sentenza 22 maggio 1985; Giud. Pilato; imp. PinnaSource: Il Foro Italiano, Vol. 109, No. 1 (GENNAIO 1986), pp. 61/62-65/66Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23180166 .
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GIURISPRUDENZA PENALE
cessione di opere murarie da parte della Feal alla coperativa del
Calio si è ritenuto di dover applicare l'ammenda nella misura
minima prevista dal codice penale, non essendosi potuto stabilire
l'ammontare complessivo o parziale dell'accordo stesso.
Sempre per il Calio Giuseppe, e soltanto per lui, sussistendone
le condizioni legittimatrici si dispone la sospensione condizionale
della pena inflitta e la sua non menzione nei certificati del
casellario giudiziale.
Vanno, infine, assolti dal reato loro ascritto, sia pure con
formula dibitativa, il Calabro, il Carbone ed il Menonna e per
questo nella determinazione della pena pecuniaria inflitta al
Signorelli, al Faverio ed al De Marchi non si è tenuto conto anche
dell'ammontare delle opere da questi ultimi subappaltate o date a
cottimo ai tre artigiani di cui sopra. L'assoluzione per in
sufficienza di prove non attiene certo all'elemento oggettivo del
reato contestato, quanto alla effettiva conoscenza da parte dei tre
piccoli imprenditori suddetti del presupposto di fatto del reato
stesso, cioè sulla natura di opera riguardante la p.a. degli edifici
in corso di edificazione nel cantiere ove prestavano la propria
attività. Già si è osservato come, secondo una distorta organizza zione del lavoro, nel settore edile sia del tutto usuale il ricorso a
lavoratori più o meno correttamente inquadrati per l'esecuzione
non solo di lavori che richiedono una certa specializzazione, ma
anche per lavori da muratore, carpentiere e simili. Ora è inutile
ripetere che anche le tre imprese artigiane in questione operavano avendo ricevuto l'esecuzione dei lavori in terza battuta, con un
distacco anche fisico rispetto al committente-p.a. e con la conse
guente possibilità di una reale scarsa conoscenza del fatto che il
cantiere Feal serviva a costruire appartamenti dell'I .a.c.p.m. È
certo vero, d'altra parte, e di qui nasce il dubbio, che il cartello,
obbligatoriamente apposto all'ingresso del cantiere, recava tale
indicazione, ma ciò non prova di certo che lavoratori, per di più
trasfertisti, fossero a conoscenza del suo contenuto. Questo, anche
se i tre artigiani in questione operavano anche personalmente nel
detto cantiere e quindi avrebbero avuto la teorica possibilità di
venire a conoscenza della natura dell'opera in via di costruzione.
La genericità dei contratti di affidamento a cottimo o in subap
palto di secondo grado non porta a ritenere probabile una
corretta informativa da parte dei subappaltatori a coloro che in
effetti lavoravano cedendo puramente e semplicemente la propria forza-lavoro dietro compenso, al di là ed al di fuori di tutta
quella ampia gamma di diritti, doveri e facoltà che dovrebbero
caratterizzare oggi un rapporto di lavoro subordinato, che ripugna
ridurre al mero scambio attività lavorativa-retribuzione. Da questa
anomala, ma non rara, posizione del Calabro, del Carbone e del
Menonna scaturisce quindi la loro assoluzione per non essersi
raggiunta una sufficiente prova della sussistenza nel loro compor
tamento dell'elemento soggettivo del reato contravvenzionale loro
ascritto.
Ciò non contrasta, naturalmente, con quanto affermato in via
generale in ordine alla irrilevanza ed insostenibilità di un « errore
scusabile » da parte degli imputati sulla portata ed estensione
della normativa c.d. antimafia. Senza voler qui tornare sul tema,
ampiamente dibattuto in dottrina e giurisprudenza, dell'elemento
soggettivo nei reati contravvenzionali, basterà osservare che dalla
stessa formulazione della ipotesi di reato contestata emerge con
ogni evidenza la sufficienza della colpa per integrare il reato
stesso. Non sembra cioè possibile in alcun modo asserire che ci si
trova in presenza di una di quelle contravvenzioni che richiedono
necessariamente il dolo nel contegno del soggetto attivo, per cui
non può che essere la colpa a contraddistinguere tale comporta
mento, o almeno a rendere lo stesso penalmente rilevante a
questi fini. Se quindi non di una contravvenzione dolosa si tratta,
deve anche escludersi una qualsivoglia rilevanza ad un possibile, ma per altro non probabile, errore sulla corretta interpretazione della normativa.
