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Sentenza 2 gennaio 1961; Pres. ed est. Usai P.; Società Liquigas (Avv. Bagnoli) c. SocietàAssicuratrice italiana (Avv. Dalmartello, Nicolò, Rossi); Casella (Avv. Bagnoli) c. SocietàAssicuratrice italiana; Casella c. Società Riunione adriatica di sicurtà (Avv. Rossi, Tino,Tumedei); Bottari, Cavallera, Cesareo, Reboa (Avv. Grassetti) c. Società Assicuratrice italianaSource: Il Foro Italiano, Vol. 84, No. 2 (1961), pp. 355/356-365/366Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23151927 .
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355 PARTE PRIMA 356
TRIBUNALE DI MILANO.
Sentenza 2 gennaio 1961 ; Pres. ed est. Usai P. ; Società
Liquigas (Avv. Bagnoli) c. Società Assicuratrice ita
liana (Avv. Dalmaktello, Nicolò, Rossi) ; Casella
(Avv. Bagnoli) c. Società Assicuratrice italiana ; Ca
sella c. Società Riunione adriatica di sicurtà (Avv.
Rossi, Tino, Tumedei) ; Bottari, Cavallera, Cesareo, Reboa (Avv. Grassetti) c. Società Assicuratrice ita
liana.
Società —■ Società per azioni — Clausola «li gradi mento •—- Validità —- Discrezionalità del «placet» •—- Riproduzione sul titolo —- Ininfluenza — Quo tazione in borsa -—- Ininfluenza.
Società -—- Società per azioni — Clausola di gradi mento —- Delegabili!à del «placet» da parte del
consiglio di amministrazione.
La clausola dello statuto di una società per azioni, in cui è
previsto che l'efficacia, nei confronti della società, del tras
ferimento delle azioni è subordinata al placet non mo
tivato edjinsindacabile del consiglio di amministrazione, è valida anche se non riprodotta sul titolo ed anche se le
azioni sono quotale in borsa. (1) È delegabile ad un comitato esecutivo o ad alcuni degli ammi
nistratori la facoltà, attribuita al consiglio di ammini
strazione, di esprimere il placet ai trasferimenti delle
azioni sociali. (2)
Il Tribunale, ecc. — (Omissis). Per decidere il merito
della causa occorre interpretare il significato del 3° comma
(1) Nello stesso senso della sentenza riportata, v. Bigiavi, La clausola di gradimento al trapasso di azioni, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1953, 1 e segg.
Sulla illiceità della clausola e comunque sulla sua non oppo nibilità al terzo, v. Messineo, Sui requisiti di validità della clau sola di gradimento («placet ») all'alienazione delle azioni, in Banca, borsa, eco., 1959, X, 483.
Sulla opponibilità ai terzi delle condizioni particolari, cui sia soggetta l'alienazione di azioni, non riportate sui certi ficati azionari, v. Cass. 10 ottobre 1957, n. 3702, Foro it., Rep. 1958, voce Società, n. 388.
Sulla perfezione tra le parti della vendita di azioni indipen dentemente dalla trascrizione sul libro soci, v. Cass. 6 giugno 1957, n. 2084 e 24 novembre 1956, n. 4291, id., 1957, I, 1968 ; App. Roma 25 giugno 1956, id., Rep. 1957, voce cit., n. 405 (in tema di quote) ; Cass. 13 luglio 1957, n. 2848, id., 1957, I, 1953 (in tema di azioni di cooperative), con ampi richiami alla precedente dottrina e giurisprudenza che hanno affrontato i problemi rela tivi alle clausole di gradimento, cui adde : De Majo, Effetti delle limitazioni statutarie alla circolazione delle partecipazioni azionarie, in Banca, borsa, ecc., 1957, II, 544 e V. L. G., in Man. trib., 1957, 763.
Sui vari problemi relativi al diritto di prelazione ed opzione nel trasferimento di azioni e quote, v. la nota redazionale a Cass. 16 ottobre 1959, n. 2881, App. Bari 4 dicembre 1959 e Trib. Genova 15 giugno 1959, in Foro it., 1960, I, 1757. La decisione della Corte d'appello di Bari è stata riformata dalla Cassazione con sentenza 21 dicembre 1960, n. 3292, retro, 19.
Sulla validità della clausola di gradimento negli altri ordi
namenti, V. Goweb, Modem company law, Londra, 1957, pag. 362 ; Pennington, The principles of company law, Londra, 1959, pag. 229 e 487 ; Sereni, Le società per azioni negli Stati Uniti, Milano, 1951, pag. 61 ; Baixantine, On corporations, Chicago, 1946, pag. 778 ; Hodge O' Neal, Restrictions on trans- , fer of stock in closely held corporations, in Harvard law Review, 65 (1952), pag. 773 ; Close corporation, Chicago, 1958, pag. 12 ; Buhgabd, in Reme des sociétés, 1957, 158 ; Timo. A propos du
transfert des actions nominatives, in D. schw. A G., 30, pag. 183 ; Lanz, Voraussetzungen der Eintragung des Erwerbers vinkulierter Namenaktien ins Aktienbuch, id., pag. 233 e segg. ; Gilson de
Rouvreux, De la clause des statuts d'une société anonyme, su bordonnant le transfert, ecc., in Revue prat. des sociétés civ. et comm., 55 (1956), 55 ; TTlmer, Le azioni nominative vincolate, in Riv. società, 1958, 416.
(2) V. in arg. Bigiavi, cit., pag. 46 ; Visentini, voce Azioni di società, in Enciclopedia del diritto, Milano, 1959, IY, pag. 998, nota 56,
dell'art. 2355 cod. civ., il quale stabilisce che nelle società
per azioni : « L'atto costitutivo può sottoporre a particolari condizioni l'alienazione delle azioni nominative ». In parti colare bisogna stabilire se tra le « particolari condizioni »
menzionate dal detto articolo possa farsi rientrare il ■placet o gradimento delle società al trasferimento delle azioni.
Gli attori, che in un primo momento lo avevano reci
samente contestato, non sembra che ormai insistano più su
tale questione, ed a ragione. Infatti nella Relazione al progetto preliminare al codice
di commercio (pag. 66, § 45 del vol. Ili dei lavori prepara tori del codice civile) la parte che interessa dell'art. 209, identica al vigente 3° comma dell'art. 2355 cod. civ., nel
quale venne poi trasfusa, è stata illustrata con le seguenti parole : « Riconosciuta la facoltà di emettere azioni sia nella
forma nominativa sia in quella al portatore ... si am
mette che l'atto costitutivo . . . possa inoltre, come la
giurisprudenza ha ritenuto ammissibile anche sotto l'im
pero del codice attuale, sottoporre a particolari condizioni
l'alienazione delle azioni nominative ».
