Memoriale Russomanno - Questione del fattore causale

della rivelazione del segreto: art. 165 ter cod. proc. pen., 326

cod. penale. 11 punto di partenza è ora il memoriale 6 settembre 1980 del

Russomanno, in quanto reagisce modificativamente sulla rico

struibilità dei fatti, mediante la messa in crisi delle ricostruzioni

in precedenti sedi compiute.

Esso, infatti, fornisce della rivelazione dei verbali Peci, della

sua genesi e del suo svolgimento, una versione ben diversa, sia

da quella (negatoria) di cui lo stesso la rivesti con gli interroga tori resi nel precedente grado del giudizio (e, ancora, nei motivi

di appello); sia da quella accolta dal tribunale. Sostanziantesi,

questa seconda, in una serie di proposizioni accusatorie, mate

riate da una diversità di ipotesi tecniche, e convergenti quanto a valore giuridico finale sulla conclusione della piena responsa bilità di entrambi gli imputati principali per entrambi i reati

loro ascritti. Il Russomanno e l'Isman — secondo il primo giu dice — sarebbero stati, cioè, concorrenti (nella forma eventuale

prevista dall'art. 110 cod. pen.) nel delitto di cui all'art. 326

cod. pen.: non perché legatisi da un « accordo negoziale di da

zione » nel darsi e nel riceversi gli atti rivelatori (il che — si

dice — sarebbe egualmente bastato a farne la responsabilità), ma piuttosto perché l'Isman, vero interessato nella operazione, fu capace « quanto meno di determinare » il Russomanno, forte

della di lui amicizia, alla indebita rivelazione, « influendo sul

processo di formazione della volontà del Russomanno, rafforzan

done il proposito criminoso eventualmente già latente». Ipotesi,

questa della determinazione (dal tribunale peraltro non del

tutto rigorosamente definita) che il primo giudice vede sul piano della responsabilità come equivalente all'altra (in teoria anch'essa

accettata, ma reputata meno valida in sede pratica) che avrebbe

collocato l'Isman nella veste di «istigatore».

Nella quale ipostatizzazione operata dalla sentenza, le distin

te figure del determinatore e dell'istigatore stanno ad indicare

la posizione di colui che sveglia in altri un divisamento crimino

so e, rispettivamente, di colui che lo afforza.

Ciò puntualizzato, osserva subito la corte che il Russomanno, nel riconoscersi autore della rivelazione stessa (il che elimina,

ai fini del presente giudizio, la questione del « dove » e del

« come », sulla quale peraltro entrambi i detti appellanti si sono

era pronunciati), ha presentato la trasmissione (mediata) dei detti

verbali al giornalista come primo atto di una operazione di isti

tuto. Mirante a promuovere le condizioni psicologiche di una av

visatagli e possibile resa di un gruppo di venti-trenta terroristi,

favorendone, secondo l'esperienza di analoghi casi stranieri, i

motivi di crisi o di convenienza attraverso la cognizione del tra

vaglio rivelato, nei propri interrogatori, dal Peci. Operazione, que

sta, però alteratasi — assume il Russomanno — nella sua ini

ziale modalità esecutiva, a causa dell'errore del funzionario in

terposto, ma che comunque, attesane la finalità, è da considerare

legittima nell'ambito della funzione istituzionale assegnata dalla

legge al SISDE, dei cui vertici il Russomanno partecipava.

Certo, rileva la corte, è questa una versione che manca della

possibilità di riscontro che sarebbe verosimilmente potuta veni

re dalla indicazione nominativa del funzionario stesso, cui il Rus

somanno dice aver appunto commesso (la selezione dei e nei

verbali Peci e) la materiale consegna al giornalista delle copie

predisposte. Difatti, entrambi ne hanno celato la identità con un

riserbo, l'origine, la mira, l'attualità e l'eventuale costanza del

quale non sono state rivelate, né, ovviamente, sono dalla corte

altrimenti determinabili.

In ogni caso, è assai notevole, per avallare la frapposizione di questo ignoto personaggio, che con detta versione combini in

qualche modo la precisazione, in tempo non sospetto data dallo

stesso Russomanno nel suo primo interrogatorio, secondo la qua le la inesistenza di alcune pagine dei verbali sequestrati presso « Il Messaggero » (rispetto a quelli avuti dal suo ufficio) era si

curamente dovuta all'opera selettiva di una persona da lui di

versa. L'una e l'altra asserzione, difatti, convergono sul comune

concetto che dei verbali Peci, dopo il loro passaggio dalle mani

del Russomanno, altri ancora (fuori dall'Isman) ne ebbe la di

sponibilità: un qualcuno cui appartenne per il primo atto (in

terrogatorio), essenzialmente l'opera di loro selezione e, per il

secondo atto (memoriale), anche la loro stessa consegna al cro

nista. Intervento « selettivo » che — ritiene la corte — può es

sere vero e parimenti non vero, ma che comunque rispecchia un

dettaglio sostanzialmente di nessun rilievo ai fini della respon sabilità del Russomanno; e intervento « nella consegna » che, in

vece, risulta confermato, a parte quanto sarà rilevato in propo

sito, anche dall'Isman, al di fuori peraltro di un suo concreto

interesse processuale. A questo proposito, infatti, va posta in rilievo la convergente

circostanza che il riferito iniziale accenno, circa cosiffatto inter

vento di un qualcuno, sia stato dal Russomanno formulato quan do la confessione, che avrebbe evidenziato proprio questo inter

vento, situandolo nel tempo e motivandolo, era di là da venire;

ed era anche, considerando il diniego che ne ha fìn'oggi carat

terizzato la posizione processuale, verosimilmente non preventi vata né preventivabile nel « se », nel « quando » e nel « come ».

Tutto questo, senza dubbio, accredita in una certa misura la

idea della verosimiglianza della versione confessoria del Rus

somanno: cioè la idea della sua verosimiglianza, non solo in ciò

che essa chiarisce la paternità singolare della rivelazione, ma

anche laddove se ne prospetta il fattore causale indicandolo

nella finalità di riuscita a convincere dei terroristi alla resa.

Giacché questa prospettazione della causale fornisce alla rivela

zione una scaturigine che, mentre certamente palesa erroneità

e disfunzioni di un servizio, non soffre però il peso della asso

luta inverosimiglianza fino al punto in cui lo soffre la tesi abbrac

ciata dal tribunale: quella, cioè, del radicarsi della rivelazione

« nell'amicizia pluriennale » fra i due, in un rapporto che, se

condo quel giudice, sarebbe stato sufficiente (se non, addirittura,

per indurre il Russomanno a farsi promotore della operazione « al fine di favorire l'altro nell'attività giornalistica »), almeno

per renderlo disponibile alla interessata iniziativa determinatrice

del cronista.

Invero, non può questa corte non dire che tale tesi è da ve

dere, nella residualità riconosciutagli dallo stesso tribunale, come

la conseguenza del dovere da esso avvertito di forzare in qualche modo l'aporia del processo in ordine alla origine di un fatto fino

allora inesplicabile. Ma ciò comportò, obiettivamente, che il ra

gionamento cosi necessitato, lungi dal riuscire a potenziare, sul

piano della verosimiglianza reale (non speculativa), l'ipotesi rav

visata, valse invece solo a farne emergere il fondamento mera

mente pensato, sostanziantesi in un ripiegamento verso e nella

astrattezza. E, come tale, non utile come strumento di approssi mazione ad una difficile realtà di fatto, la quale, proprio perché

ipotizzata dal tribunale nei termini improbabili del caso limite

di una amicizia addirittura dioscurea, in tanto poteva essere ac

cettata in questo senso estremo, solo in quanto se ne fossero po tuti cogliere gli elementi sufficienti, inequivoci e tangibili di iden

tificazione. Quali però certo non sono — sembra persino super

fluo il rilevarlo — quelli assai modesti reperiti a tal fine dal tri

bunale, vale a dire la durata del rapporto amichevole, la fre

quenza personale, la convivialità. E non altri.

Cosi che, nel ragionamento della sentenza, il rapporto amiche

vole, postulato tanto ricco di impegnatività, sembra alla fine in

consapevolmente dedotto dalla constatazione della entità della

rivelazione, piuttosto che rappresentare esso stesso la consape

vole premessa necessaria della deduzione identificativa in ordine

alla scaturigine personalistica della rivelazione medesima. Tanto

che il procedimento argomentativo, cosi sviluppato dal tribunale,

finisce con il risolversi, al fondo, nell'opposto di quel che avrebbe

ambito essere, e, quanto a conclusività, in un nulla per il pro

cesso.

