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Sentenza 26 maggio 1966, n. 50 (Gazzetta ufficiale 28 maggio 1966, n. 131); Pres. Ambrosini P., Rel....

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Sentenza 26 maggio 1966, n. 50 (Gazzetta ufficiale 28 maggio 1966, n. 131); Pres. Ambrosini P., Rel. Bonifacio; Perna (Avv. Mazzei, Simi, Becca, Percopo) c. Pastore (Avv. U. Prosperetti); Soc. Irradio (Avv. Cominelli) c. Casamassima; Soc. officina elettrica italiana Martelli c. Corrada; Mobilificio Vergani c. Tassinato; Peri (Avv. Bussi) c. Soc. tubettificio Corbetta; interv. Pres. Cons. ministri (Avv. dello Stato Foligno ... Source: Il Foro Italiano, Vol. 89, No. 9 (SETTEMBRE 1966), pp. 1479/1480-1483/1484 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23156234 . Accessed: 25/06/2014 03:32 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 195.34.79.101 on Wed, 25 Jun 2014 03:32:55 AM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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Sentenza 26 maggio 1966, n. 50 (Gazzetta ufficiale 28 maggio 1966, n. 131); Pres. Ambrosini P.,Rel. Bonifacio; Perna (Avv. Mazzei, Simi, Becca, Percopo) c. Pastore (Avv. U. Prosperetti); Soc.Irradio (Avv. Cominelli) c. Casamassima; Soc. officina elettrica italiana Martelli c. Corrada;Mobilificio Vergani c. Tassinato; Peri (Avv. Bussi) c. Soc. tubettificio Corbetta; interv. Pres.Cons. ministri (Avv. dello Stato Foligno ...Source: Il Foro Italiano, Vol. 89, No. 9 (SETTEMBRE 1966), pp. 1479/1480-1483/1484Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23156234 .

Accessed: 25/06/2014 03:32

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1479 PARTE PRIMA 1480

dell'art. 6 pone il divieto di attribuire utili superiori al

5,50% per tutte le società indicate nel n. 1 dell'art. 4, con

« imprese assoggettate a trasferimento che esercitano in

via esclusiva o principale attività elettriclie » senza distin

guere affatto fra società per azioni quotate in borsa o non

quotate. Poiché il richiamo alle società quotate in borsa

è fatto soltanto in riferimento al calcolo della percentuale del 5,50, la norma è stata interpretata ed applicata nel

senso che il divieto si riferisce a tutte indistintamente le

società per azioni. Dal che deriva che non sussiste di fatto

un diverso trattamento fra le due forme di società. Ma, in ogni caso, tenendo conto del differente modo di calco

lare l'indennizzo fra le imprese indicate nel n. 1 e quelle indicate nel n. 2 dell'art. 5 della legge di nazionalizzazione, il diverso trattamento sarebbe pur sempre giustificato.

Per questo stesso motivo, non è di certo violato il prin

cipio di eguaglianza, rispetto alle società miste per le quali l'indennizzo è determinato mediante stima diretta dei beni

con le modalità stabilite dal decreto di esproprio. Infatti, la stima diretta dei beni al momento del trasferimento

esclude la necessità di qualsiasi intervento dell'E.n.el., e

quindi di qualsiasi limitazione nelle gestioni degli anni

precedenti. Per questi motivi, la Corte costituzionale dichiara non

fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 6, 4° comma, della legge 6 dicembre 1962 n. 1643 (istituzione dell'Ente nazionale per l'energia elettrica e trasferimento

ad esso delle imprese esercenti industrie elettriche), nella

parte in cui esso pone il divieto di distribuzione di dividendi

superiori al 5,50% per l'esercizio 1962 delle società per azioni quotate in borsa ; questione sollevata con ordinanza

del Tribunale di Parma del 3 febbraio 1965 in riferimento

agli art. 42, 43, 47 e 3 della Costituzione e con ordinanze

del Tribunale di Genova dell'8 febbraio 1965 in riferimento

all'art. 42 della Costituzione.

CORTE COSTITUZIONALE.

