sentenza 21 maggio 1983; Giud. Guariniello; imp. KellerSource: Il Foro Italiano, Vol. 107, No. 12 (DICEMBRE 1984), pp. 599/600-609/610Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23178376 .
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PARTE SECONDA
altri ». È sufficientemente chiaro che per aversi associazione di
tipo mafioso è necessario che i partecipanti si avvalgano della
forza d'intimidazione che scaturisce dal vincolo associativo, ido
nea a determinare una condizione di assoggettamento e di omertà
in altri settori del tessuto sociale e che si risolve a vantaggio
degli associati i quali possono per ciò solo operare illecitamente
perché si ritengono, bene a ragione, sufficientemente coperti
contro il rischio di essere individuati e perseguiti. È chiaro che il legislatore ha voluto colpire il modo di agire
tipico del mafioso, in tutte le sue implicazioni, e specialmente
quello rivolto, attraverso l'intimidazione, a controllare le zone, le
attività economiche e produttive, l'accaparramento in genere della
ricchezza o di altre utilità. Ed è appunto la consapevolezza di
realizzare tali finalità attraverso l'uso della forza intimidatrice
nascente dal vincolo associativo che qualifica l'intento degli
associati sia che facciano parte di vaste organizzazioni per
l'attuazione di un programma delinquenziale di ampio respiro, sia
che facciano parte di organizzazioni criminali di proporzioni più limitate. Infatti nell'un caso e nell'altro, unico ed immanente è
l'intento che governa il sistema associativo perché identico è il
presupposto e cioè quello di usare della forza di intimidazione
per trarre profitti o vantaggi.
Ora, in riferimento ai fatti di che trattasi, va osservato che se
è vero che di fronte all'ineluttabile evoluzione della vita econo
mica altri metodi sono stati escogitati dalla mafia per potere
rapidamente realizzare fonti di ricchezza, è altrettanto vero che il
filone dell'agricoltura, specialmente nelle zone di consistente de
pressione economica, non è stato abbandonato anche se è apparso meno appetibile per il limitato tornaconto che in termini econo
mici può offrire.
Infatti, le vicende di cui è processo dimostrano che il fenome
no persiste appunto in quelle zone del sottosviluppo dove per
mangono condizioni di vita arretrate per coltura, per sistemi
produttivi, per innata diffidenza delle popolazioni, per forme
ostinate di opposizione ad ogni aspetto di evoluzione sociale e
dove, per questi fattori, costituisce il mezzo più idoneo, se si
vuole anche primordiale, ma sempre valido per potere trarre
profitti e vantaggi apprezzabili, anche se limitati sul piano eco
nomico, che altrimenti non sarebbe possibile conseguire. Né può ritenersi che, trattandosi di una serie di reati non eclatanti, come
i pascoli abusivi, non avrebbe senso al giorno d'oggi, parlare di
associazione di tipo mafioso costituita per realizzare profitti
insignificanti in quanto non può sfuggire ad un attento esame che
la cosiddetta mafia dei pascoli costituisce uno dei filoni della
vecchia mafia del feudo, che strutturata ora adeguatamente secondo modalità prestabilite consente ancora di trarre dalle zone
di sottosviluppo quella ricchezza rapportata alle condizioni di vita di chi opera ma comunque sufficiente a soddisfare i preminenti interessi economici degli associati a danno dei proprietari coltiva tori o degli affittuari che col quotidiano lavoro sopperiscno alle
esigenze di vita propria e delle loro famiglie. Certamente si tratta di mafia diversa nelle forme e nelle
strutture di quella che gestisce i grandi traffici di sostanze
stupefacenti, organizzata a volte a livello « gangsteristico », o di
quella che s'insinua negli appalti pubblici o che governa altri settori della economia, tuttavia essa non si discosta nella sostanza dai primordiali metodi di controllo, di violenza e di sopraffazione.
Metodi di comportamento che inducono a ritenere come la
mafia dei pascoli costituisce una particolare organizzazione crimi
nale che governa a suo piacimento le campagne, che sfrutta con
la sopraffazione e con l'intimidazione qualsiasi occasione possa
prestarsi ad assecondare lo scopo di alimentare gli animali con
l'altrui sacrificio patrimoniale il cui anelito di reazione rimane
soffocato dall'intima convinzione delle vittime secondo cui è
meglio subire l'imposizione e i danni che gli animali arrecano ai
fondi ed alle colture anziché reagire nelle forme legali. Ora, nel caso di specie, non può dubitarsi che ricorrono i
requisiti per poter configurare il reato contestato. (Omissis)
PRETURA DI TORINO; sentenza 21 maggio 1983; Giud. Gua
riniello; imp. Keller.
PRETURA DI TORINO;
Spettacoli e trattenimenti pubblici (vigilanza e contravvenzioni) — Esercizio di sala cinematografica in assenza delle prescritte licenze di esercizio e di agibilità — Responsabilità del gestore — Reati configurabili (Cod. pen., art. 650, 666, 681).
Incolumità pubblica (reati e sanzioni amministrative contro la) —
Omissione colposa di cautele o difese contro disastri o infortu
ni sul lavoro — Sala cinematografica — Misure antincendio —
Omissione — Reato — Sussistenza (Cod. pen. art. 451).
Non va ritenuto responsabile dei reati di spettacolo o tratteni
mento pubblico senza licenza e di apertura abusiva di luoghi di pubblico spettacolo o trattenimento, previsti agli art. 666 e
681 c.p., per difetto dell'elemento soggettivo, il gestore di una
sala cinematografica che, erroneamente indotto al suo compor tamento da una prassi amministrativa particolarmente tolleran
te, abbia tenuto aperto il suo locale in assenza delle prescritte licenze di esercizio e di agibilità; mentre a carico dello stesso
soggetto va affermata la responsabilità per i suddetti reati e, in
aggiunta, per quello di inosservanza di provvedimenti dell'auto
rità, previsto all'art. 650 c.p., per aver mantenuto aperto il
locale successivamente ad una diffida dell'autorità amministrati
va con la quale si intimava la chiusura dell'esercizio in assenza
delle prescritte licenze. (1) Va giudicato responsabile del delitto di omissione colposa di
cautele o difese contro disastri o infortuni sul lavoro il gestore di una sala cinematografica che tenga aperto il locale avendo
omesso di adottare molteplici ed indispensabili mezzi preventivi ex post, destinati cioè ad operare anche o solo dopo l'eventuale
verificarsi di un incendio, disastro o infortunio. (2)
(1-2) La sentenza che, attraverso un attento lavoro di ricognizione della legislazione vigente, individua i diversi profili di responsabilità penale del gestore di una sala cinematografica non in regola con le norme di sicurezza antinfortunistica, è particolarmente meritevole di interesse in quanto tocca un problema — quello, appunto, della sicurezza dei luoghi di pubblico spettacolo — troppo spesso trascurato
e, purtroppo, tornato ancora una volta prepotentemente alla ribalta
dopo il tragico rogo del cinema « Statuto » di Torino, dove il 13 febbraio 1983 hanno perso la vita 64 persone.
