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sentenza 28 aprile 2003; Pres. Napoli, Est. Balsamo; imp. Di Pisa e altri

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sentenza 28 aprile 2003; Pres. Napoli, Est. Balsamo; imp. Di Pisa e altri Source: Il Foro Italiano, Vol. 126, No. 10 (OTTOBRE 2003), pp. 557/558-573/574 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23198739 . Accessed: 28/06/2014 12:37 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 46.243.173.162 on Sat, 28 Jun 2014 12:37:40 PM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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sentenza 28 aprile 2003; Pres. Napoli, Est. Balsamo; imp. Di Pisa e altriSource: Il Foro Italiano, Vol. 126, No. 10 (OTTOBRE 2003), pp. 557/558-573/574Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23198739 .

Accessed: 28/06/2014 12:37

Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at .http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp

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GIURISPRUDENZA PENALE

rebbe in contrasto con il 2° comma del medesimo articolo, lad dove stabilisce dapprima il principio secondo cui il contradditto rio tra le parti è la regola generale a fondamento del processo e

poi stabilisce che le parti debbono essere in condizioni di parità. A tal riguardo la sentenza di codesta corte n. 129 del 1993 già

affermava che il nostro sistema processuale è «imperniato sulla

formazione della prova in dibattimento».

8. - A ciò si aggiunge che la convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo stabilisce che il processo debba essere ce

lebrato «pubblicamente». La pubblicità del processo è anche un carattere essenziale di

uno Stato democratico ed è garanzia di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. L'applicazione della pena avviene in came ra di consiglio.

Se, dunque, per un numero ridotto di reati e, in particolare per

quelli di minore gravità può avere una sua logica il procedi mento previsto dall'art. 444 c.p.p., che non prevede la pubbli cità dell'udienza e un accertamento pieno di responsabilità, tra

sformare quest'ultimo nel procedimento di più vasta applicazio ne, riducendo il rito ordinario di cognizione piena ad ipotesi mi

noritaria e relativa solo a reati di massima gravità e limitando

fortemente i casi in cui il processo è pubblico sembra contrasta

re con il principio di ragionevolezza e con il principio che il

processo è condotto in contraddittorio e con formazione della

prova in dibattimento mediante un «giusto processo» e con pari

dignità di tutte le parti (art. 3 e 111 Cost.). Reati con pena edittale molto elevata, come il tentato omici

dio, la rapina aggravata o la violenza sessuale aggravata, con il

giudizio di comparazione con le attenuanti e la riduzione previ sta per il rito prescelto possono essere definiti con una sentenza

che non è di condanna, ma solo equiparata a questa, con estro

missione della parte civile e ponendo la parte offesa ai margini del processo che pur la vede vittima.

9. - Le eccezioni oggi proposte sono rilevanti per le seguenti

ragioni:

A) E stata richiesta dal difensore, munito di procura speciale, di uno solo degli imputati la sospensione del processo ai sensi

dell'art. 5, 2° comma, 1. 12 giugno 2003 n. 134; i difensori di

altri imputati, pur privi di procura speciale, hanno chiesto

ugualmente la sospensione, sicché questo giudice non avrebbe

alcun potere discrezionale in ordine alla richiesta.

B) Il dibattimento è stato chiuso e per l'udienza era prevista solo la discussione delle parti, dopo un'istruttoria dibattimentale

molto impegnativa.

C) Vi è parte civile già costituita.

D) La norma che prevede la sospensione obbligatoria è stret

tamente correlata alla facoltà di richiedere la pena concordata

disciplinata dalla norma transitoria. Sicché appare attualmente

rilevante anche l'eccezione che concerne l'estensione ai proces si in corso della facoltà di richiedere l'applicazione della pena. Ne consegue che, ove si ritenesse l'irrazionalità dell'impianto normativo almeno con riguardo alla disposizione transitoria di

cui all'art. 5, 1° comma, resterebbe addirittura assorbita la que stione relativa al termine di sospensione. L'eccezione non è

manifestamente infondata per le ragioni sopra esposte.

Il Foro Italiano — 2003.

TRIBUNALE DI PALERMO; TRIBUNALE DI PALERMO; sentenza 28 aprile 2003; Pres. Napoli, Est. Balsamo; imp. Di Pisa e altri.

Ordine pubblico (reati contro 1') — Associazione di tipo mafioso — Condotta di partecipazione — Fattispecie rela tiva ad attività imprenditoriale (Cod. pen., art. 416 bis).

Risponde del reato di partecipazione ad associazione di tipo

mafioso chi, agendo nell'apparente esclusivo esercizio della

propria attività imprenditoriale — nei tentativo di celare i

propri affari e gli interessi criminosi perseguiti —, fornisce un essenziale contributo (mediante un ruolo di mediazione nella raccolta del «pizzo» e nell'imposizione di subappalti in

favore di imprese vicine a Cosa nostra) all'organizzazione

mafiosa, nell'ambito della quale risulta fattivamente inserito

a prescindere da vincoli di formale affiliazione. (1)

(Omissis). — 1. - Le peculiarità dell'impresa «mafiosa». L'attività imprenditoriale esercitata dagli imputati e l'accusa lo

ro mossa in ordine al reato di partecipazione all'associazione

mafiosa Cosa nostra, impongono in via preliminare una breve

analisi in ordine all'evoluzione nel tempo ed alla qualificazione

giuridica delle mutevoli manifestazioni empiriche della c.d.

«imprenditoria mafiosa» e delle, altrettanto variegate, forme di

contiguità imprenditoriale alle organizzazioni mafiose.

Ed infatti, guardando la prassi giudiziaria ci si accorge che

oggi è sotto molti profili incerta la linea di confine che separa vittima, concorrente e vero e proprio partecipe dell'associazione

criminale, anche per via degli innumerevoli modi in cui il rap

porto mafia-impresa si aggroviglia in un nodo stretto ed insidio

so che richiede all'interprete un duplice impegno. Innanzitutto, in questi casi, assai spesso è necessario riuscire

a guardare oltre quel velo opaco di apparente legalità che rico

pre le condotte di soggetti che alla luce del sole esercitano sem

plicemente un'attività garantita e promossa nel nostro ordina

mento, qual è quella economica, ed è anche per tale ragione che

si tratta di un fenomeno difficile da individuare e che tende per sua stessa natura a rimanere sommerso.

Una volta avuta contezza, nel caso concreto, dell'effettiva

formazione di quel «nodo insidioso» fra l'esercizio dell'attività

imprenditoriale e la criminalità organizzata, di cui abbiamo

detto, il compito del giudice sarà quello, non meno agevole, di

scioglierlo, qualificando la condotta posta in essere dai soggetti coinvolti alla luce dei dati normativi vigenti e, soprattutto, come

meglio si dirà, valorizzando nel corpo della motivazione della

sentenza ogni singolo aspetto concreto di essa che sìa significa tivo e sintomatico di un'effettiva illiceità.

Le risultanze dibattimentali di questo processo, come vedre

(1) La sentenza in epigrafe — della quale sono riportate soltanto al cune parti dell'ampia motivazione — si segnala perché rientra in un filone giurisprudenziale incline a valorizzare, nel campo della crimina lità organizzata di stampo mafioso, gli apporti del sapere sociologico e

criminologico: sul problema dei limiti di utilizzabilità in sede giudizia ria delle analisi socio-criminologiche, proprio con riferimento alle for me di «contiguità» da parte degli imprenditori, cfr. Cass. 5 gennaio 1999, Cabib, cit. in motivazione. Foro it., 1999, II, 631, con nota di Vi

sconti, ai cui insegnamenti i giudici del tribunale dichiarano peraltro di volersi nel caso di specie strettamente attenere. In argomento, v. altresì

Fiandaca, Ermeneutica e applicazione giudiziale del diritto penale, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2001, 359 ss., e, più diffusamente, Visconti, Contiguità alla mafia e responsabilità penale (monografia in corso di

pubblicazione presso la casa editrice Giappichelli). Quanto alle fonti extrapenalistiche utilizzate per approfondire nel

l'ottica delle scienze sociali il rapporto mafia-impresa, la motivazione della sentenza sembra soprattutto riecheggiare i contributi di Fantò,

L'impresa a partecipazione mafiosa, Bari, 1999; Centorrino-La Spina

Signorino, Il nodo gordiano. Criminalità mafiosa e sviluppo nel Mez

zogiorno, Roma-Bari, 1999; Sciarrone, Mafie vecchie, mafie nuove. Radicamento ed espansione, Roma, 1998.

Circa l'individuazione dei presupposti della condotta di partecipa zione, la tesi che ne emancipa la rilevanza penale dai criteri di formale affiliazione all'organizzazione criminale corrisponde a un orientamento

applicativo che è andato sempre più consolidandosi: cfr., tra le tante, Cass. 25 ottobre 1993, Santoriello, Foro it.. Rep. 1994, voce Ordine

pubblico (reati), n. 11; 17 gennaio 1997, Accardo, id., Rep. 1997, voce

cit., n. 23; 10 dicembre 2001. Di Maggio, id.. Rep. 2002, voce cit., n. 17. e, per esteso, Riv. pen., 2002, 469. Nella più recente giurisprudenza di merito, cfr. Trib. Palermo 17 gennaio 2002, Foro it., 2003, II, 100. con nota di richiami.

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PARTE SECONDA

mo, sono l'emblema di questo complicato intreccio, poiché hanno portato alla luce dei dati assai significativi rimasti sino a

questo momento sommersi, e che non sono altro che la rappre sentazione più evidente di quel sistema di controllo del territorio

che è, al tempo stesso, ragione e condizione essenziale di esi

stenza della stessa organizzazione mafiosa.

Si tratta, in particolare, del reticolo di affari gestito dalla fa

miglia mafiosa di Misilmeri, del suo intimo connubio con il

mondo imprenditoriale, dei collegamenti fra tali soggetti ed i

latitanti, nonché della redditizia attività di raccolta del «pizzo» e

della sua capillare e meticolosa redistribuzione finalizzata al so

stentamento delle famiglie dei detenuti.

Ciò che sembra ancora più significativo è il fatto che prota

gonisti delle condotte in parola siano stati dei soggetti —

quali

gli imputati di questo processo — che, operando in modo riser

vato e tendenzialmente senza particolari clamori, hanno tuttavia

fornito un essenziale contributo all'organizzazione mafiosa, in

vista del raggiungimento dei suoi fini di sempre: accumulo di

illecite ricchezze e di potere sul territorio.

Per dare rappresentazione a questa realtà, di recente è invalso

l'uso di un particolare termine, «mafia invisibile», si tratta di un

neologismo che ha senz'altro una forte carica di suggestione, ma che non deve trarre in inganno, perché, se negli ultimi anni è

certamente cresciuto l'alone di segretezza che investe gli inte

ressi dell'organizzazione mafiosa, gli effetti che tale modus

operandi produce sono visibilissimi in quanto incidono forte

mente su tutte le principali articolazioni della vita economica

dell'Isola.