Il Foro Italiano — 1986.
PRETURA DI CAGLIARI; sentenza 22 maggio 1985; Giud.
Pilato; imp. Pinna.
PRETURA DI CAGLIARI
Armi e materie esplodenti — Arma-giocattolo priva di tappo
rosso — Detenzione e porto — Reato — Insussistenza (L. 18
aprile 1975 m. 110, norme integrative della disciplina vigente
per il controllo delle armi, delle munizioni e degli esplosivi,
art. 5).
Non costituiscono reato la detenzione ed il porto in luogo
pubblico di un'arma-giocattolo priva del prescitto tappo rosso
incorporato essendo le prescrizioni di cui all'art. 5, 4" comma l.
18 aprile 1975 n. 110 destinate esclusivamente ai fabbricanti di
armi-giocattolo e dovendosi, pertanto, la loro violazione qua
lificare come reato « proprio ». (1)
(Omissis). Preliminarmente si osserva che è stata rigettata per manifesta infondatezza l'eccezione di legittimità costituzionale
dell'art. 5 1. 18 aprile 1975 n. 110 sollevata dal difensore
dell'imputato: eccezione sollevata con riferimento all'art. 3 Cost,
perché l'art. 5 cit., stabilendo che le armi-giocattolo devono avere
l'estremità della canna occlusa da un tappo rosso incorporato,
prevede una pena minima incongruamente più severa rispetto a
quella stabilita dagli art. 2 e 7 1. 895/67, modificata dalla 1.
497/74, per la detenzione delle armi comuni da sparo.
Questo pretore infatti ritiene che il precetto di cui al 4°
comma dell'art. 5 1. 110/75 sia destinato unicamente ai fabbrican
(1) Nello stesso senso Trib. Rimini 24 maggio 1983 e Pret. Morbe
gno 13 novembre 1982, Foro it., 1983, II, 375, con nota di richiami; da ultimo, v. Pret. Faenza 17 marzo 1983, id., Rep. 1984, voce Armi, n. 97 e Trib. min. Bologna 27 aprile 1981, id., Rep. 1983, voce cit., n. 74.
In senso contrario Cass. 8 novembre 1983, Zucco, id., 1984, II, 442, con osservazioni di Gironi, nonché Trib. Ravenna 17 gennaio 1984, id., Rep. 1984, voce cit., n. 96 e Pret. Ferrara 4 maggio 1982, id., Rep. 1983, voce cit., n. 75.
Per la tesi del reato « comune », con conseguente punibilità anche della detenzione e del porto di armi-giocattolo sprovviste del tappo rosso, vedi, altresì, implicitamente le numerose ordinanze che hanno sollevato la questione di legittimità costituzionale dell'art. 5, 4° e 6° comma, 1. n. 110/75 in riferimento all'art. 3 Cost., relativamente al più grave trattamento sanzionatorio riservato alla detenzione di armi-giocat tolo prive di tappo rosso rispetto a quello previsto per la detenzione di armi comuni da sparo ed all'omessa differenziazione della pena per le diverse condotte (fabbricazione, detenzione, porto) ricomprese nel l'ambito del menzionato art. 5 (Trib. Sondrio 3 maggio 1983, id., Rep. 1984, voce cit., n. 92; Pret. Lucca 22 marzo 1982, e 24 novembre 1982, ibid., nn. 93, 94; Pret. Ravenna 4 maggio 1982, id., Rep. 1983, voce cit., n. 76; Pret. Rimini 29 maggio 1982, ibid., n. 78; Trib. Ravenna 10 febbraio 1982, ibid., nn. 79, 80). Tali profili di illegittimi tà costituzionale non sono ancora stati presi in esame nel merito dalla corte che ha, sin qui, dichiarato soltanto la manifesta inammissibilità della questione sollevata da Pret. Ravenna 4 maggio 1982, per omessa motivazione sul punto della rilevanza (ord. 15 febbraio 1984, n. 37, id., Rep. 1984, voce cit., n. 91).
