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sentenza 25 ottobre 1985, n. 233 (Gazzetta ufficiale 6 novembre 1985, n. 261 bis); Pres.Roehrssen, Rel. Paladin; Soc. Standa c. Soc. Vide; interv. Pres. cons. ministri. Ord. Trib.Perugia 21 aprile 1977 (G.U. n. 272 del 1977)Source: Il Foro Italiano, Vol. 109, No. 1 (GENNAIO 1986), pp. 19/20-21/22Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23180097 .
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PARTE PRIMA
licenziamento non pretendendo che fosse stato determinato da uno dei motivi illeciti indicati dall'art. 4, ma affermando solo che
il motivo indicato (superamento del sessantacinquesimo anno di
età) non poteva concretare una giusta causa o un giustificato motivo di licenziamento e, cioè, uno dei motivi previsti dagli art.
I e 3 della legge. Il ricorso del centro studi « Aleardo Aleardi » andrebbe, per
tanto, accolto, alla stregua delle conclusive richieste del procura tore generale. Ma, proprio perché la corretta interpretazione dell'art. 11, 1° comma, 1. n. 604 del 1966, come emendato dalla
sentenza n. 174 del 1971 della Corte cost., è quella che si
è sopra data, sorgono notevoli dubbi sul piano della legittimità co
stituzionale della norma in riferimento alla ben più rilevante garan zia della tutela del posto di lavoro nei riguardi dei lavoratori che, avendo superato il sessantacinquesimo anno di età, non hanno ma turato i requisiti per il conseguimento della pensione di vecchiaia.
Infatti — ove si voglia seguire il pensiero manifestato dalla Corte costituzionale nella suddetta pronuncia, sia pure ai limitati
effetti delle garanzie di cui agli art. 2 e 5 1. n. 604 del 1966 —
mentre nei riguardi dei lavoratori che si trovino in possesso dei
requisiti di legge per avere diritto alla pensione di vecchiaia il trattamento differenziato rispetto a quello fatto ai lavoratori non anziani può ritenersi giustificato e la loro licenziabilità (fuori delle ipotesi di cui all'art. 4) non determina la conseguenza che essi possano « rimanere senza retribuzione e senza trattamento di
quiescenza per vecchiaia », e, d'altra parte, la mancata piena tutela del diritto al lavoro nei confronti dei predetti lavoratori, stanti i problemi occupazionali della società attuale, può conside rarsi « il riflesso giuridico di una necessità pratica, autonomamen te valutabile dal legislatore », non altrettanto sembra potersi ritenere per i lavoratori ultrasessantacinquenni che non abbiano i
requisiti per il godimento della pensione di vecchiaia, il licenzia mento dei quali comporta la perdita della retribuzione e l'impos sibilità di maturare i requisiti per il conseguimento del diritto a
pensione.
Sembra sussistere, infatti una disparità di trattamento non
razionalmente giustificata, che si traduce in violazione del princi
pio di cui all'art. 3 Cost., tra i lavoratori ultrasessantacinquenni che non siano in possesso dei requisiti di legge per aver diritto
alla pensione di vecchiaia e i lavoratori non anziani, i quali si
vedono garantita la tutela del posto di lavoro mediante il divieto,
fatto al datore di lavoro, di licenziarli senza giusta causa o
giustificato motivo, mentre i primi possono essere licenziati per il
solo fatto dell'età. Conseguentemente, per i primi, la norma di
cui all'art. 11, 1° comma, 1. n. 604 del 1966 sembra in contrasto
anche con l'art. 4 Cost., posto che la tutela del diritto al lavoro
appare strettamente connessa, come già rilevato dalla Corte costi
tuzionale nella menzionata sentenza n. 174 del 1971, all'attuazione
del principio di uguaglianza.
Disparità di trattamento, del resto, sembra derivare dalla citata
norma tra gli stessi lavoratori anziani, posto che, se essi sono
accomunati dall'inapplicabilità nei loro confronti degli istituti della
giusta causa e del giustificato motivo di licenziamento, tale
inapplicabilità determina nei soli riguardi dei lavoratori ultrases
santacinquenni che non hanno maturato il diritto alla pensione di
vecchiaia anche l'impossibilità di conseguire il suddetto trattamen
to di quiescenza, con conseguente violazione dell'art. 38, 2°
comma, Cost.
La mancata attuazione dei predetti diritti di rilevanza costitu
zionale nei soli confronti dei lavoratori ultrasessantacinquenni non in possesso dei requisiti per il conseguimento della pensione di vecchaia, non sembra sufficientemente e razionalmente giu stificata dai problemi occupazionali della società attuale.