2. - Analisi socio-criminologiche e storico-politiche: riflessi sulla valutazione del materiale probatorio. Non rappresenta di

certo una novità il fatto che il settore degli appalti pubblici co

stituisca una delle maggiori fonti dalle quali l'organizzazione mafiosa trae motivo, non solo di arricchimento, ma anche di ac

crescimento e consolidamento del proprio potere.

Operando in questo settore, l'organizzazione tende a stabilire

un vero e proprio «biunivoco rapporto di reciprocità» che ga rantisce agli imprenditori l'attribuzione di vantaggi altrimenti

non conseguibili, ed all'organizzazione mafiosa la capacità di

infiltrazione e di condizionamento di sempre più vasti settori

dell'economia, consentendole via via di attrarre organicamente tra le proprie fila soggetti che fino a quel momento ne erano ri

masti estranei.

Com'è noto, la zona grigia in cui si appanna la differenza fra

imprenditore colluso con le associazioni criminali ed imprendi tore estorto, o comunque vittima di esse, è stata oggetto privile

giato delle più moderne analisi socio-criminologiche e storico

politiche i cui risultati non di rado sono stati trasfusi nell'ambito

delle pronunce giurisdizionali su questo tema.

La Corte di cassazione ha tuttavia lanciato un significativo e

misurato monito a servirsi di tali importanti fonti di analisi ed

approfondimento con prudenza e, soprattutto, ponendo sempre in primo piano la specificità del caso da giudicare.

Sulla base delle indicazioni della giurisprudenza di legittimità (Cass. 5 gennaio 1999, Cabib, Foro it., 1999, II, 631): «nella

valutazione dei rapporti tra mafia e imprenditori, l'indagine del

giudice non può fondarsi su aprioristici ed astratti stereotipi so

cio-criminali, la cui applicazione come massime di esperienza conduce a generalizzate criminalizzazioni, o, viceversa, al rico

noscimento di vaste aree di impunità, entrambe altrettanto in

giustificate perché svincolate da un effettivo e serio vaglio delle

variabili contingenti peculiarità della singola fattispecie; piutto sto, il giudice, al fine di individuare la linea di confine tra lecito

ed illecito, può tener conto, con la dovuta cautela, anche dei ri

sultati di indagini storico-sociologiche come utili strumenti di

interpretazione dei risultati probatori, dopo averne vagliato, ca

so per caso, l'effettiva idoneità ad essere assunti ad attendibili massime dì esperienza e, principalmente, dopo avere ricostruito, sulla base dei mezzi di prova a sua disposizione, gli specifici e concreti fatti che formano l'oggetto del processo».

La Suprema corte, muovendo dalla premessa secondo cui il

dibattito sulla rilevanza in sede giudiziaria delle analisi storico

sociologiche trova fondamento nella stessa genesi del reato di cui all'art. 416 bis c.p., prende comunque le distanze da quella diversa corrente di pensiero alla stregua della quale andrebbe

comunque evitato l'uso del sapere socio-criminologico, nelle

tecniche di argomentazione probatoria, anche per via dell'ele

vata variabilità che lo connota.

La Cassazione, nella pronuncia in esame, ha optato per una

Il Foro Italiano — 2003.

strada mediana che affida al giudice il delicatissimo compito —

attraverso l'applicazione del principio del prudente apprezza mento — di vagliare caso per caso l'effettiva idoneità dei dati

storico-criminologici ad essere assunti ad attendibili massime di

esperienza, solo dopo aver ricostruito sulla base dei mezzi di

prova a sua disposizione, gli specifici e concreti fatti che forma

no l'oggetto del processo. Effettivamente, l'esperienza processuale dimostra che, in

molti casi, proprio nelle pieghe di quelli che potrebbero — ad

un osservatore distratto — sembrare comportamenti neutri, o

magari semplicemente equivoci, si annidano gli aspetti di un'in

sidiosa, quanto certa, illiceità penale. In questa ricostruzione non facile alla quale il giudice è chia

mato, la lettura delle più moderne, attente ed approfondite anali

si storico-sociologiche e socio-criminologiche può sicuramente

rivelarsi un importante strumento di riflessione piuttosto che un

surrogato rispetto ad una rigorosa qualificazione giuridica delle

concrete condotte.

Solo per esemplificare, e senza alcuna pretesa di essere esau

stivi, si possono cogliere almeno, quelle che potremmo definire, tre diverse prospettive, o meglio, tre differenti punti di vista a

partire dai quali è stato studiato l'aggrovigliato rapporto che si

viene a stabilire fra l'associazione mafiosa ed il mondo impren ditoriale, ovvero: il punto di vista dell'impresa, quello della

merce o del prodotto venduto, quello dell'imprenditore. 2.1. - Il punto di vista «dell'impresa». In base al primo punto

di vista, fra i tre che abbiamo individuato, il fenomeno viene

letto ed interpretato in una chiave che potremmo definire ogget tiva: l'attenzione viene concentrata sull'attività di impresa e sul

modo in cui questa si struttura e ristruttura di volta in volta, ve

nendo in contatto in vario modo con l'organizzazione mafiosa.

Questa prospettiva di analisi consente di cogliere le modalità

di sviluppo dell'impresa criminale ed inoltre le diverse tipologie di rapporto che possono instaurarsi tra tale tipo di impresa e

quella legale. Viene così individuato un percorso evolutivo dell'impresa

criminale che si snoda attraverso varie fasi: si muove dall'im

presa mafiosa (caratterizzata dalla «mafiosità» del suo titolare

formale, dei metodi utilizzati e della formazione del capitale), si

passa ad una seconda tipologia di impresa, quella «di proprietà del mafioso», il cui titolare è semplicemente un prestanome (mentre il capitale resta di origine mafiosa e l'imprenditore ef

fettivo è mafioso), per poi giungere ad una forma più complessa ed ormai capillarmente diffusa, quella della c.d. «impresa a

partecipazione mafiosa» che, anche quando è nata come impresa

legittima, entra progressivamente in rapporti di cointeressenza e

di compartecipazione con l'organizzazione criminale.

Sul piano concettuale, si osserva che ciò che definisce il ca

rattere mafioso di un'impresa può essere: o la natura del proces so di accumulazione che ha determinato la sua formazione e che

continua a sorreggerla, ovvero che determina l'immissione di

capitale nell'impresa da una certa fase in poi; oppure il carattere della forza specifica che costituisce il suo retroterra e il suo

principale strumento di affermazione sul mercato.

In altri termini, l'impresa mafiosa — la quale ha lo scopo di

produrre o scambiare beni leciti, ed opera all'interno dei mercati

ufficiali con modalità che possono essere formalmente legali

oppure apertamente illegali — è contraddistinta da due elementi

caratterizzanti, che possono essere presenti alternativamente o

cumulativamente.

Il primo consiste nel trarre origine o essere alimentata e fi

nanziata da un capitale che è frutto, in tutto o in parte, di attività

di natura criminale; il secondo consiste nel trovare la propria

capacità competitiva essenzialmente nella forza di intimidazione

dell'associazione mafiosa alla quale appartiene il reale proprie tario dell'unità economica (in quanto la forza di intimidazione

consente di regolare il mercato, dettando criteri di comporta mento a tutti gli operatori, e di eliminare la concorrenza).

L'impresa mafiosa si differenzia dall'impresa legale anche

per i meccanismi di controllo, che possono fondarsi su una si

tuazione di fatto acquisita dall'effettivo titolare in base alla for za di intimidazione che deriva dal suo legame con l'associazio ne mafiosa.

L'impresa in parola ha trovato la sua origine storica nella

tendenza degli esponenti del sodalizio criminale a costituire tale

tipo di attività, principalmente nel campo dell'edilizia e dei la vori pubblici, con particolare frequenza ed intensità soprattutto dalla seconda metà degli anni '60 in poi e, segnatamente, nei

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GIURISPRUDENZA PENALE

periodi storici in cui la rendita urbana assumeva un ruolo prima rio rispetto alla rendita fondiaria.

Si è trattato del passaggio dalla fase tradizionale di immobi lizzazione della ricchezza a quella più moderna di accumulazio ne del capitale: mentre fino all'inizio degli anni '60 numerosi aderenti a Cosa nostra erano impegnati essenzialmente nell'ac

quisizione della rendita fondiaria nelle campagne con un corri

spondente depauperamento dei vecchi proprietari terrieri, suc

cessivamente, la maggior parte dei proventi di condotte crimi nali è stata impiegata in attività produttive al fine di un'ulteriore

valorizzazione.

Le imprese mafiose originarie sono caratterizzate da una forte

individualizzazione attorno alla figura dominante del fondatore, il quale le gestisce direttamente pur continuando ad espletare le

altre attività delittuose della «famiglia». Le imprese in questio ne, anche quando hanno una diversa denominazione formale, sono solitamente conosciute come appartenenti all'esponente mafioso che le gestisce.

Nella struttura di queste ditte è, non di rado, immediatamente

visibile la presenza di componenti del nucleo familiare dell'as

sociato.

Lo strumento essenziale dell'agire di queste unità economi

che è stato individuato proprio nella violenza, che consente loro

di affermarsi attraverso lo scoraggiamento della concorrenza e

l'estromissione dal mercato delle aziende non disposte a venire

a patti con il sodalizio criminale. La forza di intimidazione del

vincolo associativo rappresenta sia la condizione che permette di acquisire una rilevante posizione di mercato, sia lo strumento

che assicura la regolazione dei rapporti con le imprese concor

renti.

Già nelle sue prime forme, l'impresa mafiosa risponde ad una

pluralità di esigenze, in quanto serve ad assicurare il riciclaggio dei profitti illeciti, la copertura delle attività criminali, un più efficace controllo sociale attraverso un forte radicamento nel

territorio, e la legittimazione del potere economico e politico

dell'organizzazione criminale.

Anche in seguito, i settori dell'edilizia e dei lavori pubblici hanno mantenuto un ruolo strategico nell'ambito delle attività

economiche riconducibili alle associazioni mafiose, perché han

no svolto un ruolo trainante nell'economia e nella società meri

dionale, consentendo un'altissima valorizzazione del capitale e

l'instaurazione di un rapporto particolarmente stretto con il

complesso delle attività economiche delle zone dove è radicata

Cosa nostra.

