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sentenza 27 dicembre 1982; Pres. Castaldi, Est. Ferrara; Soc. Tiber immobiliare (Avv. Falvo d'Urso,...

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sentenza 27 dicembre 1982; Pres. Castaldi, Est. Ferrara; Soc. Tiber immobiliare (Avv. Falvo d'Urso, Consolini) c. Soc. coop. Egea (Avv. Cassola) Source: Il Foro Italiano, Vol. 106, No. 1 (GENNAIO 1983), pp. 213/214-215/216 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23176855 . Accessed: 28/06/2014 17:20 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 193.142.30.51 on Sat, 28 Jun 2014 17:20:04 PM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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Page 1: sentenza 27 dicembre 1982; Pres. Castaldi, Est. Ferrara; Soc. Tiber immobiliare (Avv. Falvo d'Urso, Consolini) c. Soc. coop. Egea (Avv. Cassola)

sentenza 27 dicembre 1982; Pres. Castaldi, Est. Ferrara; Soc. Tiber immobiliare (Avv. Falvod'Urso, Consolini) c. Soc. coop. Egea (Avv. Cassola)Source: Il Foro Italiano, Vol. 106, No. 1 (GENNAIO 1983), pp. 213/214-215/216Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23176855 .

Accessed: 28/06/2014 17:20

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

Con atto depositato in cancelleria il 16 febbraio 1982 hanno

proposto reclamo i soci di minoranza Ottaviani Giovanni e Pa

trizia i quali hanno dedotto che l'omologazione della delibera as

sembleare di revoca dello stato di liquidazione discende implici tamente dall'art. 2449 c. c. che prevede l'omologazione della de

libera di scioglimento della società; che l'omologazione stessa è

anche imposta dal fatto che detta delibera è condizione impre scindibile di quella di aumento del capitale sociale a sua volta

soggetta ad omologazione; che la delibera di revoca della liqui dazione (e conseguentemente quella di aumento del capitale so

ciale) non può essere omologata nella specie perché non adottata

alla unanimità, come da prevalente giurisprudenza della cassa

zione.

La corte conformemente al parere del p.g., ritiene che il re

clamo debba essere accolto.

In applicazione estensiva della norma dell'art. 2449, 4° comma,

c. c. che dispone l'omologazione della delibera di scioglimento della società, deve ritenersi soggetta ad omologazione, stante la

pari incidenza nella vita della società, anche la delibera di re

voca di detto scioglimento. Sul punto è concorde la più recente

giurisprudenza di merito (App. Genova 7 maggio 1979, Foro it.,

1980, 1, 1814). È infatti logico presumere che se il controllo di

legittimità di cui al giudizio di omologazione è previsto per una determinata delibera assembleare, tale tipo di controllo non

può non essere prescritto per la delibera che produce effetti con

trari, stante la stessa ratio legis. Ciò posto, devesi considerare — come da giurisprudenza pre

valente (Cass. 28 giugno 1948, n. 1027, id., 1949, I, 351; 12 ago sto 1960, n. 2365, id., 1960, I, 1463; 11 giugno 1968, n. 1849, id.,

Rep. 1968, voce Registro, n. 263) — che, comportando la pubbli cazione dello scioglimento e della liquidazione della società la

liberazione del socio dall'obbligo di subire le conseguenze delle

deliberazioni assembleari di maggioranza incompatibili con lo

scopo della liquidazione, la delibera di revoca dello stato di li

quidazione, costituendo una riviviscenza della società, è inammis

sibile se non viene adottata all'unanimità.

Pertanto, nella specie, la delibera di revoca dello stato di li

quidazione, in quanto presa a maggioranza dei soci, è illegittima e non può essere omologata. Poiché la possibilità di deliberare

l'aumento del capitale sociale è strettamente collegata alla vali

dità della delibera di revoca dello stato di liquidazione in quan to un siffatto stato è per sua natura preclusivo di ogni opera zione con esso incompatibile (arg. art. 2449 e 2452 c.c.), ne con

segue che l'illegittimità della delibera di revoca dello stato di li

quidazione della s.r.l. S.E.F. travolge anche la delibera di aumen

to del capitale sociale fino al minimo legale e ne impedisce

quindi l'omologazione. Devesi dunque, in accoglimento del reclamo in esame, riformare

l'impugnato decreto del Tribunale di Latina, dichiarando non

omologabile la delibera assembleare della s.r.l. S.E.F. in data 11

dicembre 1981 concernente la revoca dello stato di liquidazione

e l'aumento del capitale sociale.