Del resto, proprio accedendo — ma concretamente — al cri

terio della verosimiglianza, non si può sentire come verosimi

gliante e, in definitiva come vera la tesi (del tribunale), secondo

cui il Russomanno, solo perché astretto dalle ragioni di una

« amicizia » — che a stare agli atti, potrebbe al massimo defi

nirsi: conoscenza, frequenza, consuetudine, confidenza, dimesti

chezza, familiarità — avrebbe graziosamente posto a repentaglio,

se non altro, la propria cospicua posizione professionale conse

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PARTE SECONDA

gnando all'Isman un geloso segreto di ufficio. Né si dica che il

Russomanno contava ragionevolmente sulla impunità. Ché, al con

trario di quanto opinato dal tribunale, non sarebbe certo mai

sfuggito alla sua finezza professionale il rischio cui lo avrebbe

esposto un cosi vuoto azzardo, proprio perché (come poi confer

mato dai fatti) estremamente limitato era, nella amministrazione,

il numero delle persone, tutte cognite o conoscibili, partecipi del

segreto, fra le quali nessuna, a quanto risulta, in convenienti rap

porti personali con Isman. E questo, senza considerare ancora che

le notevoli gratificazioni ed i successi che al Russomanno erano

pervenuti e pervenivano dal prolungato servizio nell'ambito della

sicurezza lo lasciano legittimamente ritenere ad esso legato, al

meno per immedesimazione professionale, per utilità di carriera

o per spirito di corpo. Cosi che il ritenere che ad un tale patri monio di valori e di convenienze costui abbia ciecamente ante

posto le ragioni di una perigliosa compiacenza verso un sia pure buon amico, e sia pure sperandone gratitudine, equivale ad im

plicita affermazione che Russomanno è persona del tutto priva di ragione o del tutto anormale nel carattere. 11 che non è stato

affacciato, né risulta e può anzi intuitivamente essere escluso.

Concludendo sul punto: se, dunque, la tesi residuale della

determinazione (o della istigazione o del mero « accordo » de

littuoso), fatta ed accettata nel nome di un rapporto personale

certo non fino a quel punto obbligante, cede alla sua stessa fra

gilità sperimentale, statistica e logica, allora la diversa tesi ora

avanzata dal Russomanno, e collegata ad un suo intento opera

tivo, viene a coprire positivamente quello spazio della ricerca

processuale lasciato libero dal venir meno dell'altra. E lasciato

libero — deve soggiungersi — anche dal non emergere di ipotesi ad essa realmente alternativa, vale a dire documentabili ovvero

plausibilmente indiziato dal materiale acquisito a questo processo. Nello stesso senso del resto non può non valere anche la im

portante constatazione che Russomanno, nel palesarsi autore del

la rivelazione, ha praticamente consegnato la certezza della pro

pria responsabilità; e che, nel chiarirne cosiffattamente il « per ché », non ha in nessun modo determinato (né lo poteva, come

si vedrà) alcun valido presupposto di fatto o giuridico di di

scriminazione penale della propria condotta.

Obiettività e prudenza di giudizio impediscono che una posi zione avente tali caratteristiche possa essere liquidata nel rifiuto,

o, meglio, che possa essere tutta liquidata. Intanto, non lo può essere certamente in quella parte del suo contenuto confessorio, mercé la quale viene a radicarsi in maniera assolutamente indub

bia la responsabilità del Russomanno quale autore della rivela

zione, responsabilità che il primo giudice, che pur non ne di

sponeva, intuì' seguendo un proprio ragionamento. Mentre, quan to all'elemento di circostanziazione indicativo del fattore causale

della rivelazione, il livello della sua credibilità corrisponde, come

già detto, alla esigenza di ragione, la quale — veduta cadere sic

come irreale ogni altra causale nella specie concepibile ed altre

non scorgendone — non può non assegnare a quest'ultima, di

storta nella radice, ma non inverosimile, la chiusura logica di

questo problema. Il quale pur non incidendo, come si vedrà, su

gli stretti profili della responsabilità circa il Russomanno, inci

de invece su altri rilevanti profili della materia dedotta con le

impugnazioni e nella discussione. Esso comunque consente di

dare risposta ad un interrogativo (del « perché » Russomanno

si fece rivelatore), gravante sul processo anche dopo l'insoddi

sfacente risposta datagli dal primo giudice; ed inoltre elimina la

necessità di reperire il « se », « come », « quando » e « quali »

verbali egli ebbe a prendere in visione, « se », « come » e « quan te volte» li fotocopiò, ed altresì la utilità di conoscere se all'in

contro conviviale del 30 aprile 1980 con l'Isman, ed alle circo

stanze che lo accompagnarono, fu sottostante o meno un recon

dito scopo. La circostanza poi della consegna mediata del materiale al

l'Isman, enunciata nel memoriale, ha del pari una sua credibilità,

perché anch'essa per nulla giovevole rispetto alla stretta que stione della responsabilità del Russomanno e perché viene a spe cificarsi in un dato di fatto — la intromissione cioè di un terzo

tra il rivelatore e il giornalista — il quale risultava, come visto,

già implicito nel primo interrogatorio di questo stesso imputato, che era naturalmente al di fuori di quella che sarebbe stata la

logica della confessione.

Dato di fatto, questo della intromissione di un terzo, che si

ritrova, circostanziato anzi in modo puntuale, anche nell'odierno

interrogatorio dell'Isman.

D'altra parte, il solido coinvolgimento di un terzo (almeno) in funzione di latore dei verbali all'Isman, anzi di un terzo appar tenente al SISDE — come da quest'ultimo allora avvertito ed

ora detto — costituisce, a sua volta, ulteriore elemento indiziante

circa la verosimiglianza dell'asserto che il presupposto della ini

ziativa del Russomanno fu, pur nella sua abnormità, a carattere

operativo. Altri moventi, infatti, parrebbero meno compatibili con la

scelta stessa di un collaboratore, oltretutto tecnicamente non in

dispensabile, e in ispecie con la scelta all'interno del medesimo

servizio di appartenenza.

Considerato tutto ciò, e salvo quanto verrà più oltre soggiunto in argomento, non può certo dirsi che al memoriale si presta cre

dito, laddove ed in quanto gli si presta crédito, solo sulla parola.

Suscettibili, infatti, di diverso apprezzamento appaiono invece

altri passi di tale documento: e, in primo luogo, quello relativo

alla pretesa ragione del procrastinarsi della confessione. Non per sistenti attese di risultati, secondo questa corte, rattennero da ciò

il Russomanno durante la prima fase, ché, una volta venuti meno

con l'instaurazione del processo ed il suo clamore gli stessi pre

supposti del disegno operativo, sarebbe stato assolutamente in

concepibile sperarne ancora la riuscita. Furono piuttosto contin

genti criteri difensivi, ispirati al calcolo del probabile vantaggio

processuale che offre, alla posizione di colui che nega, un pro cesso rabbuiato ed indaginoso.

Veridico può, a sua volta, essere sentito, oppure, come già

detto, non veridico l'asserto ulteriore che il Russomanno abbia

commesso al collaboratore, non soltanto di recapitare al giorna lista copia dei verbali Peci, ma anche di preventivamente ope rare in questi una selezione (poi fraintesa) secondo determinati

criteri. Comunque non si tratta di circostanza munita di decisivo

interesse, almeno per l'attuale procedimento. In definitiva, tutto ciò a fondo considerato, l'avviso di questa

corte, in ordine ai contenuti del memoriale confessorio del Rus

somanno, può venire articolato nei seguenti termini relativi: il

memoriale ha del vero ed è nel vero, ma ncn è del tutto vero o

vero in tutto, e neppure tutta la verità rispetto a tutto.

L'avere tanto acquisito basta, sebbene constatata la impossi bilità processuale di conoscere di più, alle ragioni essenziali del decidere.

Infatti, la rilevanza di tale nuova acquisizione risiede, secondo la corte, in questo: nella eliminazione della questione della ori

gine personale (che è singola) della rivelazione; nello svuota mento della questione del suo « come » e nel suo « dove » ; nella

ipotizzazione di un « perché » non inverosimile, pur nella sua

devianza; e nella determinazione infine dei presupposti per la

esclusione della responsabilità dell'Isman quale concorrente even

tuale — determinatore, istigatore, colludente — nel delitto di

cui all'art. 326 cod. penale. (Nella debita sede se ne esamine

ranno anche gli effetti riflessi su altre questioni minori e parti colari, riguardanti il Russomanno).

Tale acquisizione non altera, però, in termini generali, come

già detto, la posizione individuale di quest'ultimo rispetto al de

litto in sé, e neppure la migliora sostanzialmente rispetto al con

corso nella contravvenzione; incide invece, come si è parimenti

detto, su profili ulteriori o minori della impugnazione. La valutazione delle posizioni dei singoli imputati, cui si at

tende specificamente con la ulteriore motivazione che segue, re

cepisce e presuppone le considerazioni e le conclusioni fin qui

compiute, per svilupparle, sui singoli piani individuali, nei ter

mini di fatto e di diritto che a ciascuno di essi si convengono.

3 - Posizione di Isman quale asserito concorrente del Russo

manno nel delitto di cui all'art. 326 cod. penale. — Qualificazio ne della di lui condotta in funzione della ipotesi del concorso eventuale a carattere morale: non sussiste tale concorso — Idem

della di lui condotta in funzione del concorso necessario: irrile

vanza penale di essa — Irrilevanza penale, ai sensi dell'art. 326

cod. pen. (non dell'art. '684 cod. pen.), della utilizzazione giorna listica della rivelazione indebitamente fatta dal p. u. — Collega mento con sub 5.

