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sentenza 16 febbraio 2000; Pres. Petrigni, Est. Totaro; Paratore (Avv. Tommasini) c. Fall. soc.F.lli Paratore (Avv. Cangemi)Source: Il Foro Italiano, Vol. 124, No. 7/8 (LUGLIO-AGOSTO 2001), pp. 2345/2346-2347/2348Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23196119 .
Accessed: 28/06/2014 08:21
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
Ne deriva, alla luce delle precedenti considerazioni, che
quella proposta con l'istanza di regolamento preventivo ex art.
41 c.p.c., avuto riguardo alle pretese azionate dalle attrici ed alle
posizioni dedotte in causa dalle parti, non è questione di giuris dizione ma di merito.
Di qui l'inammissibilità del ricorso.
CORTE D'APPELLO DI MESSINA; sentenza 16 febbraio 2000; Pres. Petrigni, Est. Totaro; Paratore (Avv. Tommasi
ni) c. Fall. soc. F.lli Paratore (Avv. Cangemi).
CORTE D'APPELLO DI MESSINA;
Famiglia (regime patrimoniale della) — Impresa familiare — Collaborazione con congiunti in società di fatto — Con
figurabilità (Cod. civ., art. 230 bis).
E configuratile un 'impresa familiare nella collaborazione pre stata a congiunti che svolgono un'attività imprenditoriale in
forma di società di fatto. ( 1 )
(1) In nota a Cass. 19 ottobre 2000, n. 13861, Foro it., 2001, I, 1226, era stata segnalata — con il temperamento di un prudente «per quanto consta» — la totale assenza di precedenti giurisprudenziali, in tema di
configurabilità di un'impresa familiare, nel caso di collaborazione con
congiunti esercenti un'attività economica in forma societaria.
Invece già otto mesi prima, con la sentenza in rassegna, la Corte
d'appello di Messina aveva affrontato la questione e le aveva dato la
stessa soluzione positiva poi adottata dalla Cassazione, facendosi anche
carico del compito di superare le due principali obiezioni che possono esserle mosse.
Il tentativo non sembra però riuscito. Relativamente al fatto che «l'art. 230 bis c.c. esige un rapporto di pa
rentela del collaboratore col titolare dell'impresa e che, da un punto di
vista formale, la società è un soggetto diverso dai soci», si è ritenuto
che «il dato letterale . .. debba cedere di fronte al profilo sostanziale
dell'interesse protetto, che riguarda il lavoro familiare nell'impresa, in
dipendentemente dalla struttura prescelta da chi ne sia a capo», poiché «altrimenti riuscirebbe assai agevole eludere l'applicabilità della nor
ma, frustrandone lo scopo», mentre «la società di persone, d'altra parte, non ha personalità giuridica ed in essa, pur ammettendosi un'attenuata
soggettività, resta pregnante il sostrato personale, che solo una conside
razione formalistica del fenomeno può mettere in ombra», specialmente nel caso di «mera società di fatto», in cui «più vistoso è il rilievo della
componente personale, tanto da rendere plausibile che, almeno agli ef
fetti di cui all'art. 230 bis c.c., i soci appaiano quali titolari dell'impre sa, rispetto ai quali possa aversi parentela del familiare che li coadiu
va». Una simile concezione appare incompatibile con l'essenza stessa
dell'istituto della società, la quale non è una sorta di schermo destinato
a celare il vero «capo» o comunque gli effettivi «titolari» dell'impresa: la qualità di imprenditore, invece, le compete direttamente, come orga nismo collettivo costituito per lo svolgimento di un'attività economica, dotato di una propria soggettività
— anche quando difetta di personalità
giuridica — distinta da quella dei suoi componenti, ai quali solo in via
mediata e sussidiaria, nel caso di società di persone, si estende la re
sponsabilità per le obbligazioni assunte nella gestione dell'impresa, che
alla società continuano a fare capo. Né questa costruzione — «consoli
data» sia in giurisprudenza (v., da ultimo, Cass. 16 giugno 2000, n.
