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sentenza 26 settembre 1997; Giud. Verusio; imp. Capelli

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sentenza 26 settembre 1997; Giud. Verusio; imp. Capelli Source: Il Foro Italiano, Vol. 122, No. 4 (APRILE 1999), pp. 267/268-271/272 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23195414 . Accessed: 28/06/2014 12:36 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 185.31.194.38 on Sat, 28 Jun 2014 12:36:28 PM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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Page 1: sentenza 26 settembre 1997; Giud. Verusio; imp. Capelli

sentenza 26 settembre 1997; Giud. Verusio; imp. CapelliSource: Il Foro Italiano, Vol. 122, No. 4 (APRILE 1999), pp. 267/268-271/272Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23195414 .

Accessed: 28/06/2014 12:36

Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at .http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp

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PARTE SECONDA

Il ricorrente ha chiesto la declaratoria di estinzione della pena

inflittagli dalla Corte d'appello di Venezia, sezione per i mino

renni, con sentenza 25 febbraio 1978, n. 8, divenuta irrevocabi

le il 2 dicembre 1980. Il S. fu infatti riconosciuto responsabile dei reati di cui agli

art. 575 c.p. e 4 1. 110/75 e condannato alla pena di nove anni

e quattro mesi di reclusione, in relazione al delitto di omicidio, e alla pena di quindici giorni di arresto e lire trentamila di am

menda con riferimento alla contravvenzione di cui all'art. 4 1.

110/75. Con provvedimento del 28 marzo 1987 la Corte d'appello di

Venezia ha applicato l'amnistia al reato contravvenzionale e con

provvedimento del 2 luglio 1993 ha concesso al S. l'indulto ex

d.p.r. 394/90 in relazione al delitto di omicidio, sicché la pena a questi inflitta si è ridotta a sette anni e quattro mesi di re

clusione.

Sostiene il ricorrente che, non essendo più revocabile l'indul

to, che ha estinto la pena relativamente a due anni di reclusio

ne, il termine di prescrizione ex art. 172 c.p. (pari al doppio della pena inflitta), il cui decorso è iniziato il 2 dicembre 1980, e il cui dies ad quem avrebbe dovuto essere individuato nel 2

agosto 1999, per effetto della concessione dell'indulto sarebbe

già spirato il 2 agosto 1997.

Il pubblico ministero ha concluso per la reiezione dell'istan

za, sul rilievo che la dizione normativa di cui all'art. 172 c.p. fa espresso riferimento alla pena inflitta, e non a quella in con

creto eseguibile. Ritiene questa corte che il ricorso proposto dal S. non possa

trovare accoglimento. L'art. 172 c.p. individua espressamente il dies a quo del ter

mine di prescrizione di cui si controverte nel giorno in cui la

condanna è divenuta irrevocabile, ovvero dal giorno in cui il

condannato si è sottratto volontariamente all'esecuzione già ini

ziata della pena, stabilendo che l'estinzione della stessa si verifi

ca per effetto del decorso di un periodo temporale pari al dop pio della pena inflitta e, in ogni caso, non superiore a trenta e non inferiore a dieci anni.

La tesi prospettata dal ricorrente si fonda, in buona sostan

guenza che ai fini prescrittivi non assumerebbe alcuna rilevanza il quan tum di pena già espiato.

In una recente pronuncia di legittimità, invece, la Cassazione si è

espressa diversamente, ritenendo che per determinare il tempo della pre scrizione penale debba tenersi conto delle diminuzioni conseguenti al

l'applicazione dell'indulto (cfr. Cass. 13 marzo 1997, Esposito, Foro it., Rep. 1997, voce cit., n. 3, e, per esteso, Riv. pen., 1997, 931).