Dopo aver dichiarato ammissibile, in via di ipotesi, anche una
responsabilità ai sensi di alcune norme incriminatrici contenute nella
legislazione penale speciale in materia antinfortunistica [cfr. gli adde biti di cui ai capi A e D dell'imputazione, della quale, per completez za, riportiamo il testo: imputato dei seguenti reati, commessi sino al 18 febbraio 1983 quale responsabile di un locale aperto al pubblico sito in viale Madonna di Campagna 1 e denominato «Keller Studio»:
A) art. 36-37 d.p.r. 27 aprile 1955 n. 547, in relazione agli art. 4 1. 26
luglio 1965 n. 966 e 15 d.p.r. 29 luglio 1982 n. 577 e al n. 83 d.m. 16 febbraio 1982, per aver gestito detto locale, compreso nell'elenco dei
depositi e industrie pericolose soggetti alle visite ed ai controlli di
previsione incendi, senza aver ottenuto il rilascio del certificato di
prevenzione incendi; B) art. 666 c.p., per avere, senza le licenze
dell'autorità, dato rappresentazioni cinematografiche nel detto locale; C) art. 681 c.p., per aver tenuto aperto detto locale di pubblico spettacolo, senza aver osservato le prescrizioni dell'autorità a tutela della pubblica incolumità (uscita di sicurezza apribile in tutta la sua
ampiezza a semplice spinta dall'interno verso l'esterno; costante aper tura durante lo spettacolo del portone su cui sfocia l'uscita di
emergenza; illuminazione del cortile con luce normale e di emergenza; segnalazione delle uscite di sicurezza con appositi cartelli luminosi
collegati anche con l'impianto di emergenza; verifica della perfetta funzionalità dell'impianto elettrico; eliminazione della comunicazione tra la cabina di proiezione e la sala mediante struttura muraria; illuminazione anche con luce di emergenza della cabina e della relativa scala; illuminazione anche con luce di emergenza delle due scale che portano alla platea; costante apertura durante la proiezione delle porte d'ingresso; vie di fuga sgombre da qualsiasi ostacolo; eliminazione della macchina di proiezione a 16 mm. nella cabina; certificato E.n.p.i. sulla funzionalità della cabina); D) art. 33-34 d.p.r. 27 aprile 1955 n. 547, per avere omesso di adottare nel detto locale le misure idonee per prevenire gli incendi e per tutelare l'incolumità dei lavoratori in caso d'incendio; E) art. 451 c.p. per avere omesso di collocare in detto locale apparecchi e mezzi destinati al salvataggio e soccorso contro disastri e infortuni sul lavoro; F) art. 650 c.p., per avere omesso di osservare il provvedimento legalmente dato dal sindaco di Torino il 12 gennaio 1983, con cui era diffidato a cessare ogni attività nel detto locale fino a quando non avesse conseguito le licenze di agibilità e di esercizio] — responsabilità che, peraltro, viene nella specie esclusa per la circostanza che non risulterebbe sufficiente mente provata l'esistenza, alle dipendenze dell'imputato, di imo o più lavoratori subordinati (condizione, quest'ultima, della applicabilità delle norme in questione) — l'attenzione dell'organo giudicante si concentra sulla configurabilità di ipotesi delittuose e contravvenzionali contenute nel codice penale comune.
Con riferimento alla fattispecie prevista all'art. 451 c.p. (omissione colposa di cautele o difese contro disastri o infortuni sul lavoro), viene riproposto quell'orientamento giurisprudenziale e dottrinale che limita il campo di applicazione di tale norma alla inosservanza di quelle cautele destinate ad operare successivamente al verificarsi di un disastro o infortunio. In base a tale interpretazione l'art. 451 si difierenzierebbe anche sul piano oggettivo, e non soltanto su quello soggettivo, dall'ipotesi configurata all'art. 437 (rimozione od omissione dolosa di cautele contro infortuni sul lavoro), in quanto quest'ultima norma farebbe, invece, riferimento alla inosservanza di cautele destina te ad operare preventivamente rispetto ai disastri o infortuni: in
questo senso cfr., in giurisprudenza, Cass. 18 ottobre 1979, Topa, Foro
it., Rep. 1980, voce Incolumità pubblica (reati contro), n. 13, e Cass.
16 dicembre 1977, Mennillo, id., Rep. 1979, voce cit., n. 36, e in
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GIURISPRUDENZA PENALE
1. - (Dall'Edera al Keller: storia di un cinema). — «Un
mozzicone di sigaretta ha devastato un cinema »: con questo
titolo, la Stampa dell'I 1 giugno 1963 dà notizia del «violento
incendio scoppiato nel cinema Edera »: « Sono andate distrutte e
gravemente danneggiate parecchie poltrone e sedie, alcune porte, alcuni addobbi e il telone »; « è rimasta invece completamente indenne la cabina di proiezione; e si è pure salvato l'intero
impianto elettrico ». Su questo sfondo si sviluppa la storia più
Mass. pen., 1979, 564, con nota di Padovani, nonché, in dottrina, Azzalini, Contributo all'interpretazione degli art. 437 e 451 c.p., in
Prevenzione infortuni, 1952, 531; Bellomia, Sull'art. 451 c.p., id., 1956, 385; Tamburini, Sanzioni penali per la violazione di norme
dirette a prevenire infortuni. L'art. 451 c.p. e la prevenzione, id., 1960,
487; Smuraglia, La sicurezza del lavoro e la sua tutela penale, 1974,
172; V. Zagrebelsky, Omissione colposa di cautele o difese contro
disastri o infortuni sul lavoro, voce dell' Enciclopedia del diritto, Milano, 1980, XXX, 1 ss. Secondo un diverso orientamento, invece, gli art. 451 e 437 differirebbero esclusivamente per l'aspetto soggettivo, mentre avrebbero ad oggetto l'inosservanza di cautele di identico contenuto: cfr. Trib. Messina 11 aprile 1974, Foro it., Rep. 1974, voce
cit., n. 14, e, in dottrina, Pettoello Mantovani, La tutela penale della
attività lavorativa, Milano, 1965, 27 ss. Per una critica ad entrambe le
posizioni sopra esposte cfr. Padovani, Diritto penale del lavoro. Profili
generali, Milano, 1982, 160 ss., secondo cui il rapporto tra le
fattispecie in questione non andrebbe ricercato sul piano della identità e neppure su quello della eterogeneità dell'elemento oggettivo, bensì su
quello della specialità, nel senso che mentre la ipotesi dolosa sarebbe
idonea a ricomprendere tanto la inosservanza di cautele « primarie »
(destinate, cioè, ad operare prima del verificarsi di un infortunio o
disastro) quanto quella di cautele « secondarie » (destinate ad impedire che un disastro o infortunio già verificatosi produca ulteriori e più
gravi conseguenze), l'art. 451 farebbe invece riferimento esclusivo alla
inosservanza di cautele del secondo tipo. Per quanto riguarda gli ulteriori profili di responsabilità penale
connessi alla applicazione delle fattispecie contravvenzionali di cui agli art. 666 (spettacoli o trattenimenti pubblici senza licenza) e 681 c.p.
(apertura abusiva di luoghi di pubblico spettacolo o trattenimento),
l'organo giudicante distingue due periodi: il primo anteriore ed il
secondo successivo ad una diffida dell'autorità amministrativa con la
quale venne intimata la chiusura dell'esercizio cinematografico. Mentre
per quest'ultimo periodo la responsabilità ai sensi delle ipotesi con
travvenzionali in questione viene senz'altro affermata, la presenza, anteriormente alla diffida, di una prassi amministrativa estremamente
tollerante (assenza di rapporti all'autorità giudiziaria; sopralluoghi con
preavviso; mancanza di provvedimenti diretti ad ottenere l'ottemperen za delle prescrizioni imposte dalla commissione provinciale di control
lo, ecc.), renderebbe giustificato, sul piano soggettivo, il comportamento
dell'imputato che continuò a tenere aperto il locale senza avere
previamente ottenuto le licenze di esercizio e di agibilità. Le cadenze
argomentative seguite, in proposito, nella sentenza ripropongono un
orientamento giurisprudenziale che tende a dare rilievo alla buona fede
in materia contravvenzionale. Secondo tale orientamento, la responsabi lità andrebbe esclusa quando la buona fede derivi non dalla semplice
ignoranza della legge penale, ma da una circostanza la quale abbia
determinato nell'agente la ragionevole convinzione della liceità del suo
comportamento (una tale circostanza viene ravvisata, ad es., in una
precedente assoluzione, in una autorizzazione amministrativa, in un
comportamento di acquiescenza dell'autorità per lo stesso fatto o per fatti simili, ecc.): cfr., in argomento, Cass. 25 novembre 1981, Ferrari, Foro it., Rep. 1982, voce Reato in genere, n. 48; 8 luglio 1976, De
Crescenzo, id., Rep. 1977, voce Contravvenzione, n. 4; 28 maggio
1969, Cao, id., Rep. 1970, voce cit., n. 5; contra Cass. 26 aprile 1968, Ricciarini, id., 1969, II, 276, con ulteriori richiami. Per la dottrina
cfr., nel senso della rilevanza della buona fede in campo contravven
zionale, Bartulli, Errore incolpevole e buona fede nelle contravven
zioni, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1962, 1147; Colacci, Elemento
psichico e buona fede nelle contravvenzioni, in Arch, pen., 1964, II,
153; Pulitanò, Ignoranza (dir. pen.), voce dell 'Enciclopedia del
diritto, Milano 1960, XX, 32 ss. Contra Pagliaro, Principi di diritto
penale. Parte generale, Milano, 1980, 407. Per una applicazione dell'art. 681 c.p. al gestore di un locale tenuto
aperto senza l'osservanza delle prescrizioni dell'autorità a tutela dell'in
columità pubblica, cfr. Cass. 14 maggio 1973, Palchetti, Foro it., Rep.
