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sentenza 17 luglio 1984; Giud. Giuliani; Soc. Interbank c. Prefetto di Roma

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sentenza 17 luglio 1984; Giud. Giuliani; Soc. Interbank c. Prefetto di Roma Source: Il Foro Italiano, Vol. 108, No. 3 (MARZO 1985), pp. 915/916-919/920 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23177467 . Accessed: 25/06/2014 09:31 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 185.44.77.128 on Wed, 25 Jun 2014 09:31:54 AM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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sentenza 17 luglio 1984; Giud. Giuliani; Soc. Interbank c. Prefetto di RomaSource: Il Foro Italiano, Vol. 108, No. 3 (MARZO 1985), pp. 915/916-919/920Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23177467 .

Accessed: 25/06/2014 09:31

Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at .http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp

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PARTE PRIMA

le disposizioni di una direttiva CEE, i singoli cittadini dovrebbero

infatti decidere preventivamente se tale direttiva contenga obbli

ghi assoluti o incondizionati e non richieda ulteriori provvedi menti di attuazione, correndo cosi il rischio di violare una legge dello Stato per rispettare le norme di una direttiva contrastante

con la legge statale e poi di fatto rivelatasi non vincolante!

Senza contare che proprio con riferimento alla direttiva sui

licenziamenti collettivi sarebbe fin troppo agevole rilevare la

necessità di provvedimenti d'attuazione da parte dello Stato

italiano e la conseguente mancanza di efficacia diretta nell'ordi

namento interno. L'art. 1 della direttiva in esame riserva infatti

alla scelta degli Stati il sistema di calcolo del numero minimo dei

licenziamenti ai fini della definizione del licenziamento collettivo;

gli art. 2 e 3 prevedono delle comunicazioni all'« autorità pubbli

ca competente » che deve essere evidentemente individuata

dallo Stato e l'art. 4 prevede che gli Stati membri possono

accordare a tale autorità determinate facoltà: è pertanto fin

troppo evidente la necessità di provvedimenti d'attuazione.

E senza contare che nel caso di specie non si potrebbe

comunque applicare la direttiva perché sono stati licenziati sol

tanto tre dipendenti e non sussisterebbero pertanto gli estremi

richiesti dall'art. 1 per potere qualificare il licenziamento come

collettivo ai fini dell'applicazione della direttiva.

Ritiene pertanto il pretore che la società O.S.A.T. non fosse

tenuta a rispettare la procedura stabilita dalla direttiva CEE

75/129 e che il licenziamento del ricorrente sotto questo profilo

sia pienamente legittimo. (Omissis)

PRETURA DI ROMA; sentenza 17 luglio 1984; Giud. Giu

liani; Soc. Interbank c. Prefetto di Roma. PRETURA DI ROMA;

Banca — Uso della denominazione « banca » e simili — Limiti

— Fattispecie (R.d.l. 12 marzo 1936 n. 375, disposizioni per la

difesa del risparmio e per la disciplina della funzione creditizia,

art. 2, 96; 1. 7 marzo 1938 n. 141, conversione ili legge, con

modificazioni del r.d.l. 12 marzo 1936 n. 375, art. unico).

Per la sussistenza dell'illecito previsto dagli art. 2 e 96 della

legge bancaria non è necessario che il soggetto usurpi una

qualsiasi attività bancaria ma è sufficiente che la denominazioni

usata possa trarre in inganno il pubblico (nella specie si trattava

dell'uso della denominazione « bank » da parte di una società in

accomandita semplice svolgente attività di commissionaria o di

agenzia per affari di natura finanziaria). (1)

(1) Scarsa è la giurisprudenza relativa all'uso illecito della denomina

zione « banca », « banco » o simili, illecito non più costituente reato

ma colpito da sanzione amministrativa a seguito della 1. 24 dicembre

1975 n. 706. Unico precedente diretto è costituito da Pret. Napoli 2 aprile 1974,