Tra la fine degli anni '70 ed i primi anni '80 si è affermata

negli ambienti mafiosi la tendenza a diversificare gli investi

menti, impiegando i profitti derivanti dalle originarie aziende

non tanto per accrescerne le strutture ed il volume di affari,

quanto per costituire nuove imprese operanti nello stesso campo o in diversi settori di attività. Sono state formate, con particolare

frequenza, più società, spesso nello stesso settore produttivo o

commerciale. Le risorse a disposizione dei singoli esponenti mafiosi non sono state più concentrate in un solo strumento

aziendale.

In questo processo di ristrutturazione economica, si è tra

sformato anche l'assetto giuridico-formale della proprietà delle

imprese e dei patrimoni immobiliari e finanziari. Si è diffuso

quindi il modello della c.d. impresa di proprietà del mafioso.

Si è realizzata una situazione in cui gli esponenti mafiosi di

spicco tendono a non mantenere più nelle loro mani la titolarità

formale ed i compiti diretti di direzione e gestione dell'impresa. Essi, invece, si limitano a conservare la proprietà indiretta del

l'impresa e ad esercitare in modo mediato la loro funzione di di

rezione.

In questo modo si è costruita una schermatura tra l'impresa, da un lato, e l'origine illegale dei capitali e l'autore dell'accu

mulazione illecita, dall'altro.

Mentre l'impresa mafiosa tradizionale si fonda sulla spendita del nome del mafioso, l'impresa di proprietà del mafioso cerca

di operare senza manifestare — se non quando ciò diviene indi

spensabile — il nome del soggetto al quale essa appartiene.

Questa trasformazione risponde alla necessità di Cosa nostra

di tutelarsi rispetto alla normativa antimafia, evitando i provve dimenti di sequestro e di confisca attraverso l'occultamento del

collegamento dell'impresa con l'esponente mafioso che ne è

l'effettivo titolare.

Vengono utilizzati come prestanome, per la gestione di atti

vità economiche apparentemente «pulite», sia altri «uomini

Il Foro Italiano — 2003 — Parte II-\1.

d'onore» la cui appartenenza a Cosa nostra non è nota alle forze

dell'ordine, sia soggetti che non sono formalmente affiliati al

l'organizzazione criminale, pur operando al suo servizio.

Può trattarsi anche di prestanome aventi precisi requisiti pro fessionali: questi soggetti non si limitano a svolgere un'azione

di copertura formale delle proprietà e dell'impresa del mafioso, ma vengono incaricati della gestione dell'impresa e dispongono di poteri relativamente autonomi nell'ambito dei compiti loro

assegnati. Tutti questi accorgimenti rispondono ad esigenze di progres

siva mimetizzazione delle imprese mafiose.

Alle stesse finalità sono funzionali le frequenti trasformazioni

degli assetti societari ed amministrativi: spesso si realizza una

continua evoluzione delle imprese, con mutamenti delle persone dei soci, degli amministratori, dell'oggetto, della ragione socia

le, del tipo di società, allo scopo di impedire l'identificazione

dei soggetti che si celano dietro di esse.

I continui processi di ristrutturazione delle imprese ricondu

cibili alla mafia, comunque, si riferiscono quasi sempre all'as

setto societario o all'ambito operativo, e non alla struttura

aziendale e produttiva. Secondo la ricostruzione storica del fenomeno che stiamo

velocemente ripercorrendo, in prossimità dell'approvazione della legge Rognoni-La Torre (1. 13 settembre 1982 n. 646), che

ha reso meno agevole l'utilizzazione di prestanome, si è affer

mato un nuovo modello: quello della c.d. impresa a partecipa zione mafiosa.

Si tratta di imprese spesso sorte nel rispetto della legalità, ma

che hanno (sin dall'inizio o in un momento successivo) instau

rato rapporti di cointeressenza e compartecipazione con deter

minati esponenti mafiosi, i cui capitali sono stati investiti in

modo organico e stabile nelle aziende. Si verifica così una com

presenza di interessi, soci, e capitali illegali, con interessi, soci, e capitali legali.

La formazione di imprese a partecipazione mafiosa costitui

sce il frutto degli intensi e stabili rapporti creati dall'organizza zione mafiosa con i più vari settori dell'economia legale: Cosa

nostra ha cercato di fondare questo rapporto non solo su atti

violenti, ma anche su una reciprocità di interessi e su una com

penetrazione di capitali e competenze.

L'impresa a partecipazione mafiosa permette alla struttura

criminale di rendere ancora più occulti i canali di riciclaggio e

di reimpiego dei capitali illeciti, di diversificare ulteriormente

gli investimenti, di disporre di strutture imprenditoriali che, per la loro rispettabilità e la loro esperienza, sono capaci di operare come normali agenti di mercato; ma anche di compenetrare l'e

conomia mafiosa con quella legale, rendendole difficilmente di

stinguibili tra loro, e di realizzare una regolazione complessiva del mercato locale e un più solido controllo del territorio.

L'impresa a partecipazione mafiosa si differenzia dall'impre sa di proprietà del mafioso perché l'imprenditore con cui

l'«uomo d'onore» si associa non è un prestanome, ma rappre senta anche i propri interessi. L'impresa a partecipazione mafio

sa, comunque, pur non essendo espressione esclusiva dell'am

biente criminale, è anche un'impresa di servizio degli interessi

dell'esponente mafioso ed un'impresa di riferimento per inve stire in modo «pulito» i suoi capitali.

II mafioso può associarsi ad un altro imprenditore attraverso

l'interposizione di un prestanome oppure in modo diretto ma

non formalizzato, costituendo una società di fatto. In entrambi i

casi la presenza degli interessi mafiosi resta celata a quasi tutti i

terzi. La relazione societaria si fonda sulla parola, senza alcun

documento che attesti il rapporto di compartecipazione del ma

fioso all'impresa. In genere l'imprenditore apparentemente «pulito» conserva,

oltre alla titolarità, anche la gestione dell'azienda, pur impe

gnandosi ad operare al servizio degli interessi dell'esponente mafioso. La gestione economica e tecnica è esercitata dunque dal primo, mentre le grandi scelte strategiche sono compiute di

comune accordo con il mafioso o direttamente da quest'ultimo. In ogni caso il mafioso assume o condivide il controllo del

l'impresa indipendentemente dalla consistenza della sua quota societaria. Conseguentemente è l'impresa nel suo complesso che finisce per entrare nell'orbita del sistema mafioso e per es

sere condizionata dalla sua forza di intimidazione e dai suoi

progetti, anche quando continua a presentare un capitale misto,

legale e illegale. L'«uomo d'onore» diviene il dominus dell'impresa, ne assu

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PARTE SECONDA

me la direzione strategica ed esercita un controllo sugli investi

menti, indirizzandoli in modo conforme alle esigenze dell'orga nizzazione mafiosa, anche quando ciò è in contrasto con l'eco

nomicità aziendale.

L'impresa a partecipazione mafiosa, oltre ad essere diretta —

almeno per quanto riguarda le scelte strategiche di fondo — da

un soggetto affiliato a Cosa nostra, viene a dipendere da un

centro finanziario esterno, che però non lega permanentemente ad essa i suoi capitali: questi ultimi possono in qualsiasi mo

mento essere sganciati dall'impresa a partecipazione mafiosa,

spesso provocandone la rovina economica.

Questa tipologia di impresa si struttura prevalentemente nella

forma della società di capitali, che permette una migliore mi

metizzazione delle disponibilità finanziarie e dei soci apparte nenti all'associazione criminale.

Questi tre modelli fondamentali di partecipazione di «uomini

d'onore» alla titolarità di imprese, si ricollegano a momenti di

versi di un'unica strategìa di controllo dell'economia e del ter

ritorio da parte di Cosa nostra, ma sono non di rado compresenti nel medesimo contesto sociale, e danno luogo ad ulteriori tipo

logie composite, come quella della partecipazione occulta di un

esponente di primo piano dell'illecito sodalizio ad un'impresa in apparenza gestita esclusivamente da un soggetto che risulta

dotato di adeguati requisiti tecnici e privo di palesi collusioni

con la criminalità organizzata, ma, in realtà, legato a Cosa no

stra da un rapporto di organico inserimento o di stabile collabo

razione.

2.2. - II punto di vista «della merce o del prodotto venduto».

Oltre che dal punto di vista dell'impresa, come accennavamo, il

rapporto fra l'organizzazione criminale ed il mondo imprendito riale è stato analizzato nell'ottica della merce venduta e scam

biata dall'associazione stessa: ovvero, la c.d. «protezione pri vata».

Secondo tale prospettiva, in generale, la mafia è una vera e

propria industria che produce, promuove e vende protezione

privata. Si è osservato, quindi, che la protezione è un bene ambiguo

con caratteristiche molto particolari e che tocca due corde con

trastanti: una rassicurante, l'altra minacciosa. La prima evoca

l'immagine di un riparo sicuro offerto da un amico potente, la

seconda evoca l'imposizione di un tributo, un «prezzo per la

tranquillità» imposto per evitare un più grave danno.

La protezione agisce come una sorta di lubrificante negli scambi e nelle vicissitudini economiche, e per tale ragione il

mercato principale per i «servizi» della mafia è da ricercare nel

campo delle transazioni instabili, in cui la fiducia è fragile o as

sente.

Ed invero, il fenomeno in parola ha radici assai risalenti in

Sicilia poiché rimanda alla metà dell'ottocento, ovvero alla c.d.

attività di «protezione» dei campi e dei prodotti della terra, esercitata appunto dai «campieri», che erano le guardie armate

dei latifondi. La mafia dei primordi imponeva i «campieri» e così si arro

gava il potere di tutelare i campi dalla violenza, proprio attra

verso l'uso della violenza stessa, o della semplice minaccia, con ciò assicurandosi il controllo sulle più importanti risorse eco nomiche.

Se il proprietario non accettava la proposta, in genere pre sentata sotto forma di «consiglio», i poteri criminali passavano all'intimidazione aperta che poteva consistere in qualunque ge sto che potesse suscitare un effettivo timore e che, comunque, fosse significativo del potere esercitato dall'associazione sul

territorio controllato.

Sulla base della ricostruzione in esame, è proprio quello che è

stato definito il «mercato della protezione» a disegnare quella linea di continuità che conduce dal «controllo» del latifondo —

e di un'economia in cui le principali risorse erano grano, be

stiame e manodopera a basso costo — fino ai nostri giorni, ove diviene fondamentale l'esercizio degli stessi poteri criminali —

semplicemente rivisitati alla luce del mutare dei tempi e delle

circostanze — sull'economia imprenditoriale quale attuale pri maria fonte di ricchezza.

Il mafioso, infatti, «vende» il «bene» della protezione, per il

quale viene pagato un prezzo, ed impone tale servizio ad un'u nica impresa o ad una pluralità di imprese, poiché basta assai

spesso la sua «reputazione» a creare l'effetto intimidatorio.

