sentenza 28 aprile 2003; Pres. Napoli, Est. Balsamo; imp. Di Pisa e altriSource: Il Foro Italiano, Vol. 126, No. 10 (OTTOBRE 2003), pp. 557/558-573/574Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23198739 .
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GIURISPRUDENZA PENALE
rebbe in contrasto con il 2° comma del medesimo articolo, lad dove stabilisce dapprima il principio secondo cui il contradditto rio tra le parti è la regola generale a fondamento del processo e
poi stabilisce che le parti debbono essere in condizioni di parità. A tal riguardo la sentenza di codesta corte n. 129 del 1993 già
affermava che il nostro sistema processuale è «imperniato sulla
formazione della prova in dibattimento».
8. - A ciò si aggiunge che la convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo stabilisce che il processo debba essere ce
lebrato «pubblicamente». La pubblicità del processo è anche un carattere essenziale di
uno Stato democratico ed è garanzia di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. L'applicazione della pena avviene in came ra di consiglio.
Se, dunque, per un numero ridotto di reati e, in particolare per
quelli di minore gravità può avere una sua logica il procedi mento previsto dall'art. 444 c.p.p., che non prevede la pubbli cità dell'udienza e un accertamento pieno di responsabilità, tra
sformare quest'ultimo nel procedimento di più vasta applicazio ne, riducendo il rito ordinario di cognizione piena ad ipotesi mi
noritaria e relativa solo a reati di massima gravità e limitando
fortemente i casi in cui il processo è pubblico sembra contrasta
re con il principio di ragionevolezza e con il principio che il
processo è condotto in contraddittorio e con formazione della
prova in dibattimento mediante un «giusto processo» e con pari
dignità di tutte le parti (art. 3 e 111 Cost.). Reati con pena edittale molto elevata, come il tentato omici
dio, la rapina aggravata o la violenza sessuale aggravata, con il
giudizio di comparazione con le attenuanti e la riduzione previ sta per il rito prescelto possono essere definiti con una sentenza
che non è di condanna, ma solo equiparata a questa, con estro
missione della parte civile e ponendo la parte offesa ai margini del processo che pur la vede vittima.
9. - Le eccezioni oggi proposte sono rilevanti per le seguenti
ragioni:
A) E stata richiesta dal difensore, munito di procura speciale, di uno solo degli imputati la sospensione del processo ai sensi
dell'art. 5, 2° comma, 1. 12 giugno 2003 n. 134; i difensori di
altri imputati, pur privi di procura speciale, hanno chiesto
ugualmente la sospensione, sicché questo giudice non avrebbe
alcun potere discrezionale in ordine alla richiesta.
B) Il dibattimento è stato chiuso e per l'udienza era prevista solo la discussione delle parti, dopo un'istruttoria dibattimentale
molto impegnativa.
C) Vi è parte civile già costituita.
D) La norma che prevede la sospensione obbligatoria è stret
tamente correlata alla facoltà di richiedere la pena concordata
disciplinata dalla norma transitoria. Sicché appare attualmente
rilevante anche l'eccezione che concerne l'estensione ai proces si in corso della facoltà di richiedere l'applicazione della pena. Ne consegue che, ove si ritenesse l'irrazionalità dell'impianto normativo almeno con riguardo alla disposizione transitoria di
cui all'art. 5, 1° comma, resterebbe addirittura assorbita la que stione relativa al termine di sospensione. L'eccezione non è
manifestamente infondata per le ragioni sopra esposte.
Il Foro Italiano — 2003.
TRIBUNALE DI PALERMO; TRIBUNALE DI PALERMO; sentenza 28 aprile 2003; Pres. Napoli, Est. Balsamo; imp. Di Pisa e altri.
Ordine pubblico (reati contro 1') — Associazione di tipo mafioso — Condotta di partecipazione — Fattispecie rela tiva ad attività imprenditoriale (Cod. pen., art. 416 bis).