E anche la dottrina, sul presupposto che il concetto di pena inflitta debba intendersi riferito alla pena concretamente da scontare, si è indi rizzata prevalentemente a sostenere la detraibilità dal periodo prescri zionale delle eventuali riduzioni di pena conseguenti non solo a indulto, ma anche a liberazione anticipata, nonché a commutazione di pena ex art. 174 c.p.: ciò non tanto sul rilievo della formulazione letterale della norma secondo cui la nozione di «pena inflitta» non andrebbe necessa riamente intesa come pena «originariamente» inflitta, quanto in virtù del principio stabilito dall'art. 183, 3° comma, c.p., per il quale le cau se di estinzione della pena successive fanno cessare gli effetti non anco ra estinti dalle cause antecedenti, cosicché non avrebbe senso attendere che il decorso del tempo estingua una (parte di) pena già estinta (cfr. Molari, Prescrizione del reato e della pena, voce del Novissimo dige sto, Torino, 1966, XIII, 705; Pisa, Prescrizione, voce dell'Enciclopedia del diritto, Milano, 1986, XXXV, 96 s.; Romano-Grasso-Padovani, Commentario sistematico del codice penale, Milano, 1994, III, 198; Pa nagia, Prescrizione del reato e della pena, voce del Digesto pen., Tori no, 1995, IX, 669, per il quale l'opinione che lega il computo del perio do prescrizionale alla pena inflitta e non a quella in concreto da sconta re si risolverebbe in un'interpretazione abrogante dell'art. 183 c.p.).

Tale indirizzo interpretativo, del resto, come rilevato anche in sede dottrinale (v. Pisa, Prescrizione, cit., 97), risulterebbe più coerente con una prevalente tendenza applicativa volta, in materia di misure alterna tive alla detenzione, in ordine alla quale si è posta una questione analo ga, ad interpretare il concetto di pena inflitta nel senso di pena concre tamente da scontare, con esclusione dal relativo computo della quantità di pena estinta per indulto o altra causa (con specifico riferimento alla valutazione dei limiti di pena previsti per l'applicazione dell'affidamen to in prova, ex plurimis, cfr. Cass. 21 dicembre 1987, Amico, Foro it., 1988, II, 356, con nota critica di Albeggiami; 16 novembre 1989, Turelli, id., Rep. 1990, voce Ordinamento penitenziario, n. 51, e, per esteso, Riv. it. dir. e proc. pen., 1990, 1168, con nota di Comucci; 24 aprile 1991, Bertoldo, Foro it., Rep. 1992, voce cit., n. 60, e, per esteso, Cass. pen., 1991, I, 1839; 22 settembre 1992, Stillitano, Foro it., Rep. 1993, voce cit., n. 123; nel senso, invece, che debba farsi rife rimento all'entità della pena irrogata dal giudice quale risulta dal dispo sitivo della sentenza irrevocabile di condanna, tra le altre, cfr. Cass. 22 gennaio 1988, Zarbo, id., 1988, II, 355, con nota di Albeggiane e 26 aprile 1989, Russo, id., 1989, II, 401).

Il Foro Italiano — 1999.

za, sulla equiparazione, ai fini dell'applicazione dell'art. 172 c.p., della pena inflitta con la sentenza di condanna passata in giudi cato alla pena in concreto eseguibile, nel caso di specie ridotta

a sette anni e quattro mesi di reclusione per effetto dell'applica zione dell'amnistia al reato di cui all'art. 4 1. 110/75 e del con

dono di due anni di reclusione, ex d.p.r. 394/90, in ordine al

reato di cui all'art. 575 c.p. Ritiene questa corte che la tesi suesposta non meriti di essere

condivisa, tenuto conto del tenore letterale dell'art. 172 c.p. e della ratio dell'istituto della prescrizione della pena.

In ordine alla dizione utilizzata dal legislatore, non può non

rilevarsi che il termine «inflitta» è assolutamente univoco nel

riferirsi al trattamento sanzionatorio del reo, nell'entità in con

creto determinata dal giudice che di questi ha accertato la col

pevolezza con la sentenza di condanna.

La ratio dell'istituto è, del resto, individuabile nel venir meno

dell'interesse statuale alla punizione del reo, allorché l'esecuzio

ne della pena sia differita oltre un certo lasso temporale, essen

do presumibile che in tale ipotesi sia venuto meno l'allarme so

ciale derivato dalla commissione del fatto-reato, in adesione —

come ha sottolineato la dottrina — ad una interpretazione più in senso preventivo che retributivo della nozione di pena.

Accedendo a tale prospettiva interpretativa è dato compren dere per quale ragione l'art. 172 c.p. ancora all'entità della pe na irrogata con la sentenza di condanna, in quanto parametro

significativo della gravità del reato commesso, il computo del

tempo necessario alla produzione dell'effetto estintivo sulla pre tesa punitiva.