Foro it., Rep. 1974, voce Banca, n. 24, a cui dire l'uso della parola bank nella ragione sociale di una società in nome collettivo non era

da solo sufficiente ad integrare gli estremi dell'illecito in questione, essendo altresì necessario che, per le circostanze concrete della condot ta realizzata, un tale uso fosse effettivamente idoneo a determinare la lesione o messa in pericolo dell'affidamento dei terzi, e tale pericolosità era da escludere trattandosi di una società di persone dato che, consentendo l'art. 30 1. bancaria l'esercizio del credito solo alle società di capitali, nessun operatore economico poteva fondatamente credere che essa fosse una banca. Questo argomento è stato anche usato nel nostro caso dal ricorrente, in riferimento ad una s.a.s., ed è stato

respinto dal giudice sulla base della duplice considerazione che la

legge bancaria non esclude dall'esercizio del credito le società di

persone esistenti prima dell'entrata in vigore di essa e che comunque la

generalità dei cittadini non è tenuta a conoscere i tipi di società cui è

permesso di esercitare il credito. In dottrina concorda Molle, In tema di uso della parola « banca » in denominazioni sociali, in Banca, borsa, ecc., 1974, II, 383, mentre è sulla linea di 'Pret. Napoli Pata

lano, Abuso di denominazioni sociali riservate ad aziende di cre

dito, in Giur. comm., 1974, II, 643. In giurisprudenza v. anche App. Genova 15 gennaio 1958, Foro it.,

1959, I, 135, per un caso in cui la Banca d'Italia aveva concesso l'uso della denominazione « banco » ad una azienda non dedita all'esercizio del credito (sul punto v. le osservazioni di Pallini, Improponibilità dell'azione aquiliana. Carattere interno delle norme della legge banca ria, in Banca, borsa, ecc., 1958, II, 52, spec. 55), e Cass. 15 ottobre 1975, n. 3334, Foro it., Rep. 1975, voce cit-, n. 53, per cui l'art. 2 1.

bancaria, che vieta alle imprese non controllate dallo Stato di assumere come ragione sociale la denominazione di banca, non osta a

Il Foro Italiano — 1985.

Svolgimento del processo. — Con ricorso depositato il 3 agosto 1983, la Interbank s.a.s. di Danilo Coscino & C. proponeva

opposizione avverso l'ordinanza n. 263/83 emessa dal prefetto di

Roma in data 14 giugno 1983, con la quale le era stato ingiunto 11 pagamento della somma di lire 2.000.000 a titolo di sanzione

amministrativa per aver, in violazione dell'art. 2, 3° comma, r.d.l. 12 marzo 1936 n. 375, abusivamente fatto uso di denominazione bancaria.

Deduceva l'opponente in via preliminare: a) di aver nel

passato operato sotto la denominazione sociale « Interbank s.n.c. », società in nome collettivo di Danilo Coscino e Marcello Flo

res, con sede in Napoli, via Flavio Gioia n. 1, successivamente

posta in liquidazione in data 11 settembre 1974; b) che dal 22

luglio 1974, la società aveva continuato il proprio scopo sociale nella « Interbank s.a.s., società in accomandita semplice di Danilo Coscino, con sede in Napoli, via Marino Turchi 34, svolgendo attività di commissionaria o agenzia per affari finanzia ri ed assicurativi e trasferendo poi, in data 25 gennaio 1980, la sede in quella attuale di piazzale Flaminio 20-Roma; c) che

pertanto, trattandosi della stessa « impresa sociale » ovvero della stessa azienda che aveva agito negli anni con gli stessi scopi, con lo stesso amministratore e per il raggiungimento degli stessi fini

sociali, doveva ritenersi applicabile ad essa opponente la sentenza di assoluzione, pronunziata dal Pretore di Napoli sul medesimo

oggetto, passata in giudicato il 3 maggio 1974.

