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sentenza 13 luglio 1985; Pres. Aragona, Est. Marini; imp. D. e altriSource: Il Foro Italiano, Vol. 109, No. 2 (FEBBRAIO 1986), pp. 101/102-107/108Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23180536 .
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GIURISPRUDENZA PENALE
Non ritiene, quindi, questa autorità giudiziaria che sia stato
legittimamente opposto nel caso di specie il segreto di Stato dal
presidente del consiglio. Né ritiene questa autorità giudiziaria di prestare acquiescenza a
quella decisione del presidente, postoché la stessa, ponendo uno sbarramento al potere-dovere del giudice di acquisire gli elementi di prova necessari per la prosecuzione dell'azione pena le, ha interferito nella sfera di attribuzione costituzionalmente
assegnata al potere giurisdizionale. Di conseguenza — versandosi in caso analogo a quanto deciso
con ordinanza n. 49 del 25 febbraio / 3 marzo 1977 dalla Corte costituzionale (id., 1977, I, 1038) — deve questa autorità giudizia ria sollevare conflitto di attribuzione con il presidente del consi
glio, ai sensi degli art. 37 s. 1. n. 87 dell'I 1 marzo 1953 e 5 s. 1. n. 265 del 18 marzo 1958.
Si chiede pertanto che la Corte costituzionale dichiari non fondato il segreto di Stato come opposto a questa autorità
giudiziaria il 28 marzo 1985 dal presidente del consiglio ed ordini ad esso presidente di dichiarare non fondato il segreto di Stato come opposto a questa autorità giudiziaria il 23 gennaio 1985 da
ufficiali del SISMI.
TRIBUNALE DI TORINO; sentenza 13 luglio 1985; Pres.
Aragona, Est. Marini; imp. D. e altri.
TRIBUNALE DI TORINO;
Tributi in genere — Reato tributario — Emissione ed utilizzazio
ne di fatture per operazioni inesistenti — Soggetto esente da
i.v.a. — Estensione dell'incriminazione (D.l. 10 luglio 1982 n.
429, norme per la repressione della evasione in materia di
imposte sui redditi e sul valore aggiunto e per agevolare la
definizione delle pendenze in materia tributaria, art. 4; 1. 7 ago sto 1982 n. 516, conversione in legge, con modificazioni, del d.l.
10 luglio 1982 n. 429, art. 1). Tributi in genere — Reato tributario — Frode fiscale — Circo
stanza attenuante — Criteri di valutazione (D.l. 10 luglio 1982
n. 429, art. 4; 1. 7 agosto 1982 n. 516, art. 1). Tributi in genere — Reato tributario — Utilizzazione di false
fatture — Simulazione di componenti negativi del reddito (D.l. 10 luglio 1982 n. 429, art. 4; 1. 7 agosto 1982 n. 516, art. 1).
Tributi in genere — Reato tributario — Alterazione della base
imponibile — Carattere rilevante della alterazione — Criteri di
valutazione (D.l. 10 luglio 1982 n. 429, art. 4; 1. 7 agosto 1982
n. 516, art. 1). Tributi in genere — Reato tributario — Alterazione della base
imponibile — Calcolo dell'imposta evasa — Spese non docu
mentate — Irrilevanza (D.l. 10 luglio 1982 n. 429, art. 4; 1. 7
agosto 1982 n. 516, art. 1). Tributi in genere — Reato tributario — Alterazione della base
imponibile — Competenza territoriale (D.l. 10 luglio 1982 n.
429, art. 4, 11; 1. 7 agosto 1982 n. 516, art. 1).
L'incriminazione di cui all'art. 4, n. 5, d.l. n. 429/82, convertito
in l. n. 516/82, si estende anche a coloro che non sono
assoggettati all'imposta sul valore aggiunto, come risulta dallo
spirito della norma, teso a colpire tutte le condotte di frode, dalla struttura dell'art. 4, che riferisce il dolo specifico alterna
tivo a tutte le ipotesi delineate, nonché dallo stesso testo del n.
5, che, col termine « corrispettivi », richiama dati rilevanti per le imposte dirette. (1)
La circostanza attenuante prevista dall'art. 4, ultimo comma, d.l.
n. 429/82, convertito in l. n. 516/82, deve essere valutata alla
stregua dei criteri indicati dall'art. 133 c.p. e può trovare
applicazione solo se le modalità ed il contesto della condotta,
nonché le caratteristiche dell'oggetto, consentono di inquadrare 11 fatto entro schemi che giustifichino un livello sanzionatorio
meno rigido di quello edittale. (2)
(1-6) Sentenza che assume ampio interesse, poiché rappresenta una
delle prime pronunce in ordine alla fattispecie di frode fiscale, cosi
come attualmente prevista dall'art. 4 d.l. n. 429/82, convertito in 1. n.
516/82. Non risultano precedenti giurisprudenziali editi su alcuna delle
questioni esaminate dal tribunale. In dottrina, per l'illecito di cui all'art. 4, n. 5, v. Traversi, I nuovi
reati tributari, Milano, 1982, 117; Tagliarina I delitti in materia
tributaria, in Indice pen., 1984, 13; Conti, in Antolisei, Manuale di
diritto penale, leggi complementari, Milano, 1985, 680; D'Avirro-Nan
nucci, / reati nella legislazione tributaria, 1984, 375; S. Gallo, Considerazioni sulle false fatturazioni per operazioni inesistenti, in
Il Foro Italiano — 1986 — Parte II- 8.