Orbene, sotto il codice di commercio del 1882 la giuris
prudenza, cui si riferisce la frase sopra riportata dei lavori
preparatori, aveva affrontato e risolto positivamente solo la questione della validità della clausola di gradimento, affermando che era valido il patto inserito nello s'tatuto di una società anonima per il quale era subordinata la ces sione delle azioni al consenso del consiglio di ammini strazione (Cass. 31 gennaio 1931 e 28 febbraio 1931, Foro
it., 1931, I, 635). Si noti che la seconda di tali sentenze
aveva, tra. l'altro, affermato : « le azioni di una società ano nima sono per loro natura cedibili, ma la cedibilità non è
un elemento essenziale che debba rimanere sempre immu
tato e non si possa sottoporre a limiti o condizioni, senza
alterare la natura della società ».
Deve quindi ritenersi che il 3° comma dell'art. 2355
costituisca la codificazione di un orientamento giurispru denziale formatosi sotto il codice di commercio del 1882
proprio in relazione alle clausole di gradimento. Ma la validità delle clausole di gradimento nel diritto
vigente è dimostrata anche da tre disposizioni di legge che tale clausola prescrivono espressamente per particolari tipi di società per azioni.
L'art. 2345, 2° comma, cod. civ. stabilisce : « Le azioni alle quali è connesso l'obbligo delle prestazioni anzidette devono essere nominative e non sono trasferibili senza il consenso degli amministratori ».
L'art. 2523 per le società cooperative dispone : « Le
quote e le azioni non possono essere cedute con effetto verso la società, se la cessione non è autorizzata dagli am ministratori ».
L'art. 3, ultimo comma, legge 23 novembre 1939 n.
1966, contenente la disciplina delle società fiduciarie o di
revisione, stabilisce : « Le azioni in ogni caso devono essere nominative e non possono essere cedute se non col consenso del consiglio di amministrazione ».
Infatti, se la clausola di gradimento contrastasse, come
gli attori hanno sostenuto, coi principi generali che regolano la società per azioni, la legge non avrebbe potuto imporre tale clausola. La particolarità dei casi contemplati dalle norme riportate può giustificare l'obbligatorietà del gra dimento in un sistema che ammette la validità della rela tiva clausola ; ma in un sistema che contrastasse con l'ammissibilità di tale clausola neppure detta particolarità dei casi potrebbe consentire la violazione dei principi sui
quali tale sistema si fonda, poiché tratterebbesi di principi generali relativi alle società per azioni, e applicabili quindi a tutte le società per azioni, anche alle specie più parti colari delle stesse.
Inoltre non è esatto che il 3° comma dell'art. 2355 sia norma eccezionale di stretta interpretazione. Essa infatti
pone il principio che è possibile sottoporre l'alienazione delle azioni nominative a particolari condizioni. Da tale
principio si ricava il limite dello stesso, perchè la possibi lità di sottoporre a particolari condizioni l'alienazione dell'azioni esclude quella di vietare assolutamente l'alie nazione di esse. Ma da ciò non è possibile desumere che detto
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357 GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE 358
limite costituisca la regola generale, della quale la norma
rappresenta l'eccezione. Se tale concetto la legge avesse
voluto esprimere, avrebbe affermato espressamente la re
gola generale e ad essa fatto seguire l'eccezione. Invece ha
adottato il sistema opposto, e quindi il principio limitato, da essa sancito, deve essere considerato non un'eccezione, ma un principio positivo, clie deve essere contenuto nei
limiti dalla norma stabiliti, ma entro tali limiti applicato in tutta la sua estensione.
Neppure è esatto che il detto 3° comma sia, come so
stengono gli attori, una norma in bianco o di rinvio, il
cui effettivo contenuto deve essere ricavato aliunde, da
altre norme e principi generali, perchè trattasi invece di
una norma che non ha niente di inespresso o di sottinteso
o di particolare. Quindi essa non si sottrae alle comuni regole di interpre
tazione ed in particolare a quella dettata dall'art. 12 disp.
prel., il quale stabilisce che « nell'applicare la legge non si
può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal
significato proprio delle parole secondo la connessione di
esse, e dalla intenzione del legislatore ».
Certo le parole « particolari condizioni » sono generiche ed esprimono un concetto assai ampio. Ma da ciò deve de
dursi che il legislatore ha inteso esprimere appunto tale
concetto assai ampio, come del resto è già stato dimostrato.
Per restringere il significato della norma non basta de
finirla inesattamente norma in bianco o di rinvio, ma oc
corre dimostrare che la formula usata dal legislatore esprime
più di quanto si voleva dire.
Deve dunque concludersi che tra le particolari condi
zioni cui può essere sottoposta l'alienazione delle azioni
nominative, a tenore del 3° comma dell'art. 2355, è compresa anche la clausola di gradimento o placet, e che anzi il le
gislatore, nel dettare tale norma tenne particolarmente
presente proprio detta clausola. Usò la più comprensiva
espressione di « particolari condizioni » perchè volle con
sentire all'autonomia privata la più ampia libertà di sot
toporre la vendita delle azioni, non solo al placet, ma anche
a qualsiasi altra specifica o generica condizione, col solo
limite, implicito nel contenuto della norma, della esclusione
del divieto dell'alienazione delle azioni.
Questa è del resto l'interpretazione che è stata accolta
dalla prevalente dottrina e dalla concorde giurisprudenza. Gli attori sostengono in secondo luogo che alle « par
ticolari condizioni » in generale ed al placet in particolare
può essere sottoposta solo l'alienazione delle azioni nomi
native e non l'annotazione nel libro dei soci del trasferi
mento eseguito con l'alienazione, ossia che il placet deve
essere concepito quale requisito preventivo alla aliena
zione, diretto ad impedire che le azioni passino in mani di
estranei sgraditi alla società.
Tale tesi non può essere accolta, perchè contrasta con
disposizioni di legge che considerano separatamente e
quindi scindono la cessione delle quote e l'alienazione delle
azioni, con effetto verso la società, da quelle che tale ef fetto non producono, ovvero che prescrivono espressamente il consenso dei soci o della società, non per la cessione delle
quote o l'alienazione delle azioni, bensì proprio e solo perchè tale cessione o alienazione abbia effetto verso la società.
