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sentenza 28 aprile 1983, n. 108 (Gazzetta ufficiale 4 maggio 1983, n. 121); Pres. Elia, Rel....

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sentenza 28 aprile 1983, n. 108 (Gazzetta ufficiale 4 maggio 1983, n. 121); Pres. Elia, Rel. Roehrssen; Bruni; interv. Pres. cons. ministri (Avv. dello Stato Angelini Rota). Ord. Comm. trib. I grado Sondrio 1° dicembre 1977 (Gazz. uff. 31 maggio 1978, n. 149) Source: Il Foro Italiano, Vol. 106, No. 6 (GIUGNO 1983), pp. 1507/1508-1509/1510 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23177072 . Accessed: 25/06/2014 09:09 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 185.2.32.106 on Wed, 25 Jun 2014 09:09:31 AM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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Page 1: sentenza 28 aprile 1983, n. 108 (Gazzetta ufficiale 4 maggio 1983, n. 121); Pres. Elia, Rel. Roehrssen; Bruni; interv. Pres. cons. ministri (Avv. dello Stato Angelini Rota). Ord. Comm.

sentenza 28 aprile 1983, n. 108 (Gazzetta ufficiale 4 maggio 1983, n. 121); Pres. Elia, Rel.Roehrssen; Bruni; interv. Pres. cons. ministri (Avv. dello Stato Angelini Rota). Ord. Comm.trib. I grado Sondrio 1° dicembre 1977 (Gazz. uff. 31 maggio 1978, n. 149)Source: Il Foro Italiano, Vol. 106, No. 6 (GIUGNO 1983), pp. 1507/1508-1509/1510Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23177072 .

Accessed: 25/06/2014 09:09

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1507 PARTE PRIMA 1508

Considerata sotto il primo punto di vista la questione è chia

ramente inammissibile per la sua indeterminatezza, che rende

impossibile identificare i termini e verificare la rilevanza. Vale

però, ugualmente, la pena di ricordare, che sulla legittimità costituzionale, in via di principio, di « un sistema di prevenzio ne dei fatti illeciti, a garanzia dell'ordinato e pacifico svolgimen to dei rapporti tra i cittadini » subordinatamente, peraltro, al

rispetto del principio di legalità e all'esistenza della garanzia

giurisdizionale, questa corte ha avuto modo di pronunziarsi in

numerose sentenze, dalla n. 2 del 1956 (id., 1956, I, 1043) alla

n. 177 del 1980 (id., 1981, I, 330). Ciò, evidentemente, non

significa, ma anzi esclude tassativamente che con le misure di

prevenzione, mediante prescrizioni specifiche, male invocando la

clausola generale, contenuta nell'art. 5, 4° comma, 1. n. 1423 del

1956, per cui oltre a quelle ivi elencate possono essere imposte tutte le prescrizioni che il giudice « ravvisi necessarie avuto

riguardo alle esigenze di difesa sociale»; mediante prescrizioni del genere, possano essere imposte al sorvegliato speciale limita

zioni di diritti costituzionalmente garantiti in casi e per fini non

previsti dalla Costituzione stessa. Verificandosi siffatte ipotesi, non se ne potrebbe far carico alla denunziata disposizione della

1. n. 1423 del 1956 (che come significativamente scrive il giudice a quo non le impedirebbe), ma soltanto al provvedimento del

giudice che contenesse prescrizioni del genere; provvedimento contro il quale sono esperibili i mezzi di impugnazione di cui

all'art. 4 della legge medesima.

Sotto il secondo punto di vista, la censura riferita ai soli art. 21

e 49 Cost, non è fondata, posto che la prescrizione la cui

trasgressione è assunta ad elemento materiale della contravven

zione prevista e punita dall'art. 9 1. 1423 del 1956, nel testo

sostituito dall'art. 8 1. n. 497 del 1974, è quella — l'unica, si

ripete, citata nella ordinanza di rimessione — « di non parteci

pare a pubbliche riunioni o comizi elettorali » corrispondente,

per la parte che rileva, al più volte citato disposto del 3°

comma dell'art. 5 della medesima legge. Non si vede allora

come un disposto di legge che limita, per il periodo di durata

della misura applicata, il diritto del cittadino sorvegliato speciale « di riunirsi pacificamente e senz'armi » di cui all'art. 17 Cost,

possa trasformarsi nella limitazione del diritto « di manifestare

liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione » di cui all'art. 21 Cost. Quest'ultimo

diritto di libertà non può essere confuso con il diritto di riunio

ne che soltanto viene in discussione nella norma denunziata e

nella prescrizione della cui trasgressione si discute. Ancor più fuori campo, se cosi si può dire, si colloca il diritto « di

associarsi liberamente in partiti, per concorrere con metodo de

mocratico a determinare la politica nazionale » di cui all'art. 49

Cost.