Risponde del reato di partecipazione ad associazione di tipo
mafioso chi, agendo nell'apparente esclusivo esercizio della
propria attività imprenditoriale — nei tentativo di celare i
propri affari e gli interessi criminosi perseguiti —, fornisce un essenziale contributo (mediante un ruolo di mediazione nella raccolta del «pizzo» e nell'imposizione di subappalti in
favore di imprese vicine a Cosa nostra) all'organizzazione
mafiosa, nell'ambito della quale risulta fattivamente inserito
a prescindere da vincoli di formale affiliazione. (1)
(Omissis). — 1. - Le peculiarità dell'impresa «mafiosa». L'attività imprenditoriale esercitata dagli imputati e l'accusa lo
ro mossa in ordine al reato di partecipazione all'associazione
mafiosa Cosa nostra, impongono in via preliminare una breve
analisi in ordine all'evoluzione nel tempo ed alla qualificazione
giuridica delle mutevoli manifestazioni empiriche della c.d.
«imprenditoria mafiosa» e delle, altrettanto variegate, forme di
contiguità imprenditoriale alle organizzazioni mafiose.
Ed infatti, guardando la prassi giudiziaria ci si accorge che
oggi è sotto molti profili incerta la linea di confine che separa vittima, concorrente e vero e proprio partecipe dell'associazione
criminale, anche per via degli innumerevoli modi in cui il rap
porto mafia-impresa si aggroviglia in un nodo stretto ed insidio
so che richiede all'interprete un duplice impegno. Innanzitutto, in questi casi, assai spesso è necessario riuscire
a guardare oltre quel velo opaco di apparente legalità che rico
pre le condotte di soggetti che alla luce del sole esercitano sem
plicemente un'attività garantita e promossa nel nostro ordina
mento, qual è quella economica, ed è anche per tale ragione che
si tratta di un fenomeno difficile da individuare e che tende per sua stessa natura a rimanere sommerso.
Una volta avuta contezza, nel caso concreto, dell'effettiva
formazione di quel «nodo insidioso» fra l'esercizio dell'attività
imprenditoriale e la criminalità organizzata, di cui abbiamo
detto, il compito del giudice sarà quello, non meno agevole, di
scioglierlo, qualificando la condotta posta in essere dai soggetti coinvolti alla luce dei dati normativi vigenti e, soprattutto, come
meglio si dirà, valorizzando nel corpo della motivazione della
sentenza ogni singolo aspetto concreto di essa che sìa significa tivo e sintomatico di un'effettiva illiceità.
Le risultanze dibattimentali di questo processo, come vedre
(1) La sentenza in epigrafe — della quale sono riportate soltanto al cune parti dell'ampia motivazione — si segnala perché rientra in un filone giurisprudenziale incline a valorizzare, nel campo della crimina lità organizzata di stampo mafioso, gli apporti del sapere sociologico e
criminologico: sul problema dei limiti di utilizzabilità in sede giudizia ria delle analisi socio-criminologiche, proprio con riferimento alle for me di «contiguità» da parte degli imprenditori, cfr. Cass. 5 gennaio 1999, Cabib, cit. in motivazione. Foro it., 1999, II, 631, con nota di Vi
sconti, ai cui insegnamenti i giudici del tribunale dichiarano peraltro di volersi nel caso di specie strettamente attenere. In argomento, v. altresì
Fiandaca, Ermeneutica e applicazione giudiziale del diritto penale, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2001, 359 ss., e, più diffusamente, Visconti, Contiguità alla mafia e responsabilità penale (monografia in corso di
pubblicazione presso la casa editrice Giappichelli). Quanto alle fonti extrapenalistiche utilizzate per approfondire nel
l'ottica delle scienze sociali il rapporto mafia-impresa, la motivazione della sentenza sembra soprattutto riecheggiare i contributi di Fantò,
L'impresa a partecipazione mafiosa, Bari, 1999; Centorrino-La Spina
Signorino, Il nodo gordiano. Criminalità mafiosa e sviluppo nel Mez
zogiorno, Roma-Bari, 1999; Sciarrone, Mafie vecchie, mafie nuove. Radicamento ed espansione, Roma, 1998.
Circa l'individuazione dei presupposti della condotta di partecipa zione, la tesi che ne emancipa la rilevanza penale dai criteri di formale affiliazione all'organizzazione criminale corrisponde a un orientamento
applicativo che è andato sempre più consolidandosi: cfr., tra le tante, Cass. 25 ottobre 1993, Santoriello, Foro it.. Rep. 1994, voce Ordine
pubblico (reati), n. 11; 17 gennaio 1997, Accardo, id., Rep. 1997, voce
cit., n. 23; 10 dicembre 2001. Di Maggio, id.. Rep. 2002, voce cit., n. 17. e, per esteso, Riv. pen., 2002, 469. Nella più recente giurisprudenza di merito, cfr. Trib. Palermo 17 gennaio 2002, Foro it., 2003, II, 100. con nota di richiami.