Quanto all'Isman, anzitutto, la dimostrata insostenibilità della

idea che egli godesse dell'amicizia del Russomanno a tale segno irreale da rendere questi fatuamente disponibile alla di lui de

terminazione (ed istigazione) a partecipargli un suo geloso se

greto di ufficio (della esistenza del quale presso il funzionario

neppure altrimenti risulta che il giornalista fosse stato preventi vamente consapevole), elimina l'unica base, che il primo giudice ha potuto dare alla risoluzione del problema della genesi del

preteso concorso: e, quindi, alla propria conclusione circa la re

sponsabilità concorsuale (ex art. 110 cod. pen.) del giornalista stesso nel delitto di rivelazione.

Il contenuto del recente memoriale Russomanno, in ciò che

esso scagiona del tutto l'Isman da tale responsabilità, sopravvie ne, dunque, a dare nuova utile materia per il rifiuto del fonda

mento probabilistico di quella conclusione accusatoria, conclu

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GIURISPRUDENZA PENALE

sione che era e resta già, di per sé, rifiutabile per le ragioni fin

qui dette e per quelle che ancora si diranno.

Difatti, una volta riconosciuta l'insostenibilità della unica e

sola motivazione al riguardo apprestata dal tribunale, nessun

altro argomento o elemento di fatto sussiste che, sia pur larva

tamente, alluda alla sussistenza nella specie del concorso even

tuale da parte dell'Isman, nel delitto di cui all'art. 326 cod. pe nale. (Concorso eventuale, tuttavia, in astratto, confìgurabile, sulla

base della ordinaria disciplina del concorso di persone nel rea

to, anche da parte del non punibile fra i concorrenti necessari

di un reato proprio a carattere plurisoggettivo in senso ampio,

quale è quello di cui ora trattasi).

Le acquisite risultanze, invero, non forniscono alcuna prova circa lo svolgimento, da parte dell'Isman, di una qualsiasi atti

vità, capace di legittimamente ricevere, in termini giuridici, la

qualificazione di determinatrice (o di istigatrice) rispetto alla

decisione e rispetto all'atto che portarono il Russomanno all'in

debita rivelazione. E del resto è innegabile che i primi giudici

pervennero a ritenerne la sussistenza, solo accettando la neces

sità di quella che essi considerarono la meno astratta fra tutte

le astratte ipotesi prospettatesi.

Ma, se non si è in grado di dire realmente come un concorso

delittuoso, anche a carattere morale, abbia veduto ripartiti i

ruoli e gli apporti dei singoli presunti partecipanti, non si è nep

pure in grado di dire che quel concorso delittuoso sussiste. (Giu

dicare non è solo argomentare, decidere non è solo ultimare un

processo).

Stabilito, cosi, che il memoriale Russomanno, nel passo e nel

significato ora chiariti, riesce anch'esso a convergere sulla ne

cessità della conclusione che l'Isman è fuori dal concorso even

tuale nel delitto di cui all'art. 326 cod. pen., in quanto non è

scorgibile un titolo storico o logico capace di configurarlo quale

determinatore o istigatore del Russomanno a cosiffatta rivela

zione, occorre ancora rimuovere il concetto (astrattamente ac

cettato dal tribunale, sebbene in pratica non utilizzato), che

concorso morale si sarebbe potuto comunque avverare nella

specie in virtù di un mero « accordo negoziale di dazione » fra

i due (degli atti rivelatori).

Alla base di questa approssimazione v'è certamente un malin

teso nell'esegesi giurisprudenziale e, probabilmente, anche un

errore dogmatico. Alla questione bisogna accennare perché, lasciata dal tribu

nale nell'ombra del prevalere del profilo della determinazione

(o della istigazione), essa sorge comunque dalla genericità del

l'addebito all'Is-man del concorso (ai sensi dell'art. 110 cod. pen.)

nel delitto, ed appartiene quindi al giudizio, anche dopo esclusa

la ricorrenza di questo concorso nella detta forma della deter

minazione (e della istigazione).

11 tribunale, con un apprezzamento che fu effettivo in termini

di diritto, sebbene virtuale rispetto alla ratio decidendi in or

dine alla affermata responsabilità dell'Isman nel delitto di cui

agli art. 326, 110 cod. pen., asserì che la giurisprudenza della

Corte di cassazione in argomento si sarebbe « evoluta » nel sen

so — reperito dalla testualità di un inciso della sentenza sezione

I, 16 gennaio 1978 (ud. p. 7 dicembre 1977), Sraziota (id., Rep.

1978, voce Abuso di poteri, n. 35) — che « l'estraneo risponde

del reato di violazione di segreto come partecipe, in applicazio

ne dei principi generali sul concorso di persone, ove abbia con

tribuito alla commissione del reato inducendo i pubblici ufficiali

tenuti a rispettare il dovere di segretezza a fare la rivelazione,

o comunque accordandosi con gli stessi a tale fine».

Da tale opinione la corte di appello, pur dando atto alla sen

tenza di fedeltà testuale nel riferire l'indettante termine di « ac

cordo », non può non dissentire.

Il significato complessivo della menzionata decisione della Su

prema corte induce a ritenere che essa rimane rigorosamente

ferma al concetto che la determinazione e la istigazione sono le

sole modalità, attraverso le quali l'estraneo può moralmente

concorrere nel delitto di cui trattasi. Concetto, del resto, già fis

sato nella non ricca casistica anteriore (cfr., ad es., Cass. 2 di

cembre 1967, Bartoli, id., Rep. 1968, voce cit., n. 39; 14 aprile

1976, Castiglia, id., Rep. 1976, voce cit., n. 32).

Di vero, l'impiego del termine «accordo», da parte della sen

tenza « Straziota », appare nell'atteggiarsi generico della frase di

chiusura che la contiene («comunque accordandosi»), eccedente

rispetto ai limiti della proposizione argomentativa e della pro

posizione determinativa del principio di diritto in quel caso da

essa enunciato. Del resto, trattavasi, in quel giudizio, di una si

cura e accertata ipotesi di concorso morale dell'estraneo per

determinazione nei confronti dell'intraneo, si che il valore della

terminologia di « accordo », o lo si intende come alcunché d.i

genericamente espressivo di ogni evenienza di concorso morale,

ovvero lo si deve ritenere fuori dalla logica della decisione e,

come tale, obiter dictum sostanzialmente estraneo al senso giu ridico-formale della decisione.

Né il dissenso^ della corte di appello dal citato avviso del tri

bunale viene meno se la questione, cui esso si riferisce, è posta in termini normativi e di teoria.

Secondo il disposto del 1° comma dell'art. 115 cod. pen., «l'ac

cordo » tra più persone allo scopo di commettere un reato, seb

bene possa costituire presupposto di un eventuale futuro reato

concorsuale, non appartiene — in quanto mero accordo — alla

struttura di un qualsiasi reato, al di fuori di quelle ipotesi cri

minose, nell'attuale caso peraltro esulanti, che elevano il fatto

stesso dell'accordarsi a delitto (art. 266, 270, 271, 302-306, 322,

327, 414 cod. pen.) (cfr. Cass., Sez. Il, 11 gennaio 1980, Kok). Il che, naturalmente vale anche nel caso che, seguendo una

tendenza dottrinaria, con accordo si voglia indicare, sempre non

mai il concorso vero e proprio, ma piuttosto il momento del

vicendevole combinarsi dei voleri in funzione del progetto di

commissione di un reato, momento inteso come fattispecie ridut

tiva rispetto a quella di « concerto previo » (Fattispecie, quest'ul

tima, anch'essa, come è noto, in sé non configurable di norma

come illecito penale).

Ne deriva, secondo questa corte, che, agli effetti del concre

tarsi del concorso morale, il termine di accordo (sempre fuori

dai casi di contraria previsione normativa) può accogliersi come

indicativo di fattispecie punibile, solo quando possa, di fatto,

collimare con il concetto tecnico di concorso morale nelle sue

note modulazioni. Non già quando esso serva invece ad indicare

solo l'incontro preparatorio, ed ancora inevaso, dei proponimenti

individuali, più o meno intenso nella consapevolezza dei singoli

interessati, in funzione del raggiungimento di un certo comune

fine criminoso.

In se e per se, il termine accordo resta giuridicamente insuffi

ciente, e quindi non valido per esplicitare una autonoma figura

punibile di concorso morale nel reato: il c. d. accordo per un

futuro reato, laddove esso stesso non sia già dalla legge confi

gurato come tale, non è fondamento di responsabilità a titolo di

concorso a carattere morale, questo semmai potendone costitui

re, ma non necessariamente, l'effetto.

Ora, l'errore della sentenza del tribunale risiede, sotto questo

aspetto, proprio nell'avere attribuito alla giurisprudenza della

Suprema corte, sospinto dalla esigenza di ampia tutela del se

greto, un atteggiamento — quello, appunto, che si è dianzi indi

cato — che ad essa è invece estraneo. Atteggiamento, che co

munque né può espungersi dal mero dato terminologico di una

pronuncia, né può ritenersi costitutivo o completivo del princi

pio di diritto affermato in quel singolo caso; e che, infine, sem

pre contrasterebbe, sul piano del sistema normativo e sul piano

dommatico, con i principi ora sinteticamente qui richiamati.