Si tratta in entrambi i casi di libertà il cui esercizio può

incontrare soltanto limitazioni di fatto in conseguenza della limi

tazione legislativamente prevista e recepita nelle prescrizioni im

poste dal giudice al sorvegliato speciale per l'esercizio del diritto

di riunioni, limitazione di fatto che non possono dar luogo a

problemi di costituzionalità.

Sulla legittimità costituzionale della prescrizione da farsi al sor

vegliato di non partecipare a pubbliche riunioni (di cui all'art.

5, 3° comma, 1. 1423 del 1956), si è pronunciata questa corte

con la sentenza n. 27 del 1959 (id., 1959, 1, 713), decidendo que

stione sollevata in riferimento agli art. 2 e 17 Cost.

Le argomentazioni allora svolte sul punto meritano conferma e

vale la pena anche di ricordare l'osservazione per cui spetta al

giudice penale determinare i « concreti elementi di fatto che

concorrono volta per volta a realizzare la fattispecie del reato di

trasgressione agli obblighi della sorveglianza».

7. - Riconosciuta la legittimità costituzionale, nella parte de

nunziata, dell'art. 5 1. n. 1423 del 1956, nessun problema si

pone per quanto concerne l'art. 9 della medesima legge, nel

testo modificato dall'art. 8 1. n. 497 del 1974, volta che quest'ul

timo disposto viene coinvolto dal giudice a quo nell'unica censu

ra di costituzionalità sul presupposto necessario ed esclusivo

della illegittimità costituzionale dell'art. 5 sopra specificato.

Per questi motivi, dichiara non fondata la questione di legit timità costituzionale dell'art. 9 1. 27 dicembre 1956 n. 1423,

come modificato dall'art. 8 1. 14 ottobre 1974 n. 497, sollevata,

in riferimento all'art. 3, 1° comma, Cost., dai Pretori di Rovigo e di Rodi Garganico con le ordinanze indicate in epigrafe; dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale

dell'art. 5 e dell'art. 9 1. 27 dicembre 1956 n. 1423 come

modificato dall'art. 8 1. 14 ottobre 1974 n. 497, sollevata, in

riferimento agli art. 21, 49 e 25 Cost, dal Pretore di Orvieto con

l'ordinanza indicata in epigrafe.

CORTE COSTITUZIONALE; sentenza 28 aprile 1983, n. 108

(Gazzetta ufficiale 4 maggio 1983, n. 121); Pres. Elia, Rei.

Roehrssen; Bruni; interv. Pres. cons, ministri (Avv. dello

Stato Angelini Rota). Ord. Comm. trib. I grado Sondrio 1°

dicembre 1977 (Gazz. uff. 31 maggio 1978,'n. 149).

Reddito delle persone fisiche (imposta sul) — Erogazioni liberali — Deducibilità dai soli redditi d'impresa — Questione infonda ta di costituzionalità (Cost., art. 3, 53; d.p. r. 29 settembre 1973 n. 597, istituzione e disciplina dell'imposta sul reddito delle

persone fisiche, art. 60).

È infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 60, 2° comma, lett. a), d. p. r. 29 settembre 1973 n. 597, nella

parte in cui prevede la deducibilità delle erogazioni liberali, per fini di ricerca scientifica ed istruzione universitaria, soltanto dai redditi d'impresa, in riferimento agli art. 3, 53 Cost. (1)

Diritto. —1 1. - La corte è chiamata a decidere se sia costitu zionalmente legittima, con riferimento agli art. 3 e 53 Cost., la

disposizione contenuta nell'art. 60, 2° comma, lett. a), d. p. r. 29 settembre 1973 n. 597 («istituzione e disciplina dell'imposta sul reddito delle persone fisiche »), in base alla quale sono deducibi li dal reddito di impresa, nei limiti del due per cento della somma imponibile, le erogazioni liberali fatte dalle imprese a favore di università e di istituti di istruzione universitaria.

Il giudice a quo dubita della legittimità costituzionale di tale

norma, in quanto essa, limitata ai soli redditi di impresa, por rebbe in essere una ingiustificata disparità di trattamento, nel l'ambito dell'i.r.p.e.f., a detrimento degli altri tipi di redditi che a norma dell'art. 1 del citato d. p. r. n. 597 sono oggetti all'or menzionata imposta.

