sentenza 25 novembre 1982; Pres. Bibolini, Est. Lapertosa; Fall. Jazzetti (Avv. Angeli) c.Panzieri (Avv. Resta)Source: Il Foro Italiano, Vol. 106, No. 5 (MAGGIO 1983), pp. 1439/1440-1445/1446Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23175537 .
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1439 PARTE PRIMA 1440
re aggancialo all'asserita natura fittiziamente interpretativa della
legge de qua. II collegio deve preliminarmente osservare che la distinzione tra leggi interpretative vere e proprie e leggi con
portata innovativa ha un valore più descrittivo che di sostanza. In particolare, va osservato che la nozione di legge interpretativa non può essere ridotta a quella che chiarisce e spiega il si
gnificato di una norma preesistente, dovendosene, invece, cogliere l'aspetto essenziale nella circostanza che essa prescrive, comanda, una determinata interpretazione, rendendola obbligatoria indipen dentemente dalla sua correttezza. In una recente decisione, il
Supremo collegio ha precisato, con ricchezza di argomentazioni, che « la legge è interpretativa non perché interpreta, ma perché
impone una interpretazione, non rilevandone l'esattezza, poiché al legislatore non interessa proporre una esatta interpretazione, coerente con i canoni all'uopo dettati dall'ordinamento, ma pre me imporre una certa interpretazione in quanto gli appare pili
opportuna comportando l'uniforme applicazione in quel senso di
tutti i rapporti non ancora definiti disciplinati dalla legge a
suo tempo dettata e redatta in termini inadeguati per il raggiun
gimento dello scopo perseguito» (Cass. 20 maggio 1982, n. 3120,
id., Mass., 651). Le premesse di tali posizioni possono essere
trovate nella stessa giurisprudenza costituzionale, che ha avuto
occasione di rilevare che « la legge d'interpretazione autentica, in quanto impone a tutti di riconoscere un certo contenuto alla
legge interpretata, ha di per sé un effetto innovativo » (Corte cost. 28 maggio 1975, n. 133, id., 1975, I, 2173). Il pensiero
espresso nell'elaborata sentenza della Corte di cassazione può essere compendiato rilevando che l'eventuale anomalia dell'inter
vento del legislatore, che suppone esistente — per errore o per « mala fede » — un inesistente contrasto interpretativo, resta
confinata nel campo dell'occasi o legis e non determina alcun
vizio della legge interpretativa: un irregolare uso del potere di
emettere leggi interpretative può essere deplorato sul piano della
correttezza, ma non può giustificare la devoluzione all'esame del
giudice delle leggi in quanto « altro è stigmatizzare un compor tamento perché scorretto, altro valutarlo in termini di legittimità costituzionale » (Cass. n. 3120/82, cit.). L'attendibilità della con
clusione è confermata dalla constatazione che il legislatore a
vrebbe potuto conseguire lo stesso risultato senza ricorrere allo
schermo della legge interpretativa, emanando disposizioni innova
tive con forza retroattiva: ditalché la scelta dell'una o dell'altra
via è rimessa alla discrezionalità del legislatore e la relativa
opzione resta priva di rilevanza sul piano della validità della
legge. Un sindacato di costituzionalità risulta praticabile soltanto
nelle ipotesi in cui la sedicente legge interpretativa riguardi una
materia per la quale le norme costituzionali sanciscono il divieto
di leggi retroattive (v. art. 25, 2° comma, Cost.): in siffatte
situazioni, però, il vizio deriva non dallo sviamento del potere
legislativo, ma dal travalicamento dei limiti costituzionali della
retroattività.
Il collegio non ignora che la Corte costituzionale ha ravvisato « sviamento strumenale della funzione legislativa » nella legge
interpretativa approvata il 21 dicembre 1977 dall'assemblea re
giornale siciliana, sull'indennità mensile e il rimborso spese per missioni al presidente della regione e agli assessori, in un'ipotesi in cui era stata utilizzata la forma dell'interpretazione autentica « nell'intento di realizzare mediante un atto legislativo quel medesimo disegno che non era stato possibile realizzare con un
atto amministrativo » (Corte cost. 10 dicembre 1981, n. 197, id., 1982, I, 650). Non sembra, però, che da tale decisione possano ricavarsi principi generali applicabili in tutti i casi di legge solo apparentemente interpretativa, tanto più che nel caso di
specie mancano gli elementi valorizzati nella predetta sentenza
per l'accertamento dell'eccesso di potere legislativo, e cioè la cerchia ristretta dei soggetti a beneficio dei quali era stata
formata la legge e, soprattutto, l'univoca interpretazione ultraven tennale della norma interpretata.
L'eccezione di incostituzionalità non ha maggior pregio nella
parte in cui è indirizzata contro il 2° comma dell'art, unico 1. n.
445/80, che estende la disposizione contenuta nel 1° comma anche ai procedimenti concorsuali per i quali siano in corso
giudizio di revoca o di opposizione. Al riguardo, è sufficiente osservare ;he la norma costituisce una puntuale applicazione delle regole operanti in materia di ius superveniens (dotato, nella specie, di efletto retroattivo), ditalché, anche senza un'e
spressa statuizione, la disposizione stessa avrebbe dovuto comun
que riguardare tutti i rapporti non definiti, compresi quelli che sono oggetto dei giudizi di revoca o di opposizione.