Si è detto che quella creata dalla protezione è una sorta di ve ra e propria «polizia privata», basata sull'ambiguità del rapporto che si viene a creare fra protetto e protettore.

Il Foro Italiano — 2003.

Il «consiglio» della famiglia mafiosa consiste nell'imporre, dietro il corrispettivo di un prezzo, la propria protezione, crean

do quello che è stato definito il sistema della «estorsione con

trollata».

In un siffatto sistema, peraltro, la violenza è solo eventuale ed

episodica, poiché realizza, innanzitutto, una parvenza di corri

spettività: il mafioso «vende» la propria protezione alla stregua di un «bene» del quale effettivamente l'imprenditore talvolta ri

esce ad avvantaggiarsi, alla lunga assai spesso divenendo con

nivente.

Quanto fin qui esposto evidenzia, fra l'altro, come nel feno

meno mafia esista una continuità molto forte: il controllo co

mincia dalla terra, si sposta sui mulini, quindi diviene controllo

dell'impresa. La mafia imprenditrice dimostra chiaramente di non avere af

fatto rinunciato alla propria caratteristica «logica della protezio ne» che le consente, ora come allora, la ricerca della ricchezza

attraverso l'intimidazione diffusa.

Proprio attraverso il «mercato della protezione» l'associazio

ne intercetta i suoi numerosi «clienti» che spaziano, notoria

mente, nell'ambito di ogni categoria produttiva.

Quello che, per semplificare, potremmo chiamare il «con

tratto di protezione», si esplica nelle più varie modalità e tende,

per sua stessa natura, a divenire perpetuo. Alcuni accordi vengono, infatti, stipulati su singoli affari, ma

sovente — poiché il contratto predetto è, per sua stessa natura,

assai vischioso — chi conclude l'accordo è «amico» della «fa

miglia» o ad essa in qualche modo collegato. Attraverso l'industria della protezione, ed attraverso la rete

dei contatti a vari livelli che essa produce, si sviluppa tutta una

serie indefinita di legami organici che disegnano i tratti essen

ziali del fenomeno mafia.

Nonostante la protezione si accompagni quasi sempre all'il

legalità, non di rado risulta difficile circoscriverla ed indivi

duarla esattamente come attività illecita se non si tiene conto del

contesto socio-criminale di riferimento.

È stato osservato che mentre alcuni clienti stringono accordi

con i mafiosi su singoli affari, ciascuno limitato ad una partico lare transazione, altri sono organicamente collegati ad una «fa

miglia», ed altri ancora, pur inizialmente estranei, mostrano un

vero e proprio interesse razionale ad accordarsi su un contratto

di durata indefinita.

In tale ipotesi i «clienti» vengono progressivamente ad essere

inglobati o, meglio, internalizzati: divengono cioè elementi

permanenti dell'impresa, in pratica si trasformano in proprietà. Ed infatti, vi è una profonda ambiguità tra estorsione e prote

zione: il pagamento iniziale di una somma di denaro, che nel

l'immediato consente il superamento dell'inimicizia dei mal

fattori, può progressivamente trasformarsi in un vero e proprio

rapporto di recìproco e vantaggioso scambio.

Fra l'altro, per tale ragione, è più probabile che si venga a

conoscenza solo delle vere e proprie estorsioni poiché, quando tutto fila liscio e l'accordo, per così dire, funziona, è più diffi cile che l'illecito venga a galla.

Anche nella ricostruzione del fenomeno appena proposta, si

segnala dunque che, nonostante la protezione si accompagni

quasi sempre all'illegalità, a volte è difficile circoscriverla

esattamente come attività illecita.

2.3. - il punto di vista «dell'imprenditore». Infine, deve esse re segnalato un ulteriore metodo di analisi — anch'esso ricchis

simo di validi spunti di riflessione — che potremo definire

«soggettivo» poiché guarda il fenomeno in esame proprio dal

punto di vista dei soggetti, ovvero degli imprenditori, studiando il modo in cui essi strutturano la propria condotta nel momento

in cui vengono a contatto con l'organizzazione mafiosa.

Muovendo dalla premessa secondo la quale in una zona ad

alta densità mafiosa gli operatori economici debbono effettiva

mente, in qualche modo, fare i conti con la mafia, si osserva come il rapporto che si instaura non vada inteso a senso unico, bensì come un'interazione che si sviluppa in un quadro di vin coli e di opportunità in cui c'è spazio per le valutazioni e le pre ferenze degli imprenditori, come anche per il calcolo dei costi e dei benefici connessi al tipo di relazione da attivare.

Infatti, ciò che spesso si dimentica è che lo stesso comporta mento degli operatori economici incide in modo specifico sul contenuto e sulla forma del rapporto intrattenuto con i mafiosi, sulle sue manifestazioni esplicite e su quelle latenti.

In linea generale, si osserva che i mafiosi inducono gli im

prenditori ad essere nei loro confronti «cooperativi», anche se

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GIURISPRUDENZA PENALE

tale cooperazione può assumere diversi gradi e tonalità: non bi

sogna dimenticare che per alcuni operatori economici la mafia

rappresenta un vincolo, per altri un'opportunità. In termini ideal-tipici, a partire da una ricerca sul campo con

dotta su una zona ad alta densità mafiosa, vengono delineate le

modalità diverse di rapportarsi alla mafia da parte degli impren ditori, distinguendoli fra subordinati e collusi.

La distinzione si basa essenzialmente sulla maggiore o mino

re distanza che si viene a creare fra l'impresa e l'ordinamento

mafioso.

Agli imprenditori subordinati è imposta una protezione passi va: essi sono assoggettati attraverso un rapporto non interattivo, fondato sulla intimidazione o sulla pura coercizione.

Ed infatti, gli imprenditori subordinati — che vengono ulte

riormente distinti in «oppressi» e «dipendenti» — sono le vere

vittime del sistema mafioso (e spesso, temendo lo sviluppo di

simili rapporti, essi evitano di ampliare le loro iniziative sul

campo economico, autolimitando la propria attività; essi, perce

pendo la presenza mafiosa come rischiosa rispetto a nuove ini

ziative di investimento, cercano dunque, quanto più possibile, di

«non dare troppo nell'occhio») poiché versano in un effettivo

stato di costrizione che, oltre a gravare pesantemente sul bilan

cio dell'azienda, incide anche sulle prospettive future.

I collusi, invece, possono usufruire di un tipo di protezione attiva, stabilendo con i mafiosi un rapporto interattivo, fondato

più che sulla coercizione, su legami personali di fedeltà; si sta

biliscono in tal modo dei metodi e sistemi cooperativi nell'am

bito dei quali i mafiosi cercano di manipolare a loro vantaggio le condizioni e le regole che condizionano lo scambio.

Gli imprenditori collusi sono legati ai mafiosi mediante in

centivi, non solo materiali ma anche simbolici. La cooperazione

per questa tipologia di imprenditori è motivata dalla prospettiva di un vantaggio economico, dalla fede nel codice dell'omertà o,

infine, dal fatto che è un «amico» a chiederla.

Dagli imprenditori che hanno instaurato un simile rapporto di

scambio (e che quindi fruiscono di una protezione attiva), il

gruppo mafioso pretende dal canto suo prestazioni diffuse, che

possono assumere il contenuto più vario.

Gli imprenditori collusi sono disposti a trovare con i mafiosi

un accordo attivo dal quale derivano obblighi reciproci di colla

borazione, scambio e lealtà. Tutto ciò spesso è il frutto di un ve

ro e proprio calcolo razionale; la relazione diviene infatti reci

procamente vantaggiosa. Non si deve pensare, dunque, che essi

siano semplici strumenti in balia dei mafiosi, poiché giovandosi del rapporto instaurato con l'associazione possono svolgere una

serie di transazioni assai redditizie.

All'interno della categoria degli operatori economici in collu

sione con la mafia, la ricerca sul campo ha permesso di indivi

duare due varianti: gli imprenditori «strumentali» e gli impren ditori «clienti».

Vengono qualificati «strumentali» gli imprenditori che risul

tano sufficientemente forti da poter instaurare con i mafiosi rap

porti di scambio: essi accettano preventivamente di «collabora

re» poiché ritengono comunque che la cooperazione possa pro muovere i loro interessi economici.

Solitamente essi sono a capo di imprese di vaste dimensioni, forti sia dal punto di vista delle capacità finanziarie che della

dotazione tecnica, e che operano nel settore degli appalti pub blici.

Gli imprenditori strumentali raggiungono con il mafioso un

«compromesso» che ha carattere condizionale e contingente: nessun accordo di questo tipo vale una volta e per tutte; l'accor

do deve essere quindi rinegoziato continuamente.

La presenza mafiosa viene vista in questa prospettiva come

una sorta di costo aggiuntivo che, comunque, si tenta di far ri

cadere sull'ente appaltante. I mafiosi, da parte loro, sono ben lieti di accettare la collabo

razione degli imprenditori più disponibili, ai quali offrono la lo

ro protezione ed una sicura garanzia di «tranquillità», in cambio

di una partecipazione più o meno diretta ai lavori in cui sono

impegnati (solitamente mirano ad assicurarsi la gestione dei

subappalti). L'altra variante del fenomeno collusivo concerne invece gli

imprenditori definiti «clienti». Questi ultimi si caratterizzano per il fatto di stabilire con la

mafia rapporti stabili e continuativi che coinvolgono intera

mente la loro attività.

Fra questi imprenditori e i mafiosi si stabilisce «un'interazio

II Foro Italiano — 2003.

ne diadica asimmetrica», che ha natura di scambio, e assume

spesso un carattere fortemente personalizzato. In questo rapporto il mafioso riveste sempre una posizione

privilegiata che gli deriva dalla capacità coercitiva che è in gra do di esprimere, ma che resta puramente sottintesa, ad uno sta

dio, per così dire, potenziale. La gamma di prestazioni offerte dai «clienti» ai mafiosi è

molto varia: si va dall'offerta di informazioni, all'accesso a de

terminati circuiti politici e/o finanziari, fino alla costituzione di

vere e proprie società.

Se, da un lato, il margine di libertà di cui gode l'imprenditore «cliente» è alquanto limitato, poiché egli deve comunque sotto

stare alle direttive impartitegli «dall'alto», dall'altro non si deve

pensare che tale categoria imprenditoriale non sia altro che un

mero strumento nelle mani della consorteria criminale.

Gli imprenditori «clienti», infatti, giovandosi della copertura dei mafiosi, possono comunque svolgere essi stessi una fitta se

rie di transazioni legali ed illegali assai lucrose, ed entrano co

munque a far parte di un sistema di rapporti interpersonali che

diviene un vero e proprio strumento di ascesa sociale.