Ulteriore argomento a sostegno della tesi finora esposta è de sumibile dal disposto del 4° comma della norma citata, ove il

legislatore ha previsto che, nell'ipotesi in cui il condannato si sia volontariamente sottratto all'esecuzione già iniziata della pe na, il termine di prescrizione decorre non già dalla data in cui la condanna è divenuta irrevocabile, bensì dal giorno in cui l'e

vento descritto si è verificato, non dovendo dunque tenersi con

to del quantum di pena già espiata, nonostante il condannato sia ancora assoggettato all'esecuzione della sola quota residua

della pena inflittagli con la sentenza di condanna, e non all'in tera pena.

Ciò dimostra nettamente l'irrilevanza, ai fini del computo del termine di cui si controverte, di qualsiasi vicenda che abbia de

terminato la parziale estinzione della sanzione penale nel corso della esecuzione.

Nel caso di specie, dunque, la concessione del condono della

pena di due anni di reclusione, in forza del provvedimento di

questa corte emesso in data 2 luglio 1993, non va considerata ai fini del computo del termine di prescrizione ex art. 172 c.p., che resta pari a diciotto anni e otto mesi (nel senso dell'influen za dei provvedimenti di condono sul termine in questione, v. Cass. 4 luglio 1941, Dal Secco, e 5 ottobre 1960, Gueraldi, Fo ro it., Rep. 1961, voce Prescrizione penale, n. 15).

Il dies ad quem va pertanto individuato nel 2 agosto 1999.

PRETURA DI ROMA; sentenza 26 settembre 1997; Giud. Ve

rusio; imp. Capelli.

PRETURA DI ROMA;

Omicidio e lesioni personali colpose — Omicidio colposo —

Errore diagnostico — Reato — Esclusione — Fattispecie (Cod. pen., art. 40, 589).

Non risponde del reato di omicidio colposo, ex art. 589 c.p., il primario anatomopatologo di una struttura ospedaliera che, a seguito di esami istologici, abbia formulato delle diagnosi errate, qualora non sia possibile riscontrare l'esistenza del nes so causale tra l'errore diagnostico e la morte del paziente con

sufficiente grado di certezza, tale da fondare su solide basi un 'affermazione di responsabilità, non essendo sufficiente, a tal fine, un giudizio di mera verosimiglianza (nella specie, re lativa a due vicende esaminate separatamente, il giudice ha escluso che una corretta esecuzione degli esami istologici sa rebbe stata idonea a produrre non solo la certezza, ma neppu re serie ed apprezzabili probabilità di maggiore sopravvivenza di entrambi i pazienti, stante che, per uno dei due, una corret ta formulazione diagnostica della malattia era intervenuta so lo pochi giorni dopo un 'iniziale e ininfluente errata diagnosi,

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GIURISPRUDENZA PENALE

e, nell'altro caso, il decesso della paziente era avvenuto per cause estranee alla patologia esaminata dal sanitario). (1)

(1) La sentenza in epigrafe si inquadra nell'ampia casistica relativa alla complessa e dibattuta questione dell'accertamento del nesso causale nel campo della responsabilità per colpa professionale del sanitario, in ordine alla quale, soprattutto nell'ultimo decennio, si è progressivamen te consolidata una tendenza giurisprudenziale rigoristica.

La soluzione accolta con la pronuncia su riportata, invece, si colloca nell'ambito di un indirizzo applicativo, recentemente meno diffuso, se condo cui, in tema di responsabilità medica, si ritiene che sia necessario accertare la sussistenza del rapporto eziologico tra la condotta colposa del sanitario e l'evento dannoso derivante alla persona del paziente con un grado di certezza tale da poter fondare su solide basi un giudizio di responsabilità, non essendo, a tal fine, sufficiente il ricorso a giudizi genericamente probabilistici o di mera verosimiglianza (cfr. Cass. 27 settembre 1993, Rossello, Foro it., Rep. 1994, voce Omicidio e lesioni

personali colpose, n. 51, e, per esteso, Cass, pen., 1996, 3329, con nota di Siracusano, e Giur. it., 1994, II, 634, con nota di Grilli, citata in motivazione; nella giurisprudenza di merito, cfr. Pret. Caltanissetta 3 novembre 1995, Foro it., 1996, II, 520, con nota di richiami).