Dette norme sono : 1) l'art. 2322, il quale, per le società in accomandita semplice, stabilisce che, « salva diversa
disposizione dell'atto costitutivo, la quota può essere ce
duta, con effetto verso la società, con il consenso dei soci
che rappresentano la maggioranza » ; 2) l'art. 2479, il quale
per le società a responsabilità limitata dispone che « il
trasferimento delle quote ha effetto di fronte alla società
dal momento dell'iscrizione nel libro dei soci » ; 3) il già citato art. 2523, il quale, per le società cooperative, sta
bilisce che « le quote e le azioni non possono essere cedute
con effetto verso la società, se la cessione non è autorizzata
dagli amministratori » e ribadisce nel 2° comma che « l'atto
costitutivo può vietare la cessione delle quote e delle azioni
con effetto verso la società » ; 4) l'art. 2 r. decreto 29 marzo
1942 n. 239 sulla nominatività obbligatoria dei titoli azio
nari, il quale in generale dispone che « di fronte alla so
cietà emittente il trasferimento per girata non produce
effetti che in seguito all'annotazione nel libro dei soci ». Dalle norme citate risulta, come del resto ha sempre
riconosciuto la Suprema corte, sia sotto l'abrogato codice di commercio (sent. 31 gennaio 1931, cit.) sia sotto il codice civile vigente (sent. 8 giugno 1954, n. 1910, Foro it., 1954,
I, 1081), che l'ordinamento giuridico riconosce in via ge nerale la possibilità della cessione delle quote e della alie
nazione delle azioni con effetti limitati al trasferimento
della proprietà delle quote e delle azioni, non accompa
gnato dalla legittimazione dell'esercizio dei diritti ad esse inerenti di fronte alla società. Infatti, se disposizioni di
legge considerano e regolano un determinato fenomeno
giuridico, bisogna dedurne che esso è ammesso da quello ordinamento giuridico.
L'ampio contenuto delle norme riportate (specie se
considerate nel loro complesso) dimostra inoltre che la ces
sione delle quote e l'alienazione delle azioni senza effetti
per la società non è solo tollerata in via eccezionale, come
sostengono gli attori, ma normalmente ammessa quale ap
plicazione di un principio generale. Nè sembra possibile obiettare, come fanno gli attori,
che la legge, pur considerando separatamente gli effetti
prodotti tra le parti dalla cessione delle quote o dalla alie nazione delle azioni da quelli nei confronti della società, unifica poi nella realtà tutti 1 a,li effetti, perchè ai titolari dei primi riconosce il diritto di ottenere anche i secondi, come risulterebbe dalla disposizione dell'art. 2023, 3° com
ma, cod. civile.
Infatti tale disposizione pone un principio normalmente valido per i titoli di credito nominativi, ma non assoluto, e che non sempre è applicabile in materia di quote sociali e
di azioni, come dimostrano gli articoli citati, che regolano in modo specifico la materia delle società e tale diritto non menzionano, ed in particolare gli art. 2322 e 2523 che nei casi da essi regolati lo escludono espressamente.
Se il nostro ordinamento giuridico ammette la cessione delle quote e l'alienazione delle azioni senza effetti verso
la società, ciò significa che esso riconosce che tale negozio con effetti limitati assolve finalità che giudica utili. Quindi il trasferimento delle quote e delle azioni deve essere con
sentito ogni qualvolta non vi sia una ragione per vietarlo, anche se detto trasferimento non possa produrre effetti nei
confronti della società.
Per tale motivo la Suprema corte nella sentenza del 31
gennaio 1931 ha esattamente ritenuto che : « Il patto, che
vieta la cessione senza previa approvazione del consiglio d'amministrazione, non ha e non può avere altro signifi cato che quello di rendere non operativa la cessione nei
confronti della società, fino a quando il consenso non sia
prestato. Nei rapporti tra le parti che l'hanno voluta, la
cessione rimane invece, nonostante l'esistenza del patto,
pienamente valida e produce il trasferimento della proprietà delle azioni ». Detto principio è stato dalla stessa Corte più chiaramente ribadito con la sentenza 8 giugno 1954, n. 1910, nella quale si legge : « Le considerazioni che, precedono inducono a ritenere che l'art. 2355 cod. civ., nello stabilire
che l'atto costitutivo può sottoporre a particolari condizioni
l'alienazione delle azioni nominative, intende riferirsi, come
esplicitamente fa l'art. 2523 dello stesso codice, soltanto
alle alienazioni con effetti verso la società emittente, e
non vuole autorizzare le società azionarie ad impedire, mediante una clausola di gradimento, come quella in esame, inserita nel loro statuto, quella negoziazione indipendente dal transfert ed improduttiva di effetti verso la società, della quale s'è parlato.
«L'art. 2355 eod. civ. mira in altri termini ad autoriz
zare le società azionarie a porre il loro gradimento al tra
passo delle azioni come ulteriore condizione o presupposto
(l'altro presupposto è il trasferimento del titolo) della an
notazione del trasferimento nel registro della società emit
tente, e non come condizione o presupposto della validità
o dell'efficacia del trapasso del titolo nei rapporti tra l'alie
nante e l'acquirente. Del resto, di fronte al sistema della
nostra legge, la quale non pone all'autonomia contrattuale
se non i vincoli reclamati dal pubblico e generale in
teresse, era illogico che la legge riconoscesse alle società
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359 PARTE PRIMA 360
azionarie il potere di interferire in negoziazioni, alle quali esse sono estranee, e dalle quali non possono essere in alcun
modo pregiudicate. Ed in verità non si vede quale interesse
abbiano le predette società a porre, con le clausole del tipo in esame, una condicio iuris come quella ravvisata dalla
corte di merito ».
Deve dunque ritenersi che, anche quando la legge o lo
statuto sottopone alla clausola di gradimento l'alienazione
delle azioni, sia sempre consentita tale alienazione senza
effetti verso la società, e che quindi detta clausola equivalga a quella che subordina al placet il trasferimento delle azioni
con effetto verso la società.
Contro tale principio, che discende da espresse dispo sizioni di legge, è inutile invocare gli inconvenienti cui
darebbe luogo la sua applicazione, perchè l'interprete non può seguire una via diversa da quella scelta dal legis latore, solo perchè essa dà luogo a inconvenienti. Spetta infatti al legislatore, quando è possibile seguire due diverse
strade, decidere quale scegliere, ed il giudice non può certo
sindacare la sua decisione.