Nel merito, la ricorrente assumeva di non aver mai esercitato attività bancaria, deducendo altresì che la denominazione Inter bank s.a.s. non poteva determinare equivoci o confusione nei terzi in considerazione del divieto per le società personali, impo sto dall'art. 30 della legge bancaria, di svolgere l'attività sopra citata. (Omissis)

Motivi della decisione. — L'opposizione non è fondata. Giova premettere che con sentenza pronunciata dal Pretore di

Napoli in data 2 aprile 1974 a seguito di opposizione a decreto

penale, passata quindi in giudicato il 3 maggio 1974, Marcello Flores, nella qualità di rappresentante della s.n.c. Interbank, venne assolto dalla contravvenzione di cui agli art. 2, 3° comma, e 96 r.d.l. 12 marzo 1936 n. 375, convertito nella 1. 7 marzo 1938 n. 141 (c.d. legge bancaria), ovvero dall'imputazione di aver consentito l'uso dell'espressione « bank » senza autorizzazione

amministrativa, essendo stato riconosciuto da detto giudice che non costituisse reato il fatto di impiegare una denominazione bancaria senza tuttavia esercitare la corrispondente attività e senza comunque determinare equivoci nei terzi.

Non appare quindi dubitabile che il richiamo da parte dell'op

ponente alla succitata sentenza di assoluzione, preliminarmente contenuto nei motivi di gravame, si risolva in una eccezione di

giudicato, lamentando esattamente l'opponente stessa che le sia

stato nuovamente contestato il medesimo illecito (frattanto depe nalizzato a seguito delle modifiche intervenute con gli art. 1 e 2

1. n. 706/75) per il quale è già stata pronunciata sentenza di assoluzione passata in giudicato.

Ritiene il pretore che l'eccezione in parola debba essere esami

nata sulla base del disposto dell'art. 90 c.p.p.: ciò sul rilievo, fatto

proprio in dottrina, che con l'entrata in vigore della 1. 24

novembre 1981 n. 689, come si evince altresì dai lavori prepara

tori, si sarebbe inteso confermare la sostanziale unitarietà tra

sanzione penale e sanzione amministrativa, estendendo all'intero

genus sanzionatorio (al di là della sottodistinzione tra pene amministrative e pene criminali) il principio del ne bis in idem.

Si ritiene cioè, argomentando in specie dal disposto dell'art. 9

1. n. 689/81, che il legislatore abbia accolto il principio secondo

cui, quando non si discostano nel contenuto, le sanzioni in senso

stretto (ovvero le misure repressive aventi carattere primariamente

che il nome « banca » possa essere adottato per indicare istituti di credito stranieri non soggetti a quel controllo.

Per ciò che attiene alle questioni di carattere processuale affrontate dalla sentenza in epigrafe, alle indicazioni ivi contenute adde da

ultimo, sul punto che la sentenza irrevocabile di assoluzione non conferisce all'imputato un diritto soggettivo alla reiterazione della stessa condotta in quanto la forza preclusiva del principio del ne bis in idem sancito dall'art. 90 c.p.p. non opera nel caso in cui condotte

successive, pur astrattamente uguali, non sono tuttavia identiche quanto alle condizioni in cui sono state commesse, Cass. 16 dicembre 1081, Sannino, id., Rep. 1983, voce Cosa giudicata penale, n. 5; 8 giugno 1982, Bolognini, ibid., n. 6, e, sul punto che l'autorità del giudicato penale nel giudizio civile o amministrativo riguarda esclusivamente la ricostruzione dei fatti materiali, Cass. 21 dicembre 1983, n. 7544, id., Rep. 1983, voce Giudizio (rapporto), n. 32.

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

punitivo) rispondono in sostanza alla medesima matrice funziona

le, non esistendo nell'ordinamento due diversi tipi di illecito, bensì uno unico, variamente rilevante a seconda dalla gravità e

degli interessi coinvolti: sembra quindi inevitabile dover consta tare che non è più possibile parlare di diversità delle due sanzioni per diversità del bene giuridico protetto e che viene

cosi meno il postulato stesso sul quale si basava la possibilità di

comminare per un stesso fatto una sanzione penale come anche una sanzione amministrativa.

Ciò posto, si osserva che nella specie non sussiste il requisito dell'identità soggettiva ed oggettiva postulato dall'art. 90 c.p.p.

Mentre, infatti, nel procedimento penale conclusosi con la sentenza del Pretore di Napoli passata in giudicato il 3 maggio 1974, era imputato Marcello Flores nella qualità di rappresentante dell'Interbank s.n.c., l'illecito amministrativo per cui è causa è stato ascritto all'Interbank s.a.s. di Danilo Coscino.