8. - La questione di costituzionalità è stata dedotta anche
rispetto all'istituto dell'amministrazione straordinaria nel suo
complesso, quale risulta regolato dalla 1. 3 aprile 1979 n. 95, che
sottrae alla liquidazione concorsuale determinate imprese e river
sa sui creditori le perdite inerenti alla continuazione dell'orga nismo produttivo, determinando cosi una violazione degli art. 24
e 25 Cost.
Il dubbio di costituzionalità riferito all'intero testo legislativo
(sull'ammissibilità dell'eccezione sollevata nei confronti di un'in
tera legge v.. da ultimo. Corte cost. 19 novembre 1982, n. 195,
id., 1982, I, 2693) è stato già dichiarato manifestamente infondato
da questo tribunale con più decisioni, le cui argomentazioni devo
no qui ribadirsi rilevando che la sottrazione al fallimento di deter
minate imprese, alla cui sorte sono collegati interessi in senso
lato collettivi, trova adeguata giustificazione nell'interesse pubbli co relativo alle vicende delle grandi imprese in crisi e agli
aspetti di rilevante portata sociale concernenti l'occupazione, la
produzione e l'indebitamento verso istituti previdenziali e azien
de di credito (Trib. Roma 6 gennaio 1982, cit., e 21 febbraio
1981, ric. Soc. coop, edilizia Auspicio id., 1981, I, 1175): ond'è
che, stante la presenza di tale interesse pubblico, possono essere
altresì richiamati i rilievi sviluppati dalla Corte costituzionale
per dichiarare l'infondatezza della eccezione di incostituzionalità
vertente sulle norme regolatrici della liquidazione coatta ammi
nistrativa (Corte cost. 26 giugno 1975, n. 159, id., 1975, I, 1592,
e 17 aprile 1969, n. 87, id., 1969, I, 1369). Ciò chiarito per quanto concerne la legge nel suo complesso,
va precisato che censure di legittimità costituzionale potrebbero essere rivolte contro singole e specifiche disposizioni, come, del
resto, fa lo stesso opponente quando rappresenta le conseguenze che derivano in pregiudizio dei creditori dalla continuazione
dell'esercizio dell'impresa autorizzata dal ministro a norma del
l'art. 2. Tuttavia, è evidente che eventuali profili di incostituzio
nalità, afferenti singole norme, sono privi di rilevanza nel
presente giudizio, in cui il tema di indagine e di decisione è
limitato all'accertamento delle condizioni richieste per la conver
sione del fallimento in amministrazione straordinaria, potendo le
relative questioni trovare ingresso soltanto nelle controversie nel
le quali deve farsi applicazione delle norme censurate. Ne deriva
che la valutazione, in termini di legittimità costituzionale, del
dibattuto e delicato problema degli efletti della continuazione
dell'esercizio dell'impresa sulle posizioni soggettive dei creditori, su cui si è soffermata l'attenzione della maggior parte della
dottrina, è inconferente sulla decisione diretta a verificare l'esi stenza dei presupposti per l'ammissione alla procedura, tanto più che dall'interpretazione letterale, logica e sistematica dell'art. 2
emerge che l'apertura della procedura non deve essere necessa riamente accompagnata dalla prosecuzione della gestione del
l'impresa ad opera del commissario, di guisa che, stante il
carattere eventuale e discrezionale dell'autorizzazione ex art. 2, il
ministro dell'industria, « tenendo anche conto dell'interesse dei
creditori», potrebbe non emettere il provvedimento che dà ori
gine alla situazione pregiudizievole per i diritti dei creditori. 9. - A conclusione della disamina, tutti gli argomenti posti a
sostegno della domanda risultano destituiti di fondamento giuri dico: pertanto, deve essere rigettata l'opposizione proposta dalla soc. Coembit contro la sentenza 17 settembre 1980 che ha
disposto la conversione del fallimento della soc. Genghini in amministrazione straordinaria. (Omissis)
TRIBUNALE DI MONZA; sentenza 25 novembre 1982; Pres.
Bìbolini, Est. Lapertosa; Fall. Jazzetti (Avv. Angeli) c. Pan zieri (Avv. Resta).
TRIBUNALE DI MONZA;
Fallimento — Acquisto compiuto dal fallito e ricadente nella
comunione legale dei beni — Presunzione muciana relativamen te alla quota spettante « ex lege » all'altro coniuge — Applicabi lità (Cod. civ., art. 177, 188, 192; r.d. 16 marzo 1942 n. 267,
disciplina del fallimento, art. 70).