1974, voce Spettacoli e trattenimenti pubblici (vigilanza), n. 5. Per
l'affermazione che l'art. 681 intende assicurare non solo l'osservanza
degli adempimenti necessari al rilascio delle licenze, ma anche il
puntuale adempimento di tutte le eventuali prescrizioni particolari che
l'autorità di pubblica sicurezza può dare in materia con riferimento ai
criteri prudenziali e alle altre cautele da adottare, cfr. Cass. 23 marzo
1973, Zompetta, id., Rep. 1973, voce cit., n. 8.
Sull'art. 666 c.p. cfr. Pret. Roma 28 gennaio 1977 e Pret. Bra 1°
dicembre 1976, id., 1978, II, 23, con nota di richiami.
Sulla distinta natura delle licenze di esercizio e di agibilità e sulle
conseguenze della inosservanza di prescrizioni dell'autorità dirette ad
ottenere le modifiche suggerite dal verbale di verifica di agibilità di
una arena cinematografica cfr. Pret. Borgo a Mazzano 30 dicembre
1968, id., Rep. 1970, voce Sicurezza pubblica, n. 51.
Più in generale cfr. pure, in dottrina, Nuvolone, Spettacoli e tratteni
menti pubblici, voce del Novissimo digesto, Torino, 1970, XVII, 1189.
recente del cinema Edera, a lungo gestito da Meliga Stefano. Nel
1979, Gallo Vincenzo richiede l'intestazione della licenza di
esercizio, e il comune di Torino sollecita dalla commissione
provinciale di vigilanza una visita di controllo con una nota del
2 marzo 1979. Prima che una tale visita abbia luogo, però, il
cinema è rilevato da Keller Guglielmo. Di fatto, il Keller apre il
locale nel giugno del 1979: versa la somma di lire 253.500 a
titolo di tassa per la voltura della licenza; ottiene dalla S.i.a.e.
una dichiarazione di inizio di attività.
Il 9 ottobre 1979, la commissione provinciale di vigilanza effettua il sopralluogo di revisione, ed esprime parere favorevole
all'agibilità tecnica dei locali, a condizione che siano eliminate le
prime cinque file di posti in prossimità dello schermo, che il
portone sulla via Stradella sia tenuto aperto durante le proiezioni, che siano aggiunti due punti luce di sicurezza nella scala d'uscita, e che sia esibito il certificato di prevenzione incendi della
centrale termica. Il sindaco di Torino viene incaricato di accerta
re l'esecuzione di quanto prescritto, dandone notizia alla commis
sione. Il verbale relativo alla verifica della C.P.V. è trasmesso al
comune di Torino, e poi notificato al Keller il 29 ottobre 1979.
L'8 novembre 1979, il verbale è trasmesso all'ingegnere capo del
comune, affinché si accerti l'adempimento delle prescrizioni. Ma è
un accertamento che non avverrà né nel 1980 né nel 1981.
Nel frattempo, il 7 maggio 1980, il Keller rivolge al comune
l'istanza diretta ad ottenere l'intestazione della licenza per esegui re spettacoli nel locale, ormai denominato « Keller ». A settembre del 1980, il Keller chiude il locale per ristrutturarlo in vista di
un cambio di categoria, e lo riapre il 27 dicembre 1980.
Circa dieci mesi dopo, il 6 ottobre 1981, il Keller richiede che la sala sia classificata in terza categoria, in relazione ai lavori di rammodernamento eseguiti (quali la tinteggiatura della sala, la sostituzione delle sedie con poltrone, il rifacimento dell'impianto sonoro, il cambiamento della macchina di proiezione).
Finalmente, il 30 marzo 1982, la C.P.V. ritorna al cinema
Keller, e conferma parere favorevole all'agibilità tecnica dei locali. Però, a tredici condizioni. Sulla base di questo parere, il
prefetto di Torino dichiara con decreto l'agibilità dei locali, subordinatamente all'osservanza delle tredici condizioni. E dà
incarico al sindaco di Torino di accertare l'avvenuta ottemperan za alle condizioni cui è stata subordinata la dichiarazione di
agibilità. Il decreto prefettizio, del 6 aprile 1982, è trasmesso al sindaco per l'esecuzione, e notificato al Keller il 20 aprile 1982.
La c.d. commissione comunale di controllo tenta due volte il
sopralluogo. Una prima volta, invia al Keller un preavviso del 7
luglio 1982, ma il giorno fissato (15 luglio 1982) trova il locale chiuso. La seconda volta, il 16 settembre 1982, preavvisa per il 30 settembre 1982, ma il Keller segnala che non ha ancora dato attuazione a tutte le prescrizioni rilasciate dalla C.P.V.: sicché la commissione comunale non esegue il sopralluogo. Non segue alcun provvedimento.
Infine, il 15 novembre 1982, la S.i.a.e. comunica al comune la
revoca della dichiarazione di inizio di attività per difetto di
garanzie idonee ad assicurare il regolare pagamento dei tributi di
competenza dell'erario. Circa due mesi dopo, l'assessore compe tente del comune di Torino — con provvedimento del 12 gennaio 1983 — diffida il Keller dall'effettuare rappresentazioni cinema
tografiche nel locale, fino a quando non saranno state conseguite le licenze di agibilità e di esercizio, con l'avvertenza che saranno adottati i provvedimenti necessari per l'esecuzione d'ufficio ove la
diffida venga disattesa.
L'ordinanza di diffida viene notificata al Keller il 22 gennaio 1983. Senonché, il 5 febbraio 1983, i vigili urbani verificano che
nel locale sono in corso rappresentazioni cinematografiche. E il
Keller dichiara: « sono in attesa della proroga dell'ordinanza del
sindaco ». Il 16 febbraio 1983, l'assessore ordina l'immediata
chiusura della sala cinematografica: il provvedimento è notificato
al Keller il 17 febbraio 1983, e i vigili urbani provvedono ad
apporre i sigilli il giorno successivo (trovando, peraltro, il locale
già chiuso). Si arriva, così, all'epilogo. Il 21 febbraio 1983, il Keller chiede
la rimozione dei sigilli allo scopo di eseguire i lavori necessari
per conseguire la licenza di agibilità. L'istanza è accolta. Infine, il
Nel ritenere applicabile al caso in esame anche l'art. 650 c.p., in
aggiunta alla contravvenzione di cui all'art. 681, l'organo giudicante sembra non tenga conto della specifica clausola di sussidiarietà conte nuta nella norma che sanziona la inosservanza di un provvedimento legalmente dato dalla autorità: per una affermazione esplicita della
sussidiarietà dell'art. 650, cfr., di recente, Cass. 1° ottobre 1981, Ventura Foro it., Rep. 1982, voce Incolumità pubblica (reati conto), n. 31.
Sulla normativa vigente nel campo della prevenzione degli incendi
cfr. Cons. Stato, sez. V, 5 maggio 1984, n. 337 e T.A.R. Piemonte, sez.
