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sentenza 27 settembre 1983; Pres. Caroselli, Est. Loi; Soc. S.i.s.a.s. (Avv. Camilli) c. Soc. S.i.o....

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sentenza 27 settembre 1983; Pres. Caroselli, Est. Loi; Soc. S.i.s.a.s. (Avv. Camilli) c. Soc. S.i.o. (Avv. Boitani, Casella, Ardito, Acerbi) Source: Il Foro Italiano, Vol. 107, No. 4 (APRILE 1984), pp. 1087/1088-1091/1092 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23176017 . Accessed: 28/06/2014 17:30 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 92.63.103.61 on Sat, 28 Jun 2014 17:30:08 PM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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sentenza 27 settembre 1983; Pres. Caroselli, Est. Loi; Soc. S.i.s.a.s. (Avv. Camilli) c. Soc. S.i.o.(Avv. Boitani, Casella, Ardito, Acerbi)Source: Il Foro Italiano, Vol. 107, No. 4 (APRILE 1984), pp. 1087/1088-1091/1092Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23176017 .

Accessed: 28/06/2014 17:30

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1087 PARTE PRIMA 1088

dell'atto di matrimonio, con la conseguenza che il nuovo sistema

di pubblicità (previsto dall'art. 162 c.c.) investe le convenzioni in

sé considerate ed a prescindere dai risultati di queste sulla

-circolazione immobiliare: il che vale ad evidenziare in che modo

ed entro quali limiti il nuovo regime coesiste con quello pre cedente.

Ed ugualmente priva di consistenza si rivela l'ultima argomen tanzione degli appellanti, in ordine alle difficoltà pratiche che

presenta il sistema della doppia pubblicità, giacché tali difficoltà

potrebbero al più indurre il legislatore ad emanare norme di

attuazione e di coordinamento, non invece a negare l'esistenza e

la operatività del nuovo regime. Alla stregua delle esposte consi

derazioni entrambi gli appelli proposti vanno disattesi e l'impugna ta sentenza deve essere integralmente confermata. (Omissis)

CORTE D'APPELLO DI MILANO; sentenza 27 settembre 1983; Pres. Caroselli, Est. Loi; Soc. S.i.s.a.s. (Avv. Camilli) c.

Soc. S.i.o. (Avv. Boitani, Casella, Ardito, Acerbi).

CORTE D'APPELLO DI MILANO;

Società — Società di capitali — Amministratori — Clausola « simul stabunt simul cadent » — Efficacia — Fattispecie (Cod.

civ., art. 2382, 2383, 2385, 2386). Società — Società di capitali — Amministratori — Clausola

« simul stabunt simul cadent » — Legittimità (Cod. civ., art.

2382, 2383, 2385, 2386). Società — Società di capitali — Assemblea — Deliberazioni —

Eccesso di potere — Condizioni (Cod. civ., art. 2377). Società — Società di capitali — Assemblea — Deliberazioni —

Eccesso di potere — Insussistenza — Fattispecie (Cod. civ., art.

2377).

La clausola dello statuto di società per azioni, secondo la quale « se per dimissioni o per altre cause viene a mancare più della

metà degli amministratori, anche gli altri amministratori si

intendono dimissionari e deve convocarsi d'urgenza l'assemblea

per la totale ricostituzione del consiglio », prevede un'ipotesi di

automatica decadenza degli amministratori non dimissionari al

verificarsi della fattispecie considerata, che opera indipenden temente da qualsiasi espressa o tacita loro manifestazione di vo

lontà. (1) È legittima la clausola simul stabunt simul cadent. (2) È viziata da eccesso di potere la deliberazione assembleare con la

quale i soci di maggioranza perseguano un interesse personale non identificabile, perché antitetico, con l'interesse della società, ovvero ledano fraudolentemente i diritti di partecipazione e pa trimoniali che competono ai soci uti singuli. (3)

La deliberazione con la quale l'assemblea, rinnovando l'organo amministrativo decaduto in virtù della clausola simul stabunt

simul cadent, ne riduce il numero dei componenti e ne esclude

i consiglieri dimissionari che nella precedente composizione

dell'organo erano espressione della minoranza, non è annullabi le per eccesso di potere della maggioranza. (4)

Motivi della decisione. — Il tribunale ha disatteso la domanda

proposta dalla S.i.s.a.s. sulla base delle proposizioni che seguono. Ha interpretato l'art. 15 dello statuto come una tipica clausola

simul stabunt simul cadent. Il dato letterale, ha affermato, non

lascerebbe spazio ad una manifestazione di volontà contraria

degli amministratori, sia perché la clausola precisa che anche gli

(1-4) La sentenza conferma Trib. Milano 22 marzo 1982, Foro it., 1982, I, 2636, con nota di richiami (il quarto rigo della terza mas sia di quella sentenza contiene un errore tipografico — trasfuso anche nel Rep. 1982, voce Società, n. 186, rigo terzo — e deve leggersi come segue: « amministratori dimissionari, non è annullabile per eccesso di »).