E, in ogni modo, di un « accordo » Russomanno-Isman ai fini

della rivelazione, quale che sia la accezione — morale o mate

riale — secondo la quale sia pur forzosamente si voglia acco

gliere tale termine, non v'è nel processo — ora più che mai —

traccia tangibile per fermarlo, o base logica per argomentarlo;

cosi come non se ne ritrovano — ed è stato già detto — della

determinazione della istigazione tecnica. (Non è consentito porre

come problema probatorio o di qualificazione giuridica quello il

cui fatto resta comunque irreperibile agli atti del giudizio, per

quanto puntualmente indagati).

D'altra parte, il tribunale ha escluso nei confronti dell'Isman

la punibilità del di lui concorso necessario nel delitto (plurisog

gettivo in senso ampio) previsto dal ripetuto art. 326 cod. pena

le. E la conclusione, sulla quale però si è tornati in questo grado

durante la discussione, è certamente esatta. Tale posizione con

corsuale, infatti, non risulta esplicitamente sanzionata dalla legge,

né, secondo questa corte, è comunque consentito ritenerla san

zionabile, giacché in questo caso non si può affatto sottointendere

nel silenzio della legge che suo scopo ed interesse sia stato an

che quello di estendere all'estraneo-ricettore il comando di non

violare il segreto di ufficio (altrui).

La esigenza di tutela di tale segreto è dunque da considerare,

in conformità del valore letterale, logico e funzionale della di

sposizione incriminatrice, normativamente soddisfatta — esclu

sivamente e « propriamente » — attraverso la destinazione del

precetto della proibizione al pubblico ufficiale o incaricato di

pubblico servizio, custode del segreto, e la punizione solo in lui

della eventuale violazione da parte sua.

Cosi che il silenzio della norma circa la punibilità o meno

dell'estraneo non ha affatto il ridotto significato di implicita

non esclusione teorica di tale punibilità, ma piuttosto significa

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PARTE SECONDA

che, essendo intrinsecamente estranea alla sua struttura precetti va la riprovazione penale del recettore, questa non può non

esserlo anche al meccanismo sanzionatorio correlativo.

Per vero, sembra a questa corte che, accettata la figura di

reato plurisoggettivo con la sua sottodistinzione — « in senso stret

to e in senso ampio», ove con quest'ultima si identifica «la non

punibilità di uno dei concorrenti necessari » — nello specifico

caso del delitto di cui all'art. 326 cod. pen. (plurisoggettivo in

quest'ultimo senso), la cosi detta plurisoggettività stia ad indi

care, per quanto si riferisce alla partecipazione dell'estraneo,

piuttosto il mero dato naturalistico della fattispecie bilaterale,

che un suo elemento di struttura giuridica. Volta che tale dato

non entra e non si risolve mai in quella che è la condotta incri

minata: esso ne resta fuori, non si incontra, non si scontra, non

si combina, non si adatta con essa, ma la subisce supinamente,

e basta. Tanto che, sempre in questo caso, potrebbe anche ve

dersi come eccedente o come non appropriata, in senso descrit

tivo e in senso strutturale, persino la qualificazione di ccme sem

plicemente « non punibile » della condotta passiva dell'estraneo

ricettore del segreto.

Del resto, accettare, ancor che per astratta finalità di specula

zione, l'idea che, in virtù del surrilevato silenzio della legge cir

ca la punibilità o meno dell'estraneo, possa in teoria non esclu

dersi la punibilità di costui quale c. d. concorrente necessario

nel delitto di cui trattasi, postulerebbe di necessità l'errore di pre

supporre sullo stesso gravante l'inimmaginabile « obbligo giuri

dico » di rifiutare, cioè di impedire la rivelazione da parte del

custode infedele del segreto. In sostanza, « l'obbligo giuridico »

di impedirgli di commettere il delitto di cui all'art. 326.

Nei riguardi di Fabio Isman — di fatto non determinatore, non

istigatore, non induttore e comunque non concorrente eventuale

del Russomanno nel delitto anzidetto, ai sensi dell'art. 110 cod.

pen. — deve, quindi, ulteriormente affermarsi, in termini di

principio, che la di lui condotta di mero ricettore della rivela

zione non è penalmente rilevante agli effetti dell'art. 326.

Né tale completa estraneità della di lui posizione (di c. d. con

corrente necessario) muta per il fatto che trattasi di giornalista, il quale ha ricevuto ed ha utilizzato, proprio in questa veste, il

segreto rivelato dal pubblico ufficiale. Come quella del ricevere,

cosi pure quella del pubblicare non costituisce — rispetto alla

previsione dell'art. 326 cod. pen. —-, condotta penalmente illecita.

(La stessa pubblicazione, invece, è fatto penalmente illecito,

come avanti si vedrà, sotto il ben diverso profilo che essa — in

se e per se — costituisce violazione dell'art. 684 cod. pen., il

quale divieta a « chiunque » di pubblicare atti riservati di un

procedimento penale. Quali appunto erano quelli di cui trattasi,

per quanto occasionalmente protetti, nelle mani del Russomanno,

dal sovrapposto segreto di ufficio. Ma di ciò, più oltre).

Intanto, sulla base di quanto detto può essere, dunque, fissato

il sicuro concetto che: esclusa la punibilità, meglio, la rilevanza

penale della condotta dell'estraneo (c. d. necessario concorrente

nel delitto di cui all'art. 326 cod. pen.), costituita dal fatto puro e semplice di raccogliere la rivelazione, l'ulteriore eventuale co

municazione, da parte sua, anche mediante pubblicazione, del

segreto rappresenta del pari comportamento non penalmente san

zionato, almeno per effetto della norma da ultimo citata (art. 326

cod. penale). Per cui, sempre che — si badi bene — tale com

portamento non contrasti altrimenti con divieti derivanti da nor

me diverse (come, appunto, nel caso previsto dall'art. 684 cod.

pen. ovvero in quelli previsti dagli art. 261, 262 cod. pen.), lad

dove infatti sopperiscono specificamente le norme stesse, la dif

fusione, anche a mezzo della stampa, del segreto medesimo da

parte dell'estraneo, non è da ritenere fatto di delitto ai sensi del

ripetuto art. 326 cod. penale.

L'astenersi da tale diffusione o il differirla, nella superiore considerazione che la conoscenza della notizia da parte dell'estra

neo è la conseguenza di un altrui delitto e nella sensibilità di

non volere quindi condurre a più vasto effetto il danno di quel

delitto, può costituire tuttavia il contenuto di un precetto non

scritto (se non è scritto) nella legge penale, e perciò non penal

mente sanzionabile. Un precetto etico, dunque, che — rivolgen

dosi, di volta in volta od insieme, alla consapevolezza morale e

alla spiritualità del giornalista (che includono ma non si esauri

scono nella deontologia del settore), alla sua coscienza del limite,

al suo equilibrio professionale, al suo senso civico e di responsa

bilità, al suo spirito di solidarietà sociale, al suo rispetto umano

e (ove intervenga un tale grado di interessi) persino al suo amor

di patria — viene a dipendere per intiero dal livello di incisività

soggettiva che questi alti valori della convivenza hanno, rispetto

al singolo operatore, in relazione alle singole contingenze, nel

momento in cui egli parimenti può, a propria discrezione, osser

vario o disattenderlo. (Ma, enunciato questo criterio, — e sempre

fermo restando il potere sanzionatorio dell'illecito formale, come

la vincolatività della pronuncia nel caso deciso, come le ragioni,

anche metagiuridiche della giurisprudenza in quanto tale — deve

riconoscersi che non compete al giudice di impartire onoraria

mente in maniera espressa ammaestramenti ai consociati, od au

toritativamente arbitrare su loro comportamenti ricadenti nell'am

bito di un ordinamento diverso da quello che lo esprime). Sotto entrambi i profili considerati (quello di fatto e quello

di diritto), si impone, quindi, l'assoluzione dell'Isman dalla im

putazione di concorso (con Russomanno) nel delitto di cui alla

lett. A) del capo di imputazione, con ampia formula liberatoria,

da articolarsi necessariamente, data l'ampiezza delle problemati

che sottoposte alla corte, come in dispositivo. La materia qui trattata (sub 3) si collega necessariamente con

la corrispondente materia che sarà trattata, con riferimento al

Russomanno, infra (sub 5).

4 - Posizione di Isman quale effettivo concorrente con Rus

somanno nella contravvenzione di cui all'art. 684 cod. penale —

Questione di costituzionalità — Qualificazione giuridica della di

lui condotta nel pubblicare atti riservati di procedimento penale:

ccstituisce concorso materiale in detto reato, da parte del giorna

lista con il funzionario-custode, che gli ha palesato con il fine

di tale pubblicazione il contenuto degli atti medesimi, in viola

zione del segreto del proprio ufficio — Collegamento con sub 6

e sub 7.

Come già anticipato, l'Isman è sicuramente colpevole (in una

al Russomanno e come, da parte sua, l'Emiliani) della contravven

zione di cui all'art. 684 cod. pen., che è la norma sanzionatrice

del divieto posto all'art. 164, n. 1, cod. proc. penale. Egli, perciò,

ne deve essere, come gli altri, proporzionalmente punito secondo

i criteri e nella misura in cui si dirà trattando dei motivi di im

pugnazione riguardanti le pene.