In dottrina, oltre gli autori citati in margine alle già menzionate Trib. Rimini 24 maggio 1983 e Pret. Morbegno 13 novembre 1982, cfr. Paraggio, Contrasti giurisprudenziali e questioni di legittimità costitu zionale in tema di armi-giocattolo, in Ciur. merito, 1984, 629 e Viola, Il « tappo rosso » distintivo delle armi giocattolo, in Riv. pen., 1985, 503, entrambi a favore della tesi secondo cui la prescrizione di cui all'ultima parte dell'art. 5, 4° comma, 1. n. 110/75 è rivolta alla generalità, con conseguente illiceità penale anche della mera detenzione o del porto di armi-giocattolo prive del tappo rosso.
Contra, ovvero nel senso della natura « propria » del reato e dell'esclusiva destinazione della disposizione ai fabbricanti, vedi Sbor
done, Costituisce reato la detenzione di giocattoli riproducenti arma con canna non occlusa da visibile tappo rosso?, in Cass, pen., 1985, 167, il quale argomenta in base all'intima connessione esistente tra la
prima e la seconda parte del comma in esame, lessicalmente evidenziata dall'avverbio « inoltre », nonché in base all'assenza di limitazioni per i giocattoli destinati all'esportazione (5° comma art. cit.) ed al lungo periodo di vacatio legis previsto dall'art. 38, all'evidente fine di consentire ai produttori di eliminare le scorte e di adeguarsi alla nuova normativa. Né, secondo l'a., il porto di arma-giocattolo priva di tappo rosso potrebbe ricondursi, sub specie di « strumento ... chiara mente utilizzabile ... per l'offesa della persona », alla previsione del l'art. 4, 2° comma, 1. 110/75, dovendosi per «offesa alla persona» nella legislazione sulle armi intendesi unicamente la violenza fìsica e non anche quella psichica.
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PARTE SECONDA
ti di armi-giocattolo e si debba in conseguenza ascrivere la sua violazione alla categoria dei reati cosiddetti « propri », motivo per il quale la detenzione ed il porto di tali oggetti non integra ipotesi di reato.
Effettivamente, se si accedesse ad una diversa interpretazione della norma, orientandosi per la definizione del reato di cui si
tratta come di reato « comune », i sospetti sulla costituzionalità della norma sarebbero fondati e legittimi: nel minimo, la pena edittale stabilita per la detenzione di armi comuni da sparo sarebbe inferiore (otto mesi) a quella stabilita per la detenzione di un'arma giocattolo priva del tappo rosso, e addirittura, in
presenza dell'attenuante di speciale tenuità di cui all'art. 5 1.
895/67, anche il massimo della pena da infliggere sarebbe inferio re a quello stabilito per la detenzione di una qualsiasi arma
giocattolo priva del tappo rosso. L'attenuante di cui all'art. 5 1.
895/67 poi non sarebbe comunque applicabile all'ipotesi di reato
per cui si procede. In tal caso allora saremmo in presenza di una evidente violazione dell'art. 3 Cost., data l'irragionevole disparità di trattamento fra chi detiene un'arma vera e chi detiene un'ar
ma-giocattolo, in pregiudizio di quest'ultimo. È palese e non contestabile che in una simile situazione il giudice debba privile giare, fra due possibili interpretazioni della legge, quella che si armonizza con i principi costituzionali, e che rispetta d'altra parte la « ratio » della norma, da un punto di vista letterale, logico e sistematico. A questo proposito si condividono pienamente le considerazioni espresse da larga parte della giurisprudenza (vedi fra le altre: Trib. Rimini 24 maggio 1983 e Pret. Morbegno 13 novembre 1982, Foro it., 1983, II, 375; Trib. min. Bologna, 27
aprile 1981, id., Rep. 1983, voce Armi, n. 74) e della dottrina
(vedi Mori, La nuova disciplina delle armi, in Giust. pen., 1977, I, 259) che in contrasto con le altre autorevoli opinioni ha ritenuto entrambi i precetti contenuti nel 4° comma dell'art. 5 1.