Peraltro, come già rilevato dalla Corte costituzionale nella
sentenza n. 174 del 1971, la semplice maggiore probabilità che
tali lavoratori siano inidonei fisicamente o psichicamente al lavo
ro a causa dell'età raggiunta non può essere assunta a valida e
sufficiente giustificazione di un trattamento differenziato. È da
rilevare, invece, che l'estensione della garanzia della tutela del
posto di lavoro, mediante divieto di licenziamento senza giusta causa o giustificato motivo, ai lavoratori in questione, non esclu
derebbe il diritto del datore di lavoro a far controllare, in ogni
momento, l'idoneità fisica dei lavoratori stessi, con le garanzie
previste dall'art. 5, ult. comma, 1. 20 maggio 1970 n. 300 (statuto dei lavoratori), e di pervenire, in esito a tali controlli, eventual
mente al licenziamento per giustificato motivo.
Pertanto, questa corte ritiene di sollevare, d'ufficio, previa
sospensione del giudizio, questione di legittimità costituzionale
dell'art. 11, 1" comma, 1. 15 luglio 1966 n. 604, nel testo emandato
con sentenza 14 luglio 1971, n. 174 della Corte cost., in ri
II Foro Italiano — 1986.
ferimento agli art. 1 e 3 della stessa legge, per contrasto con gli art.
3, 4 e 38 Cost., nella parte in cui detta norma esclude l'applicabili tà del divieto di licenziamento senza giusta causa o giustificato mo
tivo nei riguardi dei prestatori di lavoro ultrassessantacinquenni che non sono pensionati né in possesso dei requisiti di legge per aver diritto alla pensione di vecchiaia.
Nessun dubbio sussiste, peraltro, sulla rilevanza della questione come sopra prospettata: ricorre, infatti, la sua pregiudizialità in
funzione della decisione della causa, poiché l'Insirilli ha dedotto
l'illegittimità del licenziamento in quanto intimatogli senza una
giusta causa o giustificato motivo, poiché la stessa sentenza
impugnata ha dato atto che l'Insirilli aveva superato, al momen
to del licenziamento, il sessantacinquesimo anno di età e non
aveva maturato i requisiti per aver diritto alla pensione di
vecchiaia, poiché è pacifico che tra le parti sussisteva un rappor to d'impiego privato e poiché, infine, non è mai stato in
contestazione il numero dei dipendenti dell'istituto, attuale ricor
rente (più di 35 dipendenti). I provvedimenti conseguenziali vanno dati in dispositivo. La corte sospende il giudizio e dispone la rimessione degli atti
alla Corte costituzionale per la decisione della questione di
legittimità costituzionale dell'art. 11, 1° comma, 1. 15 luglio 1966
n. 604, come emendato dalla sentenza 14 luglio 1971, n. 174 della
Corte cost., in riferimento agli art. 1 e 3 della legge stessa
e in relazione agli art. 3, 4 e 38 Cost. (Omissis)
CORTE COSTITUZIONALE; sentenza 25 ottobre 1985, n. 233
(Gazzetta ufficiale 6 novembre 1985, n. 261 bis); Pres. Roehrs
sen, Rei. Paladin; Soc. Standa c. Soc. Vide; interv. Pres.
cons, ministri. Ord. Trib. Perugia ZI aprile 1977 (G.U. n. 272
del 1977).
Tributi locali — Imposta comunale sulla pubblicità — Esenzioni — Questione infondata di costituzionalità (Cost., art. 77; 1. 9
ottobre 1971 n. 825, delega al governo per la riforma tributaria,
art. 12; d.p.r. 26 ottobre 1972 n. 639, imposta comunale
suSla pubblicità e diritti sulle pubbliche affissioni, art. 20).
È infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 20, n.