Del resto ai pretesi inconvenienti addotti dagli attori
possono essere contrapposti validi motivi per consentire la circolazione delle azioni senza effetti per la società, dato che, nonostante ciò, le parti sono sempre libere di
chiedere il placet prima della alienazione delle azioni, e
quindi tutto si risolve in un'ulteriore facoltà, che nella
pratica s'è dimostrata di grande utilità, accordata all'auto
nomia individuale. Inoltre trattasi di inconvenienti fa
cilmente ovviabili, mediante semplici accorgimenti pratici, e gravissimi solo in astratto, dato che in concreto, nell'ap
plicazione pratica di tanti anni, non risulta essersene veri
ficato mai alcuno di particolare importanza. Invero l'acqui rente delle azioni, che non abbia ottenuto il placet, se in
tende far valere i suoi diritti di socio, non potendo eserci
tarli, si vedrà costretto a rivendere le azioni, nel caso con
trario, qualora, come molti, non si curi di fare valere tali
suoi diritti, nessuna conseguenza pratica produrrà il ri
fiuto del placet, perchè egli non avrebbe esercitato i diritti
stessi se lo avesse ottenuto.
A questo punto è necessario chiarire che il placet o
gradimento della società è, come hanno finito per ricono
scere anche quasi tutti gli stessi attori, un atto negoziale, ossia una dichiarazione di volontà con la quale la società
manifesta il suo consenso alla alienazione delle azioni già intervenuta tra le parti ; tale consenso si inserisce nel con
tratto da queste già concluso con effetti limitati, per consen
tirgli di produrre tutti i suoi effetti. Il placet può essere richiesto anche preventivamente, ma trattasi, come s'è
visto, di una facoltà delle parti, che sono sempre libere di
eseguire il trasferimento delle azioni con effetti limitati
e di domandare il gradimento della società solo successi vamente. Ciò non produce alcuna differenza sostanziale,
perchè in entrambi i casi siamo di fronte ad una fattispecie
negoziale complessa, nella quale è necessario il consenso di una persona (la società) perchè il contratto, che le parti hanno già concluso o devono ancora concludere, possa pro durre i suoi effetti anche nei confronti di detta terza persona.
Come tutti gli atti negoziali, essendo il suo contenuto una dichiarazione di volontà, esso è perfettamente libero,
per definizione, dato che costituisce esplicazione della au
tonomia privata. Ciò risulta dalle disposizioni di legge che contemplano
il placet, dato che esse lo definiscono « consenso dei soci »
(art. 2322 cod. civ.), « consenso degli amministratori » (art.
2345), « consenso del consiglio di amministrazione » (art. 3
legge 23 novembre 1939 n. 1966) e « autorizzazione degli amministratori » (art. 2523 cod. civ.) Eisulta dalla natura
stessa del placet, quale atto di consenso di una parte del
rapporto negoziale complesso sopra specificato. Sembra quindi assurda la pretesa che il placet debba
essere motivato, dato che gli atti negoziali, essendo atti
liberi, la cui determinazione causale rimane sul piano psi
cologico interno, non possono avere necessità di motivazione.
La motivazione presuppone un giudizio emesso da per sona estranea al rapporto e non interessata, mentre il
placet consiste in una dichiarazione di volontà, che si in
gerisce, come si è visto, nella complessa fattispecie nego ziale e che è emessa, non da un terzo ma dalla società, quale
parte di tale rapporto, e quindi nella esplicazione del suo
potere di valutazione, come meglio crede, se sia nel suo
interesse prestare il proprio consenso alla alienazione delle
sue azioni, proprio come è libera di stabilire se sia nel suo
interessec concludere una vendita o qua'siasi altro con
tratto. Certo la società, persona giuridica astratta, non può decidere quale sia il suo interesse e manifestare la sua vo
lontà che a mezzo dei suoi organi, ma ciò non autorizza a
considerare la volontà manifestata dagli organi sociali, in
quanto tali, come volontà di un terzo, distinta da quella della società, e diretta alla tutela di interessi diversi da
quelli sociali.
Gran parte dell'assunto degli attori è basato su questo
equivoco. Infatti essi possono sostenere che il placet non è
nell'interesse della società, solo perchè considerano l'organo sociale, al quale è attribuito il potere di concederlo, come
portatore di un interesse e di una volontà propria. Basta rettificare tale errore, e tenere presente che il placet invece è concesso e negato proprio e solo dalla società, la quale è arbitra di decidere come meglio crede, per rendersi conto che esso può essere stabilito ed usato solo nell'interesse della
società. La società, come tutte le persone fisiche e giuridiche, alle quali è concesso il potere di prendere una decisione,
può sbagliare nel valutare il proprio interesse e decidere in contrasto con esso, ma da ciò non sembra che possa dedursi
che tale potere non sia stato concesso ed esercitato nel suo
interesse e che la società debba, motivando, rendere conto
alle parti se essa ha agito proprio nel suo interesse e che
queste abbiano il diritto di esercitare un simile controllo. Gli organi, per mezzo dei quali la società agisce, possono
non fare gli interessi della società, oltre che per errore nella valutazione di tale interesse, anche perchè si servono della loro veste per fare invece i propri interessi personali ; ciò, sia che esista, sia che non esista, come nel caso di cor
ruzione, conflitto di interessi tra essi e la società.
Trattasi di un problema di carattere generale che la legge ha affrontato e risolto apprestando quei controlli e rimedi che ha ritenuto più idonei per evitare il danno della società, ma essi sono disposti in favore solo della società e spettano unicamente all'assemblea, ai sindaci e ai soci some tali, non certo alle altre parti dei rapporti giuridici nei quali la
società interviene. In relazione ai detti controlli può anche essere necessaria per gli atti compiuti dalla società una
motivazione, ma essa è diretta solo agli organi sociali che devono esercitare il controllo, come tali ; non è mai pre scritta in favore delle altre parti del rapporto giuridico, e
quindi di persone che, come gli attori, abbiano acquistato azioni della società e pretendano il placet, se non siano
neppure soci. Anche la possibilità di infedeltà da parte degli ammi
nistratori della società non sembra che possa indurre a ritenere che il potere di prendere una decisione attribuito alla società non sia nell'interesse della stessa.
Da ciò è agevole dedurre che, se lo statuto non dispone altrimenti, la società non può essere tenuta a specificare i motivi per cui non concede il placet alle parti che vendono e acquistano le sue azioni, e che queste non hanno diritto di sindacare in alcun modo il rifiuto del gradimento mani festato dalla società. Deve infatti ricordarsi che di fronte a chi chiede il placet esiste solo la società, non l'organo della società che deve manifestare la volontà della stessa.
