sentenza 24 giugno 1985; Pres. Iacuzio, Est. Mercurio; Pedrotti e altri (Avv. Nappi) c. Soc.Ferroser (Avv. D. Tedeschi)Source: Il Foro Italiano, Vol. 108, No. 12 (DICEMBRE 1985), pp. 3183/3184-3187/3188Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23180588 .
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3183 PARTE PRIMA 3184
Motivi della decisione. — Con il primo complesso motivo di
gravame Minervini Vincenzo deduce la errata applicazione degli art. 35, 38, 41 e 42 1. 27 luglio 1978 n. 392 per avere il tribunale
ritenuto che l'istituto della prelazione urbana fosse applicabile nella fattispecie che ne occupa e che, quindi, il relativo diritto
competeva alla convenuta amministrazione provinciale di Co
senza.
La doglianza appare meritevole di accoglimento. La norma
dell'art 42 1. 27 luglio 1978 n. 392 reca una disciplina specifica
per determinati contratti di locazione e sublocazione qualificati con riferimento all'attività particolare che il conduttore svolge nei
locali, fra cui appunto i contratti stipulati dallo Stato e da altri
enti pubblici territoriali.
È stato avvertito in dottrina che la disposizione, la quale sembra apparentemente contenere norme di mero rinvio, crea
invece la effettiva regolamentazione dei rapporti locatizi conside
rati e costituenti un tertium genus in quanto oggetto di una
specifica disciplina. La legge, infatti, ha considerato: a) le locazioni di immobili
urbani ad uso di abitazione, per le quali vige la disciplina del
capo I; b) le locazioni per uso diverso da quello d'abitazione per le quali valgono le norme contenute nel capo II; c) le locazioni
relative alle attività indicate nell'art. 42 con specifici connotati di
identificazione e con autonoma disciplina. Orbene ai sensi del 2"
comma dell'art. 42 ai contratti considerati nella norma si appli cano le disposizioni dell'art. 41. E di rimando ai sensi dell'art. 41, 2" comma, della stessa legge le disposizioni di cui agli art. 38, 39 e
40 (diritto di prelazione e di riscatto in caso di vendita o
locazione) non si applicano ai rapporti di locazioni considerati
nell'art. 35. Per effetto di tale richiamo la norma della prelazione urbana non si applica ai rapporti di locazione relativi ad immobi
li utilizzati per lo svolgimento di attività (industriali, commerciali,
artigianali e di interesse turistico, si come individuate nell'art. 27)
che non comportino contatti diretti con il pubblico degli utenti e
dei consumatori nonché destinati all'esercizio di attività profes
sionali, di carattere provvisorio, e agli immobili complementari o
interni a stazioni ferroviarie, porti, aeroporti, aree di servizio
stradale o autostradali, alberghi e villaggi turistici.
Ed invero la collocazione dell'art. 35 nel capo II della 1. 27
luglio 1978 n. 392 (che detta la disciplina della locazione degli
immobili urbani adibiti ad uso diverso da quello di abitazione) fa
ritenere che le limitazioni contemplate nell'art. 35 riflettano le
locazioni degli immobili adibiti alle attività si come considerate
nell'art. 27, nn. 1 e 2.
Sulla scorta di tale coordinamento normativo deve ritenersi, in
aderenza alla interpretazione resa dalla dottrina, che non trovano
applicazione rispetto ai contratti considerati nell'art. 42 le norme
relative al diritto di prelazione in caso di vendita o di nuova
locazione dell'immobile {art. 38, 39 e 40).
A tale soluzione era del resto pervenuto lo stesso relatore De
Carolis della commissione mista, il quale ebbe esplicitamente ad
escludere che le norme menzionate possano applicarsi ai contratti
di locazione indicati nell'art. 42 (atti sen., VII legisl., seduta 5
dicembre 1977, n. 9097).
proposito: Cass. 26 ottobre 1985, n. 5283, Cass. 9 maggio 1985, n.
2897 e Trib. Milano 2) febbraio 1985, in questo fascicolo, I, 3105, con
nota di richiami e osservazioni di D. Piombo.