1, d.p.r. 26 ottobre 1972 n. 639 nella parte in cui non prevede l'esenzione dall'imposta comunale sulla pubblicità per i mezzi
pubblicitari esposti nelle vetrine e sulle porte d'ingresso dei
locali di somministrazione ed adibiti alla vendita di prodotti al
dettaglio quando superino nel complesso la superfìcie di mezzo
metro quadrato per ciascuna vetrina o ingresso, in riferimento al
l'art. 77, 1" comma, Cost. (1)
Diritto. — 1. - Per temperare il rigore del t.u. sulla finanza
locale, che aveva sottoposto alla « tassa sulle insegne, entro il
perimetro dell'abitato, le iscrizioni, avvisi, richiami di pubblicità od indirizzi..., tanto se collocati su porte o vetrate di accesso
agli esercizi, sulle facciate dei fabbricati, nelle finestre e nei
balconi ove gli esercizi stessi hanno sede, quanto se posti in
località diverse» (cfr. l'art. 201, 1° comma, r.d. 14 settembre 1931
n. 1175), l'art. 3, 1° comma, d.leg. 8 novembre 1947 n. 1417, ha
stabilito che « non sono assoggettabili al pagamento dei diritti di
pubblicità gli avvisi, cartelli ed altri mezzi pubblicitari esposti nelle vetrine dei locali di commercio ... o collocati sulle tariffe o
negli ingressi di tali locali, quando si riferiscano al commercio
esercitato nei locali stessi » ovvero « a prodotti fabbricati dagli esercenti... »: sia pure nei limiti contestualmente fissati dal 2°
(1) L'ordinanza di rimessione è massimata in Foro it., 1977, I, 2617, con nota di richiami; vedila in esteso in Bollettino trib., 1977, 1751, con nota di Righi, Incostituzionale l'applicazione dell'imposta di
pubblicità sulle insegne e sui mezzi pubblicitari esposti dagli esercizi di vendita al pubblico?
La corte, messa in rilievo la « centralità » del richiamo operato dalla
legge di delega alla 1. 641/61, ha ricostruito le vicende legislative che hanno segnato l'evoluzione della disciplina dell'imposta di pubblicità nell'ambito dei locali destinati al commercio, mettendo in evidenza la
continuità, dal 1947 sino appunto alla disciplina del 1961, nell'assicu rare un certo ambito di esenzione dall'imposta per una ' fascia ' di mezzi pubblicitari (segnatamente, la c.d. pubblicità interna); sicché l'esclusione dall'applicazione dell'imposta per i suddetti locali, prevista dalla legge di delega, va letta in ogni caso alla luce dei criteri indicati dalla 1. 641/61.
In dottrina cons., da ultimo, Misto, Imposta comunale sulle pubbli cità e diritti sulle pubbliche affissioni, Padova, 1982.
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
comma, ai sensi del quale si sono eccettuati i mezzi che « superi no la superficie di 50 decimetri quadrati », consentendo che per essi fosse imposto il pagamento dei « diritti della rispettiva tariffa
con una riduzione non inferiore al 50 % ». E questi criteri
informano tuttora, fondamentalmente, l'art. 20, n. 1, d.p.r. 26
ottobre 1972 n. 639, in tema di applicazione dell'imposta sulla
pubblicità, che esenta fra l'altro dall'imposta stessa « i mezzi
pubblicitari, escluse le insegne, esposti nelle vetrine e sulle porte
d'ingresso dei locali (di somministrazione e adibiti alla vendita di
prodotti al dettaglio), purché si riferiscano all'attività in essi esercitata e non superino, nel complesso, la superficie di mezzo
metro quadrato per ciascuna vetrina o ingresso ».
Senonché il Tribunale di Perugia prospetta il dubbio che tale
disciplina sia viziata da un eccesso di delega legislativa, in
violazione del 1° comma dell'art. 77 Cost. Rileva infatti il giudice a quo che l'art. 12, 2° comma n. 1, della legge delegante 9
ottobre 1971 n. 825, ha previsto « l'istituzione ... di una imposta comunale sulla pubblicità, sostitutiva della tassa sulle insegne e
dell'imposta comunale sulla pubblicità affine, seguendo i criteri
della 1. 5 luglio 1961 n. 641 », ed escludendo comunque « i locali
di somministrazione e adibiti alla vendita di prodotti al detta
glio »; laddove la norma impugata (erroneamente individuata con
riguardo all'art. 20, n. 1, di un inesistente d.p.r. 22 ottobre 1972 n. 633) avrebbe reintrodotto i locali medesimi nell'ambito di
applicazione dell'imposta in esame, relativamente ai mezzi pub blicitari di certe dimensioni.