La Corte costituzionale, con sentenza 10 marzo 1966, n. 18

(id., 1966, I, 412, coordinandosi, peraltro, con la precedente sen

tenza n. 65 del 1965, id., 1965, I, 1574) ha affermato che il si

stema facente capo alle norme di legge da ultimo citate non con

trasta (con l'art. 3 e) con l'art. 21 Cost., il quale assicura il di

ritto di libera manifestazione del pensiero. Avvalendosi, tra l'al

tro, di spunti offerti dalla Convenzione europea di salvaguardia dei diritti e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 gen naio 1950 (art. 6, 10).

Nel prenderne atto, questo collegio potrebbe ritenere esaurita

la questione di costituzionalità sollevata dalla difesa dell'Emilia

ni, con riferimento all'art. 21 Cost., in funzione di un motivo di

rilevanza che è evidentemente comune a tutti gli imputati, in

quanto a tutti è contestata la contravvenzione di cui all'art. 684

cod. pen.; e che, per ciò stesso, interessa già in questa sede. Po

trebbe, cioè, essere sufficiente l'integrale rinvio alle ragioni enun

ciate in detta pronuncia, ed atteso peraltro che non risulta che

la Corte costituzionale siasi per l'intanto nuovamente o diversa

mente pronunciata sulla stessa questione, ulteriormente sottopo stale.

Considerato, tuttavia, che in questo caso la questione di costi

tuzionalità del sistema precettivo-sanzionatorio di cui agli art.

164, n. 1, cod. proc. pen., 684 cod. pen., viene prospettata, bensì

ancora in relazione all'art. 21 Cost., ma con più articolato rife

rimento al c. d. diritto di cronaca, sembrano opportune alcune

brevi considerazioni ulteriori, dirette a giustificare una volta di

più, evidentemente in rapporto alla posizione di tutti gli impu

tati, la opinione della manifesta infondatezza della questione medesima. (Ben diversi i profili di incostituzionalità accertati dalla

Corte costituzionale — con la cit. sentenza 14 aprile 1965, n. 25 —

nella disposizione di cui al n. 3 dell'art. 164 cod. proc. penale).

Invero, il problema di limite, che pone la ipotesi in cui l'eser

cizio del c. d. diritto di cronaca si risolve in un fatto di violazio

ne di norma penale, in tanto può ritenersi definibile nel senso

della insussistenza, con scriminazione quindi del fatto stesso, solo

in quanto si sia in presenza della (dichiarata) incostituzionalità

della norma di cui si tratta nel caso specifico. (Esulano eviden

temente da questo processo altri aspetti problematici della stessa

materia).

Ciò posto, la corte di appello deve intanto affermare che il c. d.

diritto di cronaca esiste e, in quanto accessivo al diritto di li

bertà di stampa in senso lato, esso rappresenta una modalità

dell'atteggiarsi della libertà di pensiero, giacché la cronaca gior nalistica ha, essa stessa ed a suo modo, l'attitudine, se non la ne

cessità, a farsi pensiero e tramite esteriorizzante di pensie.ro. Tanto che parrebbe più appropriato dire, in termini generali,

di un diritto di libertà di stampa nell'esercizio della cronaca, attraverso la quale viene a valorizzarsi più il carattere funzio

nale che il carattere personalistico del diritto medesimo.

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GIURISPRUDENZA PENALE

Necessario, quindi, ritenere che tale diritto, pur coi limiti deri

vanti dall'eventuale convenire sulla materia presa ad oggetto nel

singolo caso di altri interessi di pari livello, trova favore e tutela

nel nostro sistema.

Ai fini che ora interessano è, quindi, necessario delibare se

il divieto di pubblicazione, anche giornalistica, di atti riservati

di procedimento penale, e la relativa previsione sanzionatoria

(art. 684 cod. pen. in relazione all'art. 164, n. 1, cod. proc. pen.), siano da vedersi, in relazione al disposto dell'art. 21 Cost, e alla

luce della meditazione dei profili illustrati dalla difesa, come

qualcosa che sminuisca direttamente il principio di libertà di cro

naca, incidendo, attraverso la vulnerazione della libertà di stam

pa, in definitiva sulla stessa libertà di pensiero.

L'interrogativo, ribadisce questa corte, è da risolversi nel senso

che il divieto e la punizione anzidetti — nella loro eccezionalità,

temporaneità, necessità funzionale e necessità di ragione — ser

vono a rendere l'esercizio della libertà di stampa, mediante una

astensione ad tempus, non antagonista rispetto alla finalità di

tutela di beni aventi del pari dignità costituzionale. Trattasi di

fatti di un limite sostanziale che opera, in senso costitutivo, al

l'interno del diritto di libera manifestazione del pensiero e, senza

affatto svuotarlo, lo rende compatibile, anzi cooperante con la

idonea esplicazione di altre posizioni giuridiche attive non sot

tordinate. Fra le quali — e questo è il punto — vanno iscritti, in termini di lettura sistematica del dettato costituzionale, ed in

conformità del resto ai principi della parità di fronte alla legge e di libero accesso alla tutela giurisdizionale (art. 3 e 24 Cost.),

per un verso, il diritto supremo dello Stato alla attuazione della

funzione giurisdizionale nel rispetto delle norme ordinarie che la

regolano (art. 101, capov., Cost.) e, per altro verso, il diritto dei

cittadini alla tutela giurisdizionale della propria sfera (art. 13-54

Cost.) con la garanzia di prestabilite normative legali, generali e

generalmente obbligatorie (art. 101, capov., Ill Cost.).

11 senso dell'orientamento cosi puntualizzato da questa corte

risulta, del resto, sostanzialmente conforme a quello emergente dall'esame complessivo del corpus della giurisprudenza costitu

zionale, venutosi componendo con la vasta ed articolata elabora

zione, da parte sua, dei criteri di interpretazione dell'art. 21 Cost.

E trova riscontro, altresì, nell'orientamento della Suprema corte

di Cassazione in argomento (cfr. Cass., Sez. Ili, 19 ottobre 1960,

Bellinetti, id., Rep. 1961, voce Segreti, n. 12; 13 luglio 1956,

Satta, id., Rep. 1957, voce cit., n. 6).

La libera manifestazione del pensiero non è perciò da ritenere

indebitamente repressa se la legge ordinaria (art. 684 cod. pen.) — in vista di esigenze tipiche, delimitate, prestabilite e tempo

ranee, e coordinandosi ai principi ora detti — disponga il gene rale riserbo su materie interne ad un procedimento penale. iÈ,

perciò, assolutamente da escludere che il diritto di libertà di stam

pa, la esplicazione cioè della attività funzionale ad esso corri

spondente, consenta, in ragione della logica interna del suo par ticolare punto di vista, di ritenere tale precetto costituzional

mente incompatibile, ovvero consenta addirittura di ritenerne co

stituzionalmente scriminata la violazione in concreto.

In ogni caso, gli ordinamenti di autonomia collettiva non hanno

poteri di tale livello, né possono legittimarsi o legittimare alla

inosservanza delle leggi: il non cimentarle poi, non è tutta, ma

è anche questione proprio di deontologia, massime quando — per

posizione individuale, per rilevanza della attività che si svolge o per il particolare carattere diffusivo di essa — il farlo incide

con speciale ovvero con più ampia negatività sulla consistenza

del valore impegnativo degli assetti derivanti dalle regole legali di una data materia.

Va confermato, quindi (in aderenza, peraltro, a Cass., Sez. VI,

14 ottobre 1967, Valentini, id., Rep. 1968, voce cit., n. 5), che

è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzio

nale, nuovamente in questa sede come sopra eccepita dalla difesa.

Ciò posto, attesa la indiscutibilità oggettiva del fatto che la

pubblicazione vietata ebbe luogo con riferimento a materiale

costituente, secondo la consapevolezza di tutti gli autori di essa,

segreto istruttorio, la dichiarazione di responsabilità dell'Isman,

relativamente alla contravvenzione di cui all'art. 684 cod. pen.,

va confermata. Responsabilità che concorre, in senso materiale,

con quella del Russomanno, in quanto autore della rivelazione

del segreto, finalizzata appunto alla diffusione giornalistica di

esso (cfr. sub 6). Responsabilità, inoltre — si badi bene — deri

vante per l'Isman (come per l'Emiliani: cfr. sub 7), non dalla,

pubblicazione del testo di commento e presentazione, ma esclu

sivamente dalla pubblicazione dei verbali Peci, nella ampia mi

sura che si è vista, in se e per se. (La materia qui trattata

sub 4) si collega con l'analoga materia trattata, quanto al Russo

manno, sub 6), e, quanto all'Emiliani, sub 7 infra).

5 - Posizione del Russomanno quale imputato del delitto di

cui all'art. 326 cod. pen. — Collegamento con sub 3 — Na

tura del di lui dovere-potere in quanto, come funzionario del

SISDE, custode di segreto di ufficio ricoprente segreto istrutto rio — Limiti — Effetti sulla qualificazione della di lui condotta nel rivelare tale segreto — Inconfìgurabilità di esimenti — Re

sponsabilità unica del funzionario-custode.