Sull'eccesso di potere quale vizio della deliberazioni dell'assemblea dei soci, cfr. Trib. Roma 22 ottobre 1980, Società, 1982, 414, e Trib. Milano 15 gennaio 1981, Riv. dir. comm., 1982, II, 131, nonché, in

dottrina, M. Marulli, Assemblea di società per azioni, in Giur.

comm., 1983, I, 865 ss., 912, e, in nota alla sentenza che si riporta, A. Pazzaglia, Clausola « simul stabunt simul cadent », nomina dei nuovi amministratori ed eccesso di potere, in Giust. civ., 1984, I, 572.

Sull'eccesso di potere quale vizio delle deliberazioni del consiglio di amministrazione di società azionaria, cfr. Trib. Roma 18 marzo 1982, Foro it., 1982, I, 2050 ed in Giur. comm., 1983, II, 592, con note di F. Bonelli, L'impugnativa delle deliberazioni del consiglio di ammi

nistrazione, di L. Giaccardi Marmo, Eccesso di potere nella delibera zioni del consiglio di amministrazione di società per azioni, e di L.

Cursio, Delibere « invalide » dèi consiglio di amministrazione e poteri di impugnazione degli amministratori.

amministratori superstiti « si intendono dimissionari » sia perché la

stessa fa subito dopo riferimento alla « totale ricostituzione del

consiglio ». La ratio della disposizione statutaria sarebbe quindi

quella tipica di assicurare all'assemblea un maggior controllo

sulla composizione del consiglio di amministrazione, nel presup

posto che la nomina dell'organo gestorio esprime la fiducia dei

soci, non tanto nella somma, quanto nella sintesi delle capacità dei singoli amministratori designati a comporre il consiglio.

Ha considerato la clausola 15 pienamente valida, in quanto non

contraria alle norme interpretative (art. 1418, 1° comma, 2385 e

2386 c.c.), né elusiva del regime legale in tema di cessazione e

sostituzione degli amministratori (art. 1344, 2383 c.c.). Ha consi

derato in ogni caso decisiva, ai fini di contrastare l'assunto

dell'impugnante, la inequivoca manifestazione di volontà dell'as

semblea di revocare i consiglieri Falciola e Pellò, come mezzo per ricostituire un consiglio ritenuto funzionale agli interessi della

società, cosi come interpretati dalla maggioranza. Infine ha ritenu

to non provata quella particolare deviazione dell'atto dallo scopo

economico-pratico del contratto di società, comunemente deno

minata « eccesso di potere ». La volontà di escludere dal consiglio i precedenti amministratori Falciola e Pellò non sarebbe di per sé

sufficiente a dimostrare l'intendimento di ispirare la nomina ad un interesse estraneo e contrastante con quello sociale. Cosi pure non sarebbe utilizzabile al fine di dimostrare un uso distorto del

potere, l'intendimento della maggioranza, consacrato negli atti, di

superare la situazione di conflitto all'interno dell'organo di ge stione, attraverso la nomina di un collegio omogeneo.

Il nucleo di verità di tali proposizioni non è scalfito dalla

censura dell'appellante. La validità della prima proposizione appare difficilmente con

testabile. Secondo l'impugnante il testo dell'art. 15 dello statuto « se per dimissioni o per altre cause viene a mancare più della

metà degli amministratori, anche gli altri amministratori si inten dono dimissionari e deve convocarsi d'urgenza l'assemblea per la totale ricostituzione del consiglio » consentirebbe l'interpretazione

prospettata dalla S.i.s.a.s., oltre tutto meglio rispondente ad un

principio di buona fede e di salvaguardia degli interessi delle minoranze. In particolare, sempre secondo l'appellante, l'espres sione « si intendono per...» andrebbe letta come se contenesse l'ulteriore inciso « se non manifestano una diversa volontà », ed il