L'uso di fatture per operazioni inesistenti o recanti indicazioni di
importi superiori alla realtà integra la condotta di « simulazio ne di componenti negativi del reddito » sanzionata dall'art. 4, n. 7, d.l. n. 429/82, convertito in l. n. 516/82. (3)
Il generico riferimento al carattere « rilevante » della alterazione, che segna la soglia di punibilità per il delitto di cui all'art. 4, n. 7, d.l. n. 429/82, convertito in l. n. 516/82, non viola il
principio di tassatività se valutato sulla base di tre criteri: a) proporzione; b) valore assoluto della alterazione; c) entità
dell'imposta evasa o evitabile. {4) Ai fini del calcolo dell'imponibile effettivo su cui valutare l'inci
denza dell'alterazione, non devono essere prese in considerazio ne eventuali operazioni di spesa non regolarmente documenta te. (5)
La competenza a giudicare del reato di cui all'art. 4, n. 7, d.l. n.
429/82, convertito in I. n. 516/82, si radica nel luogo di accertamento e non di commissione del fatto, né rilevano i
luoghi ove sia sorto il solo sospetto di un reato ovvero
vengano raccolte prove di un fatto già concretamente emer
so. (6)
(Omissis). — Poiché, salvo i casi M. e B. di cui si dirà, non
v'è dubbio circa la sussistenza dei fatti storici contestati, non resta che affrontare due problemi sollevati dalle difese.
Il primo, concernente la sola M., è costituito dall'assunto
secondo cui il mancato assoggettamento del contribuente al regi me i.v.a. priverebbe il fatto della tipicità offensiva. Ritiene il
tribunale che il delitto di frode previsto dall'art. 4, n. 5, non
operi soltanto per coloro che sono assoggettati all'imposta sul
valore aggiunto. Già la semplice lettura dell'art. 4 nel suo
complesso appalesa che il legislatore ha previsto come del tutto
indifferente che i singoli fatti illeciti indicati nei numeri da 1 a 7
siano commessi per l'una o per l'altra delle finalità indicate
nella prima parte dell'art. 4 medesimo; non va dimenticato cioè
che l'emissione di fatture irregolari o la loro utilizzazione da
parte di soggetto esente da i.v.a. può avvenire anche soltanto per favorire l'evasione fiscale diretta ed indiretta da parte di terzi
contribuenti. In sostanza l'interpretazione proposta dalla difesa
contrasta sia con lo spirito della norma, volto a colpire tutte le
condotte di frode commesse per una qualsiasi delle finalità
indicate; sia con la struttura della norma medesima, che chiara
mente riferisce il dolo specifico alternativo a tutte le ipotesi indicate nei singoli punti; sia con la chiara lettera del punto 5,
che non parla solo di « imposta sul valore aggiunto », ma anche,
ed in alternativa, di « corrispettivi » che costituiscono dato rile
vante in materia di imposte dirette e perciò riferibile anche a
soggetti non sottoposti a regime i.v.a.
La chiara autonomia dell'ipotesi prevista dal n. 5 dell'art. 4 fa
si che le ulteriori condotte dell'autore o di terzi che portino al
raggiungimento del fine specifico ricordato non influiscano sull'in
terpretazione della norma, ma richiedano l'applicazione degli
istituti previsti dall'art. 81 c.p. nonché dei criteri indicati dall'art.
133 c.p.
Il secondo problema concerne l'applicazione della diminuente
prevista dall'ultimo comma dell'art. 4, in quanto la disposizione non offre alcun parametro per determinare quali siano i fatti « di
lieve entità ». Si tratta tuttavia di difficoltà che l'interprete può
superare ricorrendo all'abbondante elaborazione compiuta da
dottrina e giurisprudenza circa le disposizioni del codice penale e
delle leggi speciali che contengono riferimenti al concetto di
« lieve entità » del fatto oppure a quello di « gravità » del caso.
Corriere trib., 1985, 610; Monetti, Fatture false o per operazioni
inesistenti, in Fisco, 1984, 2696; Giordanengo, Reati in tema di falsa
fatturazione, ibid., 2904. Sulla vasta problematica suscitata dall'art. 4, n. 7, v. Caraccioli,
Aspetti sostanziali della l. n. 516/82, id., 1983, 3533; Lanzi,
Falso in bilancio e frode fiscale nella nuova legislazione tributaria, in
Giur. comm., 1983, I, 64; Stortoni, La nuova disciplina dei reati
tributari, ibid., 378; Dell'Anno, Simulazione e dissimulazione: una
possibile chiave di lettura dell'art. 4, n. 7, l. 516/82, in Giust. pen.,
1985, II, 49; Izzo, La frode fiscale del titolare di reddito autonomo o
di impresa, id., 1983, II, 437; Assumma, I delitti tributari, in La
disciplina penale in materia di imposte dirette ed i.v.a., Firenze, 1985,
158. Per quanto attiene ai risvolti di carattere processuale, v. Nobili, La
normativa processuale tributaria dopo le riforme del 1982, in Studi in
memoria di G. Delitala, Milano, 1984, II, 907; Id., Prime osserva
zioni sul nuovo processo penale tributario, in Foro it., 1982, V, 253; S. Gallo, Tribunale per i reati finanziari. La competenza territoriale, in Fisco, 1984, 4279.