6 - Posizione del Russomanno quale concorrente con Isman

nella contravvenzione di cui all'art. 684 cod. pen. — Collega mento con sub 4 — Qualificazione della di lui condotta nel pa lesare al giornalista, per la pubblicazione, il contenuto del segre to istruttorio attraverso la violazione del segreto di ufficio — Co stituisce concorso materiale con il giornalista, che esegue la pub blicazione, nel reato di pubblicazione di atti riservati di proce dimento penale, da parte del funzionario-custode — Concorso formale di reati: sussiste fra il delitto di cui all'art. 326 e la con travvenzione di cui all'art. 684 cod. pen., e postula il cumulo materiale delle pene.

Passando ora alla disamina della intiera posizione processuale del Russomanno, pare indiscutibile intanto che costui abbia a

rispondere, a titolo di concorso materiale con fsman (come già visto sub 4), del reato contravvenzionale contestatogli, appunto perché, come da lui stesso riconosciuto (la rivelazione del segreto istruttorio tramite), la violazione del segreto di ufficio volle es

sere, e fu niente altro che il presupposto famulativo, diretto e

necessario, per la realizzazione del voluto e cosciente scopo fi

nale della pubblicazione giornalistica di quanto ne costituiva la

materia concettuale e testuale. Dal Russomanno, invero, si volle finalisticamente la rivelazione del segreto di ufficio perché si vol le — egli stesso lo dice — la pubblicazione del coincidente se

greto istruttorio, l'uno dall'altro formalmente distinto, ma com

binati nell'ambito di una tutela qualificata dalla duplicità del

precetto normativo di riserbo.

Mentre può, dunque, in tali termini venire subito definita af

fermativamente la questione della di lui colpevolezza per la con

travvenzione, circa il conseguente trattamento punitivo si dirà a

suo luogo, sub 9), 10). In tutto quanto è stato ora puntualizzato, nel fatto, circa il

Russomanno a proposito della contravvenzione, si ritrova anche

il fondamento della responsabilità singola di costui (dal tribunale

per altra via intuita), per quanto attiene al delitto di rivelazione

di cui all'art. 326 cod. penale. (La materia che in proposito sarà

ora trattata si connette, in forza di differenziazione, con quella trattata, quanto all'Isman, sub 3).

La realtà obiettiva del fatto delittuoso è nella confessione del

lo stesso Russomanno, la sua inescusabilità penale è nel carattere

indisponibile dei beni protetti dalla norma incriminatrice violata.

Era, infatti, quello affidato al Russomanno, un segreto di uffi

cio, qualificato dalla sua corrispondenza ad un presupposto se

greto istruttorio (art. 307, 230 cod. pen.), del quale segreto istrut

torio egli aveva avuto conoscenza solo per effetto della norma

extra ordinem dell'art. 4 legge 18 maggio 1978 n. 191, introdut

tiva dell'art. 165 ter cod. proc. penale. Segreto di ufficio alta

mente formale, dunque, ma anche segreto sostanziale, posto che

trattavasi di documenti nella loro massima parte mai prima da

altri pubblicati, né altrimenti resi di pubblico dominio in una

misura tale da sminuire la detta loro connotazione sostanziale.

(Per l'irrilevanza della ipotetica anteriore diffusione, cfr. comun

que: Cass., Sez. VI, 31 ottobre 1968, Satta Branca, id., Rep. 1969, voce cit., n. 9). E, del resto, se cosi non fosse stato, sa

rebbe venuta meno la ragion d'essere di una pubblicazione, la

quale, nei propositi di colui che l'aveva promossa, era volta ad

incidere in termini di novità suggestiva sui terroristi potenzial mente non alieni dalla resa, cui in sostanza essa si vuole fosse

rivolta. Posta fuori discussione, cosi, la pienezza degli elementi posi

tivi del delitto in parola, deve in pari tempo negarsi che la fatti

specie siasi arricchita di elementi negativi, atti a scriminarla pe nalmente in termini di esercizio di un dritto (o di adempimento di un dovere), ai sensi dell'art. 51 cod. penale.

Situazioni scriminate, queste, da individuarsi — secondo una

tesi difensiva — sulla base dell'asserto che esse (od una di esse)

sarebbero da vedere realizzate nel fatto stesso che la rivelazione

si dirigeva ad un fine del servizio di sicurezza, dal Russomanno

perseguito quale esponente di alto grado del SISDE (Servizio

per le informazioni e la sicurezza democratica, istituito con legge

24 ottobre 1977 n, 801). È da avvertire, a questo riguardo, che la ragion d'essere della

disposizione di cui al 3° comma del citato art. 165 ter cod. proc.

pen. — « Le copie e le informazioni acquisite (dal ministro per l'in

terno, che al SISDE immediatamente sovraintende) ai sensi dei

comma precedenti sono coperte dal segreto di ufficio » — è nella

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PARTE SECONDA

direzione della estensione dell'obbligo di riservatezza su taluni

atti processuali penali, della sua propagazione cioè indirettamente

anche a soggetti che, diversi dal personale genericamente giudi ziario cui si riferiscono gli art. 307, 230 cod. proc. pen., vengono, in base alla anzidetta norma extra ordinem, legittimati a parte

cipare, nell'ambito del proprio ufficio, al segreto istruttorio. E

che ne restano quindi parimenti custodi in termini, appunto, di

segreto di ufficio (art. 326 cod. penale).

Ora, salvo un certo elemento di necessaria informalità e di

specialità di posizione, che la citata legge 801/1977 configura o

non sembra escludere rispetto agli addetti dei servizi con essa

istituiti (cfr., ad es., art. 9), non è comunque minimamente di

scutibile che la relativa disciplina d'azione sia ancorata al prin

cipio di legalità. Ed infatti, non soltanto la legge non pone (né

10 potrebbe), ma neppure consente di vedervi sottostante una

concezione preternormativa dei servizi di sicurezza, delle opera zioni di istituto e della attuazione di esse da parte dei singoli

agenti nei singoli casi.

In quello presente, perciò, il preteso fondamento sistematico

della invocata scriminante (art. 51 cod. pen.) non sussiste; e nel

l'atto rivelatore del Russomanno è da vedere, indipendentemente dall'asserito progetto di utilizzazione operativa della contingen za presentatasi, l'esatto contrario di quanto gli veniva prescritto dal personale obbligo di riservatezza (cfr. Cass., Sez. Ili, 22

gennaio 1980, Petrolo).

E ciò, naturalmente, preclude persino la possibilità che si ac

cenni, sempre in questo caso, ad una ipotesi di consuetudine in

tegratrice delle cause di giustificazione codificate. E preclude al

tresì' la possibilità di formulare la ipotesi della scriminante del

l'adempimento di un dovere, sia che (pretesamente) derivante da

norma giuridica (la quale, come detto, -non esiste), sia che (in

astratto) derivante da un altrui ipotetico potere nell'ambito di

detto servizio. Rispetto alla quale ultima ipotesi particolare, man

cherebbe comunque, sotto l'aspetto del fatto, la prova che sia

nella specie intervenuta una disposizione gerarchica nei confronti

del Russomanno, conforme a quello che poi ne fu il comporta

mento; e, sotto l'aspetto giuridico, difetterebbe in ogni caso, e

decisamente, il presupposto della legittimità di un siffatto ipo tetico ordine superiore.

Legittimamente acquisiti dal ministro per l'interno gli atti di

segreto istruttorio, e da lui comunicati ad organi dipendenti mu

niti della relativa competenza, avevano questi ultimi (e, quindi, eventualmente anche il SISDE) il potere-dovere di metterne a

profitto, nell'ambito dei propri compiti, il valore operativo e

documentatorio; essi non potevano però certo farlo, a nessun li

vello di responsabilità (anche la massima), in nessuna misura e

malgrado qualsiasi teorica dispensa interna, con violazione del

segreto di ufficio del quale, presso detti organi, era ulteriormente

coperto il segreto istruttorio che accompagnava originariamente

gli atti medesimi.

Tale potere-dovere, che si connette extra ordinem alla menzio

nata norma dell'art. 165 ter cod. proc. pen., non può infatti al

trimenti venire attuato che con il limite naturale che esso reca

in sé; limite che lo rende (appena) tollerabile dalla coerenza

del sistema processuale penale, senza privarlo al tempo stesso

di una potenziale utilità nell'ambito degli scopi generali speci ficamente indicati allo stesso art. 165 ter cod. proc. pen. (pre

venzione, repressione, documentazione). Originariamente limita

to, dunque, e indefettibilmente nel preciso senso che: le nozioni

arrecate con la comunicazione del segreto istruttorio devono es

sere impiegate solo come strumento mentale delle attività rela

tive al perseguimento dei detti scopi; come premessa intellettuale

dgli orientamenti operativi in materia; come patrimonio di espe rienza e di arricchimento per le azioni da compiersi, e di riscon

tro per quelle compiute. Insomma, come fonte tecnica a carat

tere ideale per la conoscenza degli strumenti, la concezione delle

attività ed il compimento delle operazioni di servizio. Fonte,

inoltre, cui attingere e della quale valersi, sia quanto a portate di cognizioni sia quanto a capacità ispirativa: riservatamente ed

internamente alle istituzioni di cui trattasi (art. 7, ult. comma,

legge 801/1977) e, allorché utile ai fini a queste dalla legge asse

gnati, internamente anche agli organi di polizia giudiziaria, coi

quali, del resto, sussiste un reciproco dovere di cooperazione (art. 9); e, nel complesso: in funzione di illuminare l'alta dire

zione politica dei servizi di informazione e di sicurezza (art. 1),

11 corrispondente comitato consultivo (art. 2), come la compe tenza sovraordinata del ministro per l'interno (art. 6) e, even

tualmente, in funzione anche dell'attuazione del « coordinamento

dei rapporti con i servizi di informazione e di sicurezza degli al

tri Stati », previsto all'art. 3, 2° comma, legge ora citata. Nonché,

naturalmente, in funzione indicativa circa le modalità stesse e

la cura delle attività in senso stretto ed esecutivo, colte nel loro

presupposto di cognizioni, di pensiero, di giudizio e di sintesi.