2. - La questione non è fondata. Le disposizioni legislative le quali contengono agevolazioni e

benefici tributari di qualsiasi specie, quali che ne siano le finali tà, hanno palese carattere derogatorio e costituiscono il frutto di scelte del legislatore, al quale soltanto spetta di valutare e di decidere non solo in ordine all'ara, ma anche in ordine al

quantum e ad ogni altra modalità e condizione afferente alla determinazione di dette agevolazioni: come questa corte ha già riconosciuto (sentenza n. 134 del 1982, Foro it.: 1982, 1, 2718) la

deducibilità, infatti, « va concretata e commisurata dal legislato re ordinario secondo un criterio che concili le esigenze finanzia rie dello Stato con quelle del cittadino chiamato a contribuire ai

bisogni della vita collettiva, non meno pressanti di quelli della vita individuale».

Ora, per costante giurisprudenza di questa corte, valutazioni e scelte di questo genere non sono sindacabili dal giudice della

legittimità costituzionale se non quando esse si appalesino irra zionali o ingiustificate.

Il che non avviene nel caso di specie, dato che il citato art.

60, lett. a), che ha accordato ai soli redditi di impresa la detraibilità delle predette erogazioni, appare sorretto da sufficien ti motivi.

Ed invero, premesso che il d. p. r. n. 597 del 1973 accoglie, ai suoi fini, nell'art. 51, una nozione di impresa più ampia di

quella che dà il codice civile nell'art. 2195 (sicché la sfera di

applicazione del beneficio in parola risulta essa stessa notevol mente ampia), non possono porsi sul medesimo piano i redditi che devono essere qualificati giuridicamente come redditi di im

presa e quelli che tale qualifica non hanno: i primi, infatti, sono sottoposti per molti aspetti (compreso quello tributario) ad un regime giuridico differenziato, come conseguenza della strut tura propria di una impresa e, soprattutto, della funzione che

questa svolge nella vita economica e sociale della nazione. Ne consegue che il reddito di impresa, legato anche (art. 52

cit. d. p. r. n. 597) alle risultanze di apposite documentazioni che devono essere tenute dai titolari delle imprese, non può essere

posto sullo stesso piano di redditi di diversa fonte. D'altro canto il legislatore con la norma in questione ha

inteso incentivare una forma di partecipazione delle imprese ad attività scientifiche e culturali, che non è infrequente da parte delle imprese medesime, anche in ragione dell'interesse che molte

(1) L'ordinanza di rimessione Comm. trib. I grado Sondrio 1° dicembre 1977 è massimata in Foro it., 1978, III, 504.

La dottrina non sembra aver sollevato dubbi sulla costituzionalità della limitazione ai redditi d'impresa delle detrazioni per erogazioni liberali. V., invece, sulla tassività delle fattispecie in cui è ammessa la deduzione, Cocivera, Guida alla nuova disciplina delle imposte diret te, Milano, 1980, 557, che ricorda come la ris. min. 29 dicembre 1976, n. 9/2253-76 abbia negato la deducibilità delle erogazioni liberali a favore degli enti pubblici territoriali.

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

di esse indubbiamente hanno per le or cennate attività: e perciò l'art. 60 non solo comprende le erogazioni di cui trattasi fra gli oneri deducibili al momento della denuncia dei redditi, ma,

altresì, definisce tali oneri come « sociali », a questo titolo esclu

dendoli, sia pure parzialmente, dalla determinazione dei redditi.

L'art. 60, lett. a), infine, si inquadra in una vasta serie di

disposizioni tributarie che, in ossequio al disposto degli art. 9 e

53 Cost., relativi l'uno allo sviluppo della cultura e della ricerca

scientifica e tecnica e l'altro alla « tutela del patrimonio storico

ed artistico della nazione », accordano agevolazioni di vario tipo. Ma queste disposizioni, pur perseguendo una medesima finalità,

hanno caratteri diversi e non sono riconducibili a sistema: esse,

infatti, si differenziano sia in ordine al contenuto della agevola zione, sia in ordine alla individuazione dei destinatari, sia, in

fine, per quel che riguarda i modi, le forme, i termini e, in

particolare, il quantum delle agevolazioni medesime: lo stesso

art. 60 contiene disposizioni diverse nel 1° e nel 2° comma.