2. - La questione non è fondata. Per fissare l'effettiva portata della delega di cui si controverte, va considerato l'intero contesto
dell'art. 12, 2° comma, n. 1, 1. n. 825, nel quale assume un
centrale rilievo in riferimento alla 1. 5 luglio 1961 n. 641 (contenen te « disposizioni sulle pubbliche affissioni e sulla pubblicità affi
ne »): senza di che, d'altra parte, si potrebbe dubitare che il legisla tore delegante abbia determinato con la necessaria precisione i prin
cipi e i criteri direttivi atti a condizionare, sul punto, l'esercizio
della funzione legislativa delegata. Ora, è ben vero che l'art. 1 1.
n. 641, nel comprendere «sotto la denominazione di pubbliche affissioni » ogni « esposizione di manifesti, avvisi, fotografie od
altri mezzi pubblicitari stampati, litografati o manoscritti su carta
od altro materiale simile, in modo da essere totalmente visibile
dalle vie o dalle piazze pubbliche », lasciava espressamente salvi i « disposti di cui al 1° e 3° comma dell'art. 3 d.l.c.p.s. 8
novembre 1947 n. 1417 » i(cfr. il 1° ed il 4" comma dell'articolo
stesso); ma non faceva menzione del 2° comma, concernente
appunto la tassabilità dei mezzi pubblicitari superiori a 50
decimetri quadrati, esposti nelle vetrine o negli ingressi dei locali
di commercio. Giustamente, però, l'avvocatura dello Stato osserva
che un tale silenzio non implicava affatto l'abrogazione e la
conseguente inapplicabilità del 2° comma (anche ai fini della
delega disposta dall'art. 12, 2° comma, n. 1, 1. n. 825 del 1971). Al contrario, il richiamo al 3° comma del citato art. 3, che
testualmente dichiarava « esenti dai diritti di pubblicità, qualun
que sia la loro superficie, i cartelli e gli altri mezzi di propagan da turistica obiettiva e generica esposti nelle vetrine od all'ester
no dei locali delle agenzie di viaggio e delle associazioni d'inte
resse turistico », non avrebbe avuto un senso compiuto, se non
fosse rimasta in vigore la regola stabilita dal comma precedente,
quanto alla superficie minima tassabile e quanto alla misura della
relativa tassa. Una sicura riprova si desume, del resto, dal seguito della 1. n.
641 e, in particolare, dal comma finale dell'art. 8, là dove si
precisa che « le disposizioni di cui al 2° comma dell'art. 3 d.l.
c.p.s. 8 novembre 1947 n. 1417 non si applicano ai mezzi
pubblicitari concernenti pubblici spettacoli »: il che sta indub
biamente a significare che il detto 2° comma non era divenuto
incompatibile con la disciplina del 1961, malgrado la mancata
menzione da parte dell'art. 1 1. cit. E, non a caso, fra le norme
abrogate dal d.p.r. n. 639 del 1972, l'art. 58 del decreto stesso
ricomprende ancora, senza operare distinzioni di sorta, il d.leg. 8 novembre 1947 n. 1417, al pari della 1. 5 luglio 1961 n. 641.
Per questi motivi, la Corte costituzionale dichiara non fondata
la questione di legittimità costituzionale dell'art. 20, n. 1, d.p.r. 26
ottobre 1972 n. 639 (« imposta comunale sulla pubblicità e diritti
sulle pubbliche affissioni »), in riferimento all'art. 77, 1° comma,
Cost., sollevata dal Tribunale di Perugia con l'ordinanza indicata
in epigrafe.
Il Foro Italiano — 1986.
CORTE COSTITUZIONALE; sentenza 17 ottobre 1985, n. 230
(Gazzetta ufficiale 30 ottobre 1985, n. 256 bis); Pres. Roehrs
sen, Rei. Reale; Rubeo c. Rubeo; interv. Pres. cons, ministri.
Ord. Cass. 29 gennaio 1983, n. 7S (G.U. n. 253 del 1983).
Successione ereditaria — Riunione fittizia delle donazioni in
denaro — Imputazione « ex se » — Collazione di denaro
donato — Valutazione nominale delle somme — Questione
inammissibile di costituzionalità (Cost., art. 3; cod. civ., art.
556, 564, 751).
È inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli art.
556 c.c., sulla riunione fittizia a fini di determinazione della
porzione disponibile, 564, 2° comma, c.c., sull'imputazione ex
se, nelle parti in cui richiamano l'art. 751 c.c., e dello stesso
art. 751, a tenore del quale la collazione di denaro donato si
effettua secondo il valore legale della specie donata all'epoca della successione, in riferimento all'art. 3 Cost. (1)
(1) « Anch'io ho commesso un errore », esclamava il protagonista di uno sketch pubblicitario dei tempi in cui la canizie appariva, a chi
scrive, prospettiva remota ai limiti dell'irrealtà. La candida confessione
potrebbe esser ripresa e giustapposta di peso alla fine ordinanza — n. 78 del 29 gennaio 1983 [ma la Corte costituzionale preferisce
* targar
la ' con la data di decisione, e non di deposito, secondo un discutibile vezzo che, oggi, semina confusione anche fra le sentenze della
Consulta], Foro it., 1983, I, 946, con osservazioni di R. Pardolesi —
con cui la Cassazione rilanciava, ingegnandosi di prendere le distanze dal precedente costituito da Corte cost. 25 giugno 1981, n. 107, id., 1981, I, 2108, il problema dell'incongruità dell'applicazione del princi pio nominalistico alla materia successoria. Infatti, i giudici remittenti, pur non nascondendo le loro preferenze per una soluzione in sintonia con le direttive maturate in quel torno di tempo a ridosso dell'art.