riferimento all'elemento « volontà » e correlativamente alla pre sunzione iuris tantum di cessazione dall'ufficio sarebbe rafforzato dal termine « dimissionari », antitetico rispetto alla nozione di

decadenza ed alla conseguente automaticità della dissoluzione

dell'organo di gestione. È sufficiente enunciare la censura per coglierne l'intima fragilità. Due ordini di considerazioni mettono in evidenza l'inaccettabi

lità della interpretazione prospettata. L'espressione « si intendono

per .. », del tutto coerente con il significato delle clausole simul stabunt simul cadent, significa appunto che, per effetto della

cessazione di uno o più componenti del consiglio, si verifica la

causa cui la volontà dei soci ha attribuito l'effetto di determinare la dissoluzione dell'organo e l'esigenza di una sua ricostituzione, senza lasciar spazio per le implicazioni e riserve prospettate che,

lungi dal chiarire il significato dei termini usati, li contraddicono vistosamente.

Affermare cioè che i termini « si intendono dimissionari »

presuppongono una semplice presunzione di dimissioni, significa alterare il valore della espressione usata, volta semplicemente a focalizzare l'attenzione sull'effetto che determina la cessazione della carica di alcuno dei componenti, precisando appunto che anche nei confronti di chi non ha manifestato tale volontà opera lo stesso effetto giuridico, come se fosse dimissionario.

Anche il termine « dimissionari » in luogo di « amministratori

decaduti » è usato in modo proprio e conforme alle prassi societarie, volendosi accentuare il distacco da qualsiasi ipotesi sanzionatoria, che abitualmente si collega alla nozione di deca

denza.

Infine per quanti sforzi interpretativi si facciano, appare arduo

attribuire alle parole di chiusura, « per la totale ricostruzione del

consiglio », un significato diverso da quello accolto dal tribunale. Anche sotto il profilo della ratio — e questa rappresenta la

seconda considerazione — l'interpretazione prefigurata svirilizza

quasi del tutto il significato della clausola che, lunghi dal tutelare la proporzione ed il dosaggio degli interessi dei diversi gruppi di

soci, si limiterebbe a riprodurre gli effetti che l'art. 2386 c.c. fa discendere dalla cessazione della carica di alcuni amministratori, salvo la differenza di escluderne la sostituzione per « cooptazio ne ». Con una innegabile portata riduttiva del patto, portata riduttiva disattesa per altro verso dalla stessa appellante, allorché ne sottolinea il collegamento con la protezione degli interessi delle minoranze e con l'esigenza di garantire anche ad esse la calibrata partecipazione alla gestione della società.

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

Cosi interpretata la clausola 15, ritiene la corte che non si

possa dubitare della sua validità.

Senza necessità di affrontare in termini generali la questione della validità delle clausole volte a creare un collegamento tra i

componenti del consiglio di amministrazione, per cui le vicende

che riguardano uno degli amministratori si ripercuotono sugli altri, ritiene la corte che siano sufficienti alcuni rilievi specifica mente attinenti alla fattispecie per mettere in evidenza l'ineccepi bilità della seconda proposizione posta a fondamento della deci

sione appellata. Come ha giustamente sottolineato la S.i.o non tutte le disposi

zioni di legge attinenti al funzionamento degli organi societari

sono inderogabili, pur essendo d'ordine pubblico e quindi non

disponibili dalla collettività dei partecipanti le norme che disci

plinano le reciproche competenze degli organi sociali e specifica mente le norme che riservano alla assemblea, massima interprete

degli interessi del gruppo, la nomina degli amministratori.

In particolare non può ritenersi inderogabile la norma dell'art.

2386 c.c. che introduce una serie di strumenti di validità

interinale, per permettere alla società di ricostituire l'organo di

gestione sino al normale intervento della collettività dei soci.

L'inquadramento della clausola simul stabunt nell'ambito della

facoltà, limitata nel tempo, volta ad assicurare la continuità di

gestione, offre di per sé efficace risposta alle obiezioni dell'appel lante.

Se è vero infatti che la norma dell'art. 2386 c.c., con cui per

ragioni di provvisoria funzionalità si attribuisce allo stesso orga no di gestione la facoltà interinale (sino alla prossima assemblea) di integrare la propria composizione attraverso la « cooptazione »

di nuovi membri, rappresenta una eccezione alla regola generale che conferisce la generale competenza per la nomina degli amministratori alla assemblea, appare coerente sostenere che la

clausola con cui si modifica tale facoltà non possa essere conside

rata incidente su principi d'ordine pubblico. In altri termini, una volta individuato nella assemblea dei soci

l'organo deputato dalla legge, con norma inderogabile, alla nomi

na dei mandatari della gestione e ravvisate nelle altre norme (art.