Sentenza 26 maggio 1966, n. 50 (Gazzetta ufficiale 28 mag

gio 1966, n. 131) ; Pres. Ambrosini P., Rei. Bonifacio ; Perna (Avv. Mazzei, Simi, Becca, Percopo) c. Pastore

(A vv. U. Prosperetti) ; Soc. Irradio (Avv. Cominelli) c. Casamassima ; Soc. officina elettrica italiana Martelli

c. Corrada ; Mobilificio Yergani c. Tassinato ; Peri (Avv.

Bussi) c. Soc. tubettificio Corbetta ; interv. Pres. Cons,

ministri (Avv. dello Stato Foligno).

Lavoro (contratto collettivo) — Lavoratori dell'indu

stria — Accordo iiiterconfederale 18 ottobre 1950 sui licenziamomi individuali esteso « erga onines » — Clausole di conciliazione e arbitrato — Que stioni {ondata e inforniate di costituzionalità (Co stituzione, art. 76, 77, 102 ; d. pres. 14 luglio 1960 n. 1011, norme sui licenziamenti individuali dei lavora tori dipendenti dalle imprese industriali, art. un.).

È incostituzionale il decreto pres. 14 luglio 1960 n. 1011, contenente norme sui licenziamenti individuali dei lavo ratori dipendenti dalle imprese industriali, per la sola

parte in cui disciplina l'intervento di conciliazione delle

organizzazioni di categoria, in riferimento all'art. 76 della Costituzione. (1)

Sono, invece, infondate le questioni di costituzionalità di altre

parti dello stesso decreto, in riferimento agli art. 76, 77

e 102 della Costituzione. (2)

(1-2) La ordinanza 23 dicembre 1964 del Tribunale di Mi lano è massimata in Foro it., 1905, I, 928 ; le ordinanze 5 maggio 1964 della Corte d'appello di Napoli, 24 novembre 1964 del Pretore di Milano, 3 marzo 1965 del Pretore di Monza sono riassunte in Foro it., Kep. 1965, voce Lavoro (contratto), nn. 19, 27, 28 ; l'ordinanza, infine, 27 gennaio 1965 del Tribunale di Milano è riportata su Le leggi, 1965, 982.

La Corte, ecc. -— Le cause, ohe hanno tutte ad oggetto

questioni di legittimità costituzionale relative al decreto

pres. 14 luglio 1960 n. 1011, possono essere riunite e decise

con unica sentenza.

La difesa della Giuseppina Tassinato ha in linea pre liminare sostenuto che la questione sollevata con l'ordi

nanza 3 marzo 1965 del Pretore di Monza dovrebbe esser

dichiarata « irricevibile » per la genericità con la quale nel

giudizio principale la controparte eccepì l'illegittimità co

stituzionale delle norme e, altresì, a causa dell'omesso esame

da parte del pretore di circostanze che escluderebbero la

rilevanza della questione. L'eccezione è infondata sotto entrambi gli aspetti e va

respinta. Sul primo punto è da osservare che l'oggetto del giu

dizio devoluto alla corte deve trovare la sua configurazione e delimitazione nell'ordinanza con la quale l'autorità giu diziaria esercita il potere di iniziativa del processo inciden

tale di costituzionalità : iniziativa che, esperibile anche di

ufficio, non è condizionata dal modo in cui sia stata solle

citata da una domanda di parte. Nel caso in esame l'ordi

nanza, pur facendo riferimento all'eccezione formulata dal

datore di lavoro, enuncia e specifica direttamente i termini

della questione proposta. Per quanto riguarda il secondo profilo, è sufficiente

richiamare la giurisprudenza di questa corte e considerare

che nell'esclusiva competenza del giudice alla individuazione

della norma applicabile alla controversia rientra la valuta

zione delle circostanze di fatto che su tale accertamento

possano spiegare influenza.

L'ordinanza del Pretore di Monza afferma in modo ine

quivoco che il giudizio non può essere definito indipenden temente dalla risoluzione della questione di legittimità costituzionale, e ciò dimostra che è stato compiuto con

esito positivo l'esame della rilevanza necessario ad una

regolare proposizione del processo costituzionale incidentale.