Merita attenzione, infine, il modo in cui la corte risolve il problema del trattamento giuridico da assegnarsi al contratto di alienazione di
un immobile locato, stipulato nell'erronea convinzione che il condutto
re fosse titolare del diritto di prelazione di cui al cit. art. 38. Ritiene
al proposito la corte che la titolarità del diritto di prelazione — discen
dente dalla qualità di imprenditore che eserciti nell'immobile locato
una attività con rapporti diretti e continuativi con il pubblico degli
utenti — sia configurabile come un presupposto negoziale (legittima zione al negozio), la cui mancanza renderebbe impossibile lo stesso
perfezionamento della fattispecie negoziale, non sussistendo corrispon denza fra la situazione di fatto e lo schema delineato nella previsione
legislativa. Tale radicale impostazione, sorta in materia di prelazione
agraria, nega che sia necessario riferirsi alle categorie della invalidili!
contrattuale, per la semplice ragione che il difetto di legittimazione al
negozio implicherebbe l'impossibilità dello stesso sorgere del vincolo
contrattuale. Cosi Cass. 21 luglio 1981, n. 4697, id., Rep. 1981, voce
Agricoltura, n. 147. In una differente prospettiva — nel senso, cioè, che il contratto
stipulato con il conduttore non titolare del diritto di prelazione sorga
pur essendo nullo — v. Trib. Siena 8 marzo 1982, id., Rep. 1983, voce
cit., n. 169; Cass. 24 luglio 1981, n. 4798, id., Rep. 1982, voce cit., ì*
123.
Sugli effetti della denuntiatio ex art. 38 1. n. 392/78 comunicata al
conduttore non avente diritto di prelazione, v. altresì Trib. Milano 21
febbraio 1985, cit.
Soccorre peraltro la stessa ratio dell'istituto della prelazione
urbana, come avvertito dalla giurisprudenza. È stato rilevato,
infatti, che la ratio ispiratrice della prelazione risiede nella
finalità di favorire l'esercizio delle imprese commerciali, industria
li, artigiane e turistiche attraverso il consolidamento del rapporto istituito dal conduttore con l'immobile, dove esercita una di
quelle attività rienute meritevoli di tutela e di sviluppo, in
quanto sono strumenti di lavoro per i soggetti che vi sono
impiegati, rappresentano componenti attive dell'economia naziona
le e determinano l'apporto di beni e di servizi nell'area territoria
le in cui operano. Sicché lo ius prelationis risulta accordato al
conduttore come massima ed eccezionale tutela dell'avviamento
inerente ai vani utilizzati per l'esercizio di attività industriali,
commerciali, artigiane e turistiche, che comportano contatti diret
ti con il pubblico degli utenti e dei consumatori ai sensi del
combinato disposto degli art. 41 e 35 1. n. 392/78 (Cass. 24
ottobre 1983, n. 6256, Foro it., 1983, I, 3004).
Nello stesso senso si è mossa la Corte costituzionale, la quale con la decisione n. 128 del 5 maggio 1983 (ibid., 1497) ha
dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale
degli art. 38, 39, 40, 41 e 73 1. 27 luglio 1978 n. 392 nella parte in cui conferiscono, sia in regime ordinario che in regime
transitorio, il diritto di prelazione ai soli locatori di immobili
urbani esercenti attività industriali, commerciali, artigiane, negan dolo ad altri soggetti. A tal fine è stato rilevato che lo scopo della prelazione urbana è la conservazione, anche nel pubblico
interesse, delle imprese considerate, tutelate mediante il manteni
mento della clientela, che costituisce una componente essenziale
dell'avviamento commerciale, con la conseguenza che essa trova
applicazione nei confronti degli operatori economici. Sicché non
può ritenersi irragionevole la scelta legislativa che, in relazione
agli immobili destinati ad uso diverso dell'abitazione, ha ritenuto
meritevole di particolare tutela quelle aziende, generalmente di
piccola o media dimensione, che nel contatto diretto con il
pubblico degli utenti e dei consumatori, trovano la fonte e le
ragioni prevalenti del loro avviamento.