Dunque il placet deve essere sempre, se non è stabilito
diversamente, non motivato ed insindacabile, almeno nel senso ora spiegato, ossia nei rapporti esterni, per le parti che, avendo venduto o acquistato azioni, lo domandano. Se poi nei rapporti interni gli organi sociali, che devono decidere per la società se concedere o no il gradimento, siano tenuti a rendere conto del loro operato all'assemblea è
problema che esorbita dai confini della presente causa, dato che gli attori hanno agito solo nella loro unica veste di
acquirenti delle azioni delle società convenute, e dato che le clausole da essi impugnate, con cui si stabilisce che il
placet non deve essere motivato ed è insindacabile, sono dirette a regolare i rapporti tra la società e le parti del
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361 GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
contratto di compravendita delle sue azioni, e non i rap
porti interni tra gli organi, che devono decidere se concedere
il gradimento, e gli altri organi sociali.
Infondata è anche la tesi che la clausola, con cui si
subordina alla approvazione non motivata e insindacabile
della società l'efficacia di fronte a questa del trasferi
mento delle azioni, equivalga nella sostanza ad un divieto
di vendita delle azioni, perchè la società, volendo, potrebbe
negare sempre il suo placet e quindi ottenere lo stesso
risultato di tale divieto.
Invero la legge non consente solo il divieto assoluto di
vendita delle azioni, ed è ben diversa la clausola che pone tale divieto assoluto da quella che si limita a subordinare
tale vendita al consenso della società, anche se quest'ultima
può, nella sua applicazione pratica, non consentire alcuna
alienazione d'azioni. Infatti a tale risultato può, in tesi, condurre anche una di quelle clausole di gradimento che
sono ritenute lecite dagli stessi attori, come ad esempio
quelle di gradimento che devono essere motivate e sono
sindacabili, non potendosi escludere il caso che tutte le
domande di placet presentate ad una società debbano
essere da questa fondatamente respinte, e che ciò sia fatto
sempre con esatta motivazione. Si tratterà di un caso
assai improbabile, certo alquanto più difficile a verificarsi
che nella ipotesi di placet insindacabile e senza obbligo di motivazione, ma ciò non sembra che possa influire
sulla conclusione. Infatti si tratta di stabilire se una clausola
limitativa che può, sia pure eccezionalmente, produrre
nell'applicazione pratica gli stessi effetti di un divieto,
equivalga ad una clausola che ponga il divieto, e quindi la risposta non può variare secondo la maggiore o minore
eccezionalità con cui, secondo il diverso contenuto della
clausola limitativa, possono verificarsi gli stessi effetti del di
vieto. Del resto tali effetti sarebbero eccezionalissimi anche
per le clausole di gradimento, nelle quali la decisione della
società è insindacabile e non deve essere motivata ; tanto
eccezionali che non risulta che in base ad una di esse si
sia mai verificato il caso che sia stata vietata in senso
assoluto l'alienazione delle azioni ; ciò quantunque le
indagini delle difese degli attori siano state diligentissime e si siano estese anche all'estero.
La tesi in esame è inoltre infondata, perchè, come s'è
visto, la clausola di gradimento non impedisce affatto
l'alienazione delle azioni, ma si limita a subordinare alla
concessione del placet l'efficacia di tale alienazione nei
confronti della società.
Questo argomento è stato posto in evidenza dalla
.Suprema corte quando, nella sentenza 31 gennaio 1931, ha affermato : « Nè il patto può ritenersi contrario al
carattere e alla finalità della società anonima, perchè non
impedisce la cessione e non limita quindi la negoziabilità delle azioni, essendo la cessione, ancorché non autorizzata
dal consiglio d'amministrazione, pienamente valida ed effi
cace nei rapporti, tra azionista e cessionario, e restandone
limitati gli effetti soltanto nei rapporti tra cessionario e
società, nel senso che il cessionario non può acquistare la
qualità di socio fino a quando sussiste il vincolo cui la ces
sione rimane per convenzione subordinata. Per il suo con
tenuto patrimoniale in sostanza l'azione è dunque e rimane
sempre cedibile anche in costanza del patto di cui si con
tende ... ».
Infine non bisogna dimenticare che la legge prescrive essa espressamente in alcune ipotesi (vedi gli art. 2345, 2523 cod. civ. e l'art. 5, ult. comma, legge 23 novembre
1939 n. 1966) che le azioni non sono trasferibili senza il
consenso degli amministratori e che è stato dimostrato
che in tali casi, come tutte le volte che non è disposto il
contrario, il placet non deve essere motivato ed è insinda
cabile. Da ciò infatti scaturisce sicura la conclusione che
la clausola di gradimento, in quanto espressamente imposta in alcuni casi della legge, non può essere considerata con
traria ad un divieto posto della legge in modo assoluto,
quale il divieto di proibire l'alienazione delle azioni, nonché
la più ampia conclusione della completa liceità di tale
clausola. Da tutti gli attori si sostiene anche che la clausola di
gradimento sarebbe incompatibile con l'ammissione delle
azioni alla quotazione di borsa, e quindi, per tale incom
patibilità, nulla, ovvero temporaneamente inefficace, perchè la richiesta di ammissione delle azioni alla quotazione di
borsa equivarrebbe alla dichiarazione dell'organo sociale
che esso intende esercitare il placet in senso positivo, con
cedendolo indiscriminatamente a tutti per tutto il tempo nel quale le azioni saranno quotate in borsa.
Anzitutto non sembra che il consiglio d'amministra
zione, cui spetta il potere di chiedere l'ammissione delle
azioni alla quotazione di borsa (art. 12 legge 20 marzo
1913 n. 272), possa concedere, in contrasto con quanto
dispone lo statuto, preventivamente e genericamente a
tutti il placet, ovvero porre nel nulla la relativa clausola
statutaria, dato che in ambedue i casi si avrebbe una modi
ficazione dello statuto sociale.