L'accordo interconfederale del 18 ottobre 1950, relativo

ai licenziamenti individuali dei lavoratori dipendenti da

imprese industriali, stabilisce, nella parte che qui più di

rettamente interessa, che il lavoratore il quale ritenga ingiu stificato il suo licenziamento, ove il tentativo di concilia

zione esperito dalle organizzazioni sindacali sia fallito ov

vero siano decorsi i termini per la sua richiesta o espleta mento, possa provocare l'intervento di un « collegio di con

ciliazione ed arbitrato » ; detta norme in ordine alla compo

sizione, nomina e competenza di tale collegio, al quale si

affida il compito di emanare secondo equità e senza l'ob

bligo di formalità procedurali un giudizio sulla validità

delle ragioni addotte a giustificazione del licenziamento ;

dispone che il datore di lavoro, in caso di conclusione a

lui sfavorevole e se non ottemperi all'invito a ripristinare il rapporto di lavoro, debba corrispondere al lavoratore a titolo di penale una somma determinata dal detto col

legio con criterio di equità entro i limiti di minimo e di

massimo specificati dall'accordo. Il decreto pres. 14 luglio 1960 n. 1011, che ha recepito

il predetto accordo in base alla delega contenuta nella

legge 14 luglio 1959 n. 741, è stato denunciato dalle varie

ordinanze di rimessione per violazione dell'art. 76 della

Costituzione sotto l'unico profilo che le norme impugnate non atterrebbero ai « minimi inderogabili di trattamento

Le sentenze 9 giugno 1965, n. 45 e 8 febbraio 1966, n. 8 della Corte, citate nella motivazione della presente, sono ripor tate in Foro it., 1965, I, 1118, e 1966, I, 204, con note di ri

chiami, cui adde, in nota alla prima, U. Natoli, in Riv. giur. lav., 1965, XI, 155 ; Sermonti e Prosperetti, in Mass. giur. lav., 1965, 212 ; Andrioli, in Dir. lav., 1905, II, 171.

Sulle questioni di costituzionalità, decise dalla sentenza riportata, v. Sermonti, in Mass. giur. lav., 1.964, 286 ; Comi nelli, in Riv. dir. lav., 1965, 327 ; Trioni, in Riv. giur. lav., 1964, II, 514 (note alle ordinanze della Corte d'appello di Milano e del Pretore di Milano) ; Novara, Il recesso volontario dal rapporto di lavoro, 1961, pag. 224 ; Mancini, Il recesso unila terale e i rapporti di lavoro, 1962, pag. 367 ; Siili, Funzione della legge nella disciplina dei rapporti di lavoro, 1962, pag. 236 ; Grandi, Arbitrato irrituale nel diritto del lavoro, 1963.

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

economico e normativo » ed esorbiterebbero, perciò, dai

poteri conferiti al governò : si tratterebbe, infatti, di dispo sizioni a carattere strumentale e processuale, giacché l'ac cordo interconfederale nel suo complesso non avrebbe ad

oggetto la diretta disciplina delle condizioni generali di

lavoro.

La corte ritiene che la questione, in questi termini

proposta, non abbia fondamento.

Giova in proposito rilevare che l'accordo qui in esame, a differenza di quello del 20 dicembre 1950 sui licenzia menti per riduzione di personale, il quale, come la corte

ebbe ad accertare (cfr. sent. n. 8 del 1966, Foro it., 1966,

I, 204), è direttamente destinato a regolare l'azione sin

dacale ed i rapporti fra i sindacati, incide immediatamente

sui rapporti fra datori di lavoro e lavoratori. Ciò si ricava

non soltanto dalla finalità principale che i contraenti si

proposero di perseguire, e che è quella, chiaramente espressa nell'art. 1, di « prevenire i licenziamenti individuali ingiu stificati », ma anche dalla disciplina che, coerentemente con

tale scopo, è stata dettata. Non può esservi dubbio, infatti, che l'obbligo al pagamento di una penale in caso di licen

ziamento riconosciuto non giustificato presuppone, quale che sia la sua precisa configurazione dommatica, una deli

mitazione del potere del datore di lavoro di recedere

dal rapporto e l'illegittimità del recesso arbitrario. Nè ha

rilievo che a tale illegittimità non si colleghi la inefficacia

del licenziamento, giacché è sufficiente che una sanzione

sia comunque prevista e che essa possa essere evitata solo, come l'accordo prevede, mediante il ripristino del rapporto di lavoro.