Alla stregua di tali considerazioni deve ritenersi che, in relazio
ne ai contratti di locazione stipulati dallo Stato e da enti pubblici
territoriali, non viene a rilievo la disciplina della prelazione in
caso di vendita dell'immobile.
Consegue che, in accoglimento dell'appello proposto da Miner
vini Vincenzo e in riforma della sentenza impugnata, va dichiara
to che l'amministrazione provinciale di Cosenza non ha diritto a
prelazione relativamente all'immobile in controversia. (Omissis)
TRIBUNALE DI ROMA; sentenza 24 giugno 1985; Pres. Iacu
zio, Est. Mercurio; Pedrotti e altri (Avv. Nappi) c. Soc.
Ferroser (Avv. D. Tedeschi).
TRIBUNALE DI ROMA;
Lavoro e previdenza (controversie in materia di) — Appello —
Mancata comparizione dell'appellante all'udienza di discussione — improcedibilità (Cod. proc. civ., art. 348, 437).
Anche nel rito del lavoro, ove l'appellante non compaia né
all'udienza di discussione, né alla nuova udienza alla quale la
causa venga rinviata, l'appello deve essere dichiarato, anche
d'ufficio, improcedibile ex art. 348 c.p.c. (1)
(1) Con la sentenza in epigrafe il Tribunale di Roma si pone nuovamente in contrasto (v. Trib. Roma 10 maggio 1983, Foro it..
Rep. 1983, voce Lavoro e previdenza (controversie), n. 533) con il consolidato orientamento giurisprudenziale in base al quale il collegio, ove l'appellante non compaia all'udienza di discussione, non può rinviare la causa ad altra udienza o dichiarare l'improcedibilità del
gravame, dovendo invece decidere nel merito dell'impugnazione. In questo senso, con le sezioni unite (Cass. 26 marzo 1982, n. 1884,
id., 1982, 1, 1280, con nota di richiami), si è pronunciata la prevalente giurisprudenza (Cass. 28 novembre 1984, n. 6209, id., Rep. 1984, voce
cit„ n. 409; 1° ottobre 1984, n. 4858, ibid., n. 410; 10 agosto 1983, n.
5342, ibid., n. 411; Trib. Roma 22 dicembre 1982, ibid., n. 412; Cass. 21 aprile 1983, n. 2752, id., Rep. 1983, voce cit., n. 531; 14 gennaio 1983, n. 282, ibid., n. 532; 16 dicembre 1982, n. 6952, id., Rep. 1982, voce cit., n. 202; 6 agosto 1982, n. 4406, ibid., n. 478; e, in senso
parzialmente difforme, Cass. 15 novembre 1984, n. 5799, id., Rep. 1984, voce cit., n. 408, la quale, pur negando l'applicabilità nel rito del lavoro della sanzione dell'improcedibilità dell'appello in caso di mancata comparizione dell'appellante all'udienza fissata per la discus
Il Foro Italiano — 1985.
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
Motivi della decisione. — 1. - La duplice mancata comparizio ne della parte appellante, all'udienza originariamente fissata per la discussione ed a quella successiva cui la causa è stata rinviata
ai sensi e per gli effetti di cui al 1° comma dell'art. 348 c.p.c.,
impone che, in applicazione di tale norma, l'appello sia dichiarato
improcedibile. Ritiene invero il collegio, aderendo all'opinione espressa dalla
Corte di cassazione nella sentenza 25 novembre 1981, n. 6267
(Foro it., Rep. 1982, voce Lavoro e previdenza (controversie), n.
479) — e discostandosi invece da quanto ritenuto dalle sezioni
unite civili della medesima corte nella sentenza 26 marzo 1982, n.
1884 (id., 1982, I, 1280) —, che sia applicabile al rito del lavoro,
introdotto con la 1. 11 agosto 1973 n. 533, l'anzidetta norma
dell'art. 348 (laddove, appunto, dispone che l'appello è dichiarato
improcedibile, anche d'ufficio, qualora l'appellante non compaia
alla prima udienza e parimenti non compaia alla nuova udienza,
della quale allo stesso appellante va data comunicazione, alla
quale il giudice deve rinviare la causa).