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PARTE SECONDA
Sarà qui sufficiente ricordare che può dirsi oramai pacifico che la
lievità e la gravità del « fatto » vanno valutate alla luce di tutte
le caratteristiche oggettive e soggettive del « fatto », sia sotto il
profilo del pericolo e dell'offesa, sia sotto il profilo delle modalità
della condotta, sia sotto il profilo della intensità del dolo: il
giudizio viene cioè operato sulla base degli elementi indicati
dall'art. 133 c.p. {si vedano, a titolo di esempio, Cass. 7 ottobre
1980, Scavone, Foro it., Rep. 1981, voce Ricettazione, n. 13; 31
maggio 1982, Maccarelli, id., Rep. 1983, voce cit., n. 30; 2
febbraio 1982, Vitiello, ibid., n. 32, sull'art. 648 c.p.; Cass. 23
gennaio 1980, Mazzei, id., Rep. 1981, voce Armi, n. 77; 16
ottobre 1979, Sala, id., Rep. 1980, voce cit., n. 114, sull'art. 4 1. n.
110/75; nonché Corte cost. n. 131/70, id., 1970, I, 2051, e le
costanti decisioni della Cassazione in materia di art. 116 legge
assegno). Nessuna ragione sussiste per operare una lettura diversa dell'ul
timo cpv. dell'art. 4 1. n. 516/82.
Ciò premesso, il tribunale concorda con le parti nel ritenere
che il fatto reato debba sempre concernere il singolo esercizio
commerciale (sia per soggetto d'imposta, sia per anno fiscale),
perché una diversa lettura sarebbe inconciliabile con l'istituto
della continuazione. Ciò non significa che la lievità del fatto vada
valutata a compartimenti stagni, isolando ciascun episodio crimi
noso dal contesto in cui è inserito. Se, infatti, gli elementi cui
occorre fare riferimento sono quelli dell'art. 133 c.p., appare evidente che l'ipotesi lieve prevista dall'ultima parte dell'art. 4
non è applicabile allorché il fatto manifesti connotazioni comples sive incompatibili con una particolare tenuità dell'intervento re
pressivo pubblico. Il discorso può apparire più comprensibile richiamando l'art.
648 c.p. Pur in presenza di un tipico delitto contro il patrimonio, dottrina e giurisprudenza sono da tempo orientate per valutare
l'ipotesi prevista dal capoverso non con riferimento al solo danno
economico, ma anche guardando alla pericolosità complessiva della condotta; l'ipotesi lieve potrà allora non applicarsi allorché
un bene di valore contenuto sia stato ricevuto all'interno di
un'abituale attività di ricettazione, oppure per essere utilizzato
come strumento per la commissione di altro delitto. Parimenti
l'ipotesi attenuata prevista dall'art. 4 1. n. 110/75 può essere
applicata solo allorché le modalità ed il contesto della condotta, nonché le caratteristiche dell'oggetto consentano di ricondurre il
fatto entro limiti di minima pericolosità che giustifichino un
trattamento sanzionatorio meno rigido rispetto a quanto consenti
to dall'ipotesi base.
Deve pertanto considerarsi non soddisfacente l'impostazione delle difese allorché individuano i criteri di applicazione dell'ul
timo capoverso dell'art. 4 nei limiti e nelle percentuali contenuti
nell'art. 1 stessa legge oppure nelle ipotesi previste dalla prece dente legislazione tributaria; si tratta, infatti, di criteri che
tengono conto esclusivamente di elementi numerici e patrimoniali. I fatti possono dunque considerarsi « lievi » — sempre in rapporto ad un reato doloso mediante frode — allorché si sia in presenza di un'entità economicamente contenuta (in percentuale ed in
valore assoluto) ed inoltre di modalità di condotta e motivazioni
soggettive che rivelino trattarsi di episodi marginali nella vita
dell'impresa. In conclusione, quando il ricorso a fatture fittizie sia ripetuto
più volte nel corso di un unico esercizio e poi per più esercizi
consecutivi, il fatto non potrà essere valutato di scarsa rilevanza, a meno che non si tratti di fatture per importi tanto irrisori da
annullare ogni opposta considerazione. Lo stesso può dirsi per il
caso che il titolare di un'impresa ricorra sistematicamente all'e
missione o utilizzazione di fatture fittizie; si pensi, a tale proposi
to, al criterio seguito dalla Corte di cassazione in materia di
assegni a vuoto, là dove si ritiene che l'emissione continuata di
un numero elevato di titoli scoperti attribuisca al « fatto » un
significato ed una gravità che giustificano il ricorso alla pena detentiva.