8239, id., Mass., 749) sia in dottrina, anche a livello istituzionale (v.,
per tutti, Ferri, Manuale di diritto commerciale, Torino, 1996, 273) —
merita di essere disfatta, «almeno agli effetti di cui all'art. 230 bis
c.c.», per evitare che venga compromesso l'interesse protetto dalla
norma. Questa non è diretta a «coprire» indistintamente tutti i casi di
cooperazione con un familiare, che in passato venivano ricondotti a una
causa affectionis vel benevolentiae, ma delimita la propria sfera di ap
plicabilità alle prestazioni di lavoro (che possono consistere anche nel
l'espletamento di mansioni in ambito solo domestico: cfr. Cass. 19 feb
braio 1997, n. 1525, Foro it., 1997, I, 1077), svolte a vantaggio di un
imprenditore, quale non è il componente di una società, sia pure di per sone.
Quanto poi ai poteri e diritti che l'art. 230 bis c.c. attribuisce al par
tecipante, si è ritenuto nella sentenza in rassegna che «nell'impresa fa
miliare sia da distinguere un aspetto esterno, cui i congiunti dell'im
prenditore non partecipano, ed un aspetto interno, nel quale essi inter
vengono, concorrendo alle decisioni principali sulla vita dell'impresa e
facendo valere i loro diritti patrimoniali» e che ciò «risolve ogni pretesa
Il Foro Italiano — 2001.
Svolgimento del processo. — Dichiarato il 4 gennaio 1988 dal
Tribunale di Patti il fallimento della F.lli Paratore s.n.c. di Pa
ratore Bernardo e Nicolò, con ricorso del 2 luglio 1989, propo sto ai sensi dell'art. 101 1. fall., Michele Paratore —
figlio di
Bernardo e nipote exfratre di Nicolò — chiedeva l'ammissione
al passivo in via privilegiata per la somma di lire 314.139.640,
oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali. A sostegno della pretesa deduceva che dal gennaio 1958 al
dicembre 1986 aveva lavorato alle dipendenze della fallita —
già società di fatto, poi regolarizzata in società in nome colletti
vo — svolgendo per i primi nove anni mansioni di impiegato di
concetto e successivamente direttive; che soltanto dal 1970 al
1984 gli erano state corrisposte delle somme come partecipa zione agli utili dell'impresa; che ben maggiore era l'ammontare
degli emolumenti spettantigli secondo i contratti collettivi del
settore; che pertanto accreditava il reclamato importo, quale dif
ferenza tra il dovuto ed il riscosso.
Nell'opposizione del curatore si faceva luogo alla trattazione
della causa, in esito alla quale, dopo un complesso iter istrutto
rio, il tribunale con sentenza del 18 giugno 1997 rigettava la
domanda sul rilievo che l'attività svolta dal ricorrente non pote va essere qualificata come prestazione di lavoro subordinato,
dovendo invece sussumersi nel paradigma della partecipazione ad impresa familiare.
Avverso tale sentenza il soccombente proponeva appello sulla
base di cinque motivi, cui resisteva la curatela fallimentare.
Quindi, precisate le conclusioni, la causa veniva rimessa al col
legio, che la poneva in decisione all'udienza del 31 gennaio 2000.
Motivi della decisione. — (Omissis). 1.3. - Resta il rilievo
svolto nel secondo motivo dell'impugnazione, con il quale si
deduce l'impossibilità di configurare nella specie un'impresa
familiare, l'attività produttiva essendo stata esercitata dai fra
telli Paratore in forma societaria: di società di fatto fino al di
cembre 1984 e poi in nome collettivo.