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PARTE SECONDA
mo, sono l'emblema di questo complicato intreccio, poiché hanno portato alla luce dei dati assai significativi rimasti sino a
questo momento sommersi, e che non sono altro che la rappre sentazione più evidente di quel sistema di controllo del territorio
che è, al tempo stesso, ragione e condizione essenziale di esi
stenza della stessa organizzazione mafiosa.
Si tratta, in particolare, del reticolo di affari gestito dalla fa
miglia mafiosa di Misilmeri, del suo intimo connubio con il
mondo imprenditoriale, dei collegamenti fra tali soggetti ed i
latitanti, nonché della redditizia attività di raccolta del «pizzo» e
della sua capillare e meticolosa redistribuzione finalizzata al so
stentamento delle famiglie dei detenuti.
Ciò che sembra ancora più significativo è il fatto che prota
gonisti delle condotte in parola siano stati dei soggetti —
quali
gli imputati di questo processo — che, operando in modo riser
vato e tendenzialmente senza particolari clamori, hanno tuttavia
fornito un essenziale contributo all'organizzazione mafiosa, in
vista del raggiungimento dei suoi fini di sempre: accumulo di
illecite ricchezze e di potere sul territorio.
Per dare rappresentazione a questa realtà, di recente è invalso
l'uso di un particolare termine, «mafia invisibile», si tratta di un
neologismo che ha senz'altro una forte carica di suggestione, ma che non deve trarre in inganno, perché, se negli ultimi anni è
certamente cresciuto l'alone di segretezza che investe gli inte
ressi dell'organizzazione mafiosa, gli effetti che tale modus
operandi produce sono visibilissimi in quanto incidono forte
mente su tutte le principali articolazioni della vita economica
dell'Isola.
2. - Analisi socio-criminologiche e storico-politiche: riflessi sulla valutazione del materiale probatorio. Non rappresenta di
certo una novità il fatto che il settore degli appalti pubblici co
stituisca una delle maggiori fonti dalle quali l'organizzazione mafiosa trae motivo, non solo di arricchimento, ma anche di ac
crescimento e consolidamento del proprio potere.
Operando in questo settore, l'organizzazione tende a stabilire
un vero e proprio «biunivoco rapporto di reciprocità» che ga rantisce agli imprenditori l'attribuzione di vantaggi altrimenti
non conseguibili, ed all'organizzazione mafiosa la capacità di
infiltrazione e di condizionamento di sempre più vasti settori
dell'economia, consentendole via via di attrarre organicamente tra le proprie fila soggetti che fino a quel momento ne erano ri
masti estranei.
Com'è noto, la zona grigia in cui si appanna la differenza fra
imprenditore colluso con le associazioni criminali ed imprendi tore estorto, o comunque vittima di esse, è stata oggetto privile
giato delle più moderne analisi socio-criminologiche e storico
politiche i cui risultati non di rado sono stati trasfusi nell'ambito
delle pronunce giurisdizionali su questo tema.
La Corte di cassazione ha tuttavia lanciato un significativo e
misurato monito a servirsi di tali importanti fonti di analisi ed
approfondimento con prudenza e, soprattutto, ponendo sempre in primo piano la specificità del caso da giudicare.
Sulla base delle indicazioni della giurisprudenza di legittimità (Cass. 5 gennaio 1999, Cabib, Foro it., 1999, II, 631): «nella
valutazione dei rapporti tra mafia e imprenditori, l'indagine del
giudice non può fondarsi su aprioristici ed astratti stereotipi so
cio-criminali, la cui applicazione come massime di esperienza conduce a generalizzate criminalizzazioni, o, viceversa, al rico
noscimento di vaste aree di impunità, entrambe altrettanto in
giustificate perché svincolate da un effettivo e serio vaglio delle
variabili contingenti peculiarità della singola fattispecie; piutto sto, il giudice, al fine di individuare la linea di confine tra lecito
ed illecito, può tener conto, con la dovuta cautela, anche dei ri
sultati di indagini storico-sociologiche come utili strumenti di
interpretazione dei risultati probatori, dopo averne vagliato, ca
so per caso, l'effettiva idoneità ad essere assunti ad attendibili massime dì esperienza e, principalmente, dopo avere ricostruito, sulla base dei mezzi di prova a sua disposizione, gli specifici e concreti fatti che formano l'oggetto del processo».