II

Ritenuto che il controllo giudiziario degli atti della società di

capitali si attua attraverso il procedimento di omologazione, il

quale è prescritto per l'atto costitutivo delle società per azioni

(art. 2330, 3° comma, c. c.), per le deliberazioni delle assemblee

sociali concernenti l'emissione di obbligazioni (art. 2411, 3° com

ma, c. c.) e per le deliberazioni che modificano l'atto costitutivo

(art. 2436 c.c.); disposizioni applicabili per estensione a tutte

le società di capitali in virtù dei richiami contenuti negli art.

2464, 2475, 2° comma, 2494 (per le società a responsabilità limi

tata), 2519 e 2537 c.c.; che al di fuori delle deliberazioni con

cernenti la costituzione delle società, le modificazioni dell'atto

costitutivo e l'emissione di obbligazioni, l'omologazione non è ri

chiesta; che la deliberazione di revoca dello stato di liquida

zione e di prosecuzione dell'attività sociale non rientra tra quelle

per le quali è prevista l'omologazione, per cui tale capo della

delibera non deve essere omologato, salvo il diritto degli intimati

di proporre opposizione nel termine di legge ove ritengano che

la deliberazione di proroga debba essere adottata dall'assemblea

all'unanimità (cfr. Cass. 11 giugno 1968, n. 1849, Foro it., Rep.

1968, voce Registro, n. 263, e App. Genova 1° luglio 1968, ibicl.,

voce Società, n. 3C9); invece va omologata la parte della delibera

11 dicembre 1981 che riguarda l'aumento del capitale sociale,

comportando modifica dell'atto costitutivo.

TRIBUNALE DI ROMA; sentenza 27 dicembre 1982; Pres. Ca

staldi, Est. Ferrara; Soc. Tiber immobiliare (Avv. Falvo

D'Urso, Consolini) c. Soc. coop. Egea (Avv. Cassola).

TRIBUNALE DI ROMA;

Liquidazione coatta amministrativa e amministrazione straordina

ria — Liquidazione dell'attivo — Esclusione della garanzia per i vizi della cosa — Insussistenza (Cod. civ., art. 1490, 2922; r.d. 16 marzo 1942 n. 267, disciplina del fallimento, art. 210).

Alle vendite realizzate nell'ambito della procedura di liquidazione coatta amministrativa non è applicabile la disposizione conte

nuta nell'art. 2922 c. c., che esclude la garanzia per i vizi della

cosa nelle vendite forzate. (1)

Motivi della decisione. — La questione da esaminare in via

preliminare è se l'esclusione della garanzia per i vizi della cosa, che la legge prevede in materia di vendita forzata (art. 2922 c.c.),

possa ritenersi applicabile anche alle vendite effettuate dal com

missario liquidatore nella procedura di liquidazione coatta ammi

nistrativa. La risoluzione di tale problema non può prescindere da un esame, sia pure rapido e sintetico, della natura dell'esecu

zione forzata e della liquidazione coatta amministrativa, per ve

rificare se quest'ultima procedura sia inquadrabile nello schema

della prima, quanto alla ratio legis ed agli effetti che ne devono

scaturire.

Se colui che ha l'obbligo giuridico di effettuare una determi

nata prestazione (dare una somma di danaro, una cosa determi

nata o fare alcunché) non adempie spontaneamente, l'ordina

mento appresta, in presenza di un titolo esecutivo legittimante,

gli strumenti necessari perché il soggetto creditore della presta zione possa conseguire quanto dovutogli. Esecuzione forzata vuol

dire, quindi, secondo l'accezione dominante, attuazione di una

volontà, se espressa in determinati modi, a prescindere dalla col

laborazione del soggetto passivo dell'obbligazione. In tal senso

l'esecuzione è indissociabile dalla norma che impone un certo

obbligo, perché una normativa che non postulasse la sua esecu

zione, e cioè l'attuazione pratica dell'ordine giuridico in essa con

tenuto, non avrebbe senso. Lo strumento ordinario a mezzo del

quale si realizza l'esecuzione è il processo esecutivo, e cioè il

complesso di norme predisposte al fine che il creditore possa esercitare la sua azione esecutiva e conseguire, nelle forme e nei

modi prescritti dalla legge, con l'intervento dell'organo giurisdi

zionale, quanto dovutogli. La funzione di attuazione delle norme

nel senso precisato di regola è attribuito dalla legge al giudice, ed è eseguita in un processo giurisdizionale, predisposto a ga ranzia dei diritti soggettivi delle parti (creditore e debitore) e dei

terzi.