1458, 2454, 2486 c.c.) disposizioni di tipo eccezionale, applicabili in presenza di presupposti specifici e limiti temporali determinati,

non può non discendere l'efficacia di una clausola volta a

realizzare il fine ulteriore della conservazione della composizione

equilibrata del collegio degli amministratori attraverso il ripristino della immediata operatività dei poteri dell'assemblea dei soci.

Né vale osservare che con l'ammettere la clausola simul sta

bunt si finirebbe per consentire che il collegio degli amministrato

ri possa essere revocato anziché ad opera della maggioranza assembleare come prevede il 3° comma dell'art. 2383 c.c. attraver

so il congegno delle dimissioni di una parte dei mandatari della

gestione, con ciò stravolgendo le competenze degli organi sociali ed

eludendo il regime legale a favore degli stessi mandatari per la

revoca senza giusta causa.

A tali argomenti che risalgono ad una interpretazione della

giurisprudenza onoraria da tempo superata, è facile replicare che

gli interessi ai quali si fa riferimento, con il richiamo all'art.

2383, 3° comma, c.c., concernono situazioni soggettive individuali

e diritti disponibili, che possono essere modificate dalla legge interna rappresentata dalle norme statutarie.

Può essere quindi affrontato l'esame della terza ed ultima

proposizione della sentenza appellata che affronta il tema centrale

della controversia: la denunciata violazione della causa del con

tratto, per effetto di un uso distorto dei poteri riconosciuti dalla

legge ed in definitiva la presenza, nella deliberazione 30 luglio

1980, di un vizio di legittimità, che con terminologia giuspubbli cistica l'attrice ha definito di «eccesso di potere».

Si impone una duplice premessa. La deliberazione 30 luglio

1980, oggetto dell'impugnazione della S.i.s.a.s., concerne esclusi

vamente la nomina degli amministratori, nell'ambito di una attri

buzione tipica dell'organo assembleare (art. 2364, n. 2, c.c.). La

questione della decadenza degli amministratori Falciola e Pellò o,

se si preferisce, della esclusione della carica degli stessi, per effetto della operatività della clausola dell'art. 15 dello statuto,

non può essere quindi direttamente sindacata sotto il profilo della

realizzazione di uno scopo pratico illegittimo, ma può essere

valutata, nel suo significato intrinseco, solo come elemento di

prova dell'intento fraudolento dell'attività della maggioranza diret

ta a pregiudicare la società o ledere i diritti dei soci.

Le dimissioni della maggioranza dei consiglieri, che hanno reso

operante la clausola simul stabunt, sono infatti manifestazioni di

volontà la cui validità non è stata mai posta in discussione nei

confronti degli interessati o della società Air Liquide presunta mandante e con riferimento alle quali non è prospettabile un

sindacato circa la tempestività della scelta dei singoli mandatari,

di far cessare l'incarico, se non denunciando le violazioni di patti

« parasociali » relativi alla conservazione del mandato amministra

tivo. Denuncia del tutto estranea alla controversia, non avendo la

S.i.s.a.s., in alcun modo posto in discussione l'operatività delle

dimissioni degli amministratori designati dalla maggioranza, ope ratività che è stata piuttosto presupposta nelle tesi sviluppate in

causa.

La seconda premessa si riferisce ad un aspetto della controver

sia che non è sfuggito al primo giudice e che è stato, sia pure

per implicito, enunciato alle p. 37-40 della sentenza appellata. Tale aspetto riguarda la peculiarità dello statuto della S.i.o.,

che, pur contenendo una disposizione (l'art. 15 più volte citato), volta a garantire la conservazione dell'equilibrio originario, all'in

terno del consiglio di amministrazione, non ha recepito sistemi

particolari per la elezione dei nuovi componenti l'organo di

gestione, dopo la cessazione dalla carica dei designati. In special modo le tavole statutarie, come pure sarebbe stato