La Suprema corte, muovendo dalla premessa secondo cui il
dibattito sulla rilevanza in sede giudiziaria delle analisi storico
sociologiche trova fondamento nella stessa genesi del reato di cui all'art. 416 bis c.p., prende comunque le distanze da quella diversa corrente di pensiero alla stregua della quale andrebbe
comunque evitato l'uso del sapere socio-criminologico, nelle
tecniche di argomentazione probatoria, anche per via dell'ele
vata variabilità che lo connota.
La Cassazione, nella pronuncia in esame, ha optato per una
Il Foro Italiano — 2003.
strada mediana che affida al giudice il delicatissimo compito —
attraverso l'applicazione del principio del prudente apprezza mento — di vagliare caso per caso l'effettiva idoneità dei dati
storico-criminologici ad essere assunti ad attendibili massime di
esperienza, solo dopo aver ricostruito sulla base dei mezzi di
prova a sua disposizione, gli specifici e concreti fatti che forma
no l'oggetto del processo. Effettivamente, l'esperienza processuale dimostra che, in
molti casi, proprio nelle pieghe di quelli che potrebbero — ad
un osservatore distratto — sembrare comportamenti neutri, o
magari semplicemente equivoci, si annidano gli aspetti di un'in
sidiosa, quanto certa, illiceità penale. In questa ricostruzione non facile alla quale il giudice è chia
mato, la lettura delle più moderne, attente ed approfondite anali
si storico-sociologiche e socio-criminologiche può sicuramente
rivelarsi un importante strumento di riflessione piuttosto che un
surrogato rispetto ad una rigorosa qualificazione giuridica delle
concrete condotte.
Solo per esemplificare, e senza alcuna pretesa di essere esau
stivi, si possono cogliere almeno, quelle che potremmo definire, tre diverse prospettive, o meglio, tre differenti punti di vista a
partire dai quali è stato studiato l'aggrovigliato rapporto che si
viene a stabilire fra l'associazione mafiosa ed il mondo impren ditoriale, ovvero: il punto di vista dell'impresa, quello della
merce o del prodotto venduto, quello dell'imprenditore. 2.1. - Il punto di vista «dell'impresa». In base al primo punto
di vista, fra i tre che abbiamo individuato, il fenomeno viene
letto ed interpretato in una chiave che potremmo definire ogget tiva: l'attenzione viene concentrata sull'attività di impresa e sul
modo in cui questa si struttura e ristruttura di volta in volta, ve
nendo in contatto in vario modo con l'organizzazione mafiosa.
Questa prospettiva di analisi consente di cogliere le modalità
di sviluppo dell'impresa criminale ed inoltre le diverse tipologie di rapporto che possono instaurarsi tra tale tipo di impresa e
quella legale. Viene così individuato un percorso evolutivo dell'impresa
criminale che si snoda attraverso varie fasi: si muove dall'im
presa mafiosa (caratterizzata dalla «mafiosità» del suo titolare
formale, dei metodi utilizzati e della formazione del capitale), si
passa ad una seconda tipologia di impresa, quella «di proprietà del mafioso», il cui titolare è semplicemente un prestanome (mentre il capitale resta di origine mafiosa e l'imprenditore ef
fettivo è mafioso), per poi giungere ad una forma più complessa ed ormai capillarmente diffusa, quella della c.d. «impresa a
partecipazione mafiosa» che, anche quando è nata come impresa
legittima, entra progressivamente in rapporti di cointeressenza e
di compartecipazione con l'organizzazione criminale.
Sul piano concettuale, si osserva che ciò che definisce il ca
rattere mafioso di un'impresa può essere: o la natura del proces so di accumulazione che ha determinato la sua formazione e che
continua a sorreggerla, ovvero che determina l'immissione di
capitale nell'impresa da una certa fase in poi; oppure il carattere della forza specifica che costituisce il suo retroterra e il suo
principale strumento di affermazione sul mercato.