La censura involge il problema dei rapporti tra società ed im
presa familiare, che non va confuso con quello attinente alla
natura, individuale o collettiva, dell'impresa stessa. A quest'ul timo riguardo, secondo l'opinione dominante, l'impresa deve
ritenersi individuale, ma solo nel senso che il familiare collabo
ratore rimane estraneo alla sua titolarità, pur partecipando ex
art. 230 bis c.c. alle deliberazioni relative alla gestione straordi
naria. Egli non diventa coimprenditore, tale ruolo restando pro
prio esclusivamente del soggetto che ha l'effettiva gestione del
l'attività economica e che, rispetto ai terzi, si atteggia come uni
co interlocutore, che assume in proprio diritti ed obblighi e ne
risponde personalmente, con il correlativo rischio del fallimen
to.
La questione che qui si pone è un'altra, poiché si tratta di ve
dere se possa ricondursi alla disciplina dell'impresa familiare la
collaborazione prestata in favore di una società — beninteso, di
una società di persone —
composta da familiari, entro il grado di parentela o affinità di cui alla menzionata disposizione.
Mentre nella giurisprudenza non si rinvengono puntuali pre
cedenti, la dottrina prospetta soluzioni diverse. Da una parte si
afferma che l'impresa familiare postula che titolare ne sia una
persona fisica, non potendo darsi rapporto di parentela o affinità
del collaboratore con la società, che, pur costituita tra familiari,
è un soggetto giuridico diverso dai soci. E si aggiunge che i c.d.
diritti amministrativi riconosciuti al familiare dall'art. 230 bis
c.c. sono difficilmente conciliabili con i diritti spettanti ai soci.
Da altri si sostiene autorevolmente che nel quadro di quell'e
sigenza di effettiva tutela del lavoro svolto all'interno degli ag
incompatibilità, poiché i poteri dei familiari non interferiscono sullo
svolgimento del rapporto sociale, restando confinati in questo ambito
interno del rapporto personale con i soci, che si atteggia — per dirla
con un acuto giurista — quasi come un rapporto parasociale familiare».
L'argomentazione non sembra convincente, poiché quei poteri e diritti — consistendo nella partecipazione «agli utili dell'impresa familiare ed
ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell'azienda, anche in
ordine all'avviamento», alle «decisioni concernenti l'impiego degli utili e degli incrementi», a quelle «inerenti alla gestione straordinaria,
agli indirizzi produttivi e alla cessazione dell'impresa», nella «prela zione sull'azienda» — sono destinati a incidere proprio in quell'ambito di rapporti, dei soci tra loro e con la società, che la Corte d'appello di
Messina definisce «esterno», sicché non si vede come possano essere
esercitati, dato che esclusivamente i soci ne sono titolari e il presunto
«rapporto parasociale familiare» non attribuisce al collaboratore alcuna
veste che gliene consenta l'esplicazione, nell'unica sede — quella so
cietaria — in cui è possibile. [E. Bucciante]
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2347 PARTE PRIMA 2348
gregati familiari, che sta a fondamento del nuovo istituto intro
dotto dalla riforma del 1975, ciò che veramente conta è la rela
zione familiare con il titolare o con i titolari dell'impresa, non la
forma — individuale o societaria — di tale titolarità, di modo
che è ammissibile un rapporto di impresa familiare nel quale la
parte imprenditrice non sia una singola persona fisica, ma una
società di persone. All'interno, poi, di questo indirizzo, sul
quale ormai converge la dottrina prevalente, c'è chi ritiene suf
ficiente che il legame di parentela o affinità, nel grado previsto dalla legge, sussista almeno con uno dei soci (come nell'ipotesi di società costituita tra il familiare del collaboratore ed un estra
neo) e chi, invece, reputa indispensabile che esso stringa tutti i
soggetti titolari dell'impresa. Tra le opposte tesi, ad avviso della corte, deve preferirsi
quella maggioritaria, che ammette la fattispecie dell'impresa familiare gestita da una società di persone, mentre è superfluo
prendere partito sull'aspetto del problema da ultimo accennato,
per la semplice ragione che nel caso in esame l'appellante è pa
rente, nel grado voluto dalla legge, di entrambi i soci della so
cietà di fatto costituita dal padre e dallo zio.