Nel caso di acquisto di bene immobile compiuto dal fallito e ca duto in comunione legale è applicabile la presunzione muciana
relativamente alla quota spettante all'altro coniuge (nella spe cie, il tribunale ha disposto l'acquisizione alla massa fallimen tare dell'intero bene caduto in comunione e ceduto dai coniugi ad un terzo). (1)
(1) Sul punto con constano precedenti specifici. Nella specie, l'imprenditore aveva acquistato, nell'anno anteriore
alla dichiarazione di fallimento, un bene immobile caduto automati camente in comunione legale con l'altro coniuge. Successivamente
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
Motivi della decisione. — Risulta dai documenti prodotti che
l'immobile, venduto in data 1° luglio 1978 dai coniugi Jazzetti ai
signori Enrico e Marco Panzeri, era stato precedentemente ac
quistato, con rogito 10 marzo 1978 n. 1189 di rep. per notaio Gamberale di Roma, dal solo Giuseppe Jazzetti, il quale aveva contestualmente dichiarato di aver contratto matrimonio con Buono Antonia il 15 settembre 1974 e di non aver stipulato alcuna convenzione matrimoniale. Deve perciò ritenersi che, in virtù del disposto dell'art. 159 c. c. (come modificato dall'art. 41 1. n. 151/75), il regime patrimoniale vigente per i coniugi Jazzet ti, alla data del 10 marzo 1978, fosse quello di comunione legale dei beni e che, in applicazione degli art. 177, lett. a), e 179, ult.
comma, e. c., l'immobile di cui trattasi, pur essendo stato acqui stato soltanto dal marito, entrò a far parte della comunione, divenendo quindi di proprietà di entrambi i coniugi in ragione di metà per ciascuno (art. 1101, 1° comma, 210, 3° comma, e 194 c. c.).
Ciò premesso, occorre stabilire se a seguito del fallimento di
Giuseppe Jazzetti, dichiarato da questo tribunale con sentenza del 12 dicembre 1979, sia possibile «considerare» acquistato interamente con danaro del fallito e, quindi, di proprietà di lui, il bene che, per la quota di metà, apparteneva ex lege alla
moglie, e se, in conseguenza, sia consentito al fallimento di
esperire l'azione revocatoria ex art. 67 1. fall, contro i terzi
acquirenti al fine di avocare all'attivo fallimentare l'intero im mobile alienato.
La decisione della controversia impone quindi l'esame della dibattuta questione relativa alla compatibilità della presunzione muciana, regolata dall'art. 70 1. fall., con il regime di comunione
legale dei beni, introdotto con la riforma del diritto di famiglia. Questo stesso collegio ha già avuto modo di esprimere la
propria opinione al riguardo con una sentenza emessa il 14
maggio 1981 nella quale, uniformandosi all'indirizzo prevalente in dottrina, ha affermato che l'art. 70 1. fall, sarebbe stato
tacitamente e parzialmente abrogato per incompatibilità con la
entrambi i coniugi avevano venduto il bene ad un terzo. Con la pronuncia in epigrafe, mutando l'indirizzo accolto in precedenza, il Tribunale di Monza ha ritenuto applicabile la presunzione muciana in presenza del regime di comunione legale tra i coniugi, non solo all'ipotesi testuale dell'art. 70 1. fall, dell'acquisto compiuto dal coniu ge del fallito bensì anche all'ipotesi in cui tale soggetto abbia
acquisito, in quanto ricaduto ex lege in comunione, il bene acquistato dal coniuge imprenditore fallito. Sull'applicabilità della presunzione muciana in presenza del regime di comunione legale tra i coniugi v., in senso contrario, Trib. Lucca 7 luglio 1982, Giur. comm., 1983, II, 95 ss., con nota adesiva di Corsi, Presunzione muciana e acquisti in comunione legale, in un'ipotesi di immobile costruito su di un terreno
acquistato in comune dai coniugi. In dottrina, in senso conforme in merito sia alla compatibilità del
l'art. 70 1. fall, con il regime di comunione legale, sia all'applicabilità della presunzione muciana anche agli acquisti compiuti dal fallito e di cui si avvantaggerebbe l'altro coniuge per effetto della caduta in
comunione, v. Guglielmucci, Presunzione muciana e comunione di beni Ira coniugi, in Dir. fall., 1977, I, 334, secondo il quale il de naro impiegato per l'acquisto di beni alla comunione dovrebbe es sere considerato, sino a prova contraria, come denaro del coniuge imprenditore; sicché beni acquistati dal coniuge del fallito sarebbe ro anche quelli caduti in comunione sulla base di un atto di
acquisto effettuato dal coniuge imprenditore. Di conseguenza anche a questi « acquisti » si applicherebbe l'art. 70 1. fall. Favorevoli all'operatività di tale disposizione, anche in presenza del
regime di comunione, ma limitatamente agli acquisti compiuti dal
coniuge del fallito, sono anche Salanitro, Rapporti tra coniugi nel
fallimento e presunzione muciana, id., 1978, 254 ss., e Pajardi, Manuale di diritto fallimentare, Milano, 1976, 413 ss.
La prevalente dottrina è orientata a negare la compatibilità della
presunzione muciana con il regime di comunione dei beni tra coniugi soprattutto in considerazione del fatto che la provenienza del denaro è ormai circostanza per sé incapace di contrastare l'effetto legale della caduta del bene in comunione (in tal senso v. Florini. La
presunzione muciana e il nuovo diritto di famiglia, in Dir. fall., 1982, I, 440, ss.; Ragusa Maggiore. Presunzione muciana e riforma del diritto di famiglia, in Banca, borsa, ecc., 1981, 98 ss.; Oppo,
Acquisti alla comunione coniugale e pregiudizio dei creditori persona li, in Riv. dir. civ., 1981, I, 152 ss.; Jannarelli, La presunzione muciana tra interessi dei creditori e interessi dei coniugi, in Foro it.,
1978, I, 73 ss.). Peraltro, con riferimento all'ipotesi di cui alla fattispecie, e
cioè dell'atto di acquisto compiuto dallo stesso coniuge impren ditore con denaro proprio e caduto in comunione, la dottrina che
esclude l'operatività della presunzione muciana ha fatto ricorso ai fini
di tutelare i creditori del fallito ora all'art. 67, 2° comma, 1. fall,
che pone l'onere della prova circa la conoscenza dell'insolvenza a
carico della curatela (cosi Oppo, op. cit., 147), ora all'art. 69 1. fall,
che pone a carico del coniuge la prova circa l'ignoranza dello stato
di insolvenza dell'altro (per questa soluzione v. Corsi, op. cit., 98).