prospettabile a norma del 1° comma dell'art. 2368 c.c. (« per la

nomina alle cariche sociali l'atto costitutivo può stabilire norme

particolari »), non contengono disposizioni sulle modalità di vota

zione tali da consentire, tra l'altro, una partecipazione delle

minoranze accanto alla maggioranza (voti di lista e simili), ovvero

non hanno inserito strumenti indiretti volti a raggiungere fine

analogo attraverso là fissazione di un quorum deliberativo supe riore a quello previsto dalla norma citata, tale da rendere necessa

rio l'accordo di una minoranza qualificata. 11 che induce ad affermare che se mai sono esistiti accordi, di

tipo parasociale, in base ai quali determinate minoranze avrebbero

avuto titolo per inserirsi nel consiglio di amministrazione, tali

accordi non hanno efficacia alcuna nei confronti della società,

non essendo stati consacrati in valide clausole statutarie. La

violazione di questi accordi potrebbe quindi avere degli effetti

obbligatori nei confronti dei contraenti ed essere eventualmente

considerata inadempimento e fonte di responsabilità contrattuale, ma in alcun caso potrebbe attribuire una nota di illiceità alle

scelte assembleari conformi alle tavole statutarie, anche sotto lo

specifico profilo dell'« eccesso di potere ».

Il che equivale ad affermare che la via scelta dalla S.i.s.a.s. per

tradurre, in termini di « eccesso di potere », la violazione di

pretesi patti parasociali (peraltro non dimostrati) relativi alla

permanenza di determinati equilibri all'interno del consiglio di

amministrazione, non è percorribile in difetto di specifici riscontri

statutari.

Muovendo da tali premesse è agevole dimostrare che gli elementi di prova offerti sono assolutamente insufficienti, ai fini

di mostrare il denunciato vizio di funzione della manifestazione

di volontà collettiva.

Un punto non può dar luogo a discussione.

In un sistema civilistico in cui i privati, all'interno delle

strutture corporative tipiche agiscono in una sfera di discreziona

lità che conosce unicamente limiti negativi, è chiaro che soltanto

in presenza di una specifica contraddizione con la causa del

contratto (causa e funzione rappresentano, al di là di aspetti meramente nominalistici, proiezione dello stesso fenomeno), si

può prospettare uno sviamento di potere, sindacabile a norma

dell'art. 2377 c.c.

Se è vero infatti che il sindacato per eccesso di potere trova

applicazione rispetto agli atti tipicamente discrezionali, questo ovviamente non può significare che, attraverso l'indagine giudizia ria, si possa ripetere la valutazione discrezionale compiuta dalla

assemblea o dalla maggioranza, sovrapponendo nuove scelte e

nuove motivazioni a quelle che, nell'ambito delle proprie attribu

zioni, l'assemblea ha posto a fondamento delle decisioni adottate.

Ciò comporterebbe una inammissibile sostituzione del giudice

all'organo collettivo, coinvolgendolo nella valutazione delle ragio ni di merito ed in definitiva attribuendogli una funzione di

amministrazione attiva che è del tutto estranea alla logica del

citato art. 2377 c.c. ed al ruolo svolto dal giudice nel processo di

cognizione ordinaria.

Per tale ragione si è affermato — e lo ha ripetuto in una non

lontana pronuncia il giudice di legittimità (Cass. 7 febbraio 1979, n. 818, Foro it., 1980, I, 144) — che l'eccesso di potere nelle

deliberazioni sociali non può identificarsi in alcun modo con il

vizio di merito circa l'opportunità della scelta amministrativa. Per

convertirsi nella illegittimità, che determina l'annullabilità della

deliberazione, deve essere qualificato da precise ed inequivocabili connotazioni negative, in riferimento al raggiungimento degli

scopi sociali.

Queste annotazioni possono essere rappresentate o dal perse

guimento, da parte dei soci che rappresentano la maggioranza, di

un interesse personale, non identificabile perché antitetico, rispet to a quello sociale, ovvero dall'accertamento che la deliberazione

è il risultato di una intenzionale attività fraudolenta della mag

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1091 PARTE PRIMA 1092

gioranza, volta a provocare la lesione dei diritti di partecipazione e dei connessi diritti patrimoniali, che competono ai soci uti

singuli. Da tali proposizioni non può non discendere l'inidoneità degli

elementi offerti dalla S.i.s.a.s. ai fini di dimostrare un vizio di

legittimità della deliberazione 30 luglio 1980, nella parte in cui ha ridotto il numero dei componenti del consiglio di amministrazione e non ha incluso fra questi le persone gradite alla socia di minoranza.