In questo quadro cosi vario ed articolato, che meriterebbe di

essere reso organico ma che costituisce frutto della cennata

discrezionalità del legislatore e della possibilità di valutazioni

diverse a seconda dei caratteri di ciascuna imposta e delle sue

varie applicazioni, si colloca anche la norma denunciata in que sta sede, la quale ha voluto prendere in considerazione un solo

modo di produzione dei redditi, quello cioè che esso ha ritenu

to, non senza ragione, maggiormente interessato alle attività

scientifiche e culturali in genere. Tutto ciò premesso, la corte non ravvisa nella norma in

questione violazione né dell'art. 3, 1° comma, né dell'art. 55

Cost.

Per questi motivi, dichiara non fondata la questione di legit timità costituzionale dell'art. 60, 2° comma, lett. a), d. p. r. 29

settembre 1973 n. 597 (« istituzione e disciplina dell'imposta sul

reddito delle persone fisiche »), nella parte in cui prevede la

deducibilità delle erogazioni liberali, per fini di ricerca scientifica

ed istruzione universitaria, soltanto dai redditi d'impresa, solleva

ta con l'ordinanza di cui in epigrafe in riferimento agli art. 3 e

53 Cost.

CORTE COSTITUZIONALE; sentenza 21 aprile 1983, n. 103

(Gazzetta ufficiale 27 aprile 1983, n. 114); Pres. Elia, Rei.

Malagugini; Colognesi ed altri; interv. Pres. cons, ministri

(Avv. dello Stato Angelini Rota). Ord. Comm. trib. II grado Rovigo 6 marzo 1980 (Gazz. uff. 6 agosto 1980, n. 215).

Successioni e donazioni (imposta sulle) — Detrazioni — Aper tura di credito — Saldo passivo risalente a più di dodici mesi

prima dell'apertura della successione — Presunta indetraibilità — Questione infondata di costituzionalità (Cost., art. 53; d. p. r. 26 ottobre 1972 n. 637, disciplina dell'imposta sulle suc

cessioni e donazioni, art. 13).

È infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 13, 3" e 4" comma, d. p. r. 26 ottobre 1972 n. 637, nella parte in

cui non permetterebbe la detrazione, dall'attivo ereditario, del

l'ammontare degli assegni emessi in virtù di un contratto di

apertura di credito più di un anno prima dell'apertura della

successione, in riferimento all'art. 53 Cost. (1)

(1) L'ordinanza di rimessione Comm. trib. II grado Rovigo 6 marzo 1980 è riassunta in Foro it., Rep. 1981, voce Successioni (imposta), n. 37.

La corte respinge la censura di incostituzionalità motivando dal carattere meramente sussidiario delle disposizioni in questione, che

costituiscono solo un'agevolazione probatoria per il contribuente, senza

che, per gli assegni più risalenti, gli sia impedito il ricorso alla

disciplina generale contenuta nel comma 1° (nello stesso senso si era

già espresso il giudice tributario Comm. trib. I grado Palermo 20

maggio 1980, id., Rep. 1980, voce cit., n. 67). La dottrina non sembra aver affrontato direttamente il problema;

ma è ricorrente l'affermazione per cui la portata della previsione sia

quella di un'estensione della disciplina agevolativa prevista per i debiti

cambiari, ai saldi passivi infrannuali, derivanti da assegni emessi in

virtù di un contratto di apertura di credito: si tratterebbe, quindi, di

una norma probatoria che non intacca il principio della deducibilità

delle passività ereditarie, contenuto nell'art. 12 d. p.r. 637/72. In tal

senso cfr. Dini, Le passività deducibili nell'imposta sulle successioni

(Le nuove disposizioni e la precedente, ancor valida giurisprudenza). in Bollettino trib., 1973, 1927; Gallo-Orsi, L'imposta sulle successioni,

Torino, 1976, 141; Gaffurri, L'imposta sulle successioni e donazioni,

Torino, 1977, 291. V., inoltre, la ris. min. 21 dicembre 1976, n.

321052/75 che ammette in detrazione il solo debito derivante da

emissione di assegni nei dodici mesi precedenti l'apertura della suc

II Foro Italiano ì— 1983 — Parte /-97.

Diritto. — 1. - In materia di imposte sulle successioni, la

deducibilità dei debiti ereditari è regolata dalle norme di cui

agli art. 12 ss. d. p. r. 26 ottobre 1972 n. 637.

Ai sensi dell'art. 12, i debiti esistenti alla data di apertura della successione costituiscono passività deducibili « alle condi

zioni e nei limiti di cui ai successivi articoli ».