normativa sopravvenuta, sulla base del fondamentale rilievo che
oramai « non ha alcun senso un'indagine sulla provenienza del
denaro impiegato in quanto i beni acquistati anche da uno solo
dei coniugi appartengono de iure alla comunione e non potreb bero quindi mai considerarsi di esclusiva proprietà del fallito, anche perché non sarebbe più giuridicamente possibile che il
danaro di cui dispone la comunità familiare appartenga intera
mente ad uno solo dei coniugi, posto che anche i frutti dei beni
personali ed i proventi dell'attività separata di ciascuno di essi
rientrano nella comunione (sia pure de residuo per effetto del
fallimento di uno dei coniugi: art. 177 e 191 c. c.) ».
Un'attenta rimeditazione del problema induce tuttavia nell'op
posto convincimento che l'affermata incompatibilità normativa
non sussista e che invece la presunzione muciana abbia tuttora
spazio applicativo nel nostro ordinamento.
La prima considerazione da fare è che la 1. 151/75, in quanto modificativa delle norme del codice civile, ha carattere generale e non contiene alcuna disposizione particolare riferibile alla ma
teria fallimentare, tranne il disposto dell'art. 191 c.c. ove il
fallimento viene elencato tra le possibili cause di scioglimento della comunione.
Ne deriva che, essendo estranea alla novella introdotta con la
1. 151/75 la disciplina delle procedure concorsuali, l'abrogazione
implicita di una norma della legge fallimentare, avente indubbio
carattere di specialità, è prospettabile solo nel caso di insanabile
contrasto con la legge successiva.
Peraltro, quand'anche si prescinda dall'indirizzo interpretativo
che, con riferimento all'art. 15 preleggi, nega a priori la possibili tà di un'abrogazione tacita di leggi speciali (v. Cass. 9 giugno
1949, Foro it., Rep. 1950, voce Legge, n. 41) in base al noto
broccardo lex posterior generalis non derogat priori speciali, e si
ricerchi invece la soluzione del problema, a seconda dei casi
concreti, mediante l'individuazione della volontà legislativa, deve
tenersi fermo il principio che l'abrogazione implicita di una
disposizione di legge, per incompatibilità con una legge successi
va, non dipende dalla mera circostanza che quest'ultima sia
ispirata a nuovi criteri informatori, sibbene dal fatto che il
contrasto logico c giuridico tra le due leggi a confronto si ponga in termini tali da renderne impossibile la contemporanea appli
cazione (v. Cass. 26 marzo 1973, n. 830, id., 1973, I, 3128).
Se cosi è, per sostenere la tesi dell'abrogazione tacita dell'art.
70 1. fall, non basta osservare che i principi informatori della
riforma del diritto di famiglia, con riguardo soprattutto al con
corso di entrambi i coniugi alla formazione del reddito comune,
comportano un superamento storico dell'istituto della presunzione
muciana, la quale, del resto, essendo sorta in un contesto stori
co-sociale nel quale era addirittura avvertita l'esigenza di allon
tanare il sospetto, disdicevole per l'onorabilità del marito, che la
moglie si fosse procurato l'acquisto di beni propri con turpi
guadagni, era da taluni ritenuta anacronistica già sotto l'imperio
dell'abrogato c. comm. del 1882 (che tuttavia l'aveva espressa mente mantenuta all'art. 782 anche nell'ipotesi di comunione
convenzionale dei beni), ma occorre dimostrare piuttosto che in
regime di comunione legale dei beni sia impossibile, sotto il
profilo logico-giuridico, presumere che il denaro impiegato per
l'acquisto di un bene da parte del coniuge dell'imprenditore
(fallito), provenga da quest'ultimo e che, conseguentemente, il
bene debba considerarsi di proprietà di lui nei confronti dei
creditori fallimentari.
Ora, per quanto concerne la presunzione di provenienza del
danaro dal patrimonio del fallito, non sembra che l'esistenza di
un patrimonio comune debba necessariamente farla venir meno.
Il regime di comunione legale non postula affatto che i coniu
gi contribuiscano in modo eguale agli acquisti, ma si limita a
stabilire che di tali acquisti debbano beneficiare in parti eguali entrambi i coniugi.