1224, 2° comma, c.c., non avevano saputo far mistero del fatto che la
questione prospettata si prestasse ad un ventaglio allargato di soluzioni normative: con l'ovvio risultato di inchiodare la Corte costituzionale alla decisione d'inammissibilità. Tutto scontato, dunque. Solo che, mentre incombe il pronunciamento delle sezioni unite sulla possibilità di ancorare la soglia minima del maggior danno da tardivo adempi mento delle obbligazioni pecuniarie all'intervenuto deprezzamento della moneta (cfr. Cass. 5 giugno 1985, n. 3356, id., 1985, I, 2239, con nota di R. Pardolesi, « Maggior danno » da inflazione: verso la rivaluta zione automatica?), la riconferma della hands-off posture circa la rilevanza della ' svalutazione ' sul versante successorio, rischia di sfociare nel paradossale.
R. Pardolesi
Discrezionalità legislativa e giudizio di costituzionalità.
L'art. 28 1. n. 87 del 1953 dispone che « il controllo di legittimità della Corte costituzionale su una legge o un atto avente forza di legge esclude ogni valutazione di natura politica e ogni sindacato sull'uso del potere discrezionale del parlamento ».
La dottrina ha posto in evidenza l'incertezza del confine, sotto tale
profilo, tra oggetto del giudizio di costituzionalità e scelte legislative non censurabili, rilevando che — in sostanza — la demarcazione di esso è rimessa in larga misura alla Corte costituzionale, al suo self restraint, ai rapporti con il parlamento (cfr. in proposito: A. M. Sandulli, La corte e la politica, in Dir. e società, 1983, 393; Capoto
sti, Tendenze attuali dei rapporti tra Corte costituzionale e sistema
politico-istituzionale, in Giur. costit., 1983, ti, 1597; iModugno, Corte costituzionale e potere legislativo, in Corte costituzionale e sviluppo della forma di governo in Italia, 1982, 19; Zagrebelsky, La Corte costituzionale e il legislatore, ibid., 103 e La giustizia costituzionale, 1977, 33; Crisafulli, Lezioni di diritto costituzionale, 1978, II, 330; Cerri, L'eguaglianza nella giurisprudenza della Corte costituzionale, 1976, 89; Paladin, Legittimità e merito delle leggi nel processo costituzionale, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1964, 304).
La Corte costituzionale, dal canto suo, pur senza sistematicità ed ampie motivazioni, sin dall'inizio della sua attività, ha individuato limiti di diversa consistenza al giudizio di legittimità costituzionale. Cosi, in taluni casi, ha ravvisato nelle scelte del legislatore componenti politiche o di merito che le precludevano ogni riesame di esse (in tal senso: sent. 4 luglio 1956, n. 14, Foro it., 1956, I, 1025; 25 maggio 1957, n. 66, id., 1957, I, 929; 8 luglio 1957, n. 105, ibid., 1390; 19
luglio 1968, n. Ill, id., 1968, I, 2647, e Giur. costit., 1968, 174, con nota di Elia; 17 febbraio 1971, n. 22, Foro it., 1971, I, 527 e Giur. costit., 1971, 135, con nota di Rodotà; 17 novembre 1982, n. 185, Foro it., 1982, I, 2022; 18 ottobre 1983, n. 314, id., 1983, I, 2062).
Più spesso, la corte ha ravvisato in talune materie — da essa ritenute riservate alla « discrezionalità del legislatore » — l'esistenza di un limite non assoluto al giudizio di legittimità costituzionale, collo candosi esse in un ambito posto ai confini della sua competenza.
In proposito, va detto subito che un'interpretazione letterale dell'art. 28 1. n. 87 del 1953, avrebbe condotto alla drastica riduzione della sfera di operatività del sindacato di legittimità costituzionale, essendo le scelte legislative normalmente libere nei fini e nei mezzi, cosi da
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