Secondo l'appellante l'uso distorto del potere sarebbe insito nel fine perseguito dalla maggioranza di escludere da qualunque ingerenza nell'attività di gestione la minoranza rendendo inope rante la clausola simul stabunt ed attraverso l'obliterazione di

questa modificando, sul piano sostanziale, il contenuto dei patti contrattuali.

A giudizio della corte le risultanze del processo non consento no di pervenire a tale conclusione.

Si può consentire con quanto afferma l'appellante a proposito del fine perseguito dalla Air Liquide, e più ampiamente dai soci di maggioranza, di superare i contrasti che si erano verificati all'interno del consiglio di amministrazione, strutturando diversa mente l'organo amministrativo e rendendolo più omogeneo.

La prova di tali trasparenti motivazioni, che peraltro la S.i.o. non ha mai contestato, non equivalgono alla dimostrazione della

presenza di un interesse « extra sociale » antitetico rispetto alla causa del contratto.

Appaiono decisivi due rilievi. Nella società per azioni, dominata dal principio di maggioranza,

per quanto almeno concerne le scelte gestionali, sono i soci — o se si preferisce la parte di essi che contribuisce alla formazione del quorum deliberativo — che sono abilitati, per legge, a

scegliere gli amministratori ai quali affidare il patrimonio sociale

(art. 2383 c.c.). È quindi coerente con il sistema della legge che sia la

maggioranza, non solo a risolvere i conflitti all'interno del consi

glio di amministrazione, operando scelte conformi alla propria interpretazione nell'interesse sociale, ma articolando, secondo cri teri di ampia discrezionalità, la composizione dei mandatari della

gestione. Il che implica evidentemente la possibilità di escludere una

gestione per cosi dire « partecipativa » della globalità dei soci nella fase di nomina ed un qualsiasi rapporto proporzionale fra entità delle partecipazioni sociali e designazione dei candidati.

La situazione non viene modificata in presenza della clausola simul stabunt.

Come si è posto in evidenza in altra parte della motivazione tale clausola, se tende a garantire l'equilibrio interno del consiglio nominativo ed escludere la cooptazione (art. 2386, 1° comma, c.c.) e la sostituzione parziale (art. 2386, 2° comma, c.c.), non offre di

per sé strumenti per riprodurre nel tempo l'equilibrio realizzato all'atto della costituzione della società.

Al pari di altre clausole che apprestano tutela in una fase per cosi dire interinale — si pensi ad esempio alla nomina dei primi amministratori sottratti alla legge della maggioranza dal 1° com ma, dell'art. 2383 c.c. — necessita di specifici strumenti statutari

per riprodurre nel tempo il rapporto proporzionale originario. Non accompagnata da tali strumenti, cosi come non permette

di garantire la realizzazione del fine ulteriore (la riproduzione del

preesistente rapporto di proporzionalità nelle nomine), non per mette di inserire l'interesse alla gestione partecipativa, fra gli interessi sociali suscettibili di protezione attraverso il sindacato

per « eccesso di potere ». In altri termini, il mancato apprestamento degli strumenti

statutari induce ad affermare che la legge interna, consacrata nell'atto costitutivo e nello statuto, non ha ritenuto meritevole di tutela l'interesse delle minoranze qualificate a partecipare pro quota alla composizione dell'organo di gestione.

Sotto questo profilo l'enunciato dell'appellante si rivela addirit tura contraddittorio, allorché pretende di ottenere dall'impugnati va per eccesso di potere lo stesso risultato che sarebbe stato atteso dalla violazione di norme particolari per la nomina delle cariche sociali (art. 2368, 1" comma, c.c.), obliterando il fatto che il mancato inserimento di tali norme non può non contribuire a definire l'interesse sociale espresso dall'atto costitutivo.

Queste notazioni, se delimitano chiaramente l'ambito delle

indagini, non escludono che alcuni dei fatti menzionati siano suscettibili di essere valutati come violazioni della causa del contratto.

Ci si riferisce in particolare, secondo la prospettazione dell'ap pellante, al collegamento necessario fra il senso di doverosa

responsabilità manifestata dagli amministratori Falciola e Pellò nel chiedere chiarimenti a proposito dei rapporti fra la S.i.o. e la controllante Air Liquide in occasione della formazione del proget

to di bilancio e le successive determinazioni della maggioranza che avrebbero fatto assumere alla deliberazione 30 luglio una connotazione fraudolenta.