Vero è che l'art. 230 bis c.c. esige un rapporto di parentela del collaboratore col titolare dell'impresa e che, da un punto di
vista formale, la società è un soggetto diverso dai soci. Il dato
letterale, però, non va enfatizzato: nel disegno del legislatore del
1975 sembra che esso debba cedere di fronte al profilo sostan
ziale dell'interesse protetto, che riguarda il lavoro familiare nel
l'impresa, indipendentemente dalla struttura prescelta da chi ne
sia a capo. È intuitivo come altrimenti riuscirebbe assai agevole eludere l'applicabilità della norma, frustrandone lo scopo. La
società di persone, d'altra parte, non ha personalità giuridica ed
in essa, pur ammettendosi un'attenuata soggettività, resta pre
gnante il sostrato personale, che solo una considerazione for
malistica del fenomeno può mettere in ombra. Quando poi si
tratti, come nel caso in esame, di una mera società di fatto (la F.lli Paratore essendo stata regolarizzata soltanto sul finire del
1984, in coincidenza — come di seguito si dirà — con l'uscita
dell'appellante dall'impresa), ancora più vistoso è il rilievo
della componente personale, tanto da rendere plausibile che, almeno agli effetti di cui all'art. 230 bis c.c., i soci appaiano
quali titolari dell'impresa, rispetto ai quali possa aversi paren tela del familiare che li coadiuva.
Quanto all'altra obiezione, centrata sull'inconciliabilità dei
diritti riconosciuti dalla legge ai familiari collaboratori con le
regole che governano la gestione delle società, è opinione co
mune che nell'impresa familiare sia da distinguere un aspetto esterno, cui i congiunti dell'imprenditore non partecipano, ed un
aspetto interno, nel quale essi intervengono, concorrendo alle
decisioni principali sulla vita dell'impresa e facendo valere i lo
ro diritti patrimoniali. Il che risolve ogni pretesa incompatibili
tà, poiché i poteri dei familiari non interferiscono sullo svolgi mento del rapporto sociale, restando confinati in questo ambito
interno del rapporto personale con i soci, che si atteggia —
per dirla con un acuto giurista
— quasi come un rapporto paraso
ciale familiare.
È appena il caso di aggiungere che dell'ammissibilità di
un'impresa familiare a gestione collettiva i Paratore mai dubita
rono, in atti formali dichiarando ad un tempo sia la costituzione
della società di fatto tra i più anziani fratelli, che l'esercizio del
l'attività produttiva con la collaborazione del familiare Michele,
espressamente da tutti loro inquadrata nell'istituto di cui all'art.
230 bis c.c. (Omissis)
Il Foro Italiano — 2001.
I
TRIBUNALE DI FOGGIA; ordinanza 19 aprile 2001; Giud. Sansone; Fall. soc. Casillo (Avv. Galgano, Di Biase) c.
Banca Intesa (Avv. Tarzia, Costantino).
TRIBUNALE DI FOGGIA;
Citazione civile — Esposizione dei fatti — Riferimento ad atti allegati o «per relationem» — Incertezza — Nullità —
Esclusione — Fattispecie (Cod. proc. civ., art. 163, 164). Citazione civile — Azione revocatoria fallimentare — Ri
messe di conto corrente — Domanda di inefficacia di tutte
le rimesse — Assoluta incertezza o mancanza del «peti tum» — Nullità — Esclusione (Cod. proc. civ., art. 163, 164;
r.d. 16 marzo 1942 n. 267, disciplina del fallimento, art. 67).