I, 26 ottobre 1983, n. 10, id., 1984, III, 415, con nota di richiami.
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PARTE SECONDA
15 marzo 1983, la C.P.V., a seguito di istanza del Keller, torna a
visitare il locale, ed esprime parere favorevole alla realizzazione
della chiusura della sala con la cabina di proiezioni invece che
con una struttura muraria, con una porta resistente al fuoco a
tenuta di fumo di tipo omologato dal ministero dell'interno.
2. - (Locali di pubblico spettacolo e sicurezza antincendi nella
legislazione italiana). — Da una rapida ricostruzione sistematica
della normativa attualmente in vigore per i luoghi di pubblico
spettacolo, si desume che quattro sono i fondamentali obblighi facenti capo al gestore: licenza di esercizio, licenza di agibilità, controllo dei vigili del fuoco, sicurezza sul lavoro.
L'obbligo della licenza di esercizio è previsto dall'art. 68
t.u.l.p.s., mod. dal d.p.r. 24 luglio 1977 n. 616, in forza del quale non si possono dare in luogo pubblico o aperto o esposto al
pubblico rappresentazioni cinematografiche senza licenza del co
mune. Strettamente connesso è l'obbligo della licenza di agibilità: il comune non può concedere la licenza per l'apertura di un
teatro o di un luogo di pubblico spettacolo, prima di aver fatto
verificare da una commissione tecnica la solidità e la sicurezza
dell'edificio e l'esistenza di uscite pienamente adatte a sgombrarlo
prontamente nel caso d'incendio (art. 80 t.uj.p.s., mod. dal d.p.r. n. 616/77).
Si badi, però, che le due licenze — di esercizio e di agibilità — non debbono essere confuse: « la licenza per l'apertura di una
sala cinematografica richiesta dall'art. 80 t.u.l.p.s. » — insegna Cass. 24 ottobre 1960 — « deve tenersi distinta dalla licenza che
l'art. 68 prescrive per le rappresentazioni cinematografiche, pur essendovi nella stessa legge un opportuno coordinamento tra i
due atti ».
Dall'art. 80 t.u.pJ.s., dunque, emerge con chiarezza che in tanto
il comune può rilasciare la licenza di agibilità, in quanto previa mente un'apposita commissione (la commissione provinciale di
vigilanza) verifichi la solidità, sicurezza e igiene dei locali. Un
controllo, questo, che nei capoluoghi di provincia la commissione
deve eseguire direttamente senza possibilità di delega (art. 142, 2°
comma, reg. t.u.l.p.s.); e che si sviluppa alla stregua dei parame tri indicati dal t.u.l.p.s. e relativo regolamento (v., ad es., per le
uscite di sicurezza, art. 145 reg. t.u.l.p.s.), dai regolamenti già
prefettizi e ora comunali di cui all'art. 84 t.u.l.p.s. inerenti al
servizio d'ordine e di sicurezza, e dalla circolare del ministero
dell'interno n. 16 del 15 febbraio 1951 e successive modifiche o
integrazioni. Con un'avvertenza: che i criteri tecnici in materia di
prevenzione incendi dettati da tale circolare hanno ora assunto nel sistema normativo italiano l'efficacia propria della legge, in forza del richiamo operato dall'art. 22, 1° comma, d.p.r. 29 luglio 1982 n. 577 (« fino a quando non entreranno in vigore le norme e specificazioni tecniche di cui all'art. 11, si applicano le norme e i criteri tecnici in materia di prevenzione incendi attualmente in
vigore »). Per quel che, poi, attiene all'obbligo di richiedere il controllo
dei vigili del fuoco (e di richiederlo, si badi, presentando un'adeguata documentazione tecnico-illustrativa, come si desume
dall'art. 15, 2° comma, d.p.r. n. 577/82), si sa che esso concerne
essenzialmente, per un verso, le aziende e lavorazioni indicate nelle tabelle A e B allegate al d.p.r. 26 maggio 1959 n. 689, e, per l'altro, le attività indicate nell'elenco allegato al d.m. 16 febbraio 1982. Nel caso di un cinema, è determinante la voce n. 83 d.m. 16 febbraio 1982: «locali di spettacolo e di trattenimento in genere con capienza superiore a 100 posti ». Pertanto, ove si tratti di un cinema con capienza superiore a 100 posti, due sono le possibilità. In seguito alla visita, i vigili del fuoco accertano l'osservanza delle norme di prevenzione incendi, e allora rilascia no il certificato di prevenzione incendi, volto ad attestare che
l'attività sottoposta a controllo risulta conforme alle disposizioni vigenti in materia e alle prescrizioni dell'autorità competente.
Dopodiché il responsabile dell'attività è tenuto a osservare e a far
osservare le condizioni di esercizio indicate nel certificato.
Qualora i vigili del fuoco accertino invece l'inosservanza delle
norme di prevenzione o l'alterazione delle preesistenti condizioni di sicurezza, non rilasciano naturalmente il certificato di preven zione incendi, e anzi comunicano i propri rilievi all'autorità
comunale e alle altre autorità competenti ai fini dell'adozione dei
necessari provvedimenti. Ma il discorso sugli obblighi non si ferma qui. Una prospettiva
spesso trascurata deriva dalle norme di prevenzione infortuni e di
igiene del lavoro, rispettivamente dettate dai d.p.r. 27 aprile 1955
n.547 e 19 marzo 1956 n. 303, e destinate a trovare applicazione
per tutte le attività alle quali siano addetti lavoratori subordinati.
Sintomatico, per la sicurezza anticendi, l'insegnamento impartito da Cass. 20 novembre 1974, Speciale (Foro it., Rep. 1975 voce
Infortuni sul lavoro, nn. 189, 190): ove, in motivazione, si precisa che « il concetto di azienda è inteso dalla leg
ge in senso lato e comprensivo di ogni attività organizzata con
l'impiego di prestatori d'opera ». E ancor più puntuale in materia
Cass. 7 giugno 1966, Proto {id., Rep. 1968, voce Lavoro, (rappor
to), n. 813): qui infatti si afferma che l'esercizio o gestione di
una sala cinematografica rientra nell'ambito delle attività indu
striali soggette alle norme di igiene del lavoro.
In questa prospettiva, di particolare rilievo appaiono gli art.
33-37 d.p.r. 547/55, attinenti alla difesa contro gli incendi. Si
noti, in proposito, che gli art. 33-35 trovano applicazione con
riguardo a tutte le aziende con lavoratori subordinati, seppure non soggette al controllo dei vigili del fuoco (come conferma
Cass. 22 maggio 1981, Grignoli, id., Rep. 1982, voce Infortuni sul
lavoro, n. 242). Invece, gli art. 36-37 si riferiscono alle sole
aziende soggette al controllo dei vigili del fuoco: ivi comprese
quelle elencate nel d.m. 16 febbraio 1982 (subentrato al d.m. 27
settembre 1965) (secondo quanto insegna il Supremo collegio: v., ad es., sent. 18 novembre 1969, Cecchinelli, id., Rep. 1970, voce
cit., n. 167; 14 maggio 1971, Ciotola, id., Rep. 1972, voce cit., n.
109; 20 novembre 1974, cit.). Gli obblighi sin qui analizzati sono penalmente sanzionati. Gli
obblighi della licenza di esercizio e della licenza di agibilità, dall'art. 666 c.p.; gli obblighi relativi alla sicurezza del lavoro, e,
segnatamente, l'obbligo di ottenere il certificato di prevenzione
incendi, dai d.p.r. 547 e 303. Qualora, poi, si apra o si tenga
aperto un luogo di pubblico spettacolo senza aver osservato le
prescrizioni dell'autorità a tutela della pubblica incolumità, ricor re l'ipotesi prevista dall'art. 681 c.p. Significativa, a quest'ultimo riguardo, Cass. 27 gennaio 1965, Peluso (id., Rep. 1965, voce Sicurezza pubblica, nn. 48, 49). Donde si ricavano due cruciali
principi interpretativi. Il primo è che l'art. 681 c.p. punisce sia il
fatto di aprire o riaprire un locale, sia il fatto di tenerlo aperto: con la conseguenza che incorre nel reato, « non solo chi per la
prima volta apre il locale, ma anche chi da tempo lo gestisce ».