110/75 destinati unicamente ai fabbricanti di armi-giocattolo. In particolare è stato ben osservato che la pena inflitta per chi
viola le disposizioni della norma richiamata esige, per la sua
sussistenza, una determinata posizione di fatto dell'agente, che deve essere necessariamente il fabbricante, unico soggetto men zionato dal 4° comma dell'art. 5, al quale solo certamente si
impone che « ... i giocattoli riproducenti armi non possono essere
fabbricati con l'impiego di tecniche e materiali che ne consentano la trasformazione in armi da guerra o comuni da sparo, o che consentano l'utilizzo del relativo munizionamento o il lancio di
oggetti idonei all'offesa della persona». Tali giocattoli «devono inoltre avere la estremità della canna parzialmente o totalmente occlusa da un visibile tappo rosso incorporato », e poi ancora: « chiunque non osserva le disposizioni, ecc., è punito... ». La dizione letterale della legge ha ingenerato confusione, tanto da far sostenere che la parte seconda del 4° comma possa avere come destinatario anche persona diversa dal fabbricante e da far concludere per la condanna del detentore di arma-giocattolo sprovvista di tappo rosso.
Un'attenta critica della lettura in tal senso della norma rivela però che con la dizione « chiunque » non si è voluta ampliare la portata incriminatrice della norma stessa.
Innanzi tutto, è noto che, per stabilire se una norma configura un reato comune o un reato proprio, non si può certo nel nostro sistema penale considerare reati comuni tutti quelli la cui enun ciazione inizia con la parola « chiunque », ma è necessario esaminare l'intero contesto della disposizione per stabilire se il reato possa essere commesso da qualsiasi persona o da chi rivesta una speciale qualità o si trovi in una determinata situazione.
Nel nostro caso, non c'è dubbio innanzi tutto che la dizione « chiunque » si riferisce non solo all'ipotesi della parte seconda del 4° comma, ma anche e prima di tutto alle ipotesi criminose della prima parte, riferibili al solo fabbricante.
Le espressioni usate poi nella seconda parte, « occlusione della canna » ed « incorporato », non possono che riferirsi ad operazio ni tecniche di produzione dirette a rendere il tappo rosso non estraibile se non con la conseguenza di un evidente danneggia mento della canna, che comporti il venir meno della somiglianza
Il Foro Italiano — 1986.
fra il giocattolo e l'arma vera imitata: operazioni quindi possibili
solo per il fabbricante quale produttore, industriale o artigianale che sia.
La stessa 1. 110/75 inoltre all'art. 38 stabiliva che l'applicabilità delle disposizioni dell'art. 5 fosse possibile solo un anno dopo l'entrata in vigore della legge, proprio per consentire ai fabbri
canti di adeguare la produzione ai nuovi precetti e di smaltire le
scorte: ulteriore conferma questa, dato che la disposizione ri
guardava anche le prescrizioni relative al tappo rosso, che nelle
intenzioni del legislatore il 4° comma si rivolgeva unicamente ai
fabbricanti.
Anche da un punto di vista logico-sistematico c'è da notare
ancora che l'ultima parte del 4° comma ed il 5° comma riguarda no la commerciabilità delle armi-giocattolo, stabilendo la legge che per la distribuzione interna dovessero essere munite del
tappo rosso, mentre quelle destinate al mercato estero potessero esserne prive.