Anche nell'analisi del fenomeno fin qui proposta si sottoli

nea, infine, come al di là delle categorie individuate, sia pure su

base empirica, non sia affatto agevole distinguere le condotte

collusive, poiché proprio l'area della collusione si caratterizza — anche sul piano sociologico

— per essere sfumata ed opaca.

2.4. - Il punto di vista giuridico. Gli studi citati, com'è evi

dente anche alla luce del rapidissimo excursus appena compiuto, descrivono a volte in modo assai dettagliato le molteplici carat

teristiche e le variegate sfumature che il rapporto mafia-impresa

può assumere.

Ciò che, fra l'altro, li accomuna è il fatto di adottare una pro

spettiva, evidentemente, non giuridica attraverso la quale il fe

nomeno viene analizzato e letto in modo globale (anche quando ci si sofferma su un singolo caso lo si fa per cogliere differenze

e similitudini con casi simili), cogliendone le evoluzioni stori

che e le caratteristiche di volta in volta più significative. Assai diversa, com'è ovvio, è la prospettiva del giudice che si

confronta invece, di volta in volta, con un singolo caso giudizia rio, avendo comunque a disposizione solo quegli elementi che

validamente entrano a far parte dell'orizzonte della decisione e

che, in ogni caso, dovranno necessariamente condurlo ad un

giudizio in ordine all'eventuale responsabilità dell'imputato. La rappresentazione del fenomeno nel suo insieme, tuttavia,

può costituire un ulteriore strumento — purché prudentemente e

criticamente utilizzato — che, insieme ad altri, consente al giu dice di avere una maggiore consapevolezza delle innumerevoli

sfaccettature che il rapporto mafia-impresa assume nella realtà, e che può magari indurlo, ad esempio, a valorizzare dati proba tori solo apparentemente poco significativi.

Occorrerà naturalmente rifuggire, come anche la Suprema corte ha posto in evidenza, dalla tentazione di fuorviami gene ralizzazioni.

È proprio la consapevolezza della complessità del fenomeno, al contrario, ad invitare l'interprete alla massima cautela nel va

gliare le concrete circostanze e caratteristiche presenti nel fatto

concreto oggetto di giudizio. E comunque assai significativo il fatto che le analisi che ab

biamo sinteticamente richiamato, pur muovendo da diversi punti di vista, convergano tutte nell'accendere una sorta di spia lumi

nosa che segnala — descrivendole assai dettagliatamente

— una

inquietante realtà: troppe volte, infatti, al di là di un apparente

semplice esercizio dell'attività imprenditoriale, si celano arti

colati e complessi rapporti con l'associazione criminale, che

rappresentano spesso una vera e propria comunanza di interessi

in vista della realizzazione di un reciproco vantaggio. Il rapporto mafia-impresa è stato sottoposto ripetutamente al

vaglio della giurisprudenza ed ha dato vita ad una serie di pro nunce non sempre fra loro in perfetta sintonia.

Nell'ambito della decisione della Corte di cassazione che ab

biamo più sopra richiamato (Cass. 5 gennaio 1999, Cabib) e che

si è occupata, fra l'altro, di cercare un giusto equilibrio nell'uso

da parte del giudice delle massime di esperienza tratte dalle

scienze sociali, il collegio ha affrontato anche il complesso pro blema della configurazione giuridica dei rapporti mafia-impresa, tentando di rintracciare un criterio di carattere generale in grado di distinguere i rispettivi ruoli di complice e di vittima dell'as

sociazione criminale, che, come abbiamo visto, nella realtà ap

paiono assai confusi.

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Page 7: sentenza 28 aprile 2003; Pres. Napoli, Est. Balsamo; imp. Di Pisa e altri

PARTE SECONDA

Nella valutazione dei rapporti tra mafia e imprenditori — si

legge nella sentenza — non può mai prescindersi da un effettivo

e serio vaglio delle variabili contingenti peculiarità della singola

fattispecie, poiché al giudice è affidato — nella piena esplica zione del principio del prudente apprezzamento e nella rigida osservanza del dovere di motivazione — il difficile compito di

individuare la fluida linea di confine tra lecito e illecito, e di di

stinguere le situazioni nelle quali l'imprenditore è complice delle organizzazioni criminali, da quelle in cui ne è vittima.

La Cassazione, nel caso concreto sottoposto al suo vaglio, ha

ravvisato nel provvedimento del tribunale del riesame una illo

gicità manifesta, laddove aveva ricondotto i rapporti instauratisi

fra l'imprenditore e le associazioni criminali non nell'area —

penalmente rilevante — della contiguità compiacente, bensì a

quella contiguità soggiacente, non sussumibile entro i margini

applicativi di cui all'art. 416 bis c.p. I giudici di legittimità hanno dunque contestato ai giudici del

merito di aver applicato astratti stereotipi socio-criminologici in

luogo di un attento vaglio delle prove raccolte (ad esempio, le

riunioni tra l'imprenditore e un boss, il vantaggio lucrato dal

primo grazie all'intermediazione dell'associazione, ecc.), ed

hanno ritenuto che è la sussistenza o meno di una condizione di

«ineluttabile coartazione» che imprime all'imprenditore che

entra in contatto con la mafia i connotati di vera e propria vitti

ma dell'estorsione.

La Suprema corte ha quindi escluso la condizione di vittima

nell'imprenditore che assume preventivamente l'iniziativa nei

confronti dell'organizzazione criminale al fine di ottenere una

«protezione a pagamento». Ai giudici di legittimità è parsa, dunque, inconciliabile l'ine

luttabilità del comportamento dell'imprenditore — assurta a

criterio distintivo, come abbiamo visto, fra la condizione di vit

tima e quella di complice — con le trattative intercorse fra

l'imprenditore medesimo e l'associazione criminale, in assenza

di una minaccia diretta ed esplicita da parte di quest'ultima. Effettivamente, sembra difficile sostenere processualmente

l'esistenza di uno stato psicologico del tipo indicato, in colui

che pianifica le attività della propria azienda in un determinato

territorio, negoziando con l'associazione mafiosa il «prezzo della propria tranquillità» da includere fra i costi dell'impresa.

La soluzione adottata — che evoca, a ben vedere, una sorta di

stato di necessità, o di non esigibilità, delle condotte non con

formi alle prescrizioni di legge — tuttavia sembra difficilmente

generalizzabile, poiché, probabilmente, semplifica troppo un fe

nomeno che — proprio le scienze sociali, oltre che i concreti ca

si giurisprudenziali — ci avvertono essere assai più complesso.

Ed infatti, proprio gli studi sociali che abbiamo sommaria

mente richiamato, sottolineano il persistere di quell'innegabile ed alto tasso di intimidazione derivante dal vincolo associativo

mafioso, che produce soggezione ed omertà nel contesto territo

riale in cui l'organizzazione opera, e che configura purtroppo fino ad oggi, in ogni caso, lo sfondo con il quale il mondo im

prenditoriale si confronta quotidianamente. Proprio per tale ragione, appare problematico assumere quale

criterio distintivo fra il ruolo di vittima e quello di complice

dell'organizzazione criminale, giusto quella piattaforma di dif fusa intimidazione che rappresenta una vera e propria costante, ovverosia lo scenario comune rispetto al quale i soggetti artico lano variamente le loro condotte.

Appare, invece, più proficuo, oltre che in perfetta sintonia

con il principio del carattere personale della responsabilità pe nale, volgere un accurato sguardo alle singole condotte dei sog

getti che, nell'esercizio della loro attività imprenditoriale, en

trano in contatto con la consorteria criminosa e di conseguenza modulano diversamente il loro atteggiamento.

Ci si trova così di fronte ad un panorama assai variegato che è

compito del giudice di volta in volta qualificare sul piano giuri dico.

Abbiamo visto che gli approfonditi studi extragiuridici sul tema -—

pur muovendo da punti di vista assai diversi — hanno

all'unisono evidenziato una inquietante realtà, ovvero quella dello stretto e diversificato rapporto che si stabilisce fra gli im

prenditori ed i mafiosi, e che si risolve spesso in un «reciproco

vantaggio» che, proprio per tale ragione, non ha motivo di esse

re denunciato da alcuno, e resta così tendenzialmente ricoperto da un tranquillizzante, quanto pericoloso, alone di effimera e

solo apparente legalità. Passando ad un'analisi strettamente giuridica del fenomeno,

non può dubitarsi che è proprio alla concreta condotta posta in

Il Foro Italiano — 2003.

essere dall'imprenditore che l'attenzione dell'interprete deve

essere rivolta. Infatti un attento vaglio del materiale probatorio implica

un'analisi approfondita del rapporto di dare ed avere, o di costi

benefici, fra l'impresa e Cosa nostra, che può integrare tutti i

requisiti previsti dalla norma che descrive plasticamente la con

dotta associativa (norma che, com'è noto del resto, ha una chia

ra matrice sociologica).

L'esperienza processuale dimostra che, in molti casi, proprio nelle pieghe di quelli che potrebbero

— ad un osservatore di

stratto — sembrare comportamenti neutri, o magari semplice mente equivoci, si annidano gli aspetti di un'insidiosa, quanto certa, illiceità penale.

In questa ricostruzione non facile alla quale il giudice è chia

mato, se si vuole individuare un possibile criterio selettivo tra

imprenditori collusi ed imprenditori vittime, che rifugga da

classificazioni di carattere generale — le quali, seppure assai

valide sul piano scientifico, trasposte in una pronuncia giurisdi zionale rischiano di condurre ad esiti non sempre univoci — lo

si può rintracciare proprio nel «reciproco vantaggio», ovvero

nel rapporto reciprocamente utile che si instaura fra l'impresa e

Cosa nostra.

E significativo il fatto che, adottando un simile criterio, la fa

se genetica del rapporto mafioso/imprenditore passa in secondo

piano. Il legame fra l'imprenditore ed il mafioso può nascere infatti

anche a seguito di un impatto, per così dire, traumatico e non

necessariamente (come pure spesso avviene) da una preventiva «messa a disposizione» del titolare dell'impresa animato dalla

consapevolezza della realtà che lo circonda.

L'associazione criminale spesso, com'è noto, avverte della

sua ingombrante presenza attraverso molteplici forme: con una

richiesta di somme di denaro (il c.d. «pizzo»), ovvero con l'im

posizione all'imprenditore di assumere determinati soggetti o di

avvalersi di un certo fornitore. La prima fase del contatto con

chi è inizialmente extraneus può risolversi in una minaccia più o

meno velata, o anche concentrarsi in un vero e proprio atto di

danneggiamento a titolo di «avvertimento».