Altro il sistema con consente, e la legge esclude (art. 10).

Né si dica che, in un caso come questo, tale discrimine sarebbe

imponderabile. Esso, proprio in un caso come questo, era ed è

da ritrovarsi, invece, attraverso il concetto reale che la legittimità

della utilizzazione funzionale del segreto (di ufficio-istruttorio),

da parte di detti organi, viene meno al punto in cui questa utiliz

zazione principia a realizzare la lesione dell'interesse sotteso alla

norma che lo tutela penalmente nella sua complessità-di piani

(art. 165 ter, 3° comma, cod. proc. pen. in relazione all'art. 307

ccd. proc. penale). Cosi che ove, come nella specie, trattisi ap

punto di violazione di segreto di ufficio nella sua corrispondenza

ad un segreto istruttorio, deve ritenersi indisponibile per chiun

que — e del tutto -— l'obbligo della riservatezza imposto dalla

norma penale (art. 326 cod. pen.): tanto che lo si intenda riferito

alla tutela mediata del segreto istruttorio (al segreto di ufficio,

cioè, come doppiante un segreto istruttorio), quanto che lo si

intenda riferito alla tutela immediata di esso (al segreto istrutto

rio, cioè, come tale). In ciascuna di queste alternative (le sole

che ora interessano), l'obbligo di riservatezza, infatti, rimane

sempre coordinato al patrimonio di una sfera pubblica — la fun

zione giudiziaria —, sulla quale non incidono soppressivamente

altri poteri; come, del resto, neppure vi incidono, nel senso della

dispensa (salva l'ipotesi prevista, appunto all'art. 165 ter cod.

proc. pen.), quelli dell'autorità giudiziaria che procede. Il che,

naturalmente, vale fino a che il segreto istruttorio non sia venuto

formalmente meno, facendo automaticamente venir meno, anche

e necessariamente, il segreto di ufficio relativo (simul cadunt).

Cosi' che, in termini generali: come è doveroso riconoscere la

importanza dei servizi di informazione e di sicurezza statali, e

che sarebbe pernicioso ignorarne le esigenze o fiaccarne la effi

cienza, ciò risolvendosi in una attenuazione delle difese dovute

alla collettività ed ai singoli; egualmente deve affermarsi che,

nella istituzione o negli addetti, non può mai inverarsi una spe

ciale posizione di subordinazione solo relativa e discrezionale

alla norma giuridica che vieta la vera e propria violazione del

segreto (istruttorio-d'ufficio), ciò risolvendosi, attraverso la possi

bile pratica della dispensa in bianco, in un misconoscimento del

suo stesso valore di norma.

Discende da tutte le considerazioni sopra svolte la assoluta in

confìgurabilità, che è di principio, della scriminante dell'eserci

zio di un diritto funzionale (o dell'adempimento di un dovere

funzionale), sostenuta dalla difesa in relazione agli scopi (opera

tivi e di istituto), che il Russomanno assume essere stati da lui

assegnati al fatto della rivelazione da parte sua del segreto. Un tale « diritto » non esiste; un tale « dovere » né si radica

nella legge né potrebbe essere da alcuno legittimamente imposto.

La stessa difesa ha, da ultimo, formulato una eccezione di in

configurabilità giuridica del concorso formale eterogeneo (ex art.

81, 1° comma, ipotesi I", cod. pen.) tra il delitto di cui all'art. 326

e la contravvenzione di cui all'art. 684 cod. pen. — dei quali è

stato parimenti chiamato a rispondere, sulla base del compimento

di una sola azione, il Russomanfio —, pur senza esplicitare l'ef

fetto giuridico che dovrebbe, nel presente caso, ritenersi prodotto da tale pretesa inconfigurabilità.

L'eccezione non ha fondamento.

Posta, invero, la identità del processo volitivo e del processo esecutivo dei due reati, da parte di tale imputato, non è discuti

bile che, nella specie, sussiste anche l'altro requisito del concorso

formale, cioè la pluralità delle distinte violazioni unigenerate, con

lesione di autonomi interessi penalmente tutelati. Interessi che,

rispettivamente, sono, nel caso dell'art. 326 cod. pen., quello du

plice e statuale al mantenimento del riserbo in ordine a notizie

da tenersi, per legge o provvedimento, segrete e l'interesse alla

fedeltà dei pubblici depositari di esse; e, nel caso dell'art. 684

cod. pen., l'interesse alla segretezza, in quanto funzionale alla

utilità e regolarità del processo penale. Il concorso formale eterogeneo di reati si ritrova, quindi, nel

presente caso pienamente configurato. (Mentre, ovviamente, nep

pure sarebbe da porsi una questione di assorbimento dell'una fat

tispecie nell'altra come effetto di concorso apparente di norme

penali). Quanto alle conseguenze sul piano della sanzione del ravvi

sato concorso formale, esse sono nel senso della necessità del ri

corso al cumulo materiale delle pene relative, atteso che la loro

eterogeneità comporterebbe, applicandosi del tutto la disposizione del 1° comma, dell'art. 8, ipotesi I*, cod. pen. nella nuova formu

lazione introdotta con legge 220/1974, il pervenire alla ingiusta ed illegittima soluzione della irrogazione della reclusione anche

per la contravvenzione punita con l'ammenda. E ciò, in viola

zione del principio di legalità di cui all'art. 1 cod. penale.

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GIURISPRUDENZA PENALE

In detto senso è, del resto, la giurisprudenza della Suprema cor

te, che costantemente afferma come la nuova disciplina del con corso formale non possa trovare applicazione qualora le pene pre viste per le varie violazioni non siano omogenee: e cioè, o tutte detentive o tutte pecuniarie o tutte detentive e pecuniarie insie

me, con esclusione quindi del cumulo formale. (Omissis) Per questi motivi, ecc.

I

TRIBUNALE DI SIRACUSA; ordinanza 17 luglio 1980; Pres.

Guzzardi, Rei. Lo Re; imp. Moncada e altro. TRIBUNALE DI SIRACUSA;

Pena — Pena accessoria — Sospensione dall'esercizio di pub blici uffici — Applicazione provvisoria — Revoca — Impu tato non più investito di pubbliche funzioni — Irrilevanza

(Cod. pen., art. 28, 29, 140, 328; cod. proc. pen., art. 301, 485).

È irrilevante, ai fini della sospensione provvisoria dall'esercizio

di pubblici uffici e della sua revoca, che l'imputato non eser

citi più le pubbliche funzioni nell'esercizio delle quali, secon

do l'accusa, avrebbe commesso il reato ascrittogli. (1)

li

TRIBUNALE DI SIRACUSA; ordinanza 17 luglio 1980; Pres.

Guzzardi, Rei. Lo Re; imp. Piacenti.

Pena — Pena accessoria — Sospensione dall'esercizio di pub blici uffici — Applicazione provvisoria — Revoca — Impu tato non più investito di pubbliche funzioni — Irrilevanza

(Cod. pen., art. 28, 29, 140, 328; cod. proc. pen., art. 301, 485). Corte costituzionale — Conflitto di attribuzione — Conflitto tra

Stato e regione siciliana — Sospensione di effetti di sentenza

penale di condanna — Preventiva delibazione sull'ammissibi

lità del ricorso — Omissione — Conflitto fra autorità giudi ziaria ordinaria e Corte costituzionale — Fattispecie (Cost., art. 134; legge 11 marzo 1953 n. 87, norme sulla costi

tuzione e sul funzionamento della Corte costituzionale, art.

37, 38).