È pur vero che l'art. 159 c.c. è stato anche dettato dall'esi
genza di un equo riconoscimento del contributo che, anche
attraverso il lavoro casalingo, il coniuge economicamente più debole è tenuto a fornire per la formazione del patrimonio familiare (art. 143 c.c.) ma, a parte il rilievo che la comunione
legale dei beni, come regime normale della famiglia, costituisce
piuttosto la consacrazione normativa di una conforme prassi
ampiamente diffusa nel costume sociale (salvo restando le dero
ghe che in relazione a esigenze particolari i coniugi intendono
operare adottando convenzionalmente regimi patrimoniali alterna
tivi) è evidente che. in relazione alla presunzione di provenienza del danaro dal patrimonio del fallito, non rileva che l'altro
coniuge disponga di propri mezzi ma piuttosto che li abbia in
concreto impiegati per effettuare l'acquisto.
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1443 PARTE PRIMA 1444
D'altro canto, è agevole osservare che pur in regime di comu
nione sussistono numerose categorie di beni (art. 179 c.c.) che
fanno parte del patrimonio personale di ciascun coniuge e dal
quale, appunto, potrebbero trarsi i mezzi di pagamento concre
tamente impiegati per l'acquisto del bene.
Né può sfuggire che, per il combinato disposto degli art. 178,
2740 e 2741 c. c., al coniuge dell'imprenditore devono ritenersi
riservate le sole eccedenze aziendali, in ragione di metà, dopo la
soddisfazione dei creditori dell'imprenditore, con la conseguenza che la più cospicua fonte di disponibilità patrimoniali dell'im
prenditore è destinata a cadere in comunione solo de residuo, vale a dire che essa, nell'ipotesi di scioglimento della comunione,
per fallimento (art. 191 c.c.), sarà di regola definitivamente
esclusa dalla compartecipazione dell'altro coniuge.
In sostanza, pur in regime di comunione legale, è ben possibi le — ed anzi rispondente alla generalità dei casi pratici — che
il coniuge dell'imprenditore utilizzi il danaro ricavato dal patri monio personale del fallito (sotto forma di utili di impresa o di
prezzo ottenuto dalla vendita di beni aziendali o di altri beni
personali dell'imprenditore) per l'acquisto di beni che, cadendo in comunione, o addirittura nel suo esclusivo patrimonio perso nale (art. 179, lett. c, d e /, ult. comma), vengono sottratti, per metà o per l'intero, alla legittima garanzia patrimoniale dei
creditori dell'imprenditore. Nel caso poi che i coniugi adottino convenzionalmente il
regime di separazione dei beni sembra evidente che, rimanendo
inalterata la situazione tipica prevista dal diritto previgente, la
presunzione muciana deve continuare senz'altro ad operare. In tale convincimento concordano anche coloro che sostengono
la tesi dell'abrogazione tacita dell'art. 70 1. fall, nel regime di
comunione, ammettendo l'operatività della norma non solo in
relazione agli acquisti compiuti in regime di separazione ma
anche in relazione a quelli aventi ad oggetto beni personali del
coniuge non imprenditore.
Non può peraltro sottacersi che, secondo una corrente dottri
naria minoritaria, anche in tali ipotesi la presunzione muciana
dovrebbe ritenersi inapplicabile sull'assunto che una scelta « vo
lontaria » intesa ad evitare commistioni patrimoniali rivelerebbe
di per sé un intento opposto a quello che con l'intestazione di
beni dell'uno all'altro coniuge, si manifesta nelle ipotesi con
template dall'art. 70. Ma tale opinione non sembra affatto con
vincente sia perché attribuisce un peso eccessivo ad un elemento
soggettivo che molto spesso è collegato a situazioni reddituali
tutt'altro che paritarie (basti pensare a tutti i casi in cui l'ado
zione del regime di separazione è motivata, anche formalmente
ex art. 162, 3° comma, c.c. dal timore di coinvolgere il coniuge
non imprenditore, magari la moglie casalinga, nella responsabilità
inerente ad atti di gestione dell'impresa, ovvero da scopi fiscali
o, più semplicemente, dall'esigenza di assicurare maggiore libertà
e speditezza di contrattazione al coniuge che svolga una libera
professione o un'attività commerciale), sia perché l'intento di
frodare i creditori — che la norma dell'art. 70 1. fall, si propone
di tutelare — potrebbe essere più facilmente consumato nel
regime di separazione, il quale, se, da un verso, non impedisce il
passaggio di danaro dall'uno all'altro coniuge, per contro, consen
te a quest'ultimo di attribuirsi la titolarità esclusiva di un bene
in modo da sottrarlo per l'intero (e non solo per la quota di
metà, come accade in regime di comunione) alla soddisfazione
del creditore del fallito.
D'altra parte, non sembra affatto decisivo il carattere volonta
rio o legale del regime patrimoniale in concreto adottato poiché,
pur prescindendo dal rilievo che anche l'assunzione del sistema
predisposto in via generale dalla legge riposa su una libera
scelta degli interessati, ancorché non formalizzata attraverso la
stipulazione di un'apposita convenzione matrimoniale, ciò che
vale ai fini dell'applicazione della presunzione muciana non è la
« originaria » preordinazione della scelta ad uno scopo frodato
rio (il che, ovviamente, può registrarsi in molti casi) quanto che
la frode possa venir agevolmente realizzata dai coniugi sotto la
vigenza di un particolare regime patrimoniale.