E la funzione esecutiva esprime il suo momento culminante

nella vendita forzata, che è l'atto mediante il quale l'organo pro cedente trasferisce al terzo acquirente il bene del debitore in

(1) In senso contrario v. Trib. Roma 2 dicembre 1974, Foro it.,

Rep. 1975, voce Esecuzione forzata per obbligazioni pecuniarie, n.

33, che ha ritenuto applicabile la disposizione ex art. 2922 c. c.

sull'esclusione della garanzia per i vizi della cosa anche alla vendita

immobiliare realizzata nella liquidazione coatta amministrativa, con

figurata come procedimento forzoso concorsuale del tutto analogo a

quello fallimentare, inferendone che non è neppure ammesso l'an

nullamento per vizi del consenso.

Sulla liquidazione dell'attivo nella procedura coatta amministrati

va, per la quale sussiste libertà di forme mancando nell'art. 210 1.

fall, una norma di rinvio alle disposizioni del codice di procedura

civile, v. Bonsignori, Della liquidazione coatta amministrativa, in

Commentario, a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1974,

254 ss.; Provinciali, Trattato di diritto fallimentare, Milano, 1974,

IV, 2579 ss.; Bavetta, Liquidazione coatta amministrativa, voce del

l'Enciclopedia del diritto, Milano, 1974, XXIV, 803.

In giurisprudenza è stato costantemente ritenuto operante l'art.

2922 c. c. nell'ipotesi di liquidazione dell'attivo fallimentare, anche

se attuata col sistema delle offerte private: per l'esclusione dell'im

pugnativa per lesione delle vendite fallimentari, cfr. Cass. 3 agosto

1942, n. 2410, Foro it., 1943, I, 849, e, nel senso dell'inapplicabilità della garanzia per i vizi della cosa, v. App. Firenze 21 marzo 1969,

id., Rep. 1969, voce Fallimento, n. 510; Trib. Palermo 9 agosto

1957, id., 1958, I, 1222; Trib. Roma 21 dicembre 1955, id., 1956, I,

831. In dottrina, sulla estensione alle vendite fallimentari delle dispc sizioni del codice civile contenute negli art. 2919-2928, cons. An

drioli. Fallimento (dir. priv.), voce dell'Enciclopedia del diritto, Mi

lano, 1967, XVI, 439; Bonsignori, Della liquidazione dell'attivo, in

Commentario, a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1976,

73; Provinciali, op. cit., ìli, 1581 ss.; Paiardi, Manuale di diritto

fallimentare, Milano, 1976, 532. Per un'opinione difforme v. S. Satta,

Diritto fallimentare, Padova, 1974, 272, secondo cui nella procedura fallimentare le regole sostanziali di cui agli art. 2919 ss. c.c. «pos

sono non applicarsi integralmente, essendo i poteri dispositivi del

giudice e del curatore, tra l'altro, molto più ampi che non quelli

del giudice nell'espropriazione singolare ».

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PARTE PRIMA

corrispettivo di un prezzo, che sarà, poi, distribuito ai creditori.

Diverse sono le opinioni della dottrina sulla natura di tale ven dita (si discute ancora se l'acquisto del terzo sia a titolo origina rio o derivativo; si è ritenuto che l'ufficio venda i beni « in rap

presentanza » del debitore o che oggetto dell'espropriazione non

sia il bene, ma il potere di disposizione del debitore su tale bene, sicché poi l'ufficio trasmetterebbe al terzo acquirente la pro

prietà della cosa in virtù di tale potere, derivatogli, appunto sia

pure forzosamente, dal debitore, configurandosi una sorta di ne

gozio di diritto pubblico tra organo esecutivo e terzo acquirente), ma l'opinione oggi preminente attribuisce rilievo decisivo al ca

rattere pubblico della funzione giurisdizionale attuata nel processo esecutivo, per dedurne che nel conflitto di interessi tra il debi

tore che non esegue la prestazione ed il creditore che la preten de, l'ufficio esecutivo esercita un potere autonomo, ad esso origi nariamente spettante e « da ravvisare nell'essenza stessa della giu risdizione ».