Il secondo principio è che « occorre vi sia stato un ordine
dell'autorità di eseguire determinate opere o d'attenersi a deter
minate prescrizioni, e che tale ordine non sia stato eseguito e
tuttavia sia stato aperto o si sia mantenuto aperto il locale »: « non occorre invece che l'ordine sia di chiusura, né che la
constatazione della non rispondenza del locale alle esigenze della
pubblica incolumità riguardi l'intero locale ». Nella specie affron
tata dalla Cassazione, il gestore di un cinema aveva avuto l'ordine dalla commissione provinciale di vigilanza di non far accedere il pubblico ad un palco di legno e alla relativa scala, « non avendo egli provveduto alla ricostruzione di essi con materiali resistenti al fuoco », e malgrado ciò fece accedere il
pubblico anche al palco. Non mancano ulteriori, possibili, profili di responsabilità pena
le. A cominciare da quello contemplato nell'art. 451 c.p., destina to ad operare a due fondamentali condizioni messe a fuoco dalla
Suprema corte. La prima è che l'omissione o rimozione o inservibilità attenga ad apparecchi o mezzi volti non già a
prevenire un incendio o disastro o infortunio, bensì ad operare successivamente all'eventuale verificarsi di un incendio o disastro o infortunio allo scopo di limitarne i danni. La seconda condi zione è che l'omissione o rimozione o inservibilità comporti un
pericolo per la pubblica incolumità, e, dunque, per un numero indeterminato di persone (una condizione, questa, evidentemente
appropriata nel caso di pubblici spettacoli). È appena il caso di
aggiungere che l'art. 451 c.p. — al pari degli art. 666 e 681 c.p. e a differenza dei d.p.r. 547 e 303 — si applica anche alle attività a cui non siano adibiti lavoratori subordinati.
3. - (La vigilanza sui luoghi di pubblico spettacolo tra legge e
prassi). — Nella prassi, la vigilanza sui luoghi di pubblico
spettacolo non sempre si è sviluppata secondo modalità stretta mente aderenti alla normativa vigente. Preziose sono apparse, in
proposito, le risultanze affiorate durante il dibattimento.
Rileggiamo, anzitutto, le dichiarazioni del viceprefetto di Tori no Di Giovine: « presso la prefettura di Torino prevalse la tesi,
peraltro non contrastata, secondo la quale toccava al prefetto dichiarare l'agibilità dei locali. Questa prassi non è stata seguita ovunque. Quando si usava la formula dell'agibilità condizionata, era inteso che l'autorità comunale dovesse valutare quali provve dimenti adottare in rapporto alla situazione rappresentata nel
provvedimento prefettizio. Vi erano casi in cui l'agibilità veniva senz'altro negata e casi in cui l'agibilità era dichiarata senza condizioni. La formula « agibilità condizionata » veniva adottata
per i locali preesistenti. Nel caso di agibilità condizionata, poi, si
incaricava il sindaco di accertare l'ottemperanza delle condizioni e ciò perché il sindaco era diventato l'organo competente a rilasciare la licenza e a svolgere anche i controlli. Noi inviavamo al comune di Torino il verbale della commissione provinciale di
vigilanza per l'esecuzione, e toccava al sindaco valutare i prowe
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GIURISPRUDENZA PENALE
dimenti da prendere e nel caso non ritenesse di adottare provve dimenti di chiusura, imporre una diffida con un termine. A volte la commissione stabiliva un termine entro il quale le condizioni
dovevano essere rispettate. La fissazione o no del termine era il
frutto di una valutazione di fattibilità. Appena insediatomi nel
l'incarico di vice-prefetto vicario e quindi di presidente delegato della C.P.V., segnalai in alcune riunioni l'esigenza di procedere con maggior rigore e ciò anche alla luce dei richiami specifici ricevuti dalla amministrazione centrale. Capitava che la C.P.V. si
recasse sul posto previo appuntamento col gestore. Uscito il d.p.r. 1977 n. 616, la prassi iniziale fu quella di trasmettere il solo verbale della C.P.V.; con l'arrivo del nuovo prefetto De France
sco, nel 1980, egli diede all'ufficio la direttiva di adottare un
provvedimento formale dichiarativo della agibilità. Questo anche
perché noi avevamo a che fare non solo con comuni organizzati come Torino, ma anche con piccoli comuni della provincia, i
quali erano spesso sprovvisti di strutture di controllo, donde la
opportunità di tenere distinti il momento del riscontro oggettivo delle condizioni di sicurezza dell'esercizio e il momento soggetti vo circa il possesso 'da parte dell'esercente dei requisiti di legge. Essendo la C.P.V. un organo meramente consultivo, la decreta zione non poteva che spettare al prefetto. Per quanto riguarda il
problema dei materiali, la commissione chiedeva specificatamente se i materiali erano stati resi ignifughi: ottenuta la risposta, si
effettuavano o prove empiriche con l'accendino, oppure il riscon
tro avveniva sulla documentazione esibita dal gestore. Per gli arredi non strettamente necessari, oggi si è più rigorosi di quanto non lo si fosse ieri, ritenendosi di dover sacrificare l'estetica e
talvolta anche l'acustica alla esigenza di una maggiore sicurezza ».
A completare il quadro descritto dal Di Giovine (rimasto alla
prefettura di Torino sino al 15 maggio 1982), valgono le dichia
razioni di La Rosa Eugenio, viceprefetto ispettore presso la
prefettura di Torino: « esprimendo parere favorevole alla agibilità dei locali a determinate condizioni, si intendeva porre in risalto
che l'efficacia di tale parere favorevole era sospesa sino a che
dette condizioni non fossero state adempiute e soddisfatte. A
seguito di una delibera del comune di Torino, in tale comune era
stata istituita un'apposita commissione di controllo, la quale aveva il compito di verificare l'adempimento delle condizioni
imposte dalla C.P.V. Con la formula dell'agibilità condizionata, si
intendeva creare una procedura più agile: nel senso che una
volta accertata la osservanza delle condizioni da parte della
commissione comunale non occorreva più che ci fosse un nuovo
parere della C.P.V. Con questo sistema il parere restava sempre
proprio della C.P.V., mentre alla commissione comunale restava il
compito di accertare l'osservanza delle condizioni per conto del
sindaco. La prassi della declaratoria di agibilità con decreto da
parte del prefetto si ispirava alla esigenza di fornire alle ammi
nistrazioni comunali un documento munito di efficacia vincolante
sul piano formale in vista di successivi eventuali provvedimenti di competenza del comune. Questa prassi iniziò su disposizione del vice-prefetto Di Giovine ed ebbe inizio allorché si insediò
come prefetto il De Francesco. Tra il 1979 e il 1982, si
verificarono episodi tipo quello di Todi e di Milano che richiama
rono l'attenzione di tutti e formarono oggetto di espliciti richiami
da parte dell'autorità centrale; e si comprende che in questo
quadro, la valutazione effettuata dalla C.P.V. si è fatta più attenta e rigorosa, non solo nella fase dell'accertamento, ma anche nella fase della prevenzione. Una volta dato il parere da
parte della C.P.V., competeva all'autorità comunale adottare even
tuali provvedimenti. Mi risulta che nei casi di parere condiziona
to l'autorità comunale valutasse prudentemente il modo di opera re, magari assegnando un termine o prorogandolo. Le verifiche
della C.P.V. erano preavvisate con una telefonata fatta in genere un giorno prima. Non ricordo, per quanto riguarda Torino, casi
in cui il prefetto abbia direttamente esercitato o abbia richiesto
all'autorità comunale di esercitare poteri di revoca, sospensione o
annullamento della licenza, ciò almeno prima del febbraio 1983.