Non vi è alcun ostacolo, innanzitutto, alla applicazione di tale
norma al rito del lavoro dal punto di vista meramente tecnico,
essendo in via analogica equiparabile alla prima udienza avanti
all'istruttore la prima e, normalmente, unica udienza avanti al
collegio ex art. 437 e dovendo ovviamente, in luogo del giudice
istruttore non più previsto dalla novella del 1973, provvedere il
collegio con sentenza (arg. anche ex art. 357, 3° comma, c.p.c.).
2. - Le considerazioni interpretative, di diversa natura, che le
sezioni unite hanno svolto nella citata sentenza n. 1884/82 per
escludere l'applicabilità al rito del lavoro della norma dell'art.
348, 1° comma, c.p.c. non appaiono, in verità, per nulla convin
centi, ed il collegio non può condividerle. Le sezioni unite, a
sostegno della tesi dell'inapplicabilità, deducono che « nel rito
speciale del lavoro (...) manca la previsione della disciplina
dell'inattività delle parti, rispetto alla quale il rito ordinario
provvede sia per il giudizio di primo grado (art. 181 e 309) sia
per quello di appello (art. 348) », e che nello stesso processo del
lavoro, in quanto « caratterizzato al massimo dalla concentrazio
ne delle attività » e « rigorosamente strutturato per soddisfare
l'esigenza fondamentale della sollecita definizione delle liti »,
« non possono trovare coerente collocazione le norme che disci
plinano l'inattività delle parti nel rito ordinario, il quale privile
giando ' il privato
' consente alle parti medesime di determinare il
momento della decisione della controversia ». Aggiungono le se
zioni unite che « la disposizione del rito ordinario non è compa
tibile con i principi ai quali si ispira il rito speciale », in quanto « comporterebbe il rinvio della causa ad una nuova udienza che
non avrebbe giustifiazione diversa dall'assenza dell'appellante e
che (...) infrangerebbe un precetto (quello che vieta i meri
rinvìi) derogabile soltanto per esigenze difensive ». Richiamano
quindi il principio secondo cui « quando non vi sono attività da
svolgere l'imperativo che il legislatore detta al collegio è quello
di decidere », e concludono affermando che « il collegio, non
essendogli consentito il mero rinvio della causa, non può che
pronunciare sentenza che decida l'impugnazione ».
3. - Le obiezioni a tali argomenti sono agevoli. Anzitutto è appena il caso di ricordare — tanto la considera
zione è ovvia — che la 1. n. 533/73 sul nuovo rito in materia di
lavoro, in quanto apporta modifiche al codice di procedura civile
approvato col r.d. 28 ottobre 1940 n. 1443 sostituendo con le
nuove norme il titolo IV del libro secondo, non crea alcun
sistema avulso dalla legge processuale ordinaria, né quindi auto
nomo né completo, ma all'opposto introduce norme che costitui
scono parte integrante del sistema preesistente e che con questo
devono essere, attraverso l'accorta opera dell'interprete, logica
mente coordinate.
Pertanto non vi è alcun bisogno di espliciti richiami a norme di
carattere generale riguardanti il rito ordinario né tanto meno di
una ripetizione delle stesse (come pure sembra ritenere Cass. 5
sione, afferma la possibilità di rinviare la causa ad altra udienza al
fine della tutela del contraddittorio). In senso contrario soltanto alcune pronunce anteriori all'intervento
delle sezioni unite (e cioè l'isolata Cass. 25 novembre 1981, n.