È irrilevante, ai fini della sospensione provvisoria dall'esercizio

di pubblici uffici e della sua revoca, che l'imputato non eser

citi più le pubbliche funzioni nell'esercizio delle quali, secon

do l'accusa, avrebbe commesso il reato ascrittogli. (2)

(1-2) Non risultano precedenti. Corte cost., ord. 19 giugno 1980, n. 94, che, nella vicenda processuale di cui alla sent, che si riporta, ha accolto l'istanza di sospensione di taluni effetti della sentenza

pretorile di condanna, è riportata in Foro it., 1980, I, 3126, con nota

di richiami. Per la inoppugnabilità del provvedimento, ancorché si tratti di sen

tenza, con cui viene disposta l'applicazione provvisoria di pene ac

cessorie, in quanto non attinente alla materia della libertà perso

nale, v. Cass. 26 settembre 1978, Trenti, id., Rep. 1979, voce

Pena, n. 52; 22 marzo 1977, Merlino, id., Rep. 1978, voce cit., n. 34; 17 dicembre 1976, Biondi, id., Rep. 1977, voce cit., n. 35; 23 aprile 1975, Martini, ibid., nn. 32, 33, annotata da Gaito, in Mass. pen.,

1976, 1218; 5 febbraio 1973, Mazzone, Foro it., Rep. 1974, voce Istru

zione penale, n. 320, la quale esclude anche la proponibilità del

l'incidente di esecuzione; 22 maggio 1972, Mazzone, id., Rep. 1973,

voce Pena, nn. 29, 30. I provvedimenti in esame hanno natura cautelare e revocabile:

Cass. 22 marzo 1977, Merlino, cit.; 17 dicembre 1976, Biondi, cit.;

5 febbraio 1973, Mazzone, cit.; 22 maggio 1972, Mazzone, cit.; le

ultime due sentenze hanno precisato che la revoca può essere dispo

sta anche nelle successive fasi del procedimento. La questione di legittimità costituzionale degli art. 140 cod. pen.

e 301 cod. proc. pen. è infondata in relazione all'art. 27, 2° comma,

Cost. (Corte cost. 11 aprile 1969, n. 78, id., 1969, I, 1391) e mani

festamente infondata in relazione all'art. 25 (Cass. 18 gennaio 1974,

Rizzi, id., Rep. 1974, voce Istruzione penale, nn. 45, 56) e agli art.

13, 24, 27, 2° comma, e 111 Cost. (9 novembre 1977, Mulachiè, id.,

Rep. 1978, voce Procedimento penale, n. 7).

Per una diffusa critica all'orientamento giurisprudenziale sulla

inapplicabilità del provvedimento con il quale viene disposta l'appli

cazione provvisoria delle pene accessorie -e sulla sua natura caute

lare, v. Scordamaglia, L'applicazione provvisoria di pene accesso

rie, Napoli, 1979, 253 s. e 221 s.; ad avviso dell'a. l'applicazione

provvisoria di pene accessorie non si pone come misura di cautela

processuale, ma come cautela sostanziale, anzi come pena, che viene

inflitta anticipatamente all'imputato e, in quanto tale, è incompati

bile con gli art. 24, 2° comma, e 27, 2° comma, Cost. (139 s.), anche

per l'assenza di limiti massimi della sua durata (250). In dottrina,

Va sollevato conflitto di attribuzione fra autorità giudiziaria or

dinaria e Corte costituzionale ove quest'ultima, a seguito di ricorso per conflitto di attribuzione fra Stato e regione sicilia

na, decidendo positivamente su un'istanza di sospensione di

taluni effetti di una sentenza pretorile di condanna, senza la

preventiva delibazione sull'ammissibilità del ricorso stesso, pre cluda al tribunale l'adozione di provvedimenti di sua compe tenza (nella specie trattavasi di revoca della sospensione prov visoria dagli uffici di deputato e assessore regionale). (3)

v. anche Ardizzone, Illegittimità costituzionale della « applicazione provvisoria » di pene accessorie, in Tommaso Natale, 1976, 603; Barbera e Ziccone, Presunzione di non colpevolezza e applicazione provvisoria di pene accessorie, in Giur. costit., 1969, 1126; Bruti Li berati, Il ruolo del giudice nell'applicazione delle pene accessorie, in Mon. trib., 1958, 1162; Ciocca, La nuova disciplina delle pene ac cessorie contenuta nei disegni di legge di riforma del codice penale, in Giust. pen., 1973, I, 251; D'Angelo, In tema di applicazione provvisoria di pene accessorie e di intervento del detenuto nel pro cedimento di sorveglianza, in Tommaso Natale, 1976, 555; De Leone, Circa l'illegittimità costituzionale degli art. 140 cod. pen. e 301

prima parte cod. proc. pen., in Arch, pen., 1969, II, 448; Famà, La misura di applicazione provvisoria di pene accessorie nel sistema della legge sostanziale e processuale e problemi relativi alla costi tuzionalità e impugnabilità della misura medesima, in Giust. pen., 1976, I, 358; Gaito, In tema di provvisoria applicazione di pena accessorie, in Mass. pen., 1976, 1220; Larizza, Sulla provvisoria ap plicazione di pene accessorie, in Riv. it. dir. proc. pen., 1976, 872; Malinverni, Applicazione provvisoria di pene accessorie e presun zione di innocenza dell'accusato, in Giur. costit., 1969, 1118; Palazzo F. C., Le pene accessorie nella riforma della parte generale e della

parte speciale del codice, in Temi, 1978, 647; Pazienza, Brevi ri

flessioni sulla costituzionalità delle pene accessorie, in Arch, pen., 1970, II, 299; Santoro, Natura cautelare dell'applicazione provviso ria delle pene accessorie, in Scuola positiva, 1969, 444; Violante, Con tenuto e funzione delle pene accessorie: conseguenza in tema di ap plicabilità al concorso di persone nel reato, in Riv. it. dir. proc. pen., 1969, 263; Virga, Sospensione provvisoria dai pubblici uffici per l'eletto a cariche pubbliche, in Nuova rass., 1978, 2197.

(3) Non risultano precedenti. La Corte costituzionale normalmente provvede sull'istanza di so

spensione riservandosi « ogni pronuncia sull'ammissibilità e sul merito del ricorso ... »: v., da ultimo, sent. 21 novembre 1979, n. 136, Foro it., 1980, I, 2383; 24 maggio 1979, n. 36, id., 1979, I, 1955, con nota di Volpe. In dottrina, v. Pizzorusso, La tutela cautelare nei giudizi co

stituzionali sui conflitti fra enti, in I processi speciali, Napoli, 1979, 297, ad avviso del quale « La presenza del fumus boni iuris del ricorso princi

pale è ... condizione dell'accoglimento dell'istanza di sospensione, perché sarebbe assurdo provvedere in tal senso se il ricorso principale appa risse manifestamente infondato ... Analoga valutazione dovrà essere

compiuta, altresì', circa le eventuali cause di inammissibilità del ricorso; anche nel caso in cui una di esse risulterebbe, ove fondata, pregiudi ziale all'accoglimento dell'istanza di sospensione, la corte non è te

nuta ad esaminarla funditus prima di pronunciarsi su di essa, ma

solo a delibarla come le questioni di merito», (p. 305). Sulla sospen

sione, ex art. 40 legge n. 87 del 1953, del provvedimento impugnato in sede di conflitto di attribuzione, cfr., altresì', Cerri, Problemi pro cessuali e sostanziali relativi all'ammissibilità del conflitto di attribu

zione, in Giur. costit., 1968, 1398; Crisafulli, Lezioni di dir. cost.,

1978, II, 399; Pierandrei, Corte costituzionale, voce dell'Enciclopedia del diritto, 1962, X, 1002; Pizzorusso, Lezioni di dir. cost., 1978, 422;

Zagrebelsky, La giustizia costituzionale, 1977, 222. Per la configurabilità di un conflitto di attribuzione è sufficiente

che dall'illegittimo esercizio del potere altrui consegua la menoma

zione di una sfera di attribuzioni costituzionalmente assegnata ad un

soggetto: Corte cost. 30 dicembre 1972, n. 211, Foro it., 1973, I, 633. In

dottrina, oltre agli autori già citati e Mazziotti, I conflitti di attribu

zione fra poteri, 1962, I, e 1966, II, cfr. Mortati, Istituzioni di di

ritto pubblico, 1969 8, II, 1316 e s.

La corte, sia pure non espressamente, ha ritenuto la propria compe

tenza a decidere i conflitti di attribuzione fra poteri dello Stato an

che quando il conflitto stesso sia stato sollevato nei suoi confronti

(sent. 26 aprile 1968, n. 39, Foro it., 1968, I, 1097; 30 marzo 1971, n.

62, id., 1971, I, 817, che fu interpretata da Amato, in Giur. costit.,

1971, 607, nel senso di contenere un'esplicita affermazione della possi

bilità (anzi, minaccia) di ricorrere al conflitto per piegare l'inosser

vanza delle proprie sentenze da parte della Cassazione; in dottrina, v.

Pergolesi, La Corte costituzionale giudice e parte nei conflitti di

attribuzione fra i poteri dello Stato, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1959,

1; Mortati, op. cit., 1321).

È pacifico, nella giurisprudenza costituzionale, che « i singoli or

gani giurisdizionali, esplicando le loro funzioni in situazione di piena

indipendenza, costituzionalmente garantita, sono da considerare legit

timati, attivamente e passivamente, ad essere parti in conflitti di at

tribuzione »: sent. 3 marzo 1977, n. 49, Foro it., 1977, I, 1038, con nota

di richiami, cui, adde, in dottrina, Cerri, Brevi osservazioni sui sog

getti abilitati a sollevare conflitto di attribuzione, in Giur. costit., 1971,

1163; Mezzanotte, Le nozioni di « potere » e di « conflitto » nella

giurisprudenza della Corte cost., id., 1979, I, 110; Nocilla, Brevi

note in margine ad un conflitto fra poteri, id., 1978, I, 744; Pizzo

Il Foro Italiano — 1981 — Parte II-4.

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