L'accordo interconfederale, in definitiva, modifica il

regime del recesso stabilito dall'art. 2118 cod. civ. e regola,

quindi, una delle più rilevanti e delicate vicende del rap

porto di lavoro. Ed è davvero incontestabile che nei « mi

nimi di trattamento economico e normativo », ad assicu

rare i quali la legge di delegazione si ispirò, debbano rien

trare disposizioni le quali approntino in qualche misura una

garanzia di conservazione del posto di lavoro : chè, anzi,

esse, come la corte ebbe ad avvertire nella sentenza n. 45

del 1965 (Foro it., 1965, I, 1118), si inquadrano in quel l'indirizzo alla progressiva, effettiva realizzazione del di

ritto al lavoro che la Costituzione prescrive nell'art. 4. Ed

è perciò da riconoscere che il decreto pres. 14 luglio 1960

n. 1011, sotto il profilo fin qui considerato, ha rispettato

l'oggetto ed i principi direttivi della delega. Le osservazioni ora svolte non esauriscono, tuttavia, la

questione proposta dalle ordinanze. Resta infatti da accer

tare se sia conforme alla delega anche la recezione di quelle norme dell'accordo interconfederale che predispongono gli strumenti dalle associazioni stipulanti reputati idonei a

realizzare la tutela della disciplina sostanziale del recesso.

Tale aspetto della questione va deciso in base al prin

cipio, costantemente affermato da questa corte e recente

mente ribadito nella sent. n. 8 del 1966, secondo il quale solo le disposizioni non strettamente necessarie a garantire i minimi retributivi e normativi sono da ritenere estranee

agli scopi perseguiti dalla legge di delega. Alla stregua di siffatto criterio non sembra si possa

dubitare della legittimità della recezione delle nonne del

l'accordo che si riferiscono al « collegio di conciliazione ed

arbitrato ». Le censure mosse dalle ordinanze sarebbero

fondate ove a tale organo fossero stati conferiti poteri di

natura decisoria : in questo caso, infatti, l'arbitrato, imposto come alternativa al giudizio ordinario, non si legherebbe in un nesso inscindibile con la disciplina sostanziale del

l'apporto di lavoro. Ma quella premessa è infondata, perchè è da escludere che gli arbitri ai quali l'accordo commette

la funzione di valutare se il licenziamento trovi giustifica zione siano arbitri rituali. A questo risultato la dottrina e

la giurisprudenza, oramai costanti, sono pervenute sulla

base di molteplici e convergenti motivi che non è neces

sario qui riprendere in esame. Va solo rilevato che il testo

stesso dell'accordo dimostra che le parti stipulanti non

vollero conferire al collegio una potestà di decisione : l'art.

10, disciplinando l'ipotesi di licenziamento con perdita del

diritto all'indennità di preavviso o di anzianità, dispone

ohe la procedura arbitrale venga sospesa in attesa della

pronunzia dell'autorità giudiziaria sulle cause che a norma

dell'art. 2119 cod. civ. possono giustificare il provvedi mento, e tale disposizione rivela che gli stessi contraenti considerano la competenza del giudice e quella degli arbitri

come eterogenee ed operanti su piani nettamente distinti.