In secondo luogo solo una incompatibilità assoluta tra
l'ammissione delle azioni alle quotazioni di borsa e la
clausola di gradimento potrebbe giustificare le conclusioni
degli attori ; ma tale incompatibilità non esiste affatto, come è dimostrato dalla circostanza che da lungo tempo sono quotate in borsa azioni di numerose società italiane
ed estere, nei cui statuti esistono clausole di gradimento, e ciò non risulta che abbia mai dato luogo ad inconve
nienti degni di nota. Anzi in tali casi l'acquirente delle
azioni, che si vede rifiutare il placet, ha il vantaggio di
essere sicuro di poter subito rivendere le azioni, e non
sembra che la possibilità di una eventuale perdita, possibile anche se le azioni non sono quotate in borsa, possa costi
tuire l'asserita incompatibilità. Si è già chiarito che il diritto attribuito alla società
con la clausola di gradimento non può essere esercitato
da questa che a mezzo dei suoi organi. La legge non riserva
ed attribuisce in modo generale il potere di concedere o
negare il placet ad uno specifico organo sociale, e quindi la norma statutaria che contiene la clausola di gradimento
può stabilire a quale organo sociale spetti tale potere. Poiché trattasi di un atto di amministrazione, anzi di
ordinaria amministrazione, in mancanza di una norma
statutaria che stabilisca diversamente, detto potere rientre
rebbe nella competenza del consiglio d'amministrazione, il
quale, per il disposto dell'art. 2381 potrebbe delegare tale
sua attribuzione « ad un comitato esecutivo, composto di
alcuni dei suoi membri, e ad uno e più dei suoi membri ».
Quindi sembra perfettamente legittima la clausola di
uno statuto, che espressamente prevede tra gli organi sociali
il comitato esecutivo, la quale attribuisce la competenza a
concedere o negare il placet a tale comitato ; come sembra
ugualmente legittima la clausola statutaria che, nel riser
vare detta attribuzione al consiglio di amministrazione,
aggiunge che esso può esercitarla anche a mezzo del suo
presidente e di uno dei suoi vice-presidenti. Invero non
trattasi di una delle attribuzioni che secondo l'art. 2381
non possono essere delegate, e il potere di delega attri
buito al consiglio d'amministrazione può essere regolato dallo statuto.
Gli attori hanno sostenuto la nullità della clausola
statutaria, che nei casi urgenti consente al comitato esecutivo
dell'Assicuratrice italiana di votare per referendum a
maggioranza, solo per dedurre la nullità della clausola di
gradimento, senza chiedere che sia dichiarata la nullità
della prima clausola. Ed a proporre tale domanda, del resto,
non sarebbero stati legittimati, nè avrebbero avuto inte
resse.
Ma la nullità della prima clausola, quella che generi camente consente nei casi urgenti al comitato esecutivo
di votare per referendum a maggioranza, non può influire
sulla validità della clausola di gradimento, dato che la
prima clausola non si riferisce in modo specifico alla seconda, e che in quest'ultima non è stabilito che il comitato esecu
tivo debba e possa approvare l'alienazione delle azioni
votando per referendum a maggioranza. Quindi, se dovesse
essere dichiarata nulla la prima clausola, che generica mente consente tale sistema di votazione, ne deriverebbe,
quale unica conseguenza sulla seconda, che il comitato
esecutivo non potrebbe votare per referendum a maggio
it Foro Italiano — Volume LXXXIV — Parte I-24.
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363 PARTE PRIMA 364
ranza neanche per decidere se concedere o no il placet, ma la clausola di gradimento rimarrebbe sempre valida.
Dimostrata l'infondatezza delle ragioni di nullità ed invalidità comuni alle clausole di gradimento di ambedue
le Società convenute, occorre esaminare i motivi particolari fatti valere nei soli confronti dell'Assicuratrice italiana.
Si sostiene che la clausola di gradimento esistente nello
statuto di quest'ultima sarebbe nulla, perchè approvata a
maggioranza, mentre sarebbe stato necessario il consenso di tutti i soci, dato che avrebbe limitato i diritti individuali
degli azionisti alla libera trasferibilità delle azioni.
La relativa domanda è inammissibile, perchè gli attori
sono privi di interesse e carenti di legittimazione ad agire e perchè è decorso il termine stabilito dall'art. 2377 cod.
civ. per la sua proposizione. Infatti la delibera approvata a maggioranza non ha
introdotto ex novo la clausola di gradimento, ma si è limi
tata a modificare quella esistente nello statuto sin dalla
costituzione della Società, la quale sinteticamente stabiliva
che per il trapasso delle azioni era sempre necessario il
consenso del consiglio Tale clausola, per quanto s'è chiarito in precedenza
sugli effetti del placet, deve ritenersi equivalente alla
seconda nel suo contenuto sostanziale. Quindi con la
seconda clausola, si apportarono alla prima solo modifiche
di semplice forma per meglio precisare e chiarire il suo
effettivo contenuto. Gli attori sono dunque privi di inte
resse a chiedere la nullità della seconda per il motivo in
esaime, dato che. annullata questa, riprenderebbe vigore
quella originaria. Inoltre bisogna tenere presente che « a norma dell'art.
2377 cod. civ. ... la deliberazione sociale adottata in
violazione di norme di legge o dell'atto costitutivo non è
radicalmente nulla, ma solo impugnabile nel termine di
tre mesi, ivi previsto, da parie delle persone ivi indicate e, cioè, dagli amministratori, dai sindaci e dai soci assenti e
dissenzienti. A tale regola fanno solo eccezione le delibera
zioni nulle per impossibilità ed illiceità dell'oggetto, pre viste dall'art. 2379 cod. civ., assoggettate alla disciplina
degli art. 1421 e 1423 cod. civ. » (Cass. 9 luglio 1958, n. 2466, Foro it., Rep. 1958, voce Società, n. 377).
Ma nella specie è chiaro che non si tratta di nullità
della delibera per impossibilità o illiceità dell'oggetto secondo l'art. 2379, quindi gli attori, non essendo soci, non sono legittimati a impugnare la delibera per il motivo
che ora si esamina, e l'impugnazione sarebbe inammissibile
anche perchè quando fu proposta era da lungo tempo decorso il termine di tre mesi stabilito dall'art. 2377.
Gli attori hanno infine eccepito che la clausola di gradi mento, contenuta nello statuto dell'Assicuratrice italiana, non sarebbe ad essi opponibile, perchè non riprodotta sul
titolo, quantunque si tratti di clausola rientrante tra
quelle che, secondo il disposto dell'art. 2354, n. 5, dovevano
essere indicate sulle azioni, in quanto relativa a diritti e ad
obblighi particolari alle azioni stesse inerenti.