Non solamente cioè trattasi di soggetti diversi (persona fisica

nel primo caso, società di persone nel secondo), ma neppure può

sostenersi, come fa l'opponente attuale, che l'Interbank s.a.s. sia

la continuazione di una stessa impresa sociale e di una stessa

azienda, ovvero dell'Interbank s.n.c., atteso che l'Interbank s.a.s.

non è affatto la trasformazione della precedente Interbank s.n.c.,

bensì una società nuova (come risulta dall'atto costitutivo in data

22 luglio 1974) sorta contestualmente allo scioglimento ed alla

messa in liquidazione della società preesistente (si vedano al

riguardo i certificati rilasciati dalla camera di commercio di

Napoli e prodotti dall'opponente sotto i nn. 5 e 6 degli allegati al

proprio fascicolo).

Aggiungasi, infine, che, mentre la rappresentanza dell'Interbank

s.n.c. era attribuita al Flores, la rappresentanza dell'Interbank

s.a.s. è conferita a Danilo Coscino (art. 5 e 6 dell'atto costituti

vo), sicché neppure sotto tale profilo è dato ravvisare l'identità

soggettiva pretesa dall'opponente.

Peraltro, il già citato art. 90 c.p.p. non può trovare applicazio ne facendo altresì' difetto, nella fattispecie, il requisito dell'identi

tà oggettiva cosi come richiesto dalla norma.

Infatti, una sentenza irrevocabile che abbia assolto un imputato ritenendo legittimo o non penalmente rilevante il di lui compor

tamento, non conferisce al predetto un diritto soggettivo alla

reiterazione della stessa condotta, in quanto il giudicato si riferi

sce al concreto fatto storico che è stato oggetto del giudizio e

non preclude l'esercizio dell'azione penale in relazione a condotte

successive che, pur essendo astrattamente uguali, non siano iden

tiche perché commesse in diverse condizioni di tempo e di luogo (Cass. 16 luglio 1980, Bacchelli, Foro it., Rep. 1982, voce Cosa

giudicata penale, n. 11). In particolare, il divieto del ne bis in idem non riguarda i fatti

di reato reiterati dopo la causa interruttiva di un reato permanen te (fatti che, conseguentemente, configurano un nuovo reato), in

relazione al giudicato che abbia deciso del reato permanente fino

alla detta causa interruttiva (nella specie, sentenza di assoluzione:

Cass. 17 novembre 1961, Buglione, id., Rep. 1962, voce Assistenza

familiare, n. 7), posto che il giudicato non legittima una condotta in base ad un giudizio emesso su un fatto temporalmente circoscrit

to, che, nel caso del reato permanente, non può spingersi oltre la

data della sentenza (Cass., sez. un., 13 febbraio 1965, Guarna

schelli, id., Rep. 1965, voce Cosa giudicata penale, n. 17). Nella fattispecie, è agevole rilevare, in proposito, che la

contestazione dell'illecito amministrativo per cui è causa è avve

nuta ad oltre otto anni di distanza dalla sentenza assolutoria più volte richiamata, dopo che l'Interbank s.a.s., già sorta con sede

diversa rispetto a quella dell'Interbank s.n.c., aveva nel frattem

po — e precisamente in data 25 gennaio 1980 — trasferito detta

sede da Napoli a Roma. Né appare possibile sostenere, infine, che il giudicato penale spieghi efficacia vincolante in questa sede

ai sensi dell'art. 28 c.p.p. L'autorità del giudicato penale, infatti in altri giudizi civili

e amministrativi, a norma della disposizione ora citata, riguarda esclusivamente la ricostruzione dei fatti materiali nella loro realtà

fenomenica, ma non anche la risoluzione di questioni che, inne

standosi su quei fatti, hanno rilevanza sul piano della qualifica zione giuridica dei rapporti controversi, il cui esame va compiuto in via autonoma dal giudice civile o amministrativo, ben potendo verificarsi che le medesime questioni giuridiche presenti nella

fattispecie ricevano soluzioni diverse (Cass. 9 novembre 1982, n.