L'art. 13, poi, precisa che si considerano esistenti alla data di

apertura della successione i debiti risultanti da atti scritti che

abbiano data certa anteriore a quella di apertura della succes

sione, quelli la cui esistenza per causa anteriore alla data stessa

risulti da provvedimenti giurisdizionali divenuti definitivi (1°

comma) ed i debiti risultanti da cambiali o vaglia cambiari, se

anteriormente alla data di apertura della successione « siano

stati annotati nelle scritture contabili del debitore regolarmente tenute od obbligatorie a norma di legge», ovvero in quelle del

trattario o prenditore, qualora il debitore non sia obbligato alla

tenuta delle scritture contabili (2° comma).

Ai sensi del 3° comma dello stesso art. 13, la testé citata

disposizione riguardante i debiti cambiari « vale anche per gli addebitamenti dipendenti da assegni emessi negli ultimi dodici

mesi in base a contratti di apertura di credito in conto corrente

bancario ».

Il successivo 4° comma dispone, infine, che l'ammontare de

gli assegni emessi dal defunto è computato in diminuzione di

quello degli accreditamenti effettuati sullo stesso conto, a con

dizione che l'assegno sia stato presentato al pagamento almeno

quattro giorni prima dell'apertura della successione e che l'avve

nuto pagamento risulti da un estratto delle scritture contabili

obbligatorie dell'istituto, dal quale emerga l'integrale svolgimento del conto negli ultimi dodici mesi anteriori all'apertura della

successione. L'amministrazione finanziaria può chiedere la esibi

zione, in originale o in copia autenticata, degli assegni o di

alcuni degli assegni indicati nell'estratto.

Ai fini della dimostrazione dei debiti il successivo art. 16

stabilisce poi che per i debiti risultanti da atti scritti o da

provvedimenti giurisdizionali occorre la produzione del titolo, in

originale o in copia autentica (1° comma, n. 1); che per i debiti

cambiari occorre produrre oltre al titolo, un estratto notarile

delle scritture contabili obbligatorie del debitore o del prenditore o trattario (1° comma, n. 2); e che per i debiti nei confronti di

aziende o istituti di credito, oltre alla presentazione dell'estratto

di cui all'art. 13, 4° comma, ed alla dichiarazione di sussistenza

del debito al tempo dell'apertura della successione, deve essere

prodotto anche un certificato dal quale risultino tutti i rapporti debitori e creditori in atto tra il defunto e l'istituto di credito

alla data di apertura della successione (comma 3°).

2. - Tale essendo la normativa vigente, la Commissione tribu

taria di secondo grado di Rovigo dubita che contrastino con il

principio della capacità contributiva, di cui all'art. 53 Cóst., le

disposizioni del 3° e 4° comma del citato art. 13 d.p. r. 637/72.

Ciò perché, secondo l'interpretazione del giudice a quo —

conforme peraltro a quella adottata dall'amministrazione finan

ziaria, da ultimo con la risoluzione ministeriale n. 321052/75 del

21 dicembre 1976 —, per quanto attiene ai contratti di apertura di credito in conto corrente bancario stipulati dal defunto, le

norme denunziate consentirebbero di dedurre dall'attivo eredita

rio il saldo passivo risultante rispetto ai versamenti effettuati nel

medesimo periodo ai soli assegni emessi nei dodici mesi anteriori

all'apertura della successione. Non si potrebbe, quindi, tener

conto degli addebitamenti dipendenti da assegni emessi in epoca

precedente, né, conseguentemente, dedurre dall'attivo ereditario il

saldo passivo risultante dall'integrale svolgimento del conto cor

rente bancario. Anzi, secondo il giudice a quo, il saldo del

conto corrente, attivo o passivo che sia, verrebbe determinato in

termini difformi da quelli risultanti dai « dati reali » in base ai

quali soltanto può rettamente stabilirsi la capacità contributiva

degli eredi.

3. - La questione non è fondata.

Essa, infatti, presuppone una lettura delle disposizioni di legge

denunziate che questa corte, in conformità all'opinione espressa,

cessione, senza far questione della possibilità di provare secondo le

regole generali il saldo passivo precedente.

Infine, sulla possibilità di applicare l'art. 13, 3° e 4" comma, agli altri contratti bancari regolati in conto corrente v., per la soluzione

negativa, oltre agli autori già citati, Pennone, Diritto positivo tributa

rio, in Riv. legisl. fise., 1979, 881; mentre secondo Di Lazzaro, Nota

sull'art. 13 d. p. r. 26 ottobre 1972 n. 637, id., 1976, 1276 ss., solo il 2°

comma del citato articolo andrebbe riferito agli assegni emessi in virtù

di contratti di apertura di credito; al contrario, il 4° comma discipline rebbe « i saldi passivi di c.c. qualunque sia il rapporto contrattuale sotto

stante ».

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