In qualche caso la C.P.V. stabiliva un termine entro cui adempie re alle prescrizioni. In altri casi, il termine non era fissato in
quanto si trattava di condizioni la cui osservanza richiedeva
tempi differenziati. Non inviavamo al comune il decreto-parere
per l'esecuzione e spettava al comune determinare quale compor tamento dovesse tenere il gestore anche sotto il profilo dei tempi di attuazione. La fissazione di un termine da parte della C.P.V.
venne in pratica meno con l'avvento del prefetto De Francesco ».
Sin qui la voce della prefettura. Spostiamo ora l'attenzione sul
fronte del comune. Ecco qui di seguito alcuni stralci delle
dichiarazioni rese dall'assessore all'edilizia privata del comune di
Torino Domenico Mercurio: « c'erano casi in cui l'agibilità era
concessa senza condizioni, casi in cui l'agibilità era negata e casi
in cui l'agibilità veniva concessa a condizione che si osservassero
Il Foro Italiano — 1984 — Parte //-41.
certe prescrizioni. Non abbiamo contestato al prefetto la prassi che
demandava a lui la dichiarazione di agibilità. Questa prassi, peral tro, ora è cambiata dopo i fatti dello Statuto. In concreto, il comu
ne, una volta avuta la dichiarazione di agibilità, rilasciava la licen
za di esercizio come comprensiva implicitamente della licenza di a
gibilità. Di fronte alla formula dell'agibilità condizionata, noi non
rilasciavamo la licenza di esercizio. Curavamo il controllo dell'osser
vanza delle condizioni. La formula dell'agibilità condizionata era in
tesa dagli uffici del comune, dalla C.P.V. e dall'interessato nel sen
so che l'esercente poteva tenere aperto il locale, ma doveva attuare
le prescrizioni. Se cosi non fosse stato, la C.P.V. avrebbe negato in
radice l'agibilità, come in certi casi è accaduto. Il termine non era
definito, ma il ricontrollo da parte della commissione comunale
avveniva in termini piuttosto brevi. Nel caso poi non fosse
ancora stata fatta la voltura della licenza, si considerava in vita, in pratica, la vecchia licenza. Per il controllo, nel 1979, fu
formato un gruppo, e poi con una delibera fu costituita una
commissione comunale di controllo. Questa commissione control
lava se fossero adempiute le prescrizioni e nell'affermativa invia va il relativo verbale alla C.P.V. Dopo l'episodio dello Statuto, non ho più visto dichiarazioni di agibilità. Non so come sia nato
il sistema del preannuncio del sopralluogo. È fuor di dubbio che,
dopo i fatti dello Statuto, sia maturata la coscienza sui problemi della sicurezza e che ora il gestore di un cinema sa di ricevere
un trattamento più rigoroso di quello che ricevesse di fatto in
precedenza. In effetti capita che passi un certo tempo tra la
richiesta della voltura e il rilascio della nuova licenza. La nostra
linea è che chiunque apre un nuovo locale, deve avere il
certificato di prevenzione incendi. Mi risulta che quasi nessun cinema attualmente abbia già ottenuto il certificato di prevenzio ne incendi, pur avendolo chiesto ».
Si era riservato, l'assessore Mercurio, di puntualizzare quali e
quanti cinema fossero stati oggetto di diffida o chiusura da parte del comune, in data anteriore al 13 febbraio 1983. Con nota del
2 maggio 1983, l'assessore precisava che, « prima del 13 febbraio
1983, venne disposta la chiusura del cinema Italia sito in via Nizza 138 (diffida in data 19 luglio 1982) ». Ulteriori chiarimenti si traggono dalle dichiarazioni di Aimone Arnaldo, un componen te della commissione comunale di controllo: « il preavviso del
sopralluogo era adottato in quasi tutti i casi. Questo sistema fu
adottato per evitare di fare i sopralluoghi a vuoto. Era abbastan
za difficile valutare un caso di agibilità condizionata, se il
comune dovesse adottare o no dei provvedimenti. Non si fissava un termine anche perché si trattava di un locale senza licenza e
quindi abusivo. C'è sempre stata resistenza da parte nostra a che il comune di Torino svolgesse compiti di controllo ed ora infatti
la commissione comunale di controllo è stata sciolta ».
4. - (Prassi amministrative e responsabilità penali). — Basta un
rapido confronto tra le indicazioni normative riassunte nel secon do paragrafo e le procedure amministrative evocate dal terzo
paragrafo, per intendere quanto difficile, e scabroso, risulti in
materia il rapporto legge-prassi. Decretando l'agibilità — e spesso decretando, anzi, l'agibilità, benché sotto condizione, persino in
casi in cui il locale di pubblico spettacolo presentasse pecche anche numerose e gravi sotto il profilo attinente alla sicurezza (il caso Keller è paradigmatico) — l'autorità prefettizia si attribuiva
comunque compiti propri dell'autorità comunale. Per converso, nei casi di c.d. agibilità condizionata, delegava all'autorità comu nale compiti spettanti alla commissione provinciale di vigilanza quale la verifica della sicurezza nei luoghi di pubblico spettacolo di un capoluogo di provincia, verifica preliminare al rilascio delle licenze di esercizio e agibilità. Con un sorprendente risultato
obiettivo: un locale di pubblico spettacolo poteva per anni
restare aperto, senza che il gestore si fosse previamente munito
delle licenze di esercizio e agibilità e senza che lo stesso gestore avesse previamente provveduto a eliminare le carenze rilevate
dalla C.P.V.
Si aggiunga che il sistema dei sopralluoghi preavvisati finisce
egualmente per indebolire l'opera di prevenzione. Consente maga ri di evitare sopralluoghi resi inutili dall'assenza del gestore o
comunque dalla chiusura del locale (ma non necessariamente, visto che malgrado il preavviso il titolare può non farsi trovare o
il locale restare chiuso: come dimostra proprio il preavviso dato
al Keller per il 15 luglio 1982). Quel che è certo è che, con il
preavviso, l'organo ispettivo rischia di esaminare una situazione
predisposta per l'occasione, e, quindi, di non cogliere le effettive
condizioni di esercizio del locale (si pensi, ad es,. a un profilo
tipo quello che concerne l'apertura delle uscite di sicurezza). Non meno deleteria appare un'ulteriore circostanza, soprattutto
nella misura in cui contribuisce a rendere più sfocata l'immagine
(e l'esigenza) della sicurezza agli occhi dei gestori dei luoghi di
pubblico spettacolo. Già si è visto quali reati possono sussistere a
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PARTE SECONDA
carico del responsabile di un cinema: ad esempio, allorché tale
responsabile non sia provvisto della licenza o non osservi le
prescrizioni della C.P.V. Sono tutti casi nei quali l'immediato
rapporto all'autorità giudiziaria sarebbe stato, non solo doveroso, a norma degli art. 2 c.p.p. e 361 c.p., ma pure determinante al
fine di porre in risalto l'irrinunciabilità e priorità delle licenze di
esercizio e agibilità.
Scaturiscono, dunque, dall'analisi delle prassi amministrative,
profili che dovranno essere approfonditi in sede appropriata; ed anche per questo si è disposta la trasmissione in istruttoria di
copia degli atti. Nella presente causa, però, simili prassi giuocano un ruolo di primo piano, giacché si ripercuotono a livello
soggettivo su alcuni addebiti mossi al Keller.