5902, id., Rep. 1982, voce Giudizio (rapporto), n. 57; 1" settem

bre 1982, n. 4746, ibid., n. 32). Tutto ciò premesso, si osserva nel merito che l'art. 96, 1°

comma, ult. parte, della legge bancaria sanziona in via ammini

II Foro Italiano — 1985.

strativa (con le modifiche di cui agli art. 32 e 114 1. 689/81) la

violazione del disposto dell'art. 2 della medesima legge, secondo il quale parole « banca », « banco », « cassa di risparmio », « cre dito », « risparmio » e simili non potranno in alcun caso usarsi nella denominazione di istituti, enti o imprese che non siano

soggetti al controllo della Banca d'Italia o che comunque non ne abbiano avuto l'autorizzazione.

Si è concordi nel ritenere che la norma in esame è rivolta a tutelare l'affidamento dei risparmiatori e degli operatori economici i quali, dall'uso di denominazioni bancarie improprie, potrebbero subire danno, o anche soltanto intralcio nella conduzione degli affari: più in generale, la disposizione contenuta nell'art. 2, 3°

comma, 1. bancaria, rafforzando l'adempimento dell'obbligo di chiedere l'autorizzazione e cosi da assoggettarsi al controllo della Banca d'Italia, tutela in definitiva la fiducia del pubblico, affinché non sia indotto in errore sugli enti autorizzati all'esercizio dell'at

tività bancaria, volendosi cioè evitare che, attraverso denomina

zioni equivoche, i terzi vengano tratti in inganno, ritenendo di

trovarsi in presenza di un'azienza autorizzata alla « raccolta del

risparmio » e « all'esercizio del credito » (art. 1 1. bancaria). Sembra quindi di poter condividere il rilievo avanzato in

dottrina secondo cui l'uso nella propria denominazione delle

espressioni indicate dall'art. 2 1. bancaria, in tanto è rilevante in

quanto sia idoneo ad indurre in errore il pubblico (determinando il convincimento di trovarsi appunto in presenza di un'azienda di

credito), ovvero in quanto abbia la concreta ed effettiva attitudi

ne a produrre il danno o quantomeno la messa in pericolo nei

confronti dell'interesse che la legge intende specificamente tutelare.

Un tale pericolo non sussiste, per converso, quando sia eviden

te ictu oculi che la denominazione è riferita ad un ente ben

lontano dall'esercizio del credito (così, ad es., nel caso di « banca

del sangue », « banca del rene », « banco lotto », e simili), ovvero

ci si trovi in presenza di altri elementi (come la rinomanza o la

lunga tradizione di attività dell'ente) i quali facciano escludere

nella maniera più assoluta che si tratti di azienda dedita ad

attività connessa con la raccolta del risparmio e l'esercizio del

credito, come è accaduto per la vicenda del Banco de Cavi di

Genova (cfr. App. Genova 15 gennaio 1958, id., 1959, I, 135), autorizzato dalla Banca d'Italia a far uso di detta denominazione

in considerazione dell'antichità della ditta e della sua attività di

cambiavalute largamente conosciuta in città, sicché i terzi non

avrebbero mai potuto essere tratti in inganno ben sapendo di

non aver a che fare con una azienda di credito.

Ciò posto, ritiene il giudicante che la condotta dell'opponente

integri gli estremi dell'illecito amministrativo ascrittole, avuto

riguardo esattamente all'idoneità di tale condotta ad indurre in

errore il pubblico circa la natura dell'attività svolta dalla mede

sima opponente. In primo luogo, va disatteso l'assunto secondo il quale la

circostanza stessa di trovarsi in presenza di una società personale (società in accomandita semplice) escluderebbe la possibilità di

determinare equivoci e confusioni nei terzi, posto il divieto,

imposto dalla legge bancaria, per le società personali di svolgere attività bancaria.

Al riguardo, si osserva che la generalità dei cittadini non è

tenuta a sapere che una società, la quale si offre al pubblico per operazioni finanziarie, non sia una banca per il solo fatto che il

tipo di società in questione non sia ammessa all'esercizio del credito.

Inoltre, la legge bancaria non esclude da tale attività le società di persone esistenti prima della sua entrata in vigore, sicché non è da escludere che vi siano ancora società o ditte simili che esercitano il credito.