In particolare, Pret. Roma ritiene che l'accertamento della sussisten za del rapporto di causalità tra condotta ed evento imponga un giudizio di certezza o, almeno, di apprezzabile probabilità circa gli effetti della condotta, nonché una valutazione complessiva di tutte le circostanze di fatto relative alla vicenda sottoposta all'esame del giudice.

Con specifico riferimento all'accertamento del nesso causale tra l'er rore diagnostico e la morte del paziente, cfr. Trib. Roma 13 giugno 1996, id., 1997, II, 417, con nota di Tramontano (cui si rimanda anche per l'analisi degli orientamenti giurisprudenziali e dottrinali sui temi della causalità nel delitto commissivo ed omissivo in materia di respon sabilità medica), che ha escluso, in relazione ad uno dei due casi ogget to di giudizio, il nesso di causalità tra l'errore diagnostico circa la natu ra di un tumore e il decesso di un paziente, in presenza di fattori, quali lo stadio localmente avanzato della malattia, l'età del paziente e le sue

già compromesse condizioni generali di salute, che lo avrebbero reso

incompatibile con un corretto intervento chirurgico di carattere radical mente più distruttivo; mentre, con riferimento all'altro caso preso in esame, riguardante sempre l'errata diagnosi della natura di un tumore, 10 stesso Trib. Roma ha ravvisato la sussistenza del rapporto eziologico con il decesso di una giovane paziente, ritenendosi possibile, sulla base di circostanze quali il carattere iniziale della malattia, nonché la positi va reazione ai primi due cicli di chemioterapia praticati dopo oltre otto mesi dall'intervento chirurgico, pervenire ad una conclusione di proba bilità, sia pure non quantificabile esattamente, di maggiore sopravvi venza della paziente, e di possibilità, non quantificabile esattamente, di sostanziale modificazione della prognosi quoad vitam, nell'ipotesi in cui la diagnosi fosse stata corretta.

Circa la questione in esame risulta maggiormente consolidata una ten denza giurisprudenziale orientata a privilegiare una concezione del rap porto eziologico in termini probabilistici: si ritiene infatti che, in mate ria di responsabilità per colpa professionale del sanitario, al criterio della certezza degli effetti della condotta possa sostituirsi quello della

probabilità di tali effetti, con la conseguenza che il nesso di causalità sussiste non solo quando l'opera del sanitario, se correttamente e tem

pestivamente intervenuta, avrebbe avuto serie ed apprezzabili probabili tà di successo (cfr., tra le altre, Cass. 2 aprile 1987, Ziliotto, id., Rep. 1989, voce cit., n. 110, e 20 gennaio 1993, Conte, id., Rep. 1993, voce Reato in genere, n. 23, e, per esteso, Riv. pen., 1993, 1003, citata in

motivazione; nella giurisprudenza di merito, oltre a Pret. Caltanissetta 27 ottobre 1995, Foro it., 1996, II, 521, con nota di richiami, cui si rinvia anche per i profili riguardanti la colpa professionale medica, cfr.

App. Perugia 8 giugno 1993, id., Rep. 1995, voce Omicidio e lesioni

personali colpose, n. 44, e, per esteso, Rass. giur. umbra, 1994, 753; Pret. Verona 9 giugno 1994, Giust. pen., 1995, II, 297, e Foro it., Rep. 1995, voce cit., n. 46; Pret. Taranto-Manduria 2 novembre 1994, ibid., n. 47, e, per esteso, Riv. pen., 1995, 87; sull'accertamento del nesso causale tra condotta omissiva ed evento, cfr. Pret. Cagliari 7 marzo

1995, Riv. giur. sarda, 1996, 801, con nota di Putzu, e Foro it., Rep. 1997, voce cit., n. 40, ove si ritiene sufficiente la probabilità e non, invece, necessaria la certezza di evitare l'evento con la condotta omes

sa), ma, anche, in presenza di poche e limitate probabilità che la vita del paziente sarebbe stata salvata (cfr., tra le altre, Cass. 7 gennaio 1983, Melis, id., 1986, II, 351, con nota di Renda; successivamente, per un abbassamento del livello di derivazione causale a probabilità di successo apprezzabili nell'ordine del trenta per cento, cfr. Cass. 12

luglio 1991, Silvestri, id., 1992, II, 363, con nota di Giacona). In dottrina, tuttavia, il ricorso a soluzioni genericamente probabilisti

che, espresse spesso in cifre percentuali numeriche che lasciano, comun

que, residuare margini più o meno consistenti di alcatorietà in ordine ail'attribuibilità del nesso eziologico e alla formulazione di giudizi di

colpevolezza, è stato prevalentemente criticato: tra gli altri, in partico lare, v. Crespi, Medico-chirurgo, voce del Digesto pen., Torino, 1993, VII, 597 ss.