Ma ciò che effettivamente conta, nella prospettiva qui accol

ta, è l'assetto dinamico che il contatto così instauratosi assume

nei suo concreto dispiegarsi. Assumono così significatività e concludenza in termini di af

fectio societatis diversi elementi della condotta che possono, ma

non devono necessariamente, tutti concorrere: il suo carattere

cooperativo e tendenzialmente continuativo, il suo esplicarsi in

prestazioni diffuse in favore del sodalizio mafioso che non ri

sultano necessariamente connesse all'attività imprenditoriale esercitata, il carattere altamente personalizzato del rapporto di

scambio, l'intrecciarsi tra le finalità individuali del dominus

dell'impresa e quelle associative.

L'organizzazione mafiosa, sfruttando in modo continuativo le

prestazioni diffuse offerte dall'imprenditore, finisce per ricono

scergli un ruolo di sistematico conferimento al sodalizio di tutti i vantaggi ricollegabili alla sua posizione professionale e socia

le.

Al tempo stesso — come anche alcuni studi sociologici met

tono in evidenza — occorrerà comunque accertare concreta

mente che il rapporto mafioso/imprenditore abbia creato, più che un costo aggiuntivo, un «beneficio innaturale» in favore

dell'impresa (linee di credito, appalti, risorse finanziarie ed umane a basso costo, ecc.) che spesso produce un repentino au mento del capitale sociale, e che talvolta determina anche una

vera e propria riorganizzazione dell'impresa stessa che, alla

lunga, tende a sfociare in un rapporto di vera e propria compar

tecipazione.

Proprio per tale ragione, come si è già detto, fino a quando tutto fila liscio, ovvero fino a quando il rapporto di scambio fra i

due interlocutori funziona, è molto difficile che venga alla luce

l'area grigia della collusione: il rapporto illecito, per il fatto di

essere reciprocamente utile, tende per sua stessa natura a rima

nere sommerso, avendo le parti anche in tal senso un interesse

perfettamente coincidente.

La finalizzazione della condotta ad ottenere condizioni di

vantaggio consente di delineare con maggiore chiarezza, anche sul piano del disvalore penale, la differenza tra l'imprenditore colluso e la vittima delle estorsioni mafiose: la collusione, come

abbiamo detto, si inserisce in un'ottica di tipo sinallagmatico, dominata dal do ut des, ed alimenta la circolarità del ritorno di

utilità reciproche tra impresa e criminalità organizzata, riflet

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GIURISPRUDENZA PENALE

tendosi negativamente sull'intero mercato, di cui alla lunga vengono alterati gli equilibri e falsati i meccanismi.

Il rischio gravissimo che si corre in questo ambito è quello di

legittimare la condotta di qualsivoglia imprenditore che, per il

conseguimento dei propri interessi personali e patrimoniali, de

cidesse comunque di venire a patti con Cosa nostra riconoscen

dole, di fatto, il ruolo di soggetto deputato alla gestione di

quelle attività e quegli «interessi» che invece competono sol

tanto alle pubbliche amministrazioni.

Tutto ciò rappresenterebbe peraltro un'ulteriore mortificazio

ne dell'atteggiamento di quegli imprenditori che invece resisto

no alla tentazione di prestarsi alle logiche mafiose, ed equivar rebbe ad ignorare la differenza tra un comportamento necessi

tato, tipico dell'imprenditore esclusivamente succube della con

sorteria criminale, ed un comportamento illecitamente posto in

essere da quell'imprenditore «colluso» che invece sfrutta il rap

porto con la mafia, per conseguire una serie di vantaggi altri

menti più difficilmente raggiungibili. L'imprenditore, ponendo l'impresa sotto il controllo di Cosa

nostra, si assicura, infatti, tutela da furti, vandalismi e da tutte le

estorsioni che fuoriescano da quelle previamente «concordate»

e, soprattutto, si assicura preziose occasioni di profitto; dal

canto suo, l'associazione riscuote, quantomeno, le cosiddette

«mesate» e finisce di fatto per controllare l'attività produttiva

(magari imponendo determinate forniture, influendo in generale sulle determinazioni relative al personale da assumere e così

via) godendo, a volte, anche di una serie di servizi accessori.

L'imprenditore, anche se non necessariamente affiliato in

maniera formale a Cosa nostra (con la classica «punciuta»), fi

nisce con il rivestire un ruolo assai importante nell'organi

gramma dell'associazione, della quale con la sua condotta, di

fatto, condivide le logiche, svolgendo — come abbiamo visto —

una serie di attività che rafforzano concretamente la posizione sociale del clan malavitoso, e che non possono non essere con

siderate emblematiche della sua appartenenza — dal punto di

vista sostanziale — all'associazione stessa.

Si tratta di quella che è stata definita la c.d. nuova «zona gri

gia» di Cosa nostra, un'area abitata da soggetti che costituisco

no la manifestazione evidente della pericolosa contiguità fra

normalità e devianza: è l'area di confine in cui si collocano

quegli imprenditori che, giustificando la loro vicinanza all'asso

ciazione con la necessità di lavorare in un contesto ambientale

ostile, hanno finito per trarne notevoli vantaggi di ordine eco

nomico ed anche processuale. Come abbiamo già accennato, in una fase come quella attuale

si è parlato della «strategia dell'immersione» adottata dall'asso

ciazione criminale e che consiste nel «non farsi notare», ovvero

di apparire entro una inquietante quanto insidiosa cornice di

normalità, utilizzando per il conseguimento dei propri fini ille

citi, soggetti apparentemente insospettabili. Al giudice non resta allora che il compito non facile di ana

lizzare le singole condotte sviscerando la novità degli scenari

probatori che conseguentemente gli si schiudono innanzi, e spe rimentando nuovi e diversi strumenti d'indagine.

Occorre tenere in considerazione che è proprio attraverso

l'industria della protezione, ed attraverso la rete dei contatti a

vari livelli che essa produce, che si sviluppa tutta quella serie

indefinita di legami organici che disegnano i tratti essenziali del

fenomeno mafia.

Sanzionare le condotte degli imprenditori collusi significa

prendere atto del fatto — talvolta purtroppo dimenticato anche

nelle applicazioni giurisprudenziali — che intrecciare relazioni

esterne non ha per la mafia alcun carattere di eccezionalità: sen

za questa finestra che si affaccia all'esterno Cosa nostra perde rebbe gran parte della sua forza espansiva.

Occorrerà dunque, in questi casi, non soltanto soffermarsi sui

benefici che derivano all'organizzazione mafiosa a seguito dei

rapporti intrattenuti con il mondo dell'imprenditoria (ad esem

pio, raccolta del «pizzo», controllo del mercato e del territorio), ma «dare voce» anche ai vantaggi conseguiti dall'imprenditore: dare contezza della condotta concretamente da esso tenuta, veri

ficando con scrupolo, alla luce dei dati probatori raccolti, se sia

stata o meno di tipo «cooperativo», ovvero, orientata o meno a

rendere attiva e proficua la «protezione» offerta o richiesta, in

vista del conseguimento di vantaggi altrimenti assai difficil

mente ottenibili.

Sul piano probatorio, la formazione di una proficua intesa fra

l'impresa e la mafia può desumersi — anche in imprese che già

Il Foro Italiano — 2003.

in precedenza intrattenevano rapporti (ad esempio di tipo estor

sivo) con organizzazioni criminali — da vari indici sintomatici,

come, ad esempio, l'improvviso e consistente aumento del ca

pitale sociale, non giustificato dalla pregressa attività aziendale

e dal normale giro d'affari (sicché la ricapitalizzazione della so

cietà si risolve in uno strumento per investire denaro di prove nienza mafiosa).

Altrettanto significativa è l'effettiva dipendenza dell'impresa da un centro finanziario esterno (soprattutto se rimasto almeno

in parte occulto), che non lega permanentemente ad essa i suoi

capitali, i quali possono in ogni momento essere sganciati dal

l'unità produttiva, provocandone la rovina economica.

Nella stessa prospettiva, assume un preciso rilievo anche la

frequente realizzazione di taluni movimenti anomali — quali il

cambio degli amministratori, il mutamento delle persone dei so

ci, dell'oggetto, della ragione sociale o del tipo di società, gli

scioglimenti, le liquidazioni, le rilevazioni, gli accorpamenti, i

fallimenti — che si riferiscono quasi sempre sull'assetto socie

tario o all'ambito operativo, e non alla struttura aziendale e pro duttiva, e sono generalmente funzionali allo scopo di impedire l'identificazione dei soggetti che si celano dietro le unità eco

nomiche.

Assai pregnante è pure la valenza sintomatica che può attri

buirsi alla vistosa facilità nel reperire risorse finanziarie, all'ac

cesso agevolato al credito, soprattutto se in violazione delle co

muni regole di ordine giuridico ed economico, e, più in genera le, al trattamento privilegiato accordato all'impresa da un siste

ma bancario notoriamente condizionato dalle organizzazioni criminali.

Altri elementi dotati di un univoco valore dimostrativo sono

dati dall'aggiudicazione di gare di appalto per effetto dell'inte

ressamento di esponenti di Cosa nostra, dal subentro «di fatto»

nell'esecuzione di appalti formalmente aggiudicati ad altre im

prese, dall'ottenimento di subappalti e forniture in virtù della

forza di intimidazione del vincolo associativo.

Rivestono, evidentemente, un indubbio rilievo probatorio la

posizione di monopolio raggiunta in determinati contesti territo

riali e settori produttivi e la possibilità di imporre il prezzo di

determinati beni, quando trovano la loro ragion d'essere non in

ragioni economiche ma nella forza di intimidazione mafiosa che

consente di regolare il mercato, dettando criteri di comporta mento a tutti gli operatori, e di eliminare la concorrenza.

E lo stesso deve dirsi per tutti gli altri indebiti vantaggi, che

trovano la loro logica ragione giustificativa in dinamiche tipi camente mafiose.

Ulteriori elementi che denotano i legami organici dell'azien

da con il sodalizio criminale possono cogliersi sul piano dell'ef

fettiva titolarità e direzione dell'impresa: in particolare, risulta

fortemente significativo il riscontro di scelte strategiche o di in

dirizzi gestionali che si ricollegano a progetti più generali con

formi alle esigenze dell'organizzazione mafiosa, anche quando ciò è in contrasto con l'economicità aziendale.

Assumono, dunque, una precisa rilevanza tutti gli indici che

evidenziano il finanziamento dell'impresa con un capitale che è

frutto, in tutto o in parte, di attività aventi carattere illecito (per la loro natura o per le modalità con cui sono esercitate); ovvero

la presenza di una capacità competitiva strettamente collegata all'interessato sostegno dell'associazione mafiosa; oppure la

configurabilità di meccanismi di controllo «di fatto» dell'azien

da fondati sulla forza di intimidazione che deriva dal legame del

soggetto con l'associazione mafiosa.