L'atto di citazione non è nullo quando nell'esposizione dei fatti l'attore abbia fatto riferimento ad un arco temporale limitato
(ancorché non breve) e alle risultanze di un documento pro dotto in causa (nella specie, si è ritenuto che la domanda ri
sarcitoria per abusiva concessione di credito proposta dalla
curatela potesse riconnettersi alle risultanze dello stato pas
sivo). (1) L'atto di citazione relativo a revocatoria di rimesse in conto
corrente non è nullo se il petitum è rappresentato dalla ri
chiesta di revoca di tutte le operazioni bancarie inerenti un
certo periodo e se per l'esposizione dei fatti l'attore rinvia
ali 'elenco dei versamenti risultanti dal libro giornale. (2)
II
TRIBUNALE DI FOGGIA; ordinanza 21 settembre 2000; Giud. Cea; Fall. soc. Casillo silos c. Banca Mediterranea, Banca Monte dei Paschi di Siena, Banco di Sardegna.
Citazione civile — Azione risarcitoria — Esposizione dei fat ti — Mancata specificazione della condotta lesiva — As
soluta incertezza — Nullità — Fattispecie (Cod. proc. civ., art. 163, 164).
Citazione civile — Azione revocatoria fallimentare — Do
manda di inefficacia di tutte le operazioni compiute nel
biennio — Assoluta incertezza o mancanza del «petitum» — Nullità (Cod. proc. civ., art. 163, 164; r.d. 16 marzo 1942
n. 267, art. 67).
L'atto di citazione è nullo quando nell'esposizione dei fatti l'attore abbia omesso ogni riferimento alla specificazione della condotta lesiva (nella specie, si è ritenuto che la do
manda risarcitoria per abusiva concessione di credito propo sta dalla curatela fosse affetta da nullità non avendo l'attore
indicato alcun fatto specifico relativo al comportamento te
nuto dalla banca in un certo periodo temporale). (3) L'atto di citazione relativo a revocatoria di rimesse in conto
corrente, di altri atti a titolo oneroso e di ogni tipo di garan zia è nullo per assoluta indeterminatezza delle domande azio nate quando non sia dato comprendere il coordinamento fra le diverse domande introdotte. (4)
(1-4) Le due decisioni rappresentano la punta di emersione di un
complesso conflitto interpretativo sorto innanzi al Tribunale di Foggia in relazione al dissesto delle imprese del «gruppo Casillo» e alle conse
guenti iniziative giudiziarie radicate dalla curatela. Per quanto è possibile comprendere dalla lettura dei provvedimenti,
la curatela ha promosso circa una cinquantina di giudizi nei confronti di istituti di credito e società parabancarie, introducendo domande risar citone ex art. 2043 c.c. per concessione abusiva di credito e domande revocatone ex art. 67, 1° e 2° comma, 1. fall., per la dichiarazione di inefficacia di tutte le operazioni (dalle rimesse in conto corrente, alla costituzione di garanzie, alla stipulazione di singoli contratti di credito) compiute nel biennio anteriore al fallimento.
Diversi magistrati dello stesso ufficio hanno così avuto modo di ci mentarsi con le eccezioni preliminari processuali sollevate in limine li tis dalle difese delle banche, prima fra tutte l'eccezione di nullità del l'atto di citazione, eccezione sollevata sotto diversi profili e ritenuta meritevole di accoglimento da un solo giudice.
La decisione più recente si allinea a Trib. Foggia 9 febbraio 2001, Foro it., 2001, I, 1383, con nota di richiami, nonché alle inedite Trib.
Foggia 30 gennaio 2001, est. Piacentino, Fall. soc. Cementificio di Ro vato c. Banca Intesa; 12 dicembre 2000, est. Petti, Fall. soc. Casillo
grani c. Banca antoniana popolare veneta; 16 maggio 2000, est. Bucca
ro, Fall. soc. Cementificio molini di Rovato sud c. Banca Mediterranea; 3 aprile 2000, est. Di Leo, Fall. soc. Italsemole c. Soc. Sud factoring. La seconda pronuncia trova invece un precedente conforme, con solo riferimento alla domanda di inefficacia degli atti solutori anormali, in Trib. Foggia 7 giugno 2000, Fall. soc. Italsemole c. Banco di Napoli.
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