Per un quadro ricostruttivo delle posizioni dottrinali sul tema, cfr.

Parodi-Nizza, La responsabilità penale del personale medico e para medico, in Giurisprudenza sistematica di diritto penale diretta da Bri cola e Zagrebelsky, Torino, 1996, V, 167 ss.

11 Foro Italiano — 1999.

Motivi della decisione. — A seguito della morte dei pazienti Fatiga Vincenzo e Parla Vincenza, il pubblico ministero, con

imputazione formulata ai sensi dell'art. 554, 2° comma, c.p.p., traeva a giudizio Capelli Arnaldo per rispondere del reato di cui in rubrica.

All'udienza del 18 giugno 1996, si costituivano parte civile Di Falco Carmelo, figlio della Parla, e Bevilacqua Angiolina Carmela, congiunta del Fatiga.

All'esito dell'istruttoria dibattimentale, ritiene questo pretore di dover mandare assolto l'imputato perché il fatto non costi tuisce reato.

Per una sistematica ricostruzione dei fatti, è opportuno esa minare separatamente le due vicende sottoposte al giudizio di

questo pretore.

Fatiga Vincenzo risulta ricoverato in data 26 luglio 1988 pres so la clinica medica del policlinico Gemelli di Roma con la dia

gnosi di accettazione «dolori epigastrici». Pochi giorni dopo, lo stesso veniva sottoposto ad esofagoga

stroduodenoscopia con prelievi biopticj che erano affidati al prof. Capelli, direttore dell'istituto di anatomia patologica, per l'esa me istologico. Questi diagnosticava, in data 8 agosto 1988, «fru stoli di mucosa gastrica con marcati fenomeni ulcerativi e con vivace tessuto di granulazione. Nei frammenti esaminati non sono stati reperiti elementi di chiara natura neoplastica».

Il 12 agosto 1988 al Fatiga veniva prelevato ulteriore materia le bioptico alla faringe ed alle tonsille. In tale circostanza, il

Capelli formulava la diagnosi di «mucosa ulcerata con sotto stante tessuto linfoistoide a citologia dubbia».

In data 3 settembre 1988, il paziente Fatiga era trasferito presso la divisione di ematologia dello stesso nosocomio, con la defini tiva diagnosi di «linfoma maligno immunoblastico a localizza zione tonsillare e. sospetta localizzazione gastrica» (v. cartella clinica in atti) e, in quel reparto, veniva sottoposto a chemio

terapia. Dimesso il 16 settembre 1988, il Fatiga subiva altri ricoveri

nel corso dei quali veniva trattato in conformità alla predetta diagnosi fino al 1° aprile 1990 allorché egli moriva con la dia

gnosi di «linfoma non Hodgkin, insufficienza respiratoria, co

ma, collasso cardiocircolatorio».

Orbene, l'accusa assume che il decesso del Fatiga sia stato

determinato dalla erronea diagnosi formulata dal Capelli in da

ta 8 agosto 1988, laddove lo stesso non riconobbe il linfoma

maligno dal quale era affetto il Fatiga. Ed in effetti occorre rilevare che sia i consulenti tecnici del

pubblico ministero, sentiti all'udienza del 2 maggio 1997 (prof. Ficorella, prof. Gaudio, prof. Montanini), sia i periti nominati in sede di incidente probatorio (prof. Ficorella, prof. Fabroni

e prof. Ninfo) hanno concordemente concluso che i tessuti ga strici prelevati per l'esame istologico dell'8 agosto 1988 denun

ciavano l'esistenza di una «proliferazione linfomatosa a livello

gastrico» non rilevata dal Capelli che, invece, aveva al riguardo formulato una diagnosi dubbia: «non sono stati reperiti ele

menti di chiara natura neoplastica». Perfino i periti di parte (prof. Spagnoli e Fiori) hanno rico