Circa, poi, il rilievo dell'opponente secondo cui essa non avrebbe mai svoltò attività bancaria — la quale ha per scopo istituzionale la raccolta del denaro dei risparmiatori ed il loro

reinvestimento lucrativo — giova notare che, per la sussistenza

dell'illecito de quo non è necessario che il soggetto usurpi una

qualsiasi attività bancaria (come osservato in dottrina), essendo

sufficiente, secondo quanto precede, che la denominazione usata

passa trarre in errore il pubblico. Non a caso, infatti, l'art. 96 1. bancaria contempla distintamen

te, al 1° comma, il fatto di chi svolga l'attività prevista dall'art. 1

per la raccolta del risparmio tra il pubblico sotto ogni forma senza averne ottenuto l'autorizzazione ed il fatto di chi usi le

parole « banca », « banco », ecc. nella denominazione di enti non

soggetti al controllo della Banca d'Italia o, comunque, non autorizzati.

Nella specie, è agevole rilevare che l'Interbank s.a.s., come risulta dall'atto costitutivo, ha per oggetto « l'attività di commis

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PARTE PRIMA

sionaria o di agenzia per affari di natura finanziaria e ... all'uopo

potrà promuovere o procacciare finanziamenti di qualsiasi natura

ed entità... Inoltre la società potrà finanziare privati, società ed

enti diversi, mediante concessione di prestiti, sovvenzioni, antici

pazioni, sconti, ecc... » (art. 4). Ove quindi si consideri che alla denominazione « Interbank »

non si accompagna alcuna circostanza tale da far escludere con

certezza che trattisi di società avente ad oggetto attività del tutto

corrispondenti a quella creditizia, ma che, anzi, trattasi esatta

mente di società la quale offre i propri servizi al pubblico in

tema di finanziamenti e di concessioni di credito, ovvero in una

delle materie di competenza delle banche, non appare dubitabile

che sussista il pericolo di confusione, tale cioè da indurre in

errore i terzi circa la natura « bancaria » dell'attività svolta dalla

ricorrente.

L'opposizione, pertanto, va respinta, mentre deve essere inte

gralmente confermata l'impugnata ordinanza-ingiunzione. (Omissis)

PRETURA DI TORINO; sentenza 11 luglio 1984; Giud.

Ciocchetti; Albano (Aw. Formontici) c. Soc. Assicurazioni

generali (Aw. Bongioanni).

PRETURA DI TORINO;

Lavoro (rapporto) — Parità di trattamento tra lavoratori di sesso

diverso — Direttiva comunitaria — Efficacia diretta — Li

cenziamento — Principio di parità — Applicabilità (L. 9 di

cembre 1977 n. 903, parità di trattamento tra uomini e donne

in materia di lavoro, art. 4; direttiva 9 febbraio 1976 n. 207 CEE

del consiglio, relativa all'attuazione del principio della parità di

trattamento tra gli uomini e le donne per quanto riguarda l'ac

cesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionale

e le condizioni di lavoro, art. 1, 5).

Il principio della parità di trattamento tra lavoratori di sesso

diverso, per quanto riguarda le condizioni inerenti al licen

ziamento, stabilito da norma — direttamente efficace anche nei

rapporti tra privati — della direttiva CEE del consiglio n.

76/207 (art. 5), si applica, nonostante le disposizioni contrarie

della legge nazionale, anche all'età stabilita per il collocamento

a riposo. (1)

(1) Merita di essere segnalata l'attenzione di alcuni pretori del lavo

ro di Torino (oltre quella in epigrafe, cfr. sent. 29 ottobre 1984, in

questo fascicolo, I, 912, ed ivi riferimenti ulteriori) per il problema, inerente alla efficacia diretta della normativa comunitaria, problema che i giudici non potranno ulteriormente trascurare, specie dopo che

Corte cost. n. 170/84 (Foro it., 1984, I, 2062, con nota di A.