In tale contesto si attua il trasferimento del bene al terzo acqui rente, il quale esprime (nelle forme previste dalla legge) la sua volontà di acquistare in piena autonomia e secondo i propri inte

ressi, superata essendo ormai la tesi che qualificava il terzo acqui rente come una sorta di ausiliario del giudice o come un privato che esercita pubblici poteri. Esso si trova nella condizione di qua lunque soggetto che abbia acquistato un bene a mezzo di una

vendita volontaria, e perciò (art. 2919 c. c.) può esercitare tutti i diritti che sulla cosa spettavano a colui che ha subito l'espro priazione. Non gli è consentito, invece (art. 2922 c. c.), eserci tare l'azione di rescissione per lesione, né far valere le sue ra

gioni per i vizi occulti della cosa.

La ragione del primo divieto si è rinvenuta nell'impossibilità di riferire all'organo giurisdizionale procedente (venditore) la vo lontà di approfittare dello stato di bisogno di colui che si offre di

acquistare il bene esecutato.

La ragione del secondo divieto si è rinvenuta, invece, in una

doppia esigenza: da una parte, quella di stabilità della vendita, conforme alla sua natura coatta; dall'altra, quella di impedire il

proliferare di cause tra acquirenti e creditori che hanno incassato il prezzo, e che in caso di accoglimento della domanda sarebbero tenuti a restituire una parte di quanto riscosso. In realtà, le giusti ficazioni addotte non possono impedire di rilevare che il divieto di agire per i vizi della cosa costituisce una scelta del legislatore, cui si può attribuire l'utilità pratica di rendere definitive e forse

più snelle le procedure esecutive, ma non si può sottacere che alla resa dei conti tale divieto costituisce un privilegio per i creditori

(che, in tesi, ricevono più di quanto dovrebbero, nella misura in cui trattengono una parte -di prezzo) e per il debitore (sul quale, in definitiva, tale effetto positivo ricade), mentre l'acquirente deve

sopportare il danno conseguente, si badi, a vizi che non potevano essere conosciuti prima della vendita.

Trattasi, quindi, come ognuno vede, di una norma di carattere

eccezionale, in quanto deroga alla regola di carattere generale, secondo cui è dovuta dal venditore la garanzia per i vizi della

cosa, e che in definitiva è ispirata al principio di equità tra le

prestazioni corrispettive del venditore e del compratore. Occorre soggiungere che la disciplina del codice vigente è più

restrittiva rispetto a quella del codice del 1865, il quale dispone va analoghi divieti (art. 1506 e 1536) per le vendite giudiziali in genere, tra le quali si potevano ricomprendere, oltre alle ven dite forzate, le vendite di beni di minori o le vendite di cose co

muni, attuate mediante l'intervento del giudice, reso nel relativo

procedimento di volontaria giurisdizione. La diversa dizione della norma dell'art. 2922 (vendita forzata) e la collocazione di tale

disposizione tra quelle che riguardano gli effetti dell'espropria zione forzata, sotto il titolo « Della tutela giurisdizionale dei di ritti », lasciano chiaramente intendere che il legislatore del 1942 ha voluto limitare il divieto soltanto alie vendite eseguite nel pro cesso di esecuzione forzata per espropriazione.

Pertanto secles materiae, la restrizione operata dal legislatore del 1942 rispetto a quello del 1865, la deroga alla regola comune non consentono di applicare il divieto oltre il caso previsto dalla

legge: cosi, ad esempio, non può essere invocato l'art. 2922 c.c. nell'esecuzione coattiva per inadempimento del compratore, pre vista dall'art. 1515 c.c., né nel procedimento previsto dall'art. 1536 c.c. per l'inadempimento della vendita a termini di titoli.

Queste stesse ragioni, che in definitiva si compendiano nel con vincimento dell'applicabilità dell'art. 2922 soltanto alle vendite for zate eseguite con l'intervento del giudice nel processo giurisdizio nale esecutivo, inducono a ritenere che la norma richiamata non sia applicabile alle vendile compiute dal commissario liquidatore nella procedura di liquidazione coatta amministrativa. Tale pro cedura si apre con un provvedimento dell'autorità amministrativa (ministro) e viene svolta da uno o più commissari liquidatori

nominati dal potere esecutivo, sotto la vigilanza e la direzione dell'autorità amministrativa: è il commissario che procede alla formazione dello stato passivo (art. 209 1. fall.), includendo in

esso, persino di sua iniziativa, i crediti che gli risultano esi

stenti, a lui (art. 210 1. fall.) sono concessi tutti i poteri neces

sari per la liquidazione dell'attivo (sempre sotto il controllo e

le direttive dell'autorità amministrativa). L'intervento dell'autorità giudiziaria è previsto per alcune fasi