6267, id., Rep. 1982, voce cit., n. 479 e in Mass. giur. lav.,
1982, 86, con nota di Dettori; Trib. Napoli 28 giugno 1981,
Foro it., Rep. 1982, voce cit., n. 480). Sempre in senso difforme
dall'orientamento prevalente v., in dottrina, Tarzia, Manuale del
processo del lavoro, 1980, 212; Fabbrini, Dei mezzi d'impugnazione
nel processo del lavoro, in Nuovo trattato di diritto del lavoro, diretto
da L. Riva Sanseverino e G. Mazzoni, 1975, IV, 398; Montesa
no-Vaccarella, Diritto processuale del lavoro, 1978, 128.
gennaio 1980, n. 32, id., Rep. 1930, voce eit., n. 369) perché tali
norme, e tra queste, naturalmente, anche quella dell'art. 348 in
esame, possano trovare applicazione anche nelle controversie di
lavoro.
Resta ovviamente da vedere se esse non riguardino punti ed
argomenti specificamente e diversamente regolati dal rito speciale e se con questo non siano comunque incompatibili.
4. - Una incompatibilità come quella ritenuta dalle sezioni unite
(tra la normativa del rito ordinario in tema di inattività delle
parti — ed in particolare tra la disposizione, in esame, del 1°
comma dell'art. 348 — ed i principi cui si ispira il rito del
lavoro introdotto con la novella del 1973) non è ragionevolmente ravvisabile.
La disposizione del 1° comma dell'art. 348, nel far conseguire
l'improcedibilità del gravame alla mancata comparizione dell'ap
pellante a due successive udienze, risponde all'esigenza di porre termine al giudizio, prima della pronuncia di merito, allorquando la parte, nella cui disponibilità soltanto era il potere di instaurarlo,
manifesti, con un univoco comportamento inattivo e pur senza
formali dichiarazioni di rinuncia, il proprio disinteresse al prosie
guo dello stesso giudizio e quindi l'intendimento di abbandonarlo.
Ora, non pare seriamente sostenibile che la normativa sul rito del lavoro, anche se improntata ai criteri della massima concen
trazione delle attività e della sollecita definizione della lite, si sia resa incompatibile con quella disposizione al punto da trascurare
la volontà della parte istante, manifestata attraverso il comporta mento concludente previsto dall'art. 348, di non più proseguire nel giudizio, ed al punto, quindi, di imporre al giudice di emettere una decisione di merito anche se la parte che l'aveva
originariamente richiesta — e nella cui disponibilità soltanto, si
ripete, era il potere di richiederla — abbia univocamente dimo strato di non avervi più interesse.
Una decisione del genere, non rispondente all'interesse di alcuno (decisione che rischierebbe pure di venir emessa quando sia già intervenuta tra i contendenti una composizione di fatto della lite, oltre che di risultare alterata nel suo contenuto per la mancata collaborazione della parte nella produzione del proprio fascicolo), costituirebbe un inutile dispendio di attività giudizia ria, certamente non voluto dal legislatore.
Al riguardo può osservarsi che se anche nel rito del lavoro
l'impulso processuale di parte deve essere indubbiamente ricono sciuto quanto meno in relazione all'onere di proporre la domanda e di instaurare il processo (come pure ammesso dalle sezioni
unite), conseguenzialmente e necessariamente deve riconoscersi che sia sempre rimessa alla disponibilità della parte che aveva il
potere di iniziare il giudizio la facoltà di porvi termine prima della sua definizione naturale, e cioè prima che intervenga una
pronuncia di merito.
È connaturale dunque ai principi fondamentali che lo informa
no, che il processo civile, anche se svolto con il rito del lavoro, debba venir meno quando viene meno la volontà — della parte che lo aveva originato — di farlo proseguire: evento quest'ultimo che può verificarsi non soltanto per l'intervento di un'esplicita rinuncia ex art. 306 c.p.c. (la cui compatibilità con il rito del
lavoro non è pensabile possa essere discussa) ma anche, per
quanto concerne l'appello, per la persistenza di una significativa inerzia processuale come quella oggetto della previsione del 1"
comma dell'art. 348.
La clausola che dispone il rinvio appare, poi, necessaria per
garantire il sicuro ed univoco accertamento del comportamento inerte della parte e, con esso, del venir meno della volontà
indispensabile a mantenere in vita il processo.