Tizzano, La Corte costituzionale e il diritto comunitario: ventanni

dopo... ) ne ha stabilito il potere-dovere di applicare immediatamente

la normazione (comunitaria) compiuta e direttamente applicabile, nonostante le eventuali statuizioni configgenti della legge nazionale

(anche) successiva (conforme alla sent. 170/84, cfr. Corte cost. 22 feb

braio 1985, n. 47, in questo fascicolo, I, 933, con nota di richiami). In senso conforme alla sentenza in epigrafe, Corte giust. 16 febbraio

1982, causa 19/81 (Foro it., 1983, IV, 8, con nota di richiami) ricono

sce, sia pure implicitamente, l'efficacia diretta « orizzontale » dello stes

so art. 5 della direttiva CEE del consiglio n. 76/207 (cfr. M. De Luc\, Discriminazioni fondate sul sesso in materia di lavoro e sistema

sanzionatorio: linee di tendenza e prospettive della giurisprudenza

comunitaria, nota a Corte giust. 10 aprile 1984, cause n. 79/83 e n.

14/83, id., 1985, IV, 59), propone l'ampio significato di cessazione del

rapporto di lavoro per la espressione licenziamento, cui la norma

comunitaria citata riferisce il principio di parità di trattamento tra

lavoratori di sesso diverso, e, inoltre, sottolinea la differenza concet

tuale tra tale nozione e quella, contigua ma diversa, di pensionamento

(cui ritiene applicabile la direttiva CEE del consiglio 19 dicembre 1978

n. 79/7, relativa alla graduale attuazione del principio di parità di

trattamento tra gli uomini e le donne in materia di sicurezza sociale,

per la cui abrogazione, da parte degli Stati membri, è scaduto soltanto

nel dicembre 1984 il termine all'uopo fissato dalla stessa direttiva). In senso contrailo, quanto alla efficacia diretta della direttiva n.

76/207 ed alla prevalenza sul diritto interno, vedi Pret. Genova 4

giugno 1984, id., 1984, II, 523, con osservazioni, implicitamente critiche, di M. De Luca.

In generale, sulla efficacia diretta (anche) orizzontale, cioè sulla

idoneità a creare diritti soggettivi (anche) nei rapporti interprivati, delle direttive comunitarie, vedi De Luca, Discriminazioni, ecc., cit.

Il problema della efficacia diretta della direttiva n. 76/207 non

risulta invece affrontato, perché estraneo al thema decidendum, da

Corte giust. 26 ottobre 1983, causa 163/82 (id., 1984, IV, 119, con

nota di M. De Luca, La parità di trattamento tra lavoratori di sesso

diverso nell'ordinamento italiano: prime riflessioni su una sentenza

Il Foro Italiano — 1985.

Svolgimento del processo. — Con ricorso depositato in cancel

leria il 20 dicembre 1983, Albano Clorinda, premesso : 1) di

essere nata il 7 aprile 1925 e di essere attualmente alle dipenden ze delle Assicurazioni generali; 2) che con lett. 17 dicembre 1979

(cioè quattro mesi prima di compiere i 55 anni di età) aveva chiesto al datore « di poter rimanere in servizio oltre il limite dei

55 anni », con ciò esercitando l'opzione di cui all'art. 4 1.9

dicembre 1977 n. 903; 3) che le Assic. generali, dopo aver preso atto di ciò (lett. 17 gennaio 1980), con successiva del 1° dicembre

1983 le avevano comunicato che il rapporto doveva intendersi risolto al 30 giugno 1984, per superato limite di età; 4) che

peraltro, avendo esercitato tempestiva opzione, aveva diritto alla conservazione del posto sino al compimento del 60° anno e cioè al 7 aprile 1985; 5) che inoltre, trovandosi nella condizione

ipotizzata al 3° comma dell'art. 6 d.l. 22 dicembre 1981 n. 791

(convert, nella 1. 26 febbraio 1982 n. 54), aveva diritto al mantenimento in servizio sino al 65° anno di età, senza necessità alcuna di comunicazione dell'opzione; 6) che comunque tale opzio ne veniva ora comunicata alla controparte e doveva ritenersi

tempestiva sia rispetto alla data di compimento del 60° anno sia

rispetto a quella di operatività dell'intimato licenziamento; ciò

premesso, conveniva in giudizio, davanti al pretore, sez. lavoro, le Assicurazioni generali. Concludeva come in epigrafe.