La collusione dell'imprenditore con l'organizzazione crimi

nale è univocamente desumibile anche dalle prestazioni «diffu

se» da lui effettuate in favore dell'illecito sodalizio, le quali

possono assumere il più vario contenuto e non sempre risultano

connesse all'attività imprenditoriale esercitata: può trattarsi, in

particolare, della frequente disponibilità a presentare «offerte di

comodo» idonee ad agevolare l'attuazione del sistema di con

trollo mafioso degli appalti, dello svolgimento di una funzione

di «intermediazione» nel sistema di riscossione del «pizzo», dell'accesso assicurato agli interessi mafiosi presso determinati

circuiti politico-amministrativi ed economico-finanziari, ma an

che dell'offerta di informazioni, dell'ospitalità a latitanti, delle

deposizioni «omertose» volte a celare agli inquirenti gli intrecci

tra mafia ed economia, e di ogni altro contributo apportato dal

singolo alla realizzazione degli scopi dell'associazione.

Quando l'accordo mafioso-imprenditore — che non è per sua

stessa natura necessariamente espresso poiché nasce e si conso

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Page 9: sentenza 28 aprile 2003; Pres. Napoli, Est. Balsamo; imp. Di Pisa e altri

PARTE SECONDA

lida progressivamente nel concreto dispiegarsi del rapporto —

assume, nella sua dinamica articolazione, le caratteristiche che

abbiamo fin qui individuato, saremo senz'altro di fronte ad una

condotta di partecipazione all'associazione criminale, anche

nell'ipotesi assai ricorrente in cui non vi sia stata una formale

affiliazione a Cosa nostra.

È appena il caso di sottolineare, infatti, che nei casi in esame,

proprio in considerazione dell'atipicità della fase genetica del

rapporto che, come abbiamo visto, si viene a creare «di fatto»

sulla base di una condivisa e proficua comunanza di interessi, la

non formale affiliazione sarà la regola piuttosto che l'eccezione.

Come si vedrà, e come a chiare lettere emerge dalle risultanze

dell'istruttoria dibattimentale, le condotte illecite di alcuni degli

imputati denotano con assoluta chiarezza la sussistenza del le

game associativo con la consorteria mafiosa.

Ed è significativo, come pure vedremo, che tale legame di

viene ancora più evidente valorizzando quei dati probatori che

dimostrano, nel caso in esame, fra il gruppo mafioso dominante

e gli imprenditori della zona, la sussistenza di un rapporto sta

bile e continuativo, fondato sulla cooperazione reciproca, reci

procamente vantaggioso e volto al perseguimento di interessi

comuni. (Omissis) 1. - Premessa, cenni sul contesto criminale di riferimento e

sul ruolo, al suo interno, rivestito dal Di Pisa. Anche a Giusep

pe Di Pisa è stato contestato, unitamente a Giovanni Pavone,

Filippo Merendino e Giuseppe Vasta, il reato di partecipazione all'associazione mafiosa Cosa nostra di cui al capo A, per aver

fatto parte della famiglia mafiosa di Misilmeri, operando ed in

teragendo, fino al momento dell'arresto, intervenuto il 3 ottobre

2000, nel settore dell'acquisizione e della gestione di lavori

pubblici in stretta connessione con Angelo Bonanno (quest'ul timo ucciso a seguito di un agguato di chiara matrice mafiosa ad

opera di ignoti la sera del 21 dicembre 1999), entrambi noti

quali elementi di spicco della famiglia citata.

Il Di Pisa è altresì imputato del delitto di estorsione aggravata di cui al capo B, con riferimento ad un intervento effettuato in

relazione ad alcuni lavori per i quali è stato chiesto ed ottenuto

il pagamento di una somma di denaro a titolo di «pizzo» per la

c.d. messa a posto del cantiere dell'impresa di Carmelo Spitale

(il quale, oltre ad essere persona offesa da tale reato, è imputato a propria volta del reato di favoreggiamento per aver ostacolato

le indagini volte all'accertamento dell'ipòtesi delittuosa in esa

me). Prima di esaminare le numerose prove che convergono tutte a

dimostrare la responsabilità del Di Pisa in ordine ai reati conte

statigli, occorre solo brevemente ricordare che le condotte cri

minose da lui stesso poste in essere, e che ci apprestiamo a de

scrivere, si svolgono in un contesto territoriale e personale pe culiare, che contribuisce ad attribuire alle stesse uno spessore criminale assai elevato.

Ed infatti, le condotte in esame si inseriscono nell'ambito

delle aspre e cruente vicende criminose che negli ultimi anni, tra la metà del 1998 e l'autunno del 2000, hanno segnato il territo

rio di Misilmeri e di Belmonte Mezzagno, dove due famiglie mafiose si erano contese fino all'estate del 1995 — anche vio

lentemente — il comando del mandamento.

Le due fazioni in lotta erano rappresentate rispettivamente da

Benedetto Spera e da Pietro Lo Bianco.

L'uccisione del Lo Bianco, avvenuta sul finire dell'agosto del

1995, aveva spianato la strada all'ascesa incontrastata al vertice

del mandamento di Spera Benedetto, al quale il Bonanno era le

gato.

Dopo la decimazione del gruppo capeggiato da Lo Bianco, dalla collaborazione con la giustizia di uno dei suoi uomini più fidati, Cosimo Lo Forte, sono emerse le figure di altri soggetti — fra cui gli imputati di questo processo

— che, in tempi re

centissimi (certamente fino all'ottobre del 2000), hanno soste

nuto e curato gli interessi del «gruppo vincente».

Le condotte criminose di questi soggetti — fra i quali emerge la figura del Di Pisa — che attivamente operavano nell'ambito della famiglia mafiosa di Misilmeri, hanno posto in luce il con

creto e dinamico dipanarsi degli affari della famiglia in parola, i

suoi collegamenti con i latitanti, i rapporti con il mondo im

prenditoriale, in un intreccio di condotte che con rara chiarezza

hanno costituito l'univoca rappresentazione di quel sistema di

controllo del territorio — che si realizza attraverso l'intimida

zione che, a propria volta, innesca il circuito della protezione —

Il Foro Italiano — 2003.

che è forse il vero e proprio «emblema» del c.d. «metodo ma

fioso». La responsabilità del Di Pisa in ordine ai reati a lui ascritti

emerge chiaramente dalle risultanze dibattimentali che disegna no un ricco quadro probatorio che ha consentito di accertare il

suo stretto rapporto criminale con Angelo Bonanno — con il

quale, come vedremo, si consultava in ordine alle estorsioni da

commettere ed in relazione a quelle, per così dire, in corso di

svolgimento — e, per il suo tramite, con altri appartenenti alla

consorteria mafiosa, a propria volta coinvolti nel giro di interes

si legato al circuito estorsivo.

Come si è già detto ampiamente, Bonanno Angelo, titolare

della Si.cer. di Misilmeri (un esercizio di vendita al pubblico di

materiali per l'edilizia), tratto in arresto per il reato di parteci

pazione all'associazione mafiosa Cosa nostra il 24 luglio 1997, è stato indicato da Cosimo Lo Forte (escusso, all'udienza del 17

settembre 2002) come uno dei personaggi di maggiore spessore criminale nell'ambito della famiglia mafiosa di Misilmeri.

Egli, non appena scarcerato, il 29 maggio 1998, ha certa

mente ripreso ad esercitare attivamente il suo ruolo nell'ambito

della «famiglia», non soltanto divenendo un sicuro punto di rife

rimento per tutti gli altri associati, lìberi e detenuti, ma anche

costituendo un'importante sponda operativa per l'allora latitante

Benedetto Spera. Un'ascesa, quella del Bonanno, resa evidentissima anche dal

contenuto delle conversazioni intercettate, ed interrotta solo dal

suo stesso omicidio, commesso la sera del 21 dicembre 1999.

Dagli elementi probatori raccolti emerge inequivocabilmente

l'appartenenza del Bonanno alla famiglia mafiosa di Misilmeri, il ruolo che vi ha svolto, e le attività illecite che ha diretto, in

stretta connessione operativa, fra l'altro come si dirà, proprio con il Di Pisa.

Il contenuto delle comunicazioni telefoniche e delle conver

sazioni tra presenti oggetto di intercettazione in questo proces so, oltretutto, conferma ulteriormente il ruolo di primissimo

piano assunto dal Bonanno, una volta rimesso in libertà, in ogni settore di attività della consorteria criminale: dall'acquisizione di lavori nel campo degli appalti pubblici, alla raccolta del «piz zo», dalla gestione degli stipendi in favore delle famiglie degli altri «uomini d'onore» ristretti o latitanti, fino alla mediazione

dei conflitti sociali, che si concretizza in quella sorta di eserci

zio alternativo dei poteri di giustizia, che da sempre ha caratte

rizzato l'operato dei soggetti più «autorevoli» nell'ambito di

Cosa nostra.

Come meglio si dirà, il Di Pisa, unitamente agli altri imputati di questo processo, faceva parte proprio di quei soggetti più strettamente legati al Bonanno.

L'odierno imputato, agendo nell'apparente esclusivo eserci

zio della propria attività imprenditoriale — nel tentativo di cela

re i suoi affari illeciti e gli interessi criminosi perseguiti — ha

fornito un essenziale contributo all'organizzazione mafiosa, nell'ambito della quale è risultato fattivamente inserito.

Com'è del resto noto, il settore degli appalti pubblici — nel

l'ambito del quale il Di Pisa operava — costituisce una delle

maggiori fonti dalle quali l'organizzazione mafiosa trae motivo

oltre che di arricchimento, di accrescimento del proprio potere:

un'importante e propizia occasione di «avvicinamento» di im

prenditori, magari inizialmente estranei al sodalizio mafioso ma

che — stabilito un nesso di reciprocità in termini di interessi —

vengono progressivamente «assorbiti» da Cosa nostra diventan

do una parte importante dei suoi criminosi ingranaggi.

Proprio per via del progressivo assorbimento nei gangli del

l'associazione, che finisce comunque con il determinare la na

scita di uno stabile e continuativo rapporto — di fatto e di reci

proco interesse — fra questi soggetti e Cosa nostra, le condotte

poste in essere sono indubbiamente inquadrabili nella fattispecie

prevista dall'art. 416 bis c.p., alla luce della giurisprudenza della Corte di cassazione che, ai fini dell'integrazione del reato

di partecipazione all'associazione mafiosa Cosa nostra, accorda

sicura preferenza a quei moduli interpretativi sostanziali che ri

connettono l'esistenza di un vincolo associativo tra il singolo ed il sodalizio mafioso, non soltanto alla formale affiliazione, la

c.d. combinazione, ma soprattutto alla rilevanza delle singole attività delittuose poste in essere, come momenti significativi di

un'appartenenza sostanziale, trattandosi di attività volte al rag giungimento dei fini tipici dell'associazione mafiosa ed al

mantenimento ed allo sfruttamento della forza di intimidazione

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Page 10: sentenza 28 aprile 2003; Pres. Napoli, Est. Balsamo; imp. Di Pisa e altri

GIURISPRUDENZA PENALE

derivante dal vincolo associativo, che costituisce l'elemento ca

ratterizzante della figura di reato in esame.