nosciuto l'errore diagnostico del Capelli anche se hanno soste

nuto che, nel caso di specie, l'esame bioptico si prestava all'in

terpretazione formulata dal Capelli. Ma che l'errore sia da at

tribuirsi, invece, ad imperizia dell'imputato si evince non solo

da quanto sostenuto con chiarezza dai periti di parte civile (prof. Vecchione e dr. Bigotti) ma anche dai periti dell'incidente pro batorio i quali hanno concordemente addebitato alla imperizia del Capelli tale errore pur sottolineando che, comunque, non ne sono derivati danni per il paziente.

Ed in effetti deve riconoscersi, in conformità alle conclusioni

dei periti che appaiono sorrette da motivazioni scientifiche im

muni da vizi logici e pienamente convincenti, che il comprovato errore dell'imputato dell'8 agosto 1988 non ha avuto, nel de

corso della malattia del Fatiga, alcuna apprezzabile conseguen

Sempre in dottrina, di recente, oltre a Siracusano, Giudizi di proba bilità e sequenze causali nell'accertamento della colpa medica, in Cass.

pen., 1996, 3329 ss., v. Tramontano, Causalità attiva e omissiva, ed

obblighi divisi e congiunti di garanzia: tre sentenze di merito a confron to, in Foro it., 1997, II, 417 ss., nonché Merli-Lunardi, Norme e criteri di interpretazione del rapporto di causalità nel diritto penale -

Considerazioni di carattere medico-legale con particolare riferimento alla

responsabilità professionale del sanitario, in Zacchia, 1996, 219 ss. Sulla responsabilità del medico in genere, inoltre, v. Bilancetti, La

responsabilità penale e civile del medico, Padova, 1995; mentre sul rap porto di causalità in generale, oltre a Fiandaca, Causalità (rapporto di), voce del Digesto pen., Torino, 1988, II, 119 ss., v. Romano, Com mento all'art. 40 c.p., in Commentario sistematico del codice penale diretto da Bricola e Zaorebelsky, Milano, 1987, I, 317 ss.

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PARTE SECONDA

za poiché è rimasto provato che solo pochi giorni dopo, e cioè il 12 agosto 1988, il corretto esame istologico del prelievo faringeo tonsillare aveva consentito una esatta diagnosi del male dal quale era affetto il Fatiga (linfoma maligno immunoblastico) che aveva

determinato il trasferimento del predetto nel reparto di ematolo

gia ove era stato adeguatamente e correttamente trattato (v. car

tella clinica in atti, deposizione prof. Leoni, prof. Montanini, pe rizia dei prof. Fabroni, Ficorella e Ninfo in sede di incidente pro batorio).

È appena il caso di osservare sul punto che quanto lamentato

dalla parte civile, secondo la quale, in tali condizioni, il Fatiga non doveva essere sottoposto a cure chemioterapiche, ma ad in

tervento chirurgico, non ha alcuna rilevanza in questa sede, poi ché è evidente che, in presenza di una comprovata esatta diagno si, le successive scelte terapeutiche eventualmente sbagliate non

possono essere certamente addebitate al Capelli. Per quanto concerne la seconda vicenda, Parla Vincenza risul

ta ricoverata dal 4 al 30 novembre 1988 presso il reparto di chi

rurgia geriatrica del policlinico Gemelli con la diagnosi di accet tazione «splenomegalia».

Dall'anamnesi riportata nella cartella clinica si evince che, po chi giorni prima, in data 20 ottobre 1988, la Parla era già stata

sottoposta a biopsia ossea con diagnosi di «linfoma non Hodg kin. . . di grado di infiltrazione del venti-trenta per cento», in pra tica un tumore maligno a livello del midollo osseo. A seguito del successivo ricovero del 4 novembre veniva rilevato un notevole au mento della milza e, pertanto, in data 10 novembre 1988 aveva subito un intervento chirurgico per l'asportazione di tale organo durante il quale il chirurgo aveva segnalato la presenza di «cirrosi

epatica a grossi nodi» (v. cartella clinica in atti). All'esito dell'esame istologico effettuato sulla milza, il prof. Ca

pelli aveva diagnosticato «fibrosi ed iperplasia della polpa bian

ca», in pratica una infiammazione dell'organo in esame. Il 30 novembre 1988, la Parla veniva dimessa in buone condi

zioni fisiche, con la prescrizione di periodici controlli clinici e una

terapia medica a base di Aldactone. Due anni dopo, a fine gennaio 1991, la paziente veniva ricove

rata presso la divisione di medicina interna dell'ospedale di Cani catti con la diagnosi di accettazione «insufficienza epatica». Di messa dal predetto nosocomio in data 13 febbraio 1991, con la

diagnosi «cirrosi epatica in fase ascitica», la predetta decedeva lo stesso giorno (v. cartella clinica in atti).