Alla luce di quanto esposto appare sorprendente la richiesta
applicazione dell'ultimo cpv. dell'art. 4 a posizioni come quella di
M. (che ha fatto sistematico ricorso a fatture fittizie in entrambe le
società amministrate, per tutti i tre esercizi fiscali in esame e per
importi annui non contenuti o addirittura elevati, come i 103
milioni del 1983 per « la C.D.C, s.p.a. »), e dei fratelli P. (che hanno utilizzato più fatture fittizie in ciascun esercizio fiscale per
importi oscillanti tra i 16 e i 56 milioni annui), imputati che
hanno poi utilizzato tali fatture anche per commettere successi
vamente il reato previsto dal n. 7 del medesimo art. 4. I livelli
sanzionatori previsti dall'art. 4, n. 5, consentono al giudice
un'adeguata graduazione della pena in relazione alle caratteristi
che dei reati adesso ricordati.
Il Foro Italiano — 1986.
È dato pacifico, accettato dalle stesse difese, che l'utilizzazione
di fatture relative ad operazioni inesistenti o recanti importi
superiori a quelli reali costituisce predisposizione di una situazio
ne apparente difforme dal vero, e cioè quella « simulazione di
componenti negativi » sanzionata dal n. 7 dell'art. 4. Questo
elimina dal presente procedimento uno dei più complessi proble mi posti dalla 1. n. 516/82: la definizione dei termini «simulan
do » e « dissimulando » contenuti nella disposizione in parola.
Il problema che il tribunale deve invece affrontare concerne la
determinazione del concetto di rilevanza cui l'art. 4, n. 7, riconnette l'illiceità della alterazione del risultato della dichiara
zione. La risposta al problema non può prescindere da un
sintetico esame della struttura del delitto in parola.
Appare fuori dubbio che sia la caratterizzazione fraudolenta
della condotta — in relazione alle finalità specifiche indicate nella
prima parte dell'art. 4 — a segnare il passaggio dalle ipotesi contravvenzionali a quella delittuosa, costituendo motivo di mag
giore gravità obiettiva del fatto per le sue potenzialità insidiose e
dannose, nonché motivo di particolare pregnanza del dolo che
quella condotta sorregge e guida.
Indubbio che il legislatore ebbe a ritenere tutte le ipotesi dell'art. 4 dotate di gravità e pericolosità degne di un livello
sanzionatorio certo non ridotto. Proprio simile entità delle pene a
fronte di una normativa tributaria complessa e sfaccettata deve
costituire il motivo che ha spinto il legislatore a prevedere per i
numeri da 1 a 6 l'ipotesi attenuata di cui si è detto, e per il n.
7 ad escludere del tutto l'intervento repressivo allorché l'altera
zione del risultato della dichiarazione non sia « rilevante »; si è
in presenza, cioè, di due diversi strumenti volti a temperare il
rigore sanzionatorio in presenza di fatti di scarso rilievo. Trat
tandosi in entrambi i casi di una deroga alla disciplina base
l'interprete deve usare massima attenzione e massimo rigore —
cosi come si è sottolineato per la diminuente dell'ultima parte dell'art. 4 — nel valutare la sussistenza delle condizioni richieste dalle ipotesi più favorevoli all'imputato.
Una seconda osservazione appare necessaria per sgomberare il
campo da un possibile equivoco. Confrontando l'art. 4 con l'art. 1 1. n. 516, appare subito evidente che la prima disposizione non contiene alcun limite numerico e percentuale alla rilevanza penale dei fatti. La cosa ha una spiegazione palese ed immediata che merita comunque di essere ricordata: mentre l'art. 1 prevede i potesi contravvenzionali, punibili anche a titolo colposo, l'art. 4
prevede delitti « di frode », ed il legislatore ha voluto evitare la fissazione di limiti predeterminati che avrebbe costituito una vera e propria sfera di impunità per delitti considerati gravi, social mente rilevanti e qualificati sotto l'aspetto soggettivo.
Se questa è la ragione per cui l'art. 4, ult. comma, non fìssa criteri di lievità del fatto e l'art. 4, n. 7, non indica livelli obiettivi di rilevanza — con valutazioni volutamente rimesse al giudice di merito — non resta che chiedersi, così come hanno fatto le difese, se la scelta del legislatore sia in linea con i principi fissati dagli art. 25/2 e 3/2 Cost.
Le difese degli imputati non hanno ovviamente mosso alcuna critica all'ultima parte dell'art. 4, mentre hanno sostenuto che la dizione « in misura rilevante » contenuta nell'art. 4, n. 7, viola il
principio di tassatività fissato dall'art. 25/2 Cost, essendo carente qualsiasi indicazione di criteri obiettivi e predeterminati. Hanno poi affermato che l'unico criterio corretto per valutare la « rile vanza » è quello percentuale, ma che se il giudice vi si attenesse finirebbe per violare il principio di uguaglianza, posto che altera zioni di pari valore assoluto diverrebbero rilevanti oppure no a seconda dell'entità dell'imponibile dichiarato.
Il problema non può essere semplicisticamente evitato facendo ricorso, come criterio interpretativo, alle indicazioni numeriche e percentuali contenute nell'art. 1 1. n. 516/82 o nella precedente legislazione tributaria (d.p.r. nn. 600/73 e 633/72), visto che il
legislatore ha inteso evitare proprio simile soluzione; occorre, invece, verificare se l'interprete possa fare ricorso a criteri compa tibili con la ratio della norma ed insieme rispettosi del dettato costituzionale.