Ed anche con riguardo al rito del lavoro è di ovvia evidenza
che l'esigenza di un tale accertamento è logicamente prioritaria
rispetto a quella — alla quale soprattutto hanno fatto riferimento
le sezioni unite — di definire il giudizio sollecitamente e cioè
all'udienza di discussione originariamente fissata.
Tanto più se si considera che il rinvio in questione — unico,
fissato dal giudice, e che deve essere di durata sufficiente a
permettere una notificazione — è tale da non richiedere, in
pratica, dilazioni cosi rilevanti da incidere apprezzabilmente sulla
durata del processo, né dunque da compromettere la sua solleci
ta definizione. Mentre, a ben vedere, è proprio la declaratoria
di improcedibilità, valutata con riguardo al complessivo iter che
può seguire un procedimento giudiziario, che costituisce un prov
vedimento idoneo a condurre alla sollecita definizione dell'intero
giudizio, giacché, precludendo nelle successive fasi ogni questione attinente al merito, e cosi limitando la possibilità di ulteriori
impugnative, favorisce certamente la sua definitiva conclusione.
Il Foro Italiano — 1985.
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3187 PARTE PRIMA 3188
5. - Deve poi decisamente escludersi che sussista una incompa tibilità tra la previsione del rinvio ad altra udienza di cui al 1°
comma dell'art. 348, ed il divieto delle « udienze di mero rinvio »
sancito dall'ultimo comma dell'art. 420 c.p.c. (nuovo testo). È di immediata percezione che il « mero » rinvio (il c.d. rinvio
« semplice » della diffusa ed irrituale pratica giudiziaria antece
dente la novella del 1973) è il rinvio non giustificato da alcuna
esigenza processuale, quindi inutile processualmente e meramente
dilatorio, e che tale non è affatto il rinvio ex art. 348.
Quest'ultimo rinvio è, invero, pienamente giustificato dalle
esigenze processuali prima considerate, essendo destinato — come
s'è visto — ad accertare con sufficiente sicurezza il venir meno
della volontà di parte necessaria a mantenere in vita il processo, e quindi ad integrare l'ipotesi della improcedibilità e a rendere
possibile la relativa declaratoria.
Questa è la « funzione istituzionale » del rinvio in esame,
opportunamente richiamata dalla citata Cass. 6267/81: funzione
che impedisce dunque di qualificare tale rinvio come « mero » e
vietato, e che a sua volta, per quanto già sopra argomentato, è
pienamente compatibile con i principi informatori del rito del
lavoro. Un'ultima considerazione può concorrere a dimostrare come in
questo rito vi sia spazio per il rinvio ex art. 348: il rilievo cioè, d'ordine più strettamente lessicale, che la 1. 533/73, mentre non
ha posto un divieto di rinvìi diversi da quelli — e molteplici —
in essa previsti per esigenze istruttorie o difensive (i rinvii cioè
di cui agli art. 420, 6° e 7° comma, 421, 2° comma, 424, 1° e 3°
comma, 425, 3° comma, 429, 2° comma, 437, 3° e 4° comma), ha
invece vietato, in maniera esplicita, soltanto il « mero » rinvio. Ed
una tale previsione del divieto, appunto perché esplicita e limita
ta, contiene naturalmente in sé l'implicito ma univoco consenso a
rinvii che, pur non espressamente previsti dalla stessa 1. 533/73
(e pertanto ricavabili dalle norme generali e compatibili con i
principi informatori del nuovo rito), siano comunque non ricon
ducibili alla nozione del « mero » rinvio: come appunto è il caso
del rinvio ex art. 348, 1° comma.
6. - In definitiva, disattesa la pur autorevole ma non convin
cente interpretazione sopra esaminata (lontana, oltretutto, dalla
quotidiana realtà del processo di merito), deve essere dichiarata
la improcedibilità dell'appello ai sensi del 1° comma dell'art. 348.
Tale declaratoria consegue immediatamente e direttamente al ve
rificarsi della situazione normativamente prevista, e va emessa
anche d'ufficio; essa ha carattere pregiudiziale ed è quindi preclu siva di ogni altra questione.
TRIBUNALE DI TARANTO; decreto 4 dicembre 1984; Pres.