Se le riflessioni che precedono sono esatte, deve ammettersi
che, anche dopo l'avvento della riforma del diritto di famiglia, è
ben possibile, sotto un profilo logico-giuridico, che il coniuge in
bonis impieghi il danaro del fallito per l'acquisto di beni
destinati, a seconda dei casi, a sfuggire, in tutto o per metà, alla
garanzia patrimoniale dell'imprenditore. Né sembra più resistente
alla critica l'obiezione che non sarebbe possibile « considerare »
di proprietà del solo fallito un bene che de iure appartiene alla
comunione.
È noto invero che la presunzione assoluta di appartenenza del
bene acquistato non opera a favore del fallito, sibbene a favore
della massa dei creditori fallimentari, nel senso che soltanto nei
loro confronti e nell'ambito soltanto della procedura esecutiva
concorsuale il bene « si considera » di proprietà del fallito,
fermo restando che per diritto comune la titolarità di esso
rimane in testa al coniuge che l'ha acquistato, sicché verrà a
ripristinarsi la situazione giuridica anteriore al fallimento ogni
qualvolta il bene sussista ancora ne! patrimonio all'atto di chiu
sura o di revoca del fallimento.
In sostanza, neppure prima della novella 151/75 avrebbe potu to validamente sostenersi che la presunzione muciana comportas se un trasferimento della proprietà del bene dal coniuge in
bonis al fallito; ed infatti la dottrina e giurisprudenza di gran
lunga prevalenti, abbandonata l'iniziale teoria simulatoria, con
cordavano nell'aflermare che la presunzione di appartenenza al
fallito si risolveva in una mera pronuncia di inefficacia relativa
dell'atto di acquisto rispetto ai soli creditori del fallito, a favore
del quale il bene non veniva comunque a trasmettersi. Ed
allora, non rileva che, in regime di comunione, il bene appar
tenga ex lege al coniuge del fallito pro quota se, relativamente a
tale quota e limitatamente ai creditori dell'imprenditore, esso
debba, in virtù di una disposizione speciale di legge, « conside
rarsi » di proprietà di lui, sul presupposto che egli abbia fornito
il danaro necessario per il suo acquisto.
A questo punto, le obiezioni che potrebbero muoversi alla tesi
della perdurante vigenza della presunzione muciana in regime di
comunione legale dei beni appaiono sostanzialmente due: la
prima, che l'art. 189, 2° comma, c. c. (nella sua nuova formula
zione) precluderebbe ai creditori particolari di uno dei coniugi, senza eccezioni di sorta, di soddisfarsi sui beni della comunione se non in misura limitata (« fino al valore corrispondente alla
quota del coniuge obbligato ») e in via sussidaria; la seconda, che l'art. 70 1. fall, riguarderebbe l'ipotesi di acquisto di beni
compiuto dal coniuge del fallito con danaro di lui, per cui esulerebbe dallo schema normativo in parola la diversa ipotesi, qual è quella ricorrente nella presente fattispecie, che l'acquisto venga compiuto direttamente dal fallito e che, per imputazione legale, il bene cada in comproprietà del coniuge.
In relazione alla prima questione sembra possibile replicare innanzitutto che la totale estraneità della disciplina delle proce dure concorsuali alla normativa introdotta con la 1. 151/75 com
porta la conservazione dei mezzi speciali di tutela predisposti dal r.d. 16 marzo 1942 n. 267 a favore dei creditori fallimentari con la conseguente necessità di un'interpretazione restrittiva del citato art. 189, 2° comma, c. c.; e ciò vale a dire con esclusione
previsionale dell'interferenza di una procedura concorsuale.
D'altro canto, lo stesso art. 189, 2° comma, ammette la possi bilità, sia pure in limiti angusti, che i beni della comunione
rispondano dei debiti personali contratti da uno solo dei coniugi e ciò costituisce comunque un'importante affermazione di princi pio che consente di negare alla « comunione » natura di patri monio separato, assolutamente intangibile per i creditori del
coniuge fallito.
Deve poi considerarsi che, una volta ammessa la compatibilità della presunzione muciana con il regime di comunione legale dei beni, l'effetto che ne deriva, limitatamente ai creditori del fallito, è dato dalla presunzione iuris et de iure di totale appartenenza del bene al patrimonio di lui, per cui è esclusa a monte la
possibilità che il bene stesso, nell'ambito fallimentare, possa con siderarsi appartenente per metà al coniuge in bonis.
Infine, partendo alla premessa che in caso di fallimento, i beni destinati all'esercizio dell'impresa di uno dei coniugi costi tuita dopo il matrimonio e gli incrementi dell'impresa costituita anche precedentemente si considerano oggetto della comunione ex art. 179 c. c. solo se residuano dopo il soddisfacimento priori tario dei creditori concorsuali (ché, altrimenti, non sarebbe lecito
parlare di « eccedenza attiva » da attribuire al coniuge dell'im
prenditore in ragione di metà), si deve pervenire alla conclusio ne che se fosse consentito all'imprenditore, avvalendosi dell'im
putazione legale alla comunione degli effetti degli atti di acqui sto di ciascun coniuge, di sottrarre ai suoi creditori l'intero o la metà del patrimonio aziendale, si lascerebbe senza sanzione un
comportamento frodatorio inteso a sottrarre attività al patrimo nio del soggetto responsabile proprio nell'ipotesi, più eclatante, in cui quelle disponibilità patrimoniali risultano, in virtù di altra norma del codice civile (art. 178 c.c.), destinate a costituire la garanzia dei creditori commerciali e, come tali, suscettibili di cadere in comunione solo dopo il soddisfacimento delle loro
ragioni.