L'istruzione dibattimentale, oltre che tutto il materiale pro batorio costituito anche da annotazioni di polizia giudiziaria, di

chiarazioni di collaboratori di giustizia e trascrizioni in forma di

perizia di comunicazioni telefoniche e di conversazioni tra pre senti, acquisiti al fascicolo del dibattimento anche attraverso

l'intervenuto consenso delle parti, ha univocamente dimostrato

la colpevolezza del Di Pisa in ordine ai reati a lui ascritti.

Ed invero, come vedremo, anche per la posizione di questo

imputato, rivestono una notevole importanza i risultati delle in

tercettazioni di comunicazioni telefoniche e di conversazioni tra

presenti, i cui interlocutori sono successivamente stati escussi, in parte, nel dibattimento.

Si tratta di conversazioni sviluppatesi tra tutti i principali im

putati di questo processo, fra i quali il Di Pisa, che comunicava

ampiamente, di volta in volta, ai propri interlocutori fatti e cir

costanze in cui era coinvolto personalmente e direttamente, ap

presi da terze persone, delle quali veniva indicata l'identità.

Dall'ampia istruttoria dibattimentale risulta che il Di Pisa ha

attivamente preso parte alle attività illecite poste in essere dalla

consorteria criminale, in particolare operando nell'ambito della

famiglia mafiosa di Misilmeri nel cui contesto ha svolto un

ruolo di mediazione nella raccolta del «pizzo» derivante dalle

estorsioni e nell'imposizione dei subappalti in favore di imprese

legate, e comunque vicine, a Cosa nostra.

Ed inoltre, certa è la responsabilità dell'imputato anche in

relazione all'intermediazione prestata in occasione della richie

sta di denaro avanzata per la c.d. «messa a posto» nei confronti

della soc. Spitale costruzioni s.r.l., aggiudicataria di lavori pub blici realizzati nella zona di Termini Imerese (nota D.i.a. 6 giu

gno 2002, depositata udienza 11 giugno 2002; s.i. Spitale Car

melo 9 ottobre 2002, depositato udienza 14 febbraio 2002). Il Di Pisa, all'epoca dei fatti, era titolare di una ditta indivi

duale, la Cosedil, operante nel settore dell'edilizia (nota D.i.a. 5

luglio 2000, 137). Come accennato in premessa, egli, esercitando la propria atti

vità di imprenditore in un ambito «nevralgico» rispetto ai tipici «centri di interesse» dell'organizzazione criminale, coltivava ed

al tempo stesso si avvaleva abitualmente di una serie di «con

tatti» con alcuni soggetti che potremmo definire «strategici» nell'ambito di Cosa nostra (fra i quali Angelo Bonanno e Sal

vatore Geraci) con i quali intratteneva un rapporto di «reciproco e proficuo interesse».

Il Di Pisa, infatti, era stabilmente inserito nel circuito delle

estorsioni al quale prendeva parte, per così dire, dall'interno.

Egli fungeva infatti da intermediario nella raccolta del «piz zo» derivante dalle estorsioni, ed imponeva alle ditte aggiudi catarie veri e propri subappalti, dietro l'apparenza della stipula di noli a freddo.

L'imputato peraltro, oltre ad imporre l'uso dei propri mezzi, o di quelli di volta in volta «consigliati» dai suoi importanti re

ferenti, con modi arroganti e, peraltro, tipici del fare mafioso,

«garantiva» un clima di perdurante intimidazione anche grazie al fatto di assicurare la propria costante (ed apparentemente le

gittima) presenza in cantiere, per mezzo della stipula di contratti

di lavoro, che venivano formalizzati ed attuati oltre che per sé, anche per i suoi due figli.

I contratti in parola erano collegati chiaramente con quelli di

nolo a freddo in modo da dar vita ad un'operazione economica, sostanzialmente unica e riconducibile alla figura del subappalto.

II Di Pisa — come risulta chiaramente dalle prove raccolte

nel giudizio —

rappresentava solo una parte di un più grosso

ingranaggio e, proprio per tale ragione, come accennavamo,

aveva rapporti costanti con coloro che gestivano il complesso

giro della spartizione degli appalti, essendo, a propria volta, li

gio ai loro «consigli» ed all'esecuzione delle direttive.

Il Di Pisa, dunque, si poneva in una posizione sicuramente in

feriore rispetto ai propri «autorevoli referenti», ma era comun

que un soggetto indispensabile poiché rappresentava un vero e

proprio «prezioso» «braccio operativo» per il raggiungimento

degli scopi di illecito arricchimento del sodalizio. (Omissis)

Il Foro Italiano — 2003.

GIUDICE DI PACE DI FOGGIA; GIUDICE DI PACE DI FOGGIA; sentenza 19 giugno 2003; Giud. Carrillo; imp. Cicolella.

Procedimento penale davanti al giudice di pace — Defini

zioni alternative — Estinzione del reato conseguente a

condotte riparatone — Termine — Udienza di compari zione (D.leg. 28 agosto 2000 n. 274, disposizioni sulla com

petenza penale del giudice di pace, a norma dell'art. 14 1. 24

novembre 1999 n. 468, art. 35). Procedimento penale davanti al giudice di pace

— Defini

zioni alternative — Estinzione del reato conseguente a

condotte riparatone — Risarcimento del danno ad opera di soggetto diverso dall'imputato

— Esclusione (D.leg. 28

agosto 2000 n. 274, art. 35).

Nei procedimenti davanti al giudice di pace l'estinzione del

reato conseguente a condotte riparatone deve essere dedotta

dall'imputato non oltre l'udienza di comparizione, salva la

prova di non aver potuto provvedere prima. (1) Nei reati di competenza del giudice di pace la particolare causa

di estinzione, data dalle condotte riparatone di cui all'art. 35

d.leg. 274/00, non può operare in presenza di un mero risar

cimento del danno effettuato da un soggetto (nella specie, l'assicuratore) diverso dall'imputato. (2)

(1-2) La pronuncia fa applicazione piena della disciplina processuale posta dall'art. 35, 1° comma, d.leg. 274/00, che individua nell'udienza di comparizione davanti al giudice di pace il termine per la deduzione, da parte dell'imputato, dell'avvenuta riparazione del danno conse

guente al reato, ai fini della speciale causa di estinzione introdotta —

assoluta novità nell'ordinamento giuridico — proprio dalla norma ri chiamata, in attuazione della delega contenuta nell'art. 17, lett. h), 1. 468/99. Nessun dubbio sì può porre circa l'inderogabilità di tale termi

ne, entro il quale l'imputato deve almeno chiedere di porre in essere le condotte riparatorie, se dimostri di non averlo potuto fare in preceden za. A cospetto di tale istanza il giudice potrà disporre la sospensione del processo per non più di tre mesi; facoltà evidentemente rimessa alla discrezionalità del giudice, come ben si desume dal tenore della norma. In tal senso, Trib. Grosseto 14 febbraio 2002, Foro it.. Rep. 2002, voce Procedimento penale davanti al giudice di pace, n. 44, e Giudice di pa ce, 2002, 291, con nota di Albamonte. Si tratta dell'unico precedente noto che, sebbene riferito alla disciplina transitoria, pone senz'altro un

principio di ordine generale, arricchito dall'affermazione secondo cui il termine trimestrale non potrebbe comunque essere concesso all'impu tato ove già il processo abbia conosciuto precedenti differimenti intesi a consentire la conciliazione delle parti private. Questione che ha una sua

logica nel processo davanti al giudice ordinario (chiamato a decidere su reati di competenza del giudice di pace, ai sensi dell'art. 63 d.leg. 274/00), ma che non avrebbe ragione di porsi nel giudizio davanti al

giudice di pace, ove la disciplina della conciliazione — riguardante i soli reati perseguibili a querela — è sistematicamente racchiusa in un

singolo, stringente segmento temporale, che l'art. 29, 4° comma, d.leg. 274/00 pone ugualmente nell'udienza di comparizione, dopo la verifica di costituzione e prima dell'apertura del dibattimento. Unica deroga a tale schema è data dalla possibilità per il giudice di rinviare l'udienza

per un periodo non superiore a due mesi, al fine di favorire la concilia

zione, anche attraverso l'opera di strutture di mediazione. Nulla quaestio in dottrina circa la natura del termine posto dall'art.

35, 1° comma, d.leg. 274/00: Riviezzo, Il giudizio, in AA.VV., La com

petenza penale del giudice di pace, Milano, 2000, 163; Quattrocolo, in Giudice di pace e processo penale. Commento al d.leg. 28 agosto 2000 n. 274 e alle successive modifiche diretto da Chiavario e Marzaduri.

Torino, 2002, sub art. 35, 344; Guerra, L'estinzione de! reato conse

guente a condotte riparatorie, in II giudice di pace. Un nuovo modello di

giustizia penale a cura di Scalfati, Padova, 2001. 528 ss.; Bartoli, E

stinzione del reato per condotte riparatorie, in II giudice di pace nella

giurisdizione penale a cura di Giostra e Illuminati, Torino, 2001, 392 s. Meno agevole è l'individuazione del termine iniziale, che la norma

non indica espressamente. Nulla vieta, quindi, di ipotizzare che la deli bazione delle condotte riparatorie possa intervenire anche prima dell'u dienza di comparizione, ma comunque non prima della fase degli atti

preliminari al dibattimento, dovendosi con sicurezza escludere che l'i stituto possa operare durante la fase delle indagini, com'è evidente dalle molteplici evocazioni, contenute nella norma, della fase proces suale vera e propria, nel cui solo ambito sarebbe possibile il contrad dittorio che il giudice deve suscitare prima di pronunciare la sentenza di estinzione; in tal senso, Celeste-Iacoboni, Il giudice di pace. Le cau se civili e i processi penali, in corso di pubblicazione, par. 7.3.

Ragioni solo parzialmente analoghe ispirano, in un'applicazione della disciplina transitoria, Cass. 23 maggio 2002, Rufolo, Foro it..

Rep. 2002, voce cit., n. 46. che ritiene incompatibili con il giudizio di

cassazione le definizioni alternative di cui agli art. 34 e 35 d.leg. 274/00, in esso facendo difetto il necessario presupposto dato dal per sonale intervento degli interessati.

Quanto ai poteri del giudice di pace, oltre a quello di sospensione del

processo — che opera peraltro nel solo caso di riconosciuta impossibi

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