Cassano, Rei. Calabrese; Soc. A. S. Taranto.
TRIBUNALE DI TARANTO;
Società — Società sportive — Procedimento giudiziale — Gravi
irregolarità — Revoca degli amministratori e sindaci — Nomina
degli amministratori giudiziari (Cod. civ., art. 2409).
Costituiscono gravi irregolarità, idonee a determinare l'applicazio ne ad una società sportiva del controllo giudiziale ex art. 2409
c.c., con la conseguente nomina di nuovi amministratori —
oltre alla irregolare tenuta delle scritture contabili, all'omissione
dei provvedimenti di reintegrazione del capitale ex art. 2446
c.c., ecc. — anche le mancate prescritte autorizzazioni ed
approvazioni degli organi federali in ordine agli atti di straor
dinaria amministrazione della società, ai sensi dell'art. 12 l. n.
91 del 1981. (1)
(1) Il procedimento ex art. 2409 c.c., relativo al Taranto s.p.a., si è concluso con la sentenza dichiarativa di fallimento emessa dal tribuna le in data 11 aprile 1985.
* * ♦
Società sportive e controllo giudiziale ex art. 2409 c.c.: la fe
derazione sta a guardare?
L'iniziativa del p.m. — assunta come tale a tutela di un « interesse
generale », che trascende e prescinde da quello dei soci, al regolare svolgimento dell'attività sociale (da ultimo v. F. Galgano, La società
per azioni, in Trattato di dir. comm. e di dir. pubbl. dell'economia, Padova, 1984, VII, 291; in giurisprudenza cfr. Trib. Milano 6 giugno 1983, Foro it., 1984, I, 1122, con nota di richiami) — è alla base del provvedimento del Tribunale di Taranto, con cui, per la prima
Sussiste il presupposto oggettivo del provvedimento di revoca
degli amministratori e dei sindaci sollecitato dal p.m.: le accertate
irregolarità, come risulta dalle relazioni degli ispettori, sono
numerose, di notevole portata economica, e tutte, per il carattere
delicato che presentano e i sospetti che fanno nascere, di tale
gravità da giustificare la nomina di una amministrazione giudiziaria che possa agire in responsabilità di propria iniziativa per la tutela
degli interessi obiettivi della società.
volta dopo la entrata in vigore della 1. sullo sport n. 91/81, si
sottopone ad amministrazione giudiziaria, per gravi irregolarità, una
società sportiva. Peraltro anche prima della legge in parola, la rarità del controllo giudiziale è testimoniata dalla esistenza di una unica
ipotesi di procedimento ex art. 2409 c.c. ritenuto applicabile ad una società sportiva, il Calcio Venezia, da Trib. Venezia 20 luglio 1970 e da App. Venezia 26 gennaio 1971, id., Rep. 1972, voce Società, n. 226, e in Corti Brescia, Venezia e Trieste, 1972, 50, con nota favorevole di D. P. Brighenti.
Il presupposto, non esplicitato, ma che ovviamente rimane sullo sfondo dell'intero procedimento in parola, è che la forma giuridica della s.p.a., imposta in alternativa a quella della s.r.l., dalla legge richiamata, alle organizzazioni del settore professionistico (il Taranto
all'epoca del provvedimento ex art. 2409 c-c. militava appunto in serie
B) comporta l'applicazione dell'intera disciplina prevista dal codice civi
le, pur essendo le società sportive, com'è ormai noto, società di « diritto
speciale », in quanto sprovviste dello scopo di lucro ai sensi dell'art.
10, 2° comma, e dell'art. 13 1. n. 91/81, e destinate a strumentalizzare l'attività economica svolta, a fini di incentivazione dell'ideale e della
pratica sportiva (sugli articoli citati della legge sullo sport, v. ii commento di C. Fois, in Nuove leggi civ., 1982, 614 ss. e 642 ss.; nel senso che la legge speciale legittima l'esistenza di una società dichiara tamente senza scopo di lucro, altrimenti nulla in base alle norme del
codice, v. soprattutto G. Marasà, Le « società » senza scopo di lucro, Milano, 1984, 395 ss., in chiave critica rispetto alla tesi di G.