Punto di partenza per tale indagine deve essere il costante insegnamento della Corte costituzionale e della Cassazione che
giustifica il ricorso al giudice costituzionale solo allorché non esista la possibilità di interpretare la disposizione di legge in modo conforme alle norme della Costituzione; ma quando tale possibilità sussista il giudicante deve fare propria l'interpretazione in parola. Nel caso di specie il tribunale deve accertare se soccorrano criteri interpretativi capaci di affiancare quello percen tuale o di sostituirlo, e se, in caso affermativo, residui ugualmente
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GIURISPRUDENZA PENALE
uno spazio di indeterminatezza dell'art. 4, n. 7, in contrasto con l'art. 25/2 oppure una soluzione incompatibile con l'art. 3/2 Cost.
Il tribunale concorda con le difese allorché individuano un
criterio interpretativo nel rapporto percentuale fra imponibile e
somma sottratta alla dichiarazione; è palese, infatti, che l'altera
zione può essere valutata mediante una proposizione fra quello che è stato e quello che avrebbe dovuto essere il risultato. Non
concorda, invece, con le difese allorché sostengono che questo sia
l'unico criterio oggi utilizzabile; nessuna ragione sussiste per
negare operatività ad un criterio che tenga conto del valore assoluto della alterazione, posto che la differenza fra due entità
aritmetiche può essere « rilevante » anche se percentualmente ridotta. Quando, infatti, la legge parla di alterazione « in misura
rilevante » non opera alcuna scelta fra le possibili determinazioni
della « misura »; e siccome il ricorso al criterio assoluto è capace di eliminare quelle possibili violazioni dell'art. 3/2 Cost, cui la
difesa ha accennato, appare inevitabile accedere all'interpreta zione in linea col dettato costituzionale.
Ma un passo ulteriore si impone. Il fatto che il reato di frode
fiscale in parola sia un « reato di pericolo con evento di danno » — cosi come la migliore dottrina va sostenendo — non esclude
che il danno per l'erario possa costituire elemento di valutazione
dell'alterazione. Non sembra contestabile che, se il delitto rag
giunge le conseguenze volute — come nel caso degli odierni
imputati — esiste un rapporto diretto fra la somma non dichiara
ta e l'imposta che viene evasa. La dichiarazione di scienza
rappresentata dalla denuncia dei redditi è un atto del privato di
carattere strumentale e non conclusivo, finalizzato cioè alla de
terminazione dell'imposta da versare ed alla riscossione di essa da
parte dell'erario. Pertanto, anche se il danno per l'erario non è
elemento essenziale del delitto previsto dall'art. 4, n. 7, nulla
impedisce che di esso si tenga conto per valutare la rilevanza
dell'alterazione. Se, infatti, del danno patrimoniale non raggiun to deve tenersi conto perfino nel delitto tentato (ai fini dell'appli cazione dell'art. 133 c.p. ed eventualmente degli art. 62, n. 4, 62,
n. 7, 62 bis), che è delitto che ontologicamente esclude il
verificarsi dell'offesa, non si vede perché l'entità dell'offesa (po tenziale od effettiva) debba risultare indifferente nel delitto di
frode fiscale, che solo per scelta di politica legislativa è stato
strutturato come reato di pericolo al solo fine di anticipare la
tutela rispetto all'evento, storicamente usuale, rappresentato dalla
evasione di parte dei tributi dovuti.
A tale conclusione non vale opporre che si finirebbe per attrarre all'interno della fattispecie un elemento (il danno) da
essa non previsto; cosi, infatti, non è, perché quell'elemento costituisce solo uno dei criteri di interpretazione del concetto
elastico di « rilevanza » mediante l'attribuzione di spessore alla
struttura finalistica della dichiarazione del contribuente in quanto consente di valutare la concreta pericolosità della condotta per lo
Stato. E, ritiene il tribunale, non si vede davvero come escludere
l'offensività potenziale del fatto dai criteri utilizzabili per stabilire
se quel fatto debba essere o meno penalmente sanzionato: l'entità
dell'imposta che si intende evadere con la infedele dichiarazione
legittimamente può essere considerata per valutare se la dichiara
zione sia stata alterata « in misura rilevante » per l'ordinamento.
Ma vi è un elemento ulteriore che giustifica il ricorso a simile
chiave di lettura dell'art. 4, n. 7. La struttura progressiva del
nostro sistema tributario fa si che l'aliquota cresca col crescere
dell'imponibile; a parità di somma non denunciata il pericolo per la collettività è dunque maggiore con il crescere dell'aliquota
applicabile. Questo fa si che una alterazione cada sotto i rigori della legge nel caso di evasione totale o ridotto imponibile
dichiarato, mentre risulterebbe non rilevante (sia in valore assolu
to che percentuale) nel caso di un imponibile già elevato in sede
di dichiarazione.