La questione è stata già affrontata e decisa (sent. 10 ottobre 1957, n. 3702, Foro it., Rep. 1957, voce Società, n. 403), con riferimento al patto di prelazione, dalla Supre ma corte, la quale, dopo aver premesso che le azioni, anche ad ammettere che siano riconducibili nella sfera dei titoli di credito veri e propri, si presenterebbero con carattere di limitata autonomia e letteralità, ha così concluso la sua
motivazione : « Le esposte considerazioni importano la
opponibilità di tali condizioni ai terzi acquirenti delle azioni, anche se, come nel caso di specie, sui titoli azionari manchi
la menzione specifica della clausola statutaria contenente
la limitazione alla libera circolabilità dei titoli stessi. Vero
è che qualche autore richiede tale specifica menzione
perchè la clausola limitatrice possa essere opposta all'acqui rente delle azioni, ma, a giudizio di questa Corte, e come ritenuto dalla prevalente dottrina, l'opposta conclusione è sufficientemente giustificata dal principio generale, se
condo il quale una volta adempiute le pubblicità di legge, lo statuto e l'atto costitutivo della società sono opponibili
erga omnes. E di ciò è riprova la considerazione, che, diversamente opinando, bisognerebbe ricavarne che i diritti
degli azionisti, invece che trovare la loro disciplina unitaria
nello statuto sociale, possono restare influenzati da una eventuale diversità di redazione dei titoli azionari ».
Particolarmente decisiva appare l'ultima considera
zione, dato che, anche gli autori, che sostengono che le azioni sono titoli di credito, riconoscono che si tratta di titoli di credito causali, perchè i diritti dell'azionista non si
determinano in base alla lettera del documento, bensì con riferimento al rapporto effettivamente sussistente con le società. Così, se è stato ridotto il valore nominale delle
azioni, il possessore di una azione, nella quale non sia stata annotata tale riduzione, non può pretendere che il valore nominale del titolo sia quello originario.
Ciò anche perchè, per la presunzione legale di cono scenza stabilita dall'art. 2193 cod. civ., gli azionisti non
possono sostenere di ignorare l'atto costitutivo, lo statuto e tutti gli altri atti iscritti nel registro delle imprese.
Gli attori ritentano di creare un rapporto tra tale pre sunzione e il disposto dell'art. 2354, n. 2, cod. civ. (il quale
prescrive che nell'azione sia indicata la data dell'atto
costitutivo e della sua iscrizione, e l'ufficio del registro delle imprese dove la società è iscritta), per trarne la conse
guenza che gli atti iscritti nel registro delle imprese possono essere opposti all'azionista, solo se sono richiamati nel titolo quanto meno per relationem.
Tale conclusione è errata, perchè la presunzione legale di conoscenza stabilita dall'art. 2193 non è subordinala alla sussistenza di alcun'altra condizione, oltre quelle stabilite dallo stesso articolo, ed in particolare non può ritenersi subordinata alla esatta menzione sulle azioni delle indicazioni prescritte dall'art. 2354. n. 2. Nè sembra che
questa norma, dato il suo contenuto, possa considerarsi
particolare rispetto all'art. 2193, e quindi una di quelle particolari disposizioni di legge fatte salve dall'ult. comma di tale articolo, come sostengono le attrici.
Appare del resto evidente che i diritti dell'azionista non possono subire alcuna modificazione per l'errata indi
cazione nelle azioni dell'atto costitutivo della società o
della sua iscrizione nel registro delle imprese, ovvero per la omissione di tali indicazioni, a meno che detti errori od omissioni non importino la nullità delle azioni. Quindi chi acquista l'azione diventa titolare dei diritti incor
porati in tale titolo solo nei limiti in cui i diritti stessi
esistono in base al rappòrto fondamentale.
Infatti l'art. 2354 precisa le indicazioni che le azioni devono contenere, non al fine di rendere inopponibili
all'acquirente quelle che nel titolo non fossero state speci ficate, bensì solo allo scopo di precisare a chi deve emettere le azioni e, cioè, agli amministratori, quali sono le indi cazioni che essi hanno il dovere di fare scrivere sulle azioni.
Ciò è confermato dall'art. 2633 che, sanzionando penal mente nei confronti degli amministratori l'inosservanza di quanto disposto dall'art. 2354, presuppone e ribadisce che tale norma è diretta a imporre un obbligo agli ammini
stratori, la cui violazione comporta la loro responsabilità civile per i danni causati da tale violazione, nonché quella pe nale. Quindi anche ad ammettere che la clausola di gradi mento costituisca un diritto o un obbligo inerente all'azione secondo l'art. 2354, n. 5, la sua mancata indicazione sul l'azione non potrebbe rendere inopponibile tale clausola
all'acquirente dell'azione.
La circostanza, poi, che nelle azioni dell'Assicuratrice italiana sia indicata solo la data dello statuto originario, senza la data della deliberazione che modificò tale statuto: introducendo nello stesso l'attuale clausola di gradimento, è irrilevante ai fini del decidere per i seguenti motivi, tutti già svolti ad altri fini.
Anzitutto, perchè qual iasi omissione o errore nelle indicazioni contenute nelle azioni non può modificare i diritti spettanti all'azionista, che devono determinarsi in base all'effettivo rapporto esistente con le società.
In secondo luogo, perchè la presunzione di conoscenza di cui all'art. 2193 comprende tutti gli atti iscritti nel
registro delle imprese, anche se sono indicati sulle azioni. In terzo luogo, perchè la clausola di gradimento esisteva
anche nello statuto originario e la nuova non apportò
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365 GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE 366
alcuna modificazione sostanziale alla precedente, ma si limitò
a precisarne e a chiarirne il contenuto.
Da quanto s'è detto risulta, sia che le domande proposte da tutti gli attori sono completamente infondate e quindi devono essere tutte respinte, sia clie sono invece fondate
e devono essere accolte le domande proposte in via ricon
venzionale dall'Assicuratrice italiana e dirette tutte ad
ottenere che sia dichiarata la validità della clausola di
gradimento esistente nel suo statuto (art. 6, 2° comma).
(Omissis) Per questi motivi, ecc.
TRIBDNALE DI ORISTANO.
Sentenza 22 luglio 1960 ; Pres. Bald uzzi P., Est. Contu, P. M. Piga (conci, parz. diff.) ; C. (Avv. Barillaro,
Delitala) c. K. (Avv. Riccio).
Separazione «li coiiiujji —■
fidamente» «iella prole
religiosa — Necessità
Colpa «li entrambi — Al — Garanzie «li educazione —- Fattispecie.