Santini, Tramonto dello scopo lucrativo nelle società di capitali, in Riv. dir. civ., 1973, I, 154 ss., circa l'astrattezza causale dello stesso modello codicistico di società, ex art. 2247 c.c.).
L'interpretazione della 1. n. 91/81, accolta in questa circostanza dalla giurisprudenza — nel senso dell'ammissibilità del controllo
giudiziale ex art. 2409 c.c. sulle società di calcio — è condivisa anche da una certa dottrina (cfr. in particolare C. Macrì, Problemi della nuova disciplina dello sport professionistico, in Riv. dir. civ., 1981, II, 501; M.T. Cirenei, La nuova disciplina in materia di rapporti tra società e sportivi professionisti, in Legislazione economica, a cura di Vassalli e Visentini, Milano, 1983, V, 622; Marasà, op. cit., 503, nota 219; con qualche perplessità C. Fois, op. cit., 647; in senso contrario G. Volpe Putzolu, Società e federazioni sportive, in Una
legge per lo sport?, a cura di A. Lener, Mazzotta, Volpe Putzolu e
Gagliardi, in Foro it., 1981, V, 310; e implicitamente sembra Lener, op. cit., 300). Si tratta peraltro di opinioni espresse « a caldo », in
sede di immediato commento alla legge emanata, sorrette in via esclusiva da una certa lettura di insieme della nuova normativa, ma naturalmente prive di ogni riscontro concreto nella prassi applicativa.
In occasione di un mio lavoro di recente pubblicazione (D. Vitto ria, Le società sportive tra controlli federali e controlli giudiziari, in Contratto e impresa, 1985, n. 3) ho ritenuto di esprimere un dis senso da questa opinione, pervenendo alla conclusione per cui il controllo giudiziale ex art. 2409 c.c., è incompatibile con l'apparato di controlli sulle società sportive affidato dall'art. 12 1. n. 91/81 a ciascuna federazione nella qualità di organo del C o.n.i., per i diversi settori dello sport professionistico.
Le ragioni del dissenso possono sostanzialmente ridursi a due ordini di argomentazioni: a) il carattere e la funzione della vigilanza delle federazioni sulla gestione delle società sportive, nel quadro delle finalità complessive della legge sullo sport; 6) la concreta difficoltà di ipotizzare un sistema « a doppio binario » di controlli amministrativi — quelli appunto delle federazioni — e di controlli giudiziari, destinati invece il più delle volte a coincidere, determinando inutili sovrapposizioni, ovvero inevitabili frizioni.
Quanto al primo ordine di rilievi, è convincimento diffuso, e da me condiviso, quello per cui la finalità precipua della 1. 91/81 non è già quella di soddisfare una esigenza di potenziamento dell'autonomia pro pria dell'ordinamento sportivo, bensì quella di realizzare « un importan te momento di coincidenza o di sintesi tra interessi propri dell'ordina mento sportivo e interessi dell'ordinamento statale » (v. Vittoria, in Contratto e impresa, cit.; per le novità introdotte dalla legge nel rapporto tra i due ordinamenti cfr. le deduzioni di Le ner, op. cit., 300; nonché i rilievi di S. Landolfi, La l. n. 91 e la « emersione » dell'ordinamento sportivo, in Riv. dir. sport., 1982, 36 ss.). L'ideale sportivo è assunto come proprio dall'ordinamento statale in quanto intorno ad esso si aggregano le aspirazioni e gli interessi di una cerchia, attualmente sempre più vasta, di cittadini; affinché le organizzazioni sportive perseguano in modo corretto tale ideale, viene assicurato, con la legge statale, un complesso e penetrante sistema di controlli affidati alle federazioni nazionali, che li esercitano in virtù del potere di supremazia loro spettante nella qualità di organi del C.o.n.i. e perciò di enti pubblici (per la natura pubblica delle federazioni è prevalentemente orientata la dottrina e la giurisprudenza:
Il Foro Italiano — 1985.
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