Si è sottolineato nel primo paragrafo che il Keller tenne aperto il cinema, senza aver previamente ottenuto le licenze di esercizio e agibilità, e senza aver previamente adempiuto a tutte le
prescrizioni rilasciate dalla C.P.V. Nessun dubbio, quindi, che, da
un punto di vista oggettivo, il comportamento del Keller integra i
reati di cui agli art. 666 e 681 c.p. Nemmeno è discutibile che
egli fosse consapevole di dover prima o poi ottenere le licenze e
adempiere a tutte le prescrizioni. Dalle sue dichiarazioni, tuttavia,
emerge con chiarezza che il Keller non sapeva di dover tenere
chiuso il suo locale, sino a che non avesse ottenuto le licenze e
non si fosse conformato alle prescrizioni ricevute. E sino al 22
gennaio 1983 il suo errore è più che giustificato dal comporta mento della p.a. Malgrado gli anni trascorsi, mai nessun rapporto all'autorità giudiziaria; ed anzi sopralluoghi preavvisati, e persino
sospesi senza alcuna immediata conseguenza ove il gestore facesse
presente di non aver ancora ottemperato alle prescrizioni della
C.P.V. Ma rivelatrici sono soprattutto due dichiarazioni dell'asses
sore Mercurio: « la formula dell'agibilità condizionata era intesa
dagli uffici del comune, dalla C.P.V. e dall'interessato nel senso
che l'esercente poteva tenere aperto il locale, ma doveva attuare
le prescrizioni. Nel caso non fosse ancora stata fatta la voltura
della licenza, si considerava in vita, in pratica, la vecchia licenza ».
Con la diffida del 12 gennaio 1983, notificata al Keller il 22
gennaio 1983, la situazione cambia. Invero, il provvedimento comunale diffida in modo inequivoco il Keller « dall'effettuare
rappresentazioni cinematografiche nel locale pubblico denominato
Keller Studio, fino a quando non saranno state conseguite le
licenze di agibilità e di esercizio ». Lo avverte, inoltre, che
« saranno adottati i provvedimenti necessari per l'esecuzione
d'ufficio ove la diffida venga disattesa ». Prefigura (finalmente) l'azione penale. Minaccia esplicitamente la « chiusura di ufficio ».
Ecco perché il Keller deve essere assolto dai reati di cui agli art. 666 e 681 c.p. in quanto il fatto non costituisce reato per il
periodo antecedente al 22 gennaio 1983. Mentre deve essere
ritenuto colpevole dei reati medesimi in rapporto al periodo successivo al 22 gennaio 1983. In questo secondo periodo, infatti,
a differenza che nel primo, il Keller fu messo chiaramente
sull'avviso, e, sulla scia della diffida, si rappresentò la necessità di
osservare le prescrizioni della C.P.V. e di ottenere le licenze di
esercizio e agibilità prima ancora di dare rappresentazioni cine
matografiche. IL Keller, invece, continuò a tenere aperto il locale, almeno sino al 13 febbraio 1983. E con ciò commise pure il reato
previsto dall'art. 650 c.p., dal momento che non si attenne
nemmeno a un provvedimento legalmente dato dal sindaco di
Torino per ragioni di sicurezza pubblica (per un'istruttiva appli cazione dell'art. 650 c.p. nel nostro settore v. Cass. 13 maggio 1952, Lillo, id., Rep. 1952, voce Rifiuto di obbedienza all'autorità, n. 19, ove si ritiene sussistente l'ipotesi prevista dall'art. 650 c.p. nei confronti del titolare di un cinema che aveva fatto proiettare un film senza chiedere la preventiva visita della commissione di
vigilanza in violazione dell'ordine notificatogli dalla questura).
5. - (Un reato allarmante: l'omissione di cautele e difese). — Il
30 marzo 1982, la C.P.V. si reca al cinema Keller per un
sopralluogo. Non è la prima volta. Già il 9 ottobre 1979, la
C.P.V. aveva vistato il cinema, ed aveva rilevato alcune carenze.
A suo stesso dire, il Keller provvide ad ovviare a tali carenze
solo durante la ristrutturazione eseguita tra il settembre e il
dicembre del 1980. V'era da attendersi che, almeno in questa
occasione, egli si preoccupasse di realizzare tutte le misure
prescritte dal nostro ordinamento per i luoghi di pubblico spetta
colo. Ed è proprio qui che comincia ad affacciarsi il più grave tra gli addebiti mossi al Keller. Perché in quel 30 marzo 1982, la
C.P.V. deve prendere atto di ben tredici profili d'insicurezza. E
molteplici — e gravi — sono i profili che attengono a misure
destinate ad operare dopo l'eventuale incendio o disastro o
infortunio (l'area di sicurezza, cioè, coperta dall'art. 451 c.p.). Proviamo a scorrere il verbale redatto dalla C.P.V., e ci accor
giamo che tale commissione prescrive al Keller che: l'uscita di
sicurezza sia resa apribile in tutta la sua ampiezza a semplice
spinta dall'interno verso l'esterno; durante lo spettacolo il porto ne su cui sfocia l'uscita di emergenza sia tenuto costantemente
aperto (un punto già toccato in occasione della precedente visita
dell'ottobre 1979); il cortile sia illuminato con luce normale e di
emergenza; le uscite di sicurezza siano segnalate con appositi cartelli luminosi collegati anche con l'impianto di emergenza; sia
verificata la perfetta funzionalità dell'impianto elettrico corrispon dente alle norme C.E.I.; sia eliminata la comunicazione tra la
cabina di proiezione e la sala mediante struttura muraria; la
cabina e la scala che porta ad essa siano illuminate anche con
luce di emergenza; le due scale che portano alla platea siano
illuminate anche con luce di emergenza; durante la proiezione le
porte d'ingresso siano tenute costantemente aperte e le vie di
fuga siano sgombre da qualsiasi ostacolo; nella cabina sia elimi
nata la macchina di proiezione a 16 mm.; sia esibito il certificato
E.N.P.I. sulla funzionalità della cabina.
Non meno inquietante è che, al 13 febbraio 1983 (giorno ultimo di apertura del locale), le carenze lamentate dalla C.P.V.
quasi un anno prima non fossero ancora state integralmente eliminate. Basti por mente che permanevano due profili d'insicu
rezza quali quelli attinenti all'impianto elettrico (non conformato
alle norme C.E.I.) e all'eliminazione della comunicazione tra
cabina di proiezione e sala. Profili che valgono indubbiamente a
rendere meno efficace e sicuro il piano diretto a impedire o
almeno limitare le conseguenze derivanti da un incendio o
disastro. Né si obietti che l'affluenza del pubblico al Keller era
scarsa. Sia perché resta comunque sussistente il pericolo per un
numero indeterminato di persone; sia perché per almeno un
anno « al mattino la sala era frequentata da classi scolastiche »
nell'ambito di programmi realizzati in collaborazione con il co
mitato di quartiere.
Per quel che concerne i materiali impiegati nella sala cinema
tografica, il Keller ha sostenuto di aver prestato ogni cura nella
loro scelta, in guisa da utilizzare materiali resistenti al fuoco. Ma
è una tesi che solo in parte ha trovato conferma nelle testimo
nianze rese dai produttori o fornitori dei materiali. Cosi, per la
moquette e i tendaggi, il Valenticic ha dichiarato: « Fui io a
trattare con il Keller, il quale non ci richiese i dati inerenti alla
ignifugazione dei materiali. Il Keller può aver avuto contatti con
il Castelluccio. Anche per i tendaggi non venne richiesto alcunché
di specifico, almeno credo. Non credo che i tendaggi fossero
ignifugati ». Invece, per il velario, il Cazzaniga ha confermato
che si tratta di un tessuto in vetro, sottoposto con giudizio favorevole alla prova di reazione al fuoco da parte del ministero
dell'interno (centro studi e esperienze antincendi). A proposito,
poi, dello schienale delle poltroncine — a differenza che per il
sedile — il Parretti e il Cioni hanno asserito che a volte si usava
materiale « autoestinguente » e a volte no. Circa la copertura delle poltroncine, l'Edefonti ha precisato che « il tessuto è ri
coperto di PVC trattato autoestinguente nella parte interna, e
quindi al momento della posa in opera dovrà essere ulteriormente
ignifugato sul lato estemo »: ignifugazione, quest'ultima, che non
risulta intervenuta.