Per completezza può accennarsi al fatto che apparirebbe in
spiegabile la previsione di un'unica ipotesi di reato — il delitto
punito con la pena della reclusione da uno a tre anni e la multa da lire 100.000 a lire 1.000.000 — sia per il fabbricante che pone in commercio un numero illimitato di armi-giocattolo prive di
tappo rosso, sia per il detentore di uno solo di quegli oggetti; come inspiegabile sarebbe la mancata discriminazione fra la
condotta di chi rimuove il tappo e di chi viene in possesso del
giocattolo già privo di tappo; e ancora fra il porto, la detenzione o il trasporto di un simile arnese. In materia di armi la correlazione fra l'arma ed il suo proprietario, detentore, portatore o trasportatore è tipica, e viene punito con diverse graduazioni di
pena chi « detenga », « porti », « alteri », ecc. un'arma. In tal caso invece sarebbe punito allo stesso modo — accedendo all'in
terpretazione che vuole il reato de quo « comune » — « chiun
que » abbia una qualsiasi relazione con l'arma-giocattolo priva di
tappo rosso, e sorgerebbe per il possessore l'obbligo giuridico di « reincorporare » il tappo tutte le volte che per accidente si sia staccato dalla canna, con conseguenze sul piano penale palese mente aberranti ed ingiuste.
È interessante notare che l'opinione di chi sostiene che la norma relativa al tappo rosso da inserirsi sull'estremità della canna delle armi-giocattolo è rivolta a tutti è giustificata sempre dalla considerazione che la norma tenderebbe ad impedire che i
giocattoli riproducenti armi possano essere utilizzati, in determi nate circostanze di tempo e di luogo, per l'offesa alla persona, intendendo per offesa alla persona anche l'offesa psichica, per la
capacità di intimidazione che indubbiamente può avere un ogget to che riproduca le sembianze di un'arma vera.
Tale impostazione del problema non può essere condivisa: non è possibile infatti nel nostro ordinamento un'equiparazione fra l'offesa psichica e quella fisica, almeno in materia di armi.
Tutta la normativa sulle armi è diretta alla tutela dell'in tegrità fisica della persona; e non si può dimenticare che, con deliberazione 7 ottobre 1976, la commissione consultiva centrale
per il controllo delle armi ha inteso esplicitamente l'espressione « offesa alla persona » come riferita esclusivamente all'integrità fisica del corpo umano.
Certo la confusione fra un'arma vera ed una giocattolo può far si che a volte l'arma-giocattolo possa venire usata per la commis sione di reati; ma per tale considerazione non può concludersi che allora lo scopo finale del 4° comma, seconda parte dell'art. 5 1. 110/75, sia necessariamente quello della tutela della libertà psichica della persona, nei termini cosi ampi che vorrebbe chi è di contrario avviso in merito all'individuazione dei destinatari della norma.
Eventualmente, se reputasse in questi casi la libertà psichica non sufficientemente tutelata dalla norma dell'art. 612 c.p., il
legislatore potrebbe intervenire per sanzionare la condotta di chi
porti, detenga o utilizzi a fini criminosi un'arma-giocattolo priva del tappo rosso di riconoscimento; ma l'esigenza di tale tutela non può indurre l'interprete ad una lettura dell'art. 5 1. 110/75 in contrasto con gli scopi e la funzione della legge stessa e dei
principi costituzionali.
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GIURISPRUDENZA PENALE
Detto questo, si comprende la ragione per la quale il Pinna,
detentore di una pistola « Arminius » che rientra senz'altro nella
categoria delle armi-giocattolo, debba andare assolto dal reato di
cui al capo A perché il fatto non è previsto dalla legge come
reato. (Omissis)
PRETURA DI FOGGIA; ordinanza 27 marzo 1984; Giud.
Murano; imp. Piemontese e altro.
PRETURA DI FOGGIA
Misure di prevenzione — Appalto — Opere riguardanti la
pubblica amministrazione — Subappalto o affidamento del
cottimo senza autorizzazione — Identità di sanzioni per l'ap paltatore, il subappaltatore e l'affidatario del cottimo — Que stione non manifestamente infondata di costituzionalità (Cost., art. 3; 1. 13 settembre 1982 n. 646, disposizioni in materia di
misure di prevenzione di carattere patrimoniale ed integrazioni alle 1. 27 dicembre 1956 n. 1423, 10 febbraio 1962 n. 57 e 31
maggio 1965 n. 575. Istituzione di una commissione parlamen tare sul fenomeno della mafia, art. 21; d.l. 6 settembre 1982 n.