Orbene, anche nel caso di specie, secondo l'accusa il decesso della Parla dovrebbe ascriversi all'errore diagnostico del Capelli il quale, all'esame istologico della milza, non aveva rilevato, co me dovuto, la presenza del linfoma maligno che aveva colpito an che tale organo condizionando, in tal modo, la terapia (che si as sume errata) alla quale la paziente è stata successivamente sot

toposta. Ed effettivamente anche i periti addotti dalla difesa (prof. Spa

gnoli e Fiori), pur escludendo qualsiasi rapporto causale con il de cesso della Parla, hanno riconosciuto l'errore diagnostico del

Capelli. Il collegio peritale in sede di incidente probatorio e i consulenti

tecnici del pubblico ministero sentiti al dibattimento (prof. Fico

rella, Gaudio e Montanini) hanno confermato l'errore della dia

gnosi istopatologica in quanto, dall'esame microscopico del tes

suto, doveva essere formulata la diversa diagnosi di «interessa mento splenico da parte di linfoma nodulare a basso grado di

malignità» (v. perizia in atti e deposizioni Ficorella, Gaudio e Mon

tanini). E che tale errore sia da ascriversi certamente ad imperizia del

Capelli lo hanno sostenuto il dr. Bigotti e, con motivazioni scien tifiche pienamente condivisibili, il prof. Vecchione. Questi, in par ticolare, ha riferito che il prelievo istologico esaminato dal Ca

pelli consentiva di rilevare «agevolmente e senza alcuna difficol

tà, visto l'eclatante quadro istologico, di porre la diagnosi di linfoma nodulare a linfociti di piccola taglia a basso grado di ma

lignità». Anche il prof. Ficorella (udienza 2 maggio 1997) ha attribuito

l'errore del Capelli ad «imperizia» e il prof. Gaudio ha dichiara to che le cellule tumorali nel tessuto prelevato erano addirittura «visibili anche senza microscopio» (udienza 2 maggio 199.7).

Stabilito, dunque, per ! : ragioni suesposte che errore diagno stico vi è stato e riconosciuto che tale errore è da ascriversi ad im

perizia del Capelli, occorre esaminare anche in questo caso se vi sia rapporto di causalità con la morte della Parla.

Ed al riguardo, i periti e i consulenti del pubblico ministero han no concordemente riferito che il riconoscimento dell'interessamen to della milza non avrebbe in alcun modo influenzato né la dia

gnosi conclusiva né la terapia da praticare (v. perizia in atti e de

posizione dei consulenti del pubblico ministero del 2 maggio 1997).

Il Foro Italiano — 1999.

Nel caso di specie, la parte civile ha lamentato, in particolare, che, essendo stato già diagnosticato alla paziente un linfoma non

Hodgkin al midollo osseo, la corretta diagnosi sulla milza, evi

denziando in modo significativo l'aggravamento della sintoma

tologia, avrebbe portato ad una diversa scelta terapeutica e cioè

al trattamento radio e chemioterapico. Tale trattamento, assolu

tamente dovuto secondo i periti di parte civile, avrebbe sicuramente

garantito la sopravvivenza della Parla per un periodo maggiore (v. dep. prof. Vecchione e dr. Bigotti).

In ordine a questo aspetto, nel corso dell'istruttoria dibattimen

tale, vi è stata una accesa polemica a causa dello scontro di due scuole di pensiero in relazione al trattamento terapeutico del lin foma non Hodgkin che, secondo i periti di parte civile, ove si ma nifesti in modo «sintomatico», come nel caso in esame, dovrebbe essere immediatamente trattato.