La parte evocata in giudizio si costituiva con memoria deposi tata il 9 febbraio 1984 ed osservava: 1) che la lett. 17 dicembre

1979 della ricorrente non poteva essere intesa come opzione ex

art. 4 1. 903/77, giacché avente ad oggetto richiesta di manteni

mento in servizio oltre il 55° anno di età, all'esclusivo fine di « poter raggiungere il minimo pensionistico stabilito dall'I.n.p.s. »;

2) che, conformemente sia al suo tenore sia al disposto di cui

all'art. 11, 1° comma, 1. 15 luglio 1966 n. 604, la lavoratrice diveniva licenziabile ad nutum con il 31 gennaio 1984, data di

completamento dei 15 anni di contribuzione; 3) che l'effetto sub

2) poteva essere paralizzato solo da una valida opzione; 4) che

quella contenuta nel ricorso (datato 19 dicembre 1983) era

tardiva sia in rapporto al disposto dell'art. 4 1. 903/77 (scadenza: 31 ottobre 1983) sia a quello dell'art. 6 d.l. 791/81 (scadenza: 31

luglio 1983); 5) che conseguentemente l'impugnato licenziamento

doveva ritenersi del tutto legittimo, giacché operante per data

successiva a quella di stabilità nel posto di lavoro. Concludeva come in epigrafe. (Omissis)

Motivi della decisione. — 1. - Direttiva CEE n. 76/207 ed ordinamento interno. - Si presenta fondamentale, nell'attuale

giudizio, l'indagine volta a stabilire — nel quadro dell'attività di ricerca del diritto applicabile alla fattispecie se la direttiva del

consiglio della CEE 9 febbraio 1976 n. 76/207 abbia, sul piano interno, diretta efficacia e, conseguentemente, se le eventuali contrarie disposizioni contenute nella legge italiana vadano di

sapplicate o rimosse. La direttiva in questione, che trae fondamento dagli art. 117 e

118 del trattato del 25 marzo 1957 istitutivo della CEE, laddove sanciscono la « parificazione » delle « condizioni di lavoro » della mano d'opera (cfr. l'implicito richiamo contenuto nel preambolo alla medesima), afferma infatti:

Art. 1: « 1. Scopo della presente direttiva è l'attuazione negli Stati membri del principio della parità di trattamento fra uomini e donne per quanto riguarda (...) le condizioni di lavoro... ».

Art. 5: « 1. L'applicazione del principio della parità di tratta mento per quanto riguarda le condizioni di lavoro, comprese le

condizioni inerenti al licenziamento, implica che siano garantite agli uomini e alle donne le medesime condizioni, senza discrimi nazioni fondate sul sesso. 2. A tal fine, gli Stati membri prendo no le misure necessarie affinché: a) siano soppresse le disposizio

« assolutoria » della Corte comunitaria, che ha escluso le inadempien ze, contestate alla repubblica italiana, di obblighi comunitari imposti agli Stati membri dalla menzionata direttiva.

Sull'art. 6 dj. 791/81, cosi come convertito, con modificazioni, in 1. 54/82, che consente ai lavoratori che non abbiano raggiunto l'età contributiva massima di optare, sei mesi prima del raggiungimento dell'età pensionabile, per la prosecuzione dell'attività fino al consegui mento di tale requisito e comunque non oltre il compimento del 65° anno di età, sempre che non richiedano o non abbiano ottenuto la liquidazione di una pensione, cfr., per un quadro dei contrasti manifestatisi tra gli interpreti, la nota di L. Di Lalla, Sull'opzione a continuare l'attività lavorativa dopo il raggiungimento dell'età pensionabile, a Trib. Parma 18 febbraio 1984, Pret. Cosenza 29 novembre 1983, Pret. Parma 5 luglio 1983, Pret. Reggio Emilia 9 febbraio 1983, in questo fascicolo, 1, 874, spec. § li, sulla compatibilità o meno di tale disciplina con quella prevista dall'art. 4 1. n. 903/77, che consente alla lavoratrice di restare in servizio fino al 60° anno di età.

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