629, misure urgenti per il coordinamento della lotta contro la
delinquenza mafiosa, art. 2 quinquies; 1. 12 ottobre 1982 n. 726, conversione in legge, con modificazioni, del d.l. 6 settembre 1982 n. 629, art. 1).
Non è manifestamente infondata la questione di legittimità costi
tuzionale dell'art. 21 l. 13 settembre 1982 n. 646, nella parte in
cui fìssa la pena dell'ammenda pari ad un terzo del valore
complessivo dell'opera ricevuta in appalto in misura eguale sia
per l'appaltatore che per il subappaltatore e l'affidatario del
cottimo, in riferimento all'art. 3 Cost. (1)
Diritto. — Nel procedimento penale in questione deve trovare
applicazione l'art. 21 1. 13 settembre 1982 n. 646, cosi come
modificato dall'art. 2 quinquies 1. 12 ottobre 1982 n. 726, e
quindi è rilevante, ai fini della decisione, l'eventuale non manife
sta infondatezza della questione di legittimità costituzionale del l'articolo citato in relazione all'art. 3, 1° comma, Cost, in ordine ai seguenti motivi.
Il 1° comma dell'art. 21 predetto recita che: «Chiunque, avendo in appalto opere riguardanti la p.a., concede anche di
(1) Questione nuova. Che la scelta di una sanzione pecuniaria del tipo di quella
introdotta dall'art. 21 della legge Rognoni-La Torre avrebbe con quasi certezza sollevato più di una riserva, è invero stato previsto già in sede di primi commenti: l'art. 21 cit. prevedeva in origine un illecito di natura amministrativa poi trasformato dalla 1. n. 726/82 « a distanza di un mese, in illecito penale, a conferma della carenza di un preciso criterio guida nella scelta tra illecito penale e illecito ammi nistrativo » (Bricola, in Legislazione pen., 1983, 247); ciò spiega anche il mantenimento della sanzione pecuniaria in misura « fissa », il che — come è stato osservato — non può che far risorgere le mai sopite polemiche sull'ammissibilità in diritto penale di un siffatto tipo di sanzione (Flora, ibid., 342). Sempre in sede di primi commenti, è già stato altresì affacciato il dubbio che « più equo sarebbe stato, forse, identificare » il parametro della pena pecuniaria « nel valore della parte dell'opera affidabile al subappalto o al cottimo » (Bricola, cit., 248).
In giurisprudenza, la questione di costituzionalità di cui all'ordinan za in epigrafe è stata ritenuta infondata da Pret. Milano 21 giugno 1985, in questo fascicolo, II, 49, nella cui motivazione si afferma che, per interpretare la norma « nell'unico ragionevole senso possibile », occorre riferire « la pena dell'ammenda al valore delle sole opere ricevute in appalto o in subappalto o a cottimo dai singoli »; cosi « si
ristabilisce, anche sotto questo profilo, quella graduazione della pena che deve necessariamente sussistere per comportamenti diversi (...) per la loro rilevanza economica ».
Il Foro Italiano — 1896 — Parte li-5.
fatto, in subappalto o a cottimo, in tutto o in parte, le opere
stesse, senza l'autorizzazione dell'autorità competente, è punito con l'arresto da sei mesi ad un anno e con l'ammenda pari ad un
terzo del valore complessivo dell'opera ricevuta in appalto. Le
stesse pene si applicano al subappaltatore e all'affidatario del
cottimo. È data all'amministrazione appaltante la facoltà di
chiedere la risoluzione del contratto ».