Tale prospettazione appare peraltro avulsa dalla realtà del

processo. L'intento di impedire agli amministratori Falciola e Pellò di

venire a conoscenza di fatti pregiudizievoli per gli interessi della società e della collettività dei soci, solo mezzo per dare un

significato « fraudolento » alle scelte assembleari, non risulta in alcun modo dalla documentazione prodotta e dalla prova offerta.

In particolare gli elementi acquisiti, non solo non permettono di affermare che il contrasto esploso all'interno del consiglio di ammistrazione sia stato strumentale all'intento della Air Liquide di sviluppare una politica di gestione (od una politica di bilancio) dato che si è parlato di dissensi a proposito del progetto di bilancio dell'esercizio 1979, in contrasto con gli interessi della

S.i.o., ma non offrono dati per ricostruire la connotazione negati va insita nei rapporti fra quest'ultima società e la controllante Air Liquide.

Sotto questo profilo la S.i.s.a.s. non può non dolersi di avere mancato di assumere iniziative istruttorie per saldare fra loro gli elementi eterogenei tratti dalle dichiarazioni rese dagli ammini stratori Falciola e Pellò in diverse occasioni.

Non basta infatti sostenere che il Falciola ed il Pellò hanno dichiarato di essere stati invitati a non effettuare visite e non

porre domande per non ritardare l'approntamento del bilancio

(progetto) e di aver ricevuto con ritardo l'indicazione dei ratei e dei riscontri, se non dimostra che questa attività, definita ostruzionistica, è stata in realtà posta in essere. Soprattutto se non si dimostra la strumentalità della condotta della maggioranza rispetto al fine di precludere un corretto svolgimento dell'attività

collegiale dell'organo amministrativo e di proteggere, in antitesi con gli interessi della S.i.o., la riservatezza di alcuni scambi commerciali con la Air Liquide e la conoscenza della percentuali pagate a quest'ultima a titolo di redevances.

Prospettazione della S.i.s.a.s. che non è andata oltre il mero enunciato, giacché gli elementi indiziari rappresentati dalle di chiarazioni rese in diverse occazioni dagli organi sociali (in special modo dal consigliere delegato Bottiglia nella assemblea del 22 aprile 1980), non permettono di far emergere quell'interesse estraneo alla S.i.o., che avrebbe indotto la maggioranza ad

approvare la deliberazione impugnata, sviando l'agire della società dai propri fini statutari.

Anche sotto il profilo del mancato inserimento di Falciola e Pellò nel nuovo collegio amministrativo — e questo rappresenta il secondo rilievo cui si è attribuita portata decisiva ai fini di escludere il vizio denunciato — gli argomenti già esposti a

proposito della carenza di norme statutarie volte a garantire la conservazione del mandato oltre il termine di cessazione dall'in carico del collegio di cui facevano parte, toglie qualsiasi significa to al dato.

Non senza considerare che se esistevano al riguardo dei patti parasociali, la violazione di questi patti, rimasti estranei alla tavola di fondazione ed allo statuto, non può determinare la responsabilità della società. A tutto concedere, l'unico effetto della revoca ante tempus sarebbe quello del risarcimento dei danni, previsto a favore dell'amministratore revocato (art. 2383

c.c.) e non del socio, in cui la maggioranza ha rifiutato le indicazioni.

Discende la conferma della sentenza appellata.

I

TRIBUNALE DI ROMA; sentenza 9 marzo 1984; Pres. E. Ama tucci Est. Paolini; Pichini (Avv. Giove) c. Petochi.

TRIBUNALE DI ROMA;

Competenza civile — Dichiarazione giudiziale di paternità o ma ternità naturale di minore — « Ius superveniens » — Compe tenza del tribunale per i minorenni — Applicabilità ai giudizi in corso (Cod. civ., art. 269, 274; disp. att. cod. civ., art. 38; 1. 4 maggio 1983 n. 184, disciplina dell'adozione e dell'affida mento dei minori, art. 68; cod. proc. civ., art. 5).

In tema di competenza lo ius superveniens è di immediata

applicazione ed opera, senza che possa invocarsi il principio della perpetuatio, anche nelle controversie già pendenti compre se quelle nelle quali sia intervenuta una sentenza in ordine alla

competenza; attribuita, pertanto, dalla l. 4 maggio 1983 n. 184 al tribunale per i minorenni la competenza sulle azioni di dichia razione di paternità o maternità naturale relative a minori, la

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