In siffatte situazioni sarebbe davvero assurdo negare il legitti mo interesse dei creditori fallimentari ad esperire, quantomeno,
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
un'azione revocatoria ordinaria, vale a dire a servirsi di un rimedio idoneo a caducare l'acquisto di un bene alla comunione.
Né par dubbio che nel conflitto tra le ragioni del coniuge in bonis e quelle dei creditori dell'imprenditore debbano essere
queste ultime a prevalere in un sistema economico-giuridico in cui il solo patrimonio del fallito è destinato a fornire la garan zia sulla quale i creditori possono fare legittimo affidamento; se cosi non fosse, sarebbe macroscopico il pregiudizio, certamente non voluto dal legislatore, allo stesso interesse generale alla
circolazione del credito. Del resto, se si riconosce l'interesse dei
creditori fallimentari a impugnare un qualsiasi atto di alienazio ne con il quale l'imprenditore provochi una riduzione del pro
prio patrimonio, analogo interesse deve individuarsi allorquando siffatto depauperamento venga ottenuto attraverso un atto di
acquisto che, combinato ad un sistema di imputazione legale
degli effetti negoziali, comporti di per sé la distrazione alle
ragioni creditorie di metà del valore del bene acquistato (argo menta anche ex art. 164 c. c.).
Deve però concludersi che la norma dell'art. 189, 2° comma, c.c. trovi il suo limite proprio in relazione al fallimento del
coniuge imprenditore, contro il quale i creditori non possono non avvalersi dei rimedi speciali loro offerti dalle azioni revoca
tone, e più in particolare dell'impugnazione prevista dall'art. 70
1. fall., la quale conserva, ora più che mai, una giustificazione
operativa, salvi restando i diritti che il coniuge in bonis potrà far valere nei suoi rapporti interni verso il fallito.
Di maggior consistenza sembra invece la seconda delle que stioni suaccennate (che peraltro non risulta mai posta in sede
dottrinaria). Non può invero mettersi in dubbio che l'art. 70 1. fall., sorto
in un'epoca in cui il regime legale della famiglia era quello di
separazione dei beni, contemplasse la sola ipotesi in cui il
coniuge in bonis avesse acquistato un bene a titolo oneroso con
denaro del fallito, e non considerasse minimamente la diversa
ipotesi, resa possibile solo dalla successiva 1. 151/75, che il bene
fosse acquistato direttamente dal fallito e cadesse de iure in
comproprietà del coniuge in ragione di metà (art. 177 c.c.).
Un'interpretazione strettamente letterale della norma in esame
dovrebbe portare alla conseguenza della sua estraneità alla pre sente fattispecie; ma tale risultato sarebbe logicamente e giuridi camente aberrante perché, proprio nel caso in cui sarebbe più forte il sospetto che il danaro impiegato per l'acquisto del bene
provenga dal patrimonio dell'imprenditore (la prova, anzi, sareb
be in re ipsa), sarebbe escluso il ricorso alla presunzione mucia
na per impugnare l'acquisto prodottosi a favore dell'altro coniu
ge, mentre la presunzione stessa troverebbe applicazione nella
diversa ipotesi in cui la quota di compartecipazione fosse acqui
sita dal coniuge in bonis attraverso un atto negoziale diretto e
personale. E, infine, il bene potrebbe essere addirittura avocato
per l'intero alla massa fallimentare nell'ulteriore ipotesi in cui il
coniuge in bonis proceda all'acquisto in regime di separazione, vale a dire in tutti gli altri casi in cui la presunzione della
provenienza del denaro dal patrimonio personale del fallito sa
rebbe meno intensa.
A parere del collegio occorre nella specie richiamare i prin
cipi generali in tema di interpretazione « evolutiva » della legge, alla stregua dei quali si può affermare che, a seguito dell'intro
duzione nel nostro ordinamento del meccanismo di imputazione
legale degli effetti degli atti di acquisto alla comunione —
ignota ai compilatori della legge fallimentare — deve ritenersi
« acquistato dal coniuge del fallito » il bene che venga da lui
« acquisito » in proprietà (per la quota di sua spettanza) in
conseguenza di un atto di acquisto a titolo oneroso compiuto dall'uno o l'altro dei coinugi, insieme o separatamente, volta che,
se la fonte dell'acquisto resta il compimento di un atto a titolo
oneroso, l'acquisto della titolarità del bene dipende direttamente
dalla legge attraverso un sistema nel quale la partecipazione
negoziale all'atto dell'uno o dell'altro coniuge è del tutto fungibi
le.
Se, quindi, si valuta la presunzione muciana nella sua attuale
funzione, « non più chiusa nell'ambito antico degli interessi
patrimoniali fra coniugi, né più pertinente alla sfera dei rapporti
familiari, ma come strumento essenziale di tutela dei creditori
verso l'imprenditore » (v. Cass. 6 ottobre 1977, n. 4257, id.,
1978, I, 73), deve concludersi nel senso che essa non è assolu
tamente in contrasto con la legge di riforma del diritto di
famiglia e che quest'ultima, pur informata a principi nuovi e
diversi rispetto a quelli che avevano ispirato il legislatore del
1942, non ne rende impossibile la pratica attuazione.