Quanto detto sino ad ora ha consentito di individuare tre
diversi criteri utilizzabili per valutare la rilevanza dell'alterazio
ne: un criterio proporzionale; il valore assoluto della differenza;
l'entità dell'imposta evitata o evitabile. E si è visto che la loro
applicazione congiunta evita i rischi di violazione del principio di
uguaglianza. A parere del tribunale l'applicazione congiunta di tali criteri fa
cadere i rischi di violazione dell'art. 25/2 Cost.; si è in presenza,
infatti, di criteri di natura obiettiva suscettibili di applicazione caso per caso. La cosa presenta l'ovvia conseguenza che i giudici
di merito potranno giungere a risultati concreti diversi nella
applicazione dei medesimi criteri, ma questo non contrasta affatto
col principio di tassatività, come più volte la Corte costituzionale
ha affermato per i reati a forma libera presenti nelle leggi penali
(v. Corte cost. n. 236/75, id., 1976, I, 14; n. 188/75, id., 1975, I,
2418; n. 20/74, id., 1974, I, 600).
Il Foro Italiano — 1986.
Quello che si è fin qui esposto ha spinto il tribunale a ritenere non sottoponibile l'art. 4, n. 7, al giudizio della Corte costituzio nale per quanto concerne l'espressione « in misura rilevante ». Va detto però che a tale conclusione deve giungersi anche sotto il
profilo della rilevanza concreta delle questioni nel presente pro cesso. Il p.m., infatti, ha limitato la contestazione del delitto
previsto dall'art. 4, n. 7, ad alcuni soltanto degli imputati, per i quali è fuori dubbio, qualsiasi criterio si voglia accogliere, che
l'alterazione del risultato della dichiarazione per l'anno 1983 è stata effettuata in misura rilevante. Per M. e F., B. e M., P. e R.
le somme illecitamente calcolate fra le poste passive sono addirit tura assai maggiori dell'imponibile dichiarato (per M., P., e R. si
è poi in presenza di valori assoluti cosi elevati da non meritare
commenti); M. per la società « P. » ha illecitamente portato spese per circa 83 milioni a fronte di un imponibile dichiarato di circa 86 milioni, cosi che l'alterazione appare rilevante sia percentual mente, sia in valore assoluto, sia sotto il profilo del danno; M. ha dichiarato illecitamente costi per lire 103 milioni per la « C.D.C,
s.p.a. », cifra rilevante sia in valore assoluto, sia in percentuale
(comunque oltre il 20 %), sia sotto il profilo del danno (i 103 milioni andrebbero aggiunti al dichiarato che ammonta ad oltre
335 milioni), mentre per la « C.D.C. Medicina del Lavoro » si ha un imponibile di oltre 43 milioni a fronte di spese illecitamente
portate per oltre 31 milioni, con rapporto percentuale davvero considerevole e con valore assoluto tutt'altro che irrilevante; i
fratelli P. hanno portato illecitamente spese per oltre 56 milioni a fronte di un imponibile dichiarato di quasi 175 milioni: indubbia
la rilevanza di simile alterazione, sia in valore assoluto, sia in
valore percentuale (prossimo al 25 %), sia in relazione al danno
per l'erario (trattandosi di 56 milioni soggetti all'aliquota per somme superiori ai 175 milioni).
Le valutazioni qui operate costituiscono l'esplicitazione del con
vincimento di merito cui il tribunale è giunto: la gravità oggetti va e soggettiva della cosiddetta « frode fiscale » impone il massimo
rispetto del significato tipico del termine « rilevante». Nella lingua italiana si intende per rilevante ciò che possiede rilievo, in altre
parole consistenza, ciò che non è irrilevante; l'aggettivo in parola
copre cioè quello spazio che sta fra la irrilevanza e la particolare consistenza, la vera e propria importanza. Il legislatore ha inteso
colpire tutte la alterazioni che rivestissero un qualche spessore, disinteressandosi solo di quelle cosi lievi da lasciare inalterata la sostanza della dichiarazione. Per questo sembra fuori discussione che alterazioni nell'ordine di qualche decina di milioni o di
percentuali attorno al 20 % già modifichino in misura rilevante
l'imponibile dichiarato rispetto a quello reale. Conseguentemente risulta fondata la contestazione mossa su richiesta del p.m. a P., R. e agli altri imputati indicati a verbale.
Sempre in punto di merito le difese hanno prospettato una tesi ulteriore che porterebbe a conseguenze di grande rilievo se solo fosse dotata del pregio giuridico delle precedenti prospettazioni difensive che sono risultate serie e puntuali ed hanno richiesto al tribunale un impegno proporzionato.
Si è sostenuto dunque che l'imponibile effettivo su cui valutare l'alterazione dovrebbe essere determinato calcolando quelle spese non documentate la cui esistenza spingerebbe i dichiaranti a ricorrere a fatture fittizie; per esempio, andrebbero conteggiate le
spese per i lavoratori non assunti o quelle per l'acquisto di materiale non fatturato. La prova dell'esistenza di tali spese sarebbe ricavabile sia dalla notorietà del fatto, sia dalla non attendibilità delle spese dichiarate per i dipendenti, sia dalle dichiarazioni degli imputati.