L'esame dei caratteri sostanziali della funzione affidata al

collegio di conciliazione e di arbitrato conferma questa conclusione. Giacche l'accordo non detta una normativa in base alla quale si possa controllare se il licenziamento sia o meno sorretto da validi motivi, gli arbitri, i quali

pronunciano secondo equità e, ciò va specialmente sotto

lineato, nel contemperamento del buon andamento della

azienda e della sorte del lavoratore, svolgono in sostanza

un'attività creatrice della norma da valere nel caso con

creto e, quindi, integrativa del contratto di lavoro. Risulta

allora evidente che la parte dell'accordo interconfederale

che si riferisce al collegio ed alla funzione che questo as

solve nel quadro generale delle pattuizioni si trova in un

nesso inscindibile con la disciplina sostanziale del licenzia

mento, si incorpora in questa e risulta perciò attratta nel

l'oggetto della delega, diretta come è a soddisfare quell'in teresse a tutela del quale il legislatore delegante ha confe

rito al governo i necessari poteri. Altrettanto, invece, non può dirsi del tentativo preli

minare di conciliazione che l'accordo demanda, su istanza

del lavoratore, alle organizzazioni sindacali delle contrap

poste categorie. Il fatto stesso che nessun effetto produce la mancata richiesta del suo espletamento sta chiaramente

a dimostrare che non esiste nessun necessario nesso fra le

disposizioni qui considerate e quelle innanzi prese in esame :

per questa parte, di conseguenza, il decreto pres. 14 luglio 1960 n. 1011, va dichiarato illegittimo per eccesso di delega.

È ovvio che le singole norme recepite nel decreto dele

gato, oltre che essere indirizzate a soddisfare l'interesse

preso in considerazione dalla legge di delega, devono non

contrastare con specifici precetti costituzionali : ed il rela

tivo controllo, contro l'assunto preliminare dell'avvocatura

dello Stato, è di competenza della Corte costituzionale. Ya

tuttavia precisato che la corte, dovendo attenersi all'og

getto del giudizio così come questo è proposto dal giudice a quo, non può portare il suo esame su questioni che non

siano state sollevate dalle ordinanze di rimessione. E tale

è il caso di quella, sulla quale alcune parti costituite si

sono soffermate, relativa alla interposizione delle organiz zazioni sindacali nello svolgimento delle attività disciplinate dall'accordo interconfederale (in particolare nella nomina

del collegio di conciliazione e di arbitrato) ed alla conse

guente violazione dell'art. 39 della Costituzione. Ya infatti

rilevato che nessuna delle cinque ordinanze pone la que stione del contrasto delle norme recepite nel decreto dele

gato col principio della libertà sindacale, e ciò nè sotto il

profilo di un autonomo motivo di eccesso di delega nè

sotto quello di una diretta violazione della citata norma

costituzionale.

L'ordinanza 5 maggio 1964 della Corte di appèllo di

Napoli solleva, invece, la questione di legittimità costitu

zionale del decreto pres. 14 luglio 1960 n. 1011, in riferi

mento all'art. 102 della Costituzione, e ciò sul presupposto che l'arbitrato, una volta imposto per legge anche ai non

iscritti alle associazioni stipulanti, abbia assunto la carat

teristica di giurisdizione speciale. La questione è infondata. Le osservazioni già innanzi

svolte hanno dimostrato, infatti, che i poteri demandati

al collegio di conciliazione ed arbitrato non hanno affatto

natura decisoria, e vien meno perciò la premessa che da

rebbe luogo al problema di una eventuale violazione del

l'art. 102 della Costituzione. Che la legge abbia reso obbli

gatorio l'arbitrato, alla cui costituzione provvedono su

richiesta del lavoratore le organizzazioni delle contrapposte

categorie, è cosa innegabile : ma da ciò non deriva che,

novandosi dal contratto alla legge la fonte di legittimazione

degli arbitri, il potere di questi muti natura. Se, infatti,

le già esposte ragioni inducono a ritenere che si tratta di

un potere operante sul piano negoziale, l'imposizione per

legge dell'arbitrato, accompagnandosi ^lla sottrazione dell^

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1483 PARTE PRIMA 1484

nomina degli arbitri alla volontà delle parti, può se mai

giustificare il problema se la legge non venga a violare un'eventuale garanzia offerta dalla Costituzione all'auto

nomia contrattuale (problema che in questa sede non può essere affrontato, perchè fuori dell'oggetto del giudizio), ma non legittima certo il dubbio di una lesione della sfera di giurisdizione che l'art. 102 della Costituzione riserva al