L'applicazione dell'art. 70 1. fall, al caso di specie comporta
che, non essendo stata neppure offerta la prova contraria sulla
proprietà del danaro investito e sulla sua provenienza dal patri monio della moglie dello Jazzetti, né rientrando l'immobile ac
quistato tra i beni non avocabili alla massa ai sensi dell'art. 46 1. fall., incombeva ai convenuti costituiti, quali terzi acquirenti, l'onere di provare la loro buona fede in relazione all'acquisto della metà del bene di pertinenza della moglie del feìlito (art. 79, 2° comma, 1. fall.), e cioè che costei avesse acquistato quella quota con danaro non del fallito.
Ma tale prova non è stata fornita né offerta mentre la buona fede risulta senz'altro esclusa dalla circostanza che, prima della
conclusione dell'atto di vendita 1° luglio 1978, impugnato dalla curatela fallimentare, Giuseppe Jazzetti aveva stipulalo con i
Panzeri, a mezzo della scrittura privata non registrata 26 maggio 1978, un « compromesso di vendita » nel quale aveva dichiarato di aver in precedenza acquistato il bene con atto 10 marzo 1978 a rogito del notaio Gamberale, rilasciato in copia agli acquirenti.
Costoro, pertanto, non potevano ignorare che l'immobile era
stato acquistato proprio dallo Jazzetti e che il prezzo era stato
interamente pagato dal medesimo (come risultava dalla clausola
n. 9 di quel contratto), anche per la quota pervenuta ex lege in
proprietà alla moglie.
Fallita, quindi, da parte dei terzi acquirenti, la prova della
loro buona fede (che ad essi incombeva perché relativa a fatto
impeditivo della dichiarazione di inefficacia dell'atto di aliena
zione della quota del bene di pertinenza del coniuge in bonis), la
revoca dell'atto di alienazione concluso il 1° luglio 1978, in
relazione all'intero bene ceduto (e cioè sia per la quota « da
considerarsi di proprietà del fallito a mente dell'art. 70 1. fall. »
sia per quella allo stesso appartenente per diritto comune) è
nella specie condizionata all'esistenza dei presupposti voluti dal
l'art. 67, n. 1, 1. fall. (v. Cass. 20 aprile 1963, n. 1002, id., 1963,
I, 1429; 29 gennaio 1964, n. 238, id., 1964, 1, 253; 17 maggio
1969, n. 1686, id., Rep. 1969, voce Fallimento, n. 397; 24 marzo
1975, n. 1100, id., Rep. 1975, voce cit., n. 408). Il curatore ha
documentalmente dimostrato che l'impugnata vendita fu conclusa
il 1° luglio 1978, vale a dire nel biennio anteriore alla dichiara
zione di fallimento, al prezzo, manifestamente irrisorio, di lire
II.000.000. A nulla vale obiettare che lo Jazzetti aveva acquistato lo stesso immobile in data 10 marzo 1978 per il prezzo di lire
10.000.000 (v. rogito per notaio Gamberale prodotto dai conve
nuti) in quanto l'equilibrio patrimoniale delle prestazioni corri
spettive dedotte in tale contratto, essendo esso intervenuto con
altro soggetto, era presumibilmente influenzato da motivi che
sfuggono a qualsiasi valutazione, mentre dal citato compromesso del 26 maggio 1978, cui parteciparono gli stessi Panzeri, risulta
che il prezzo della vendita era stato dalle parti fissato in lire
50.000.000.
Dalle stesse dichiarazioni negoziali dei convenuti si trae quindi la prova inequivoca che il valore del bene era di gran lunga
superiore (circa di cinque volte) alla somma successivamente
sborsata per il suo acquisto e che costoro erano perfettamente
consapevoli di tale sperequazione, facilmente percepibile da qua
lunque sprovveduto ove si consideri la consistenza dell'immobile
venduto (un appartamento di tre camere ed accessori con annes
si due giardini della superficie rispettiva di mq. 182 e mq. 38);
la sua favorevole ubicazione (in San Felice al Circeo, Colle del
Circeo) e l'epoca dell'acquisto (luglio 1978).
Per evitare l'avocazione del bene alla massa fallimentare i
Panzeri avrebbero quindi dovuto fornire la prova della mancan
za di conoscenza, da parte loro, dello stato di insolvenza dello
Jazzetti alla data del 1° luglio 1978.
Ma la presunzione della scientia fraudis ex art. 67, la parte, 1.
fall, non è stata in alcun modo fornita dai convenuti i quali, anzi affermandosi creditori per oltre 200 milioni di lire verso il
fallito, hanno implicitamente ammesso che essi erano a cono
scenza della grave situazione debitoria in cui questi versava e
della sua incapacità di far fronte alle obbligazioni assunte con
mezzi normali di pagamento al punto che egli, per coprire
parzialmente la propria esposizione, si era indotto a cedere un
proprio ente immobiliare a prezzo di gran lunga inferiore al suo
valore venale.
Ricorrono quindi le condizioni previste dall'art. 67, n. 1, 1.
fall, per disporre, in accoglimento della domanda, la revocazione
dell'atto di compravendita stipulato dalle parti in causa il 1°
luglio 1978. (Omissis)
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