della procedura, a tutela di diritti soggettivi: cosi', può essere ac certato giudiziariamente lo stato di insolvenza, si può proporre opposizione allo stato passivo, si può impugnare il rendiconto e lo stato di riparto finale innanzi al tribunale, si può proporre un concordato sul quale deciderà il tribunale, il concordato stesso

può essere annullato o risolto dall'autorità giudiziaria. Tale intervento del giudice ha indotto la dottrina più recente

a ritenere mista la natura della procedura in esame: occorre pe raltro avvertire che la struttura della procedura è certamente am

ministrativa, mentre le fasi giurisdizionali sono eventuali (può mancare l'accertamento giudiziario dello stato di insolvenza, pos sono mancare le opposizioni allo stato passivo, al bilancio finale ed al riparto, può mancare il concordato). Le stesse sezioni unite

della Cassazione hanno definito la liquidazione coatta amministra

tiva « una procedura concorsuale diretta alla estinzione dell'im

presa previo soddisfacimento dei creditori con un sistema analo

go a quello fallimentare. Essa è affidata all'autorità amministra

tiva, mentre l'autorità giudiziaria vi interviene a tutela dei di

ritti soggettivi dei creditori e dei terzi » (sent. 23 luglio 1969, n.

278, Foro il., 1970, I, 203; 31 luglio 1969, n. 2907, id., Rep. 1969, voce Liquidazione coatta amministrativa, n. 9).

Per ciò che interessa nella presente causa, va sottolineato che la

liquidazione dei beni è attuata dal commissario al di fuori di ogni controllo giurisdizionale, perché esso ha pieni poteri di liquidare i beni nei modi e nelle forme che ritiene più opportuni, col solo li mite del rispetto delle prescrizioni dell'autorità di vigilanza.

In particolare, può procedere sempre alla trattativa privata, es sendo svincolato dalle forme del terzo libro del codice di proce dura civile, ma osservando le norme sui contratti del titolo se condo del quarto libro dello stesso codice.

Allorquando ritenga, invece, di adottare le modalità previste dal codice di rito (quanto al modo di reperire le offerte ed alle

pubblicità della vendita), come spesso si verifica nella pratica (e come è avvenute nella fattispecie), non per questo muta la na

tura del contratto, che egli va a stipulare con l'acquirente: la ra

gione di ciò è che non muta la natura dell'attività che egli com

pie, pur se le forme di tale attività sono analoghe a quelle del pro cesso esecutivo: non muta del pari la natura dell'organo che pro cede; non mutano gli effetti che si ricollegano alla diversità delle due procedure. In particolare, il negozio compiuto dal commis

sario non si sottrae alle regole ordinarie del codice civile. Vero è che la procedura di liquidazione coatta mira al soddisfacimento dei creditori mediante una espropriazione dei beni dell'impresa debitrice, e quindi anche contro la volontà di questa.

Ma non basta il carattere coattivo a parificare detta procedura al

processo di esecuzione forzata, perché essa si svolge nell'ambito

amministrativo, mediante attività di organi che hanno la medesi ma natura, senza alcuna ingerenza del giudice. L'esecuzione for

zata si qualifica proprio per l'intervento dell'organo giurisdizio nale, che (come si esprimeva una dottrina non più recente) « agi sca nell'esplicazione della sua tipica funzione ed in modo tale che

la sua attività costituisca il fulcro attorno al quale gravita il rela

tivo procedimento ».

La comune finalità satisfattiva, quindi, non può parificare le due

procedure. In conclusione, non essendo assimilabile la vendita compiuta

dal commissario liquidatore alla vendita forzata effettuata nel pro cesso giurisdizionale esecutivo, ne consegue che la norma (ecce zionale) contenuta nell'art. 2922 c. c. non è applicabile alla li

quidazione dei beni compiuta nell'ambito della procedura di li

quidazione coatta amministrativa. In tal senso il collegio deve pronunciarsi, risolvendo la questio

ne preliminare sottoposta al suo esame e rinviando la causa, con

separata ordinanza, davanti all'istruttore per l'ulteriore corso.

TRIBUNALE DI MONZA; sentenza 14 maggio 1982; Pres. Bi bolini, Est. Lapf.rtosa; Ardu (Avv. Porrone) c. Lomater (Avv. Solzi).

TRIBUNALE DI MONZA;

Assicurazione (contratto di) — Assicurazione obbligatoria auto veicoli — Azione di regresso del danneggiarne nei confronti del terzo corresponsabile — Omessa richiesta del risarcimento

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