Simile impostazione è inaccettabile tanto da un punto di vista sostanziale quanto sotto il profilo processuale, e sorprende che sia stata prospettata con energia ed insistenza. Davvero non si
comprende come il giudicante potrebbe valutare in simile pro
spettiva fatti che costituiscono illecito civile o amministrativo se
non veri e propri reati (si pensi al pagamento di somme
corruttive, alla violazione delle norme sulle assunzioni, agli illeciti
contributivi). Né si comprende come il giudicante potrebbe igno rare il dato — questo si notorio — che ad acquisti « al nero » di
energia e materie prime seguono cessioni « al nero » di prodotto finito o servizi, se non altro al fine di evitare incoerenze contabili. Ma, soprattutto, non si comprende come il giudice potrebbe prescindere in campo penale-tributario dalla disciplina contabile e di bilancio: sono le norme finanziarie a stabilire le forme ed i limiti che il contribuente deve rispettare nel dedurre le spese sostenute: al di fuori di queste regole non vi è garanzia
per l'erario e quindi non sono ammesse riduzioni dell'imponibile. A tutto ciò va aggiunto che esplicita finalità dell'art. 4 è quella di evitare anche la evasione fiscale di terzi soggetti; e non c'è
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PARTE SECONDA
dubbio che la contabilità « mera » implica un occultamento di utili da parte dei terzi contraenti: condotta che potrebbe integra re gli estremi del concorso nel fatto illecito dei terzi.
In sostanza, sarebbe davvero grottesco che l'ordinamento, dopo aver dichiarato non documentabili e non deducibili determinate
spese, consentisse all'imputato di farle valere in sede di processo penale ove si discute di alterazione della corretta dichiarazione
dei redditi. Processualmente, poi, anche l'ammontare delle spese « al nero »
dovrebbe essere provato, al pari dell'entità patrimoniale delle fittizie fatturazioni e dell'alterazione dell'imponibile, aprendo cosi la via per l'introduzione in campo penale tributario di strumenti
conoscitivi estranei all'intero sistema voluto dal legislatore. Sebbene già affrontato in sede preliminare (ud. 2 luglio 1985),
il problema sollevato dalla difesa di P. e R. merita ancora due
parole alla luce delle osservazioni difensive conclusive. Se opportunamente la difesa ha messo in guardia da interpre
tazioni che consentano alla p.g. di scegliere, di fatto, il giudice
competente, il tribunale deve considerare anche l'ipotesi che sia
l'imputato a scegliere il giudice competente fissando una sede
formale dell'impresa diversa dal luogo in cui l'impresa agisce ed i
reati vengono in concreto commessi. Una volta che la legge ha, discutibilmente e forse inopportunamente, fissato in campo tribu
tario il criterio del luogo di accertamento e non di commissione
del fatto, il tribunale ha inteso farsi carico del rischio di possibili scelte strumentali del giudice competente, escludendo che la
competenza segua il luogo in cui sorge un semplice sospetto di reato oppure viene raccolta la prova che dia conforto ad un fatto
già concretamente emerso o che di esso specifichi e chiarisca la
portata. In tale ottica, appare corretto affermare, allora, che anche il
reato previsto dall'art. 4, n. 7, è emerso come realtà giuridica dai contorni definiti proprio in Torino, e che a Milano e Bologna sono stati acquisiti soltanto gli elementi documentali di prova che niente hanno modificato rispetto a quanto già gli inquirenti avevano accertato sulla base dei documenti in loro possesso.
L'opportunità di affrontare in via generale il problema della determinazione della pena — lasciandone poi la specificazione all'esame delle singole posizioni — deriva sia dal fatto che per la
prima volta questo tribunale si trova ad applicare le sanzioni
previste dalla 1. n. 516/82, sia dal fatto che le difese hanno
operato una premessa comune a tutti gli imputati. Hanno cioè sostenuto che i reati commessi presentano tutti una « ridotta intensità del dolo » perché la « coscienza comune » non avverte la gravità ed il disvalore dei fatti; l'ampia diffusione del fenome no dell'evasione fiscale, inoltre, favorirebbe le condotte illecite dei
singoli in quanto ostacola la percezione dell'antigiuridicità della condotta. Ad un simile risultato condurrebbe, infine, l'assenza dell'intervento punitivo dello Stato anteriormente al 1983.
È questa problematica che il tribunale può affrontare con considerazioni che valgono per tutti gli imputati.
Per moltissimi anni vi è stato un ampio settore della vita sociale che, a dispetto di pene edittali anche severe, ha goduto nei fatti di un intervento repressivo statale assai contenuto sia
per quantità sia per rigore. I cosf detti « reati dei colletti bianchi », e cioè i fatti illeciti commessi dai pubblici funzionari e dalla classe dirigenziale nello svolgimento delle loro funzioni
tipiche, sono l'esempio più classico di quanto si è detto. Non interessa qui esaminare le ragioni di simile realtà, né esaminare i motivi che hanno portato al suo cambiamento; fatto sta che da
qualche anno, oramai, sia la « coscienza sociale » che gli organi della giustizia avvertono più compiutamente il disvalore e la
pericolosità di quelle condotte. Discorso simile può farsi per i
reati finanziari. Pressoché impuniti fino agli inizi degli anni 1980, essi hanno visto un progressivo accentuarsi dell'attenzione sia
della pubblica opinione sia dei tecnici, ed un proliferare di
proteste e di proposte che sono sfociate nella 1. n. 516/82.