I periti dell'incidente probatorio hanno sostenuto, invece, che in tali casi il trattamento mira soprattutto ad un lungo controllo della malattia, utilizzando terapie poco aggressive che, in casi se

lezionati, possono essere precedute da periodi di semplice controllo

della malattia. I consulenti tecnici del pubblico ministero, sentiti all'udienza del 2 maggio 1997, hanno riferito che le scelte tera

peutiche vanno effettuate valutando caso per caso, in quanto non vi è dimostrazione sicura di un aumento della sopravvivenza con il trattamento chemioterapico, come invece sostenuto dai periti di parte civile, e che, essendo tale trattamento particolarmente tos

sico, la scelta deve avvenire bilanciando il «costo-beneficio» in re lazione al grado di malignità del tumore e in termini di qualità della vita per il paziente. Il prof. Fiori, al riguardo, ha riferito con argomentazioni scientifiche pienamente condivisibili che, aven do il chirurgo prof. Di Giovanni, in sede di splenectomia, segna lato la presenza di un fegato cirrotico, una cura chemioterapica, altamente tossica, sarebbe stata addirittura controindicata.

È certo comunque, in punto di fatto, che, a seguito della aspor tazione della milza, la Parla, non sottoposta al trattamento che

mioterapico rivendicato dalla parte civile, attraversò un lungo pe riodo in cui le sue condizioni di salute migliorarono sensibilmen

te, tanto che la stessa non si presentò ai controlli dovuti, come era stato prescritto all'atto della sua dimissione (v. cartella clini ca e deposizione del figlio Di Falco Carmelo udienza 4 dicembre

1996). In ogni caso, prescindendo dalla efficacia che la chemioterapia

avrebbe potuto avere nel caso in esame (efficacia impossibile da valutare perché dipendente dalla soggettiva risposta biologica del

l'organismo del paziente), resta, comunque, la comprovata e as sorbente circostanza che il decesso della Parla è avvenuto dopo due anni dall'errato esame istologico ed è stato determinato non

già dal tumore eventualmente male curato dal quale era affetta, ma da «cirrosi epatica in fase ascitica», cirrosi, peraltro, già rile vata dal chirurgo che aveva eseguito la splenectomia in data 10 novembre 1988 (v. cartella clinica dell'ospedale di Canicattì).

Orbene, tali essendo gli elementi probatori acquisiti in punto di fatto, appare opportuno fare alcune considerazioni con riferi mento al nesso di causalità che, ai sensi dell'art. 40 c.p., deve sus sistere tra l'evento dannoso e l'azione del soggetto.

L'accertamento della sussistenza di tale elemento costitutivo del reato impone una valutazione complessiva delle circostanze di fatto ed un giudizio se non di certezza almeno di apprezzabile probabi lità circa gli effetti della condotta. È dunque necessario che l'esi stenza del nesso causale venga riscontrata con sufficiente grado di certezza, tale da fondare su solide basi una affermazione di re

sponsabilità, non essendo sufficiente a tal fine un giudizio di me ra verosimiglianza (cfr. Cass., sez. Ili, 20 gennaio 1993, Conte, Foro it., Rep. 1993, voce Reato in genere, n. 23, e sez. IV 27 set tembre 1993, Rossello, id., Rep. 1994, voce Omicidio e lesioni per sonali colpose, n. 51).

Nel caso di specie, l'azione pur colposa del Capelli non solo non è stata di per sé idonea, da sola, a determinare con sufficiente grado di probabilità la morte, ma non può ritenersi neppure semplice condizione antecedente indispensabile, in concorso con altre cau

se, senza la quale l'evento non si sarebbe verificato. II concreto concatenarsi dei fatti nei due casi esaminati, ed in

particolare nel caso del sig. Fatiga la circostanza che solo pochi giorni dopo è intervenuta la corretta diagnosi e nel caso della sig. Parla la circostanza che il decesso è avvenuto a causa di cirrosi

epatica estranea alla patologia esaminata dal Capelli, induce ad escludere che la corretta esecuzione degli esami istologici sarebbe stata idonea a produrre non solo la certezza ma neppure serie ed

apprezzabili probabilità di maggiore sopravvivenza dei due pa zienti.

Ne deriva che il Capelli va assolto perché il fatto non costitui sce reato non essendosi integrata perfettamente la fattispecie giu ridica contestata per l'accertato difetto del nesso di causalità.

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