Per concludere, il Keller ha omesso di realizzare molteplici e
indispensabili mezzi preventivi ex post, destinati, cioè, ad operare anche o solo dopo l'eventuale verificarsi di un incendio, disastro
o infortunio, e dunque funzionali al fine di « limitare i danni
derivanti da incendio, disastro o infortunio già verificatosi »
(come si esprime, da ultimo, Cass. 18 ottobre 1979, Topa, id.,
Rep. 1980, voce Incolumità pubblica (reati), n. 13). Anzitutto,
ha omesso di attuare le cautele prescritte dalla C.P.V. sulla
falsariga dei criteri di sicurezza espressamente formulati da leggi,
regolamenti e circolari: rammentiamo, in particolare, gli art. 117
e 145 reg. t.u.l.p.s., rispettivamente volti a garantire l'eliminazione
della comunicazione tra sala e cabina e ad assicurare la congruità
delle uscite di sicurezza; la legge 1° marzo 1968 n. 186, preordi
nata a riconoscere efficacia di legge alle norme C.E.I.; e i
parametri di sicurezza sanciti nella fondamentale circolare n. 16
del 1951. Per giunta, il Keller ha omesso di provvedere con
l'indispensabile accuratezza e costanza alla scelta di materiali
idonei anche in ossequio agli art. 25 e 26 di detta circolare.
Sicché la colpa ascrivibile al Keller non consiste semplicemente in negligenza, imprudenza e imperizia, ma si prospetta prima
ancora e soprattutto come colpa specifica, poiché si concreta
nell'inosservanza di leggi, regolamenti, ordini e discipline.
Con tutto ciò, resta da approfondire in sede istruttoria la
questione riguardante la vendita delle poltroncine da parte del
Parretti al Keller. Invero, nel descrivere in uno stampato pubbli
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GIURISPRUDENZA PENALE
citario tali poltroncine, la ditta Parretti parla di « schienale in
tubo di acciaio ricoperto con resine espanse autoestinguenti ». Là
dove l'asserita « autoestinguenza » non sarebbe in realtà una
caratteristica costante delle resine impiegate per lo schienale.
Si aggiunga, quanto agli addebiti di cui ai capi A) e D), che
essi sussisterebbero, a patto che il Keller avesse alle proprie
dipendenze uno o più lavoratori. Circostanza, questa, che non si
è potuto accertare con la necessaria sicurezza. In una nota agli
atti, i vigili urbani puntualizzano che, il 17 febbraio 1983, alla
cassa del cinema Keller, « sedeva una giovane ragazza bionda sui
20 anni, e il Keller la interpellava con il nome di Grazia ».
Senonché l'identità della ragazza è rimasta ignota, e il Keller ha
subito ribattuto che la azienda è a conduzione familiare. Pertan
to, per i reati ora in esame, egli deve essere assolto per insufficienza di prove. Anche se è il caso di aggiungere, a scanso
di equivoci, che seppure non penalmente sanzionato, sussiste
comunque a carico del Keller l'obbligo di richiedere e ottenere il
certificato di prevenzione incendi. Tanto più che l'inottemperanza a un simile obbligo da parte del Keller aggiunge un'ulteriore nota
di gravità all'insieme dei reati commessi.
6. - (Le sanzioni). — Il Kaller è dunque colpevole dei reati di
cui agli art. 45 e 650 c.p., e, altresì, ma solo per il periodo successivo al 22 gennaio 1983, dei reati di cui agli art. 666 e 681
c.p. Egli non è incensurato, e tuttavia merita le attenuanti
generiche e il beneficio della sospensione condizionale della pena:
perché ha tenuto un buon contegno processuale, e perché ha
svolto la sua attività nel settore cinematografico con apprezza bili intenti culturali e didattici. Il fatto è, però, che più indici
sottolineati nei paragrafi che precedono valgono a denotare la
gravità dei reati commessi dal Keller, e, in ispecie, del reato di
cui all'art. 451 c.p.: il cospicuo numero delle carenze rilevate nel suo locale; la gravità del conseguente pericolo per la pubblica incolumità; la permanenza nel tempo delle carenze malgrado le
prescrizioni ricevute (e ciò sia in rapporto al sopralluogo del
1979, sia in rapporto al sopralluogo del 1982, e persino dopo la
diffida del comune).
In questo contesto, congrua si ritiene, per il reato di cui all'art.
451 c.p., la reclusione in sei mesi, con diminuzione a 4 mesi per le attenuanti generiche. Circa i reati di cui agli art. 650, 666 e
681 c.p., uniti dal vincolo della continuazione, si considera
adeguata la pena dell'arresto in mesi uno e dell'ammenda in lire
300.000: con diminuzione a 20 gg. e a lire 200.000 per le
attenuanti generiche, e aumento a mesi uno e a lire 500.000 per
la continuazione.
Rivista di giurisprudenza penale Trentino-Alto Adige — Provincia di Trento — Affittacamere —
Obblighi previsti dal t.u.l.p.s. — Inapplicabilità agli esercizi costituiti da meno di otto stanze — Questione non manifesta mente infondata di costituzionalità (Cost., art. 3; r.d. 18 giugno 1931 n. 773, t.u. leggi di pubblica sicurezza, art. 108, 109; 1.
prov. Trento 27 dicembre 1982 n. 31, modifiche e integrazioni di norme concernenti la classificazione ed i prezzi degli esercizi
alberghieri e degli esercizi di affittacamere nonché gli interventi a sostegno della ricettività alberghiera, art. 1).
Non è manifestamente infondata (e se ne rimette quindi l'esame alla Corte costituzionale) la questione di legittimità costi tuzionale dell'art. 1, n. 6, 1. prov. Trento 27 dicembre 1982 n. 31, nella parte in cui dichiara non soggetti agli obblighi previsti dagli art. 108 e 109 r.d. 18 giugno 1931 n. 773 gli esercizi costituiti da un numero di stanze inferiore ad otto, in riferimento all'art. 3 Cost. (1)
Pretura di Cavalese; ordinanza 4 luglio 1983 (Gazz. uff. 4 aprile 1984, in. 95); Giud. Luchini; imp. Curri.
(1) Il pretore osserva come gli art. 108 e 109 t.u.l.p.s. hanno la natura giuridica di norme penali, trattandosi di disposizioni di polizia che fissano precetti la cui inosservanza è sanzionata dall'art. 665
c.p. Per l'infondatezza della questione di costituzionalità degli art. 108 e
109 r.d. 773/31, nella parte in cui stabiliscono la necessità della
licenza per l'esercizio dell'attività di affittacamere, l'obbligo di registra zione degli ospiti e il divieto di alloggiare persone sprovviste di
documenti di identità, v. Corte cost. 16 luglio 1970, n. 144, Foro it., 1970, I, 2033, con nota di richiami.
Sulla nozione giuridica di « affittacamere », ai fini della configurabili tà degli obblighi di cui agli art. 108 e 109 r.d. 773/31, v. Cass. 5
dicembre 1977, Zambruno, Liberati e Tota, id., Rep. 1978, voce
Albergo, nn. 19-21 e voce Commercio (disciplina), n. 82; Cass. 6
aprile 1976, Bertaccini, id., Rep. 1977, voce Albergo, n. 8. Nel senso che anche dopo l'entrata in vigore del d.p.r. 616/77
restano vigenti gli art. 108 e 109 t.uj.p.s., v. Pret. IPadova 10 febbraio
1978, id., Rep. 1978, voce Comune, n. 180, commentata da Ferrato, in Temi, 1978, 41. Sulla incompetenza delle regioni a legiferare in materia penale v., da ultimo Pret. Messina, ord. 3 gennaio 1983, Foro
it., 1984, II, 107, con nota di S.D. Messina, Legge regionale e
abrogazione di legge penale? Sull'applicabilità della 1. 392/78 ai c.d contratti di affittacamere cfr.
Cass. 12 giugno 1984, n. 3493 e Pret. Monza 11 maggio 1983, Foro it., 1984, I, 2773, con nota di richiami.
FINE DELLA PARTE SECONDA
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