In effetti, da un lato, la crisi della finanza statale andava
proponendo in termini drammatici anche il problema del mancato incasso di decine di migliaia di miliardi annui a causa di una
generalizzata evasione dei tributi; dall'altro, sempre più evidenti e
clamorose erano divenute le differenze fra il reddito dichiarato da molti lavoratori autonomi e le possibilità economiche da costoro rivelate con il tenore di vita, il potere locale, i beni posseduti.
Nacquero cosi « libri bianchi », ministeriali e non, che sottoli
nearono la dimensione e la rilevanza del problema. Ancora oggi non sono dimenticate le polemiche che precedettero e seguirono la 1. n. 516/82, non a caso definita — con toni enfatici e drammati ci — « la legge delle manette agli evasori ».
Con queste premesse non appare certo realistico pensare che
un qualsiasi imprenditore abbia potuto continuare a valutare, dal
Il Foro Italiano — 1986.
1982 ad oggi, gli illeciti tributari come fatti di ridotto rilievo
sociale e di minima gravità.
Più fondata appare l'argomentazione che « in certi ambienti » si
finisce per dare all'evasione fiscale un peso ridotto. Il fatto ovvio
che nessun cittadino paga volentieri le tasse ed il rapporto
difficile cittadino-fisco esistente in Italia (anche a causa di leggi
complesse e contorte) sono dati che il tribunale ben conosce. Pur
con questa premessa il tribunale osserva, innanzitutto, che il peso
ridotto di cui si è parlato coincide non a caso con l'interesse,
diffuso in quegli ambienti, di sottrarre al fisco quanti più utili
possibile. In secondo luogo lo Stato non può certo valutare meno
gravi certi fatti solo perché l'ambiente in cui l'autore vive ed
opera ha di essi una visione riduttiva; e ciò vale ancora di più
allorché si sia in presenza di autori socialmente e culturalmente
non emarginati, forniti di strumenti conoscitivi e critici tali da
far loro percepire l'esatta portata delle regole e dei divieti che lo
Stato fissa per l'attività da loro svolta.
Il problema sollevato dalla difesa può essere affrontato corret
tamente solo muovendo dalla constatazione che ormai ogni con
tribuente — titolare di redditi autonomi come dipendente — è
consapevole della dimensione e dei significati degli illeciti tribu
tari; che anche i lavoratori dipendenti sono in grado di sottrarre
al fisco utili non marginali e talvolta considerevoli; che oggi
coloro che decidono di non pagare in tutto o in parte i tributi
dovuti operano un giudizio di convenienza alla luce dei rischi e
dei vantaggi che la scelta comporta.
Il semplice fatto che l'imprenditore per sottrarre utili al fisco
debba attrezzarsi tecnicamente ed aggirare formalità e controlli
rende impossibile che egli non percepisca la antigiuridicità della
propria condotta, oltre a connotare il dolo di considerevole
intensità, posto che il reato tributario richiede attenzione costante,
predisposizione di situazioni fittizie, padronanza della materia,
concorso di altre persone.
In verità ciò che spinge il contribuente a commettere violazio
ni tributarie non è tanto una ridotta percezione del disvalore del
fatto, quanto la grande probabilità che il fatto rimanga impunito. Ed il commettere un fatto illecito contando sull'inefficienza dei
controlli ha ben poco a che vedere con quella ridotta sensibilità
cui le difese accennavano.
Sgombrato cosi il campo dalla principale argomentazione della
difesa in punto pena, non resta al tribunale che sottolineare un
secondo aspetto generale. Dal punto di vista oggettivo fondata
mente il p.m. ha sottolineato la gravità dei fatti contestati.
Il fatto che i reati tributari non abbiano manifestazioni eclatan
ti e soggetti passivi fisicamente individuati potrebbe spingere il
giudice ad avvertirli come dotati nei fatti di scarsa pericolosità e
gravità, in ciò favorito anche dall'autore tipico, che è persona in
genere incensurata e socialmente rispettata. Ma è sufficiente
considerare che un'economia di mercato richiede innanzi tutto il
rispetto delle « regole del gioco » per rendersi conto che la
violazione delle norme finanziarie, il mancato pagamento dei
tributi e la creazione di sottosistemi illeciti alterano il corretto
rapporto fra le forze economiche ed il successivo formarsi di
equilibri accettabili sia a livello privato che pubblico. Se non
l'unica causa, certo il mancato versamento dei tributi è uno dei
fattori che spingono l'erario ad elevare le forme di contribuzione indiretta e ad accentuare la pressione fiscale su coloro che le
tasse le pagano; né va dimenticato che i tributi non pagati costituiscono per i privati una potenzialità economica in grado di
mettere in difficoltà gli operatori corretti ed introdurre variabili
economiche che operano fuori dagli schemi comuni. Si tratta di
dati ormai ben noti, ed è evidente che l'incensuratezza degli
imputati e la loro « onorabilità » nulla possono togliere alla
gravità obiettiva della condotta da loro tenuta.
Le considerazioni svolte non impediscono che il tribunale possa concedere agli imputati le attenuanti generiche allorché l'incensu
ratezza, la condotta processuale e quella successiva al reato, la
concreta gravità del fatto lo consentono. (Omissis)
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