giudice ordinario. Per questi motivi, la Corte costituzionale riuniti i cinque

giudizi di cui in epigrafe : a) dichiara la illegittimità costi

tuzionale del decreto pres. 14 luglio 1960 n. 1011, conte nente « norme sui licenziamenti individuali dei lavoratori

dipendenti dalle imprese industriali », per la sola parte in cui disciplina l'intervento di conciliazione delle organiz zazioni di categoria ; b) dichiara, per le altre parti dello stesso decreto, non fondata la questione di legittimità co

stituzionale sollevata con le ordinanze 5 maggio 1964 della Corte di appello di Napoli, 24 novembre 1964 del Pretore di Milano, 23 dicembre 1964 e 27 gennaio 1965 del Tri bunale di Milano e 3 marzo 1965 del Pretore di Monza, in relazione alla legge 14 luglio 1959 n. 741, ed in riferi mento agli art. 76 e 77 della Costituzione ; c) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale delle stesse norme sollevata con ordinanza 5 maggio 1964 della Corte di appello di Napoli in riferimento all'art. 102 della Costituzione.

CORTE COSTITUZIONALE.

Sentenza 23 maggio 1966, n. 45 (Gazzetta ufficiale 28 maggio 1966, n. 131) ; Pres. Ambrosini P., Eel. Mortati ; Moni co o. Fiengo (An. Mazzaeelli, Santoro Passa -

relli) ; Gismondi c. Pennacchietti ; Lamponi c. Lat tanzi ; interv. Pres. Cons, ministri (Aw. dello Stato Foligno).

Lavoro (contratto collettivo) — Addetti all'industria edilizia — Reclamo del lavoratore successivo alla estinzione del rapporto — Clausola di decadenza — Incostituzionalità (Costituzione, art. 76; d. pres. 14 luglio 1960 n. 1032, trattamento economico e nor mativo degli impiegati addetti alle industrie edilizie, art. un.).

Lavoro (contratto collettivo) — Addetti all'industria edilizia — Conciliazione obbligatoria — Questione manifestamente infondata di eostituzionalità (D. pres. 14 luglio 1960 n. 1032, art. un.).

È incostituzionale l'articolo unico del decreto pres. 14 luglio 1960 n. 1032, nella parte in cui rende obbligatoria erga omnes la clausola 56 del contratto collettivo nazionale del lavoro per gli addetti all'industria edile 24 luglio 1959, che sancisce la decadenza dal diritto d'azione quando non sia stato esercitato dal lavoratore entro i quattro mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro, con riferimento all'art. 76 della Costituzione. (1)

È manifestamente infondata la questione di costituzionalità della clausola 55 del contratto 24 luglio 1959 (esteso a tutti gli appartenenti alla categoria con l'articolo umico del decreto pres. 14 luglio 1960 n. 1032), già dichiarata in costituzionale con sentenza n. 56 del 1965 della Corte costituzionale. (2)

(1-2) Le ordinanze 28 aprile 1961 della Corte d'appello di Napoli, e 15 (due) e 30 aprile 1965 del Pretore di Fermo sono riportate su Le leggi, 1964, 1474, e 1965, 716, 721 e 937.

Le sentenze 13 luglio 1963, n. 129 e 6 luglio 1965, n. 56 della Corte costituzionale, richiamate nella motivazione della presente, leggonsi in Foro it., 1963, I, 1604, e 1965, I, 1158, con note di richiami, cui adde Corte cost. 8 luglio 1966, n. 8, retro, 201, con nota di richiami. Il testo del decreto pres. 14 luglio 1960 n. 1032, con l'allegato contratto collettivo 24 luglio 1959, è riportato suleggi, I960, appendice n. 5, 91,

La Corte, ecc. — Le quattro ordinanze riguardano la stessa questione che viene prospettata sotto gli stessi pro fili, sicché si rende opportuno disporre la riunione delle cause per la loro decisione con unica sentenza.