A giudizio dello scrivente non è manifestamente infondata la
questione di legittimità costituzionale dell'art. 21, 1° comma, 1. 13
settembre 1982 n. 646, cosi come modificato dalla 1. 12 ottobre
1982 n. 726, in riferimento all'art. 3, 1° comma, Cost., ove si
prevede per il subappaltatore, o per l'affidatario del cottimo, una
pena pecuniaria, congiunta a quella detentiva, pari ad un terzo
del valore complessivo dell'opera ricevuta in appalto dall'appalta tore.
Infatti, l'applicare l'art. 21 predetto anche al subappaltatore o
all'affidatario di un cottimo di una modesta parte delle opere
appaltate, porta a determinare la pena dell'ammenda (che deve essere pari ad un terzo del valore complessivo dell'opera ricevuta in appalto e cioè pari ad un terzo non più del prezzo originario dell'appalto, ma del valore complessivo dell'opera, comprese dun
que la revisione, le varianti e quant'altro come si rileva dalla
circolare 9 marzo 1983, n. 477/U.L., Le leggi, 1983, 574) in una mi sura che potrebbe risultare anche notevolmente superiore al valore dei lavori eseguiti dal subappaltatore o affidatario del cottimo, con
conseguente equiparazione, ai fini della pena, di due soggetti, l'ap paltatore ed il subappaltatore o affidatario del cottimo, che non tro va alcuna giustificazione né logica né giuridica e che è contraria al
principio di eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge sanci to dall'art. 3, 1° comma, Cost.
Infatti, in caso di colpevolezza di entrambi i soggetti penalmen te responsabili ex art. 21, 1° comma, de quo la pena dell'ammen da per l'appaltatore sarebbe pari ad un terzo del valore comples sivo dell'opera ricevuta in appalto (e pertanto la pena in questio ne avrebbe come punto di riferimento un dato noto al colpevole e la determinazione del quantum dell'ammenda corrisponderebbe alla libera e ragionevole volontà del legislatore) mentre la pena dell'ammenda per il subappaltatore o affidatario del cottimo sarebbe anch'essa pari ad un terzo, ma non del valore complessi vo dell'opera ricevuta in subappalto o a cottimo che, precisa la
legge, può essere tutta o parte dell'opera appaltata, e che avrebbe una giustificazione logica e giuridica, ma bensì' sempre del valore
complessivo dell'opera ricevuta in appalto dall'appaltatore della
p.a. (e pertanto la pena in questione avrebbe come punto di riferimento del quantum dell'ammenda un dato normalmente sconosciuto al subappaltatore o affidatario del cottimo e che, tenuto conto della diversa posizione, anche economica, tra appal tatore e subappaltatore o affidatario del cottimo porterebbe ad
applicare, al subappaltatore o affidatario del cottimo, una sanzio ne notevolmente più afflittiva di quella inflitta all'appaltatore).
Ribadendo altrimenti quanto ora affermato, si ha che per l'art.
21, 1° comma, 1. cit. vengano sanzionati con la stessa pena pecuniaria due soggetti che non si trovano nella stessa identica
posizione sia giuridica che economica con il risultato di perveni re, per il colpevole di un reato anche solo colposo, il subappalta tore o affidatario del cottimo, ad una sanzione che risulterebbe
più grave di quella inflitta a colui che porrebbe in essere una condotta esclusivamente dolosa e cioè l'appaltatore di opere riguardanti la p.a.
Infatti, pur essendo configurata come contravvenzione punita con l'arresto e l'ammenda, la condotta dell'appaltatore non può che essere esclusivamente dolosa, dovendosi necessariamente rile vare l'intenzione dell'appaltatore di subappaltare o affidare in
cottimo tutta o parte dell'opera ricevuta in appalto dalla p.a. senza l'autorizzazione dell'autorità competente ex art. 21 citato, mentre per il subappaltatore o affidatario del cottimo potrebbe rinvenirsi anche una responsabilità a titolo di colpa ove la stessa
venga ritenuta sussistente nel non avere, il subappaltatore o
affidatario del cottimo, posto in essere la dovuta diligenza nell'ac
certarsi che l'appaltatore fosse oppure no munito dell'autorizza zione al subappalto da parte dell'autorità competente.
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