Pronunziandosi separazione personale per colpa di entrambi
i coniugi, la prole va affidata a quello dei due che offra le
necessarie garanzie per la educazione religiosa dei figli
(nella specie, è stato preferito il padre, che aveva sempre
professato la religione cattolica apostolica romana, alla
madre che aveva successivamente professato la cattolica, la
serbo-ortodossa, la vetero-cattolica ed ancora la cattolica). (1)
Il Tribunale, ecc. — (Omissis). Circa l'affidamento dei
figli deve osservarsi che ogni decisione al riguardo deve
essere determinata essenzialmente dagli interessi morali e
materiali di costoro, con salvaguardia, però, degli interessi
morali ed affettivi dei genitori. Nella scelta del coniuge edu
catore deve ovviamente darsi la preferenza a quello che dia
maggiori garanzie di indirizzare l'educazione dei figli in
modo da inserirli nella società alla quale appartengono. Orbene, poiché i piccoli germani C. vivono in Italia e sono
cittadini italiani, in quanto di padre italiano, è preferibile
che, nel loro interesse, sia ad essi impartita una educazione
all'italiana.
E poiché il padre è italiano, mentre la madre è un'apolide di origine jugoslava che acquistò successivamente la nazio
nalità italiana a seguito del matrimonio con il C., e la nazio
nalità argentina per libera scelta, é manifesto che le mag
(1) App. Bologna 13 aprile 1950 (Foro it,, 1950, I, 849, con nota di Ascarelli, In tema di affidamento di prole e di libertà di religione) ha negato che, a parità delle altre condizioni, il giu dice debba preferire il coniuge che professi la fede cattolica ed intenda ispirare a questa la propria opera di educatore. La sen tenza è stata commentata anche da Bigi avi, Ateismo e affida mento della prole, in l'io. trim. dir. e proc. civ., 1950, 534 ; da P. Hauti.K. Ancora sui riflessi costituzionali in tema di educazione della prole, in Foro padano, 1950, IV, 107.
Sempre in dottrina : Allorio, Ancora sul problema giuridico dell'educazione religiosa e dell'educazione irreligiosa, in Jus, 1950, 275 ; Bighavi, Un altro e più grave « caso di Ferrara », con postilla di A. Scialoja, in Foro it., 1953, IV, 1 ; Buono, Sull'altro più grave « caso di Ferrara », in Corti Brescia e Venezia, 1953, 637 ; Furno, Ateismo ed uguaglianza, in Riv. trim, e dir. proc. civ., 1952, 132 ; Bigiavi, Ateismo e affidamento della prole, Padova, 1951.
Trib. Venezia 17 agosto 1953 (Foro it., 1953, I, 1524, con nota di Lanero, Il criterio dell'irreligiosità nei giudizi di
separazione personale dei coniugi) ha negato che giustifichi la sot trazione alla madre dell'affidamento dei figli il fatto di profes sare religione diversa dalla cattolica e di essere comunista mili
tante. Per riferimenti, sulle pratiche rituali di una setta religiosa
di cui un coniuge sia divenuto seguace dopo la celebrazione del
matrimonio cattolico, come eccesso che giustifica la separazione per colpa, Trib. Roma 30 marzo 1957, id., 1958, I, 1565, con nota di Rosapepe. La libertà di religione come eausa di separa zione per colpa.
giori garanzie circa un'educazione all'italiana h offre proprio il padre.
Inoltre la K. non offre le necessarie garanzie neppure sotto il profilo dell'educazione religiosa dei figli, dalla
quale non può prescindersi, dato olle la nostra società
vive secondo determinati principi che non sono soltanto
morali, ma anche religiosi, e di una determinata religione
positiva : quella cattolica apostolica romana.
Essa, infatti, ha professato successivamente la religione cattolica, quella serbo-ortodossa, quella vetero-cattolica
ed ancora quella cattolica, dimostrando in tal modo di non
avere radicate convinzioni religiose e di non poterle quindi
insegnare ai figli. Per converso il C. è stato sempre di
religione cattolica, ed offre quindi maggiori garanzie di edu
care i figli secondo gli elevati principi morali della sua re
ligione, che è poi quella della grande maggioranza del nostro
Popolo. Il Tribunale ritiene, pertanto, di affidare i figli al padre,
affinchè li tenga presso di sè e provveda al loro manteni
mento, alla loro educazione ed istruzione.
Deve però riconoscersi alla madre il diritto di vedere i
figli e di trattenersi con loro ed al riguardo è opportuno fissare con la maggiore precisione possibile il regime di tali
visite. (Omissis) Per questi motivi, ecc.
TRIBUNALE DI ROMA.
Sentenza 13 giugno 1960 ; Pres. Grigoli P., Est. Palco, P.
M. Ferraiuolo (conci, diff.) ; Rossellini (Avv. Cava
lieri, Nicolò, Sotis) c. Bergman (Avv. Graziadei).
Matrimonio —- Matrimonio fra cittadino italiano e
svedese -— Annullamento « per impedimentum
lijjuminis » — Legittimazione passiva —• Fatti
specie (Cod. civ., art. 86, 115 ; disp. prel., art. 17).
Il matrimonio celebrato all'estero, ma trascritto in Italia, tra un cittadino italiano e una svedese, legata da pre cedente matrimonio con un terzo, è nullo per impedi mentum ligiminis, sebbene il divorzio della donna dal
precedente marito, la cui domanda di delibazione era
stata respinta dal giudice svedese al tempo della celebra
zione del secondo matrimonio, sia poi stato delibato in
Svezia con altra sentenza successiva alla celebrazione
medesima. (1) Il precedente marito non è litisconsorte necessario passivo nel
giudizio di annullamento del successivo matrimonio per
impedimentum ligaminis. (2)
Il Tribunale, ecc. — La presente causa viene nuova
mente proposta dal Rossellini per sentir dichiarare la nul
lità del matrimonio contratto da esso attore con la Bergman il 24 maggio 1950 nella Repubblica del Messico dinanzi al
l'Ufficiale dello stato civile di Ciudad Juarez, matrimonio
trascritto in Italia nei registri dello stato civile del Comune
di Roma (atti di matrimonio anno 1950, serie C4, n. 1
parte 2a). I punti sui quali l'attore fonda la sua nuova domanda
possono così riassumersi :
1) La Bergman, al momento della celebrazione del
matrimonio con il Rossellini, era ancora legata dal prece dente vincolo matrimoniale contratto in Svezia il 10 luglio 1937 con Peter Lindstrom ;
2) Il successivo scioglimento del matrimonio pro nunciato dalla Prima corte messicana, con decreto di di
ti) Per i precedenti, vedi App.-Roma 2 luglio 1959, relativa
alla nullità del matrimonio tra le stesse parti e pubblicata con
ampi richiami in Foro it1959, I, 1176 e connota critica dello
Sperduti, Riflessi nell'ordinamento italiano dei conflitti fra leggi e sentenze di più Stati in materia matrimoniale, ibid.. 1364.
(2) Non risultano precedenti.
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