Le ordinanze predette hanno tutte ad oggetto la denuncia

dell'illegittimità costituzionale, per violazione dell'art. 76 della Costituzione, delle clausole 55 e 56 del contratto col lettivo di lavoro 24 luglio 1959 per gli addetti all'industria

edilizia, esteso erga omnes con il decreto pres. 14 luglio 1960 n. 1032, nella considerazione che tanto l'obbligo del tentativo di conciliazione, imposto dalla prima di esse, quanto la decadenza, sancita dalla seconda, dal diritto del lavoratore a proporre qualsiasi reclamo avanzato oltre i

quattro mesi dalla cessazione del rapporto stesso, eccedono dai limiti posti dalla delega di cui all'art. 1 della legge n. 741 del 1959, ove siano fatti valere in confronto ai non iscritti alle associazioni sindacali stipulanti. Poiché la corte ha già, con la sentenza n. 56 del 1965 (Foro it., 1965, I, 1158), dichiarato la illegittimità costituzionale dell'articolo unico del citato decreto presidenziale, nella parte in cui rende obbligatoria per tutti gli appartenenti alla categoria la clausola 55 del contratto collettivo oggetto del decreto

stesso, si deve dichiarare manifestamente infondata la que stione ad essa relativa, e limitare l'indagine all'altra, sulla costituzionalità della clausola 56, in nessun modo colle

gata con quella precedentemente decisa.

Poiché, come si è ricordato, la questione predetta è stata

proposta con riferimento all'art. 76, esula dall'esame da

compiere ogni considerazione attinente alla compatibilità della disposizione denunciata con principi o norme di legge inderogabili.

La corte, con la sentenza n. 129 del 1963 (Foro it., 1963, I, 1604), ha ritenuto che la delega conferita al go verno dall'art. 1 della legge n. 741 del 1959 per l'emanazione di norme aventi forza di legge, uniformi alle clausole dei contratti collettivi stipulati anteriormente a detta legge, trova un preciso limite nel fine voluto raggiungere di assi curare minimi di trattamento economico e normativo per tutti gli appartenenti ad una medesima categoria, ed ha

conseguentemente statuito che esorbita da tale fine, e

quindi eccede dalla delega ogni estensione di clausole che abbiano ad oggetto non già la diretta disciplina della for mazione, dello svolgimento, dell'estinzione del rapporto di lavoro e dei correlativi diritti e doveri delle parti che in esso intervengono, bensì la predisposizione di procedimenti e modalità le quali rivestano carattere meramente stru mentale rispetto alla disciplina predetta, a meno che non si palesino strettamente necessarie al conseguimento del bene menzionato.

Se si fa applicazione dei principi così formulati alla statuizione dell'art. 56 si è condotti a ritenere la sua estra neità ai poteri consentiti al legislatore delegato. Infatti essa concerne le pretese che il lavoratore faccia valere successivamente alla estinzione del rapporto di lavoro, e la deroga disposta alle norme di diritto comune circa i modi di tutela delle pretese stesse non solo non appare mezzo necessario ad assicurare il minimo normativo, cui ha riguardo la legge delegante, ma può riuscire, in pratica ed in determinate circostanze, pregiudizievole alla soddi sfazione di tale esigenza. Anche ad ammettere la validità di clausole di decadenza dall'esercizio del potere di difesa

giurisdizionale dei diritti discendenti dall'attività di lavoro, non è dubbio che essa può trovare fondamento solo nella autonomia contrattuale, e che quindi ogni estensione delle medesime al di là della cerchia dei titolari di tale autonomia deve considerarsi sfornita di base giuridica.

Non vale opporre, come fa la difesa di una delle parti intervenuta nel giudizio promosso dalla Corte d'appello di

Napoli, che il legislatore delegante ha voluto assicurare

l'obbligatorietà di « tutte » le disposizioni dei contratti col lettivi, e non già solo di quelle favorevoli ai lavoratori, data l'intima connessione ed interdipendenza che insieme le collega e ne fa un tutto organico ed inscindibile. Infatti se questa tesi fosse vera risulterebbe svuotato di ogni si gnificato il limite finalistico che la legge delegante ha posto e che, essendosi fatto consistere nell'esigenza di assicurare

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