In altri termini, l'impresa mafiosa — la quale ha lo scopo di
produrre o scambiare beni leciti, ed opera all'interno dei mercati
ufficiali con modalità che possono essere formalmente legali
oppure apertamente illegali — è contraddistinta da due elementi
caratterizzanti, che possono essere presenti alternativamente o
cumulativamente.
Il primo consiste nel trarre origine o essere alimentata e fi
nanziata da un capitale che è frutto, in tutto o in parte, di attività
di natura criminale; il secondo consiste nel trovare la propria
capacità competitiva essenzialmente nella forza di intimidazione
dell'associazione mafiosa alla quale appartiene il reale proprie tario dell'unità economica (in quanto la forza di intimidazione
consente di regolare il mercato, dettando criteri di comporta mento a tutti gli operatori, e di eliminare la concorrenza).
L'impresa mafiosa si differenzia dall'impresa legale anche
per i meccanismi di controllo, che possono fondarsi su una si
tuazione di fatto acquisita dall'effettivo titolare in base alla for za di intimidazione che deriva dal suo legame con l'associazio ne mafiosa.
L'impresa in parola ha trovato la sua origine storica nella
tendenza degli esponenti del sodalizio criminale a costituire tale
tipo di attività, principalmente nel campo dell'edilizia e dei la vori pubblici, con particolare frequenza ed intensità soprattutto dalla seconda metà degli anni '60 in poi e, segnatamente, nei
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GIURISPRUDENZA PENALE
periodi storici in cui la rendita urbana assumeva un ruolo prima rio rispetto alla rendita fondiaria.
Si è trattato del passaggio dalla fase tradizionale di immobi lizzazione della ricchezza a quella più moderna di accumulazio ne del capitale: mentre fino all'inizio degli anni '60 numerosi aderenti a Cosa nostra erano impegnati essenzialmente nell'ac
quisizione della rendita fondiaria nelle campagne con un corri
spondente depauperamento dei vecchi proprietari terrieri, suc
cessivamente, la maggior parte dei proventi di condotte crimi nali è stata impiegata in attività produttive al fine di un'ulteriore
valorizzazione.
Le imprese mafiose originarie sono caratterizzate da una forte
individualizzazione attorno alla figura dominante del fondatore, il quale le gestisce direttamente pur continuando ad espletare le
altre attività delittuose della «famiglia». Le imprese in questio ne, anche quando hanno una diversa denominazione formale, sono solitamente conosciute come appartenenti all'esponente mafioso che le gestisce.
Nella struttura di queste ditte è, non di rado, immediatamente
visibile la presenza di componenti del nucleo familiare dell'as
sociato.
Lo strumento essenziale dell'agire di queste unità economi
che è stato individuato proprio nella violenza, che consente loro
di affermarsi attraverso lo scoraggiamento della concorrenza e
l'estromissione dal mercato delle aziende non disposte a venire
a patti con il sodalizio criminale. La forza di intimidazione del
vincolo associativo rappresenta sia la condizione che permette di acquisire una rilevante posizione di mercato, sia lo strumento
che assicura la regolazione dei rapporti con le imprese concor
renti.
Già nelle sue prime forme, l'impresa mafiosa risponde ad una
pluralità di esigenze, in quanto serve ad assicurare il riciclaggio dei profitti illeciti, la copertura delle attività criminali, un più efficace controllo sociale attraverso un forte radicamento nel
territorio, e la legittimazione del potere economico e politico
dell'organizzazione criminale.
Anche in seguito, i settori dell'edilizia e dei lavori pubblici hanno mantenuto un ruolo strategico nell'ambito delle attività
economiche riconducibili alle associazioni mafiose, perché han
no svolto un ruolo trainante nell'economia e nella società meri
dionale, consentendo un'altissima valorizzazione del capitale e
l'instaurazione di un rapporto particolarmente stretto con il
complesso delle attività economiche delle zone dove è radicata
Cosa nostra.
Tra la fine degli anni '70 ed i primi anni '80 si è affermata
negli ambienti mafiosi la tendenza a diversificare gli investi
menti, impiegando i profitti derivanti dalle originarie aziende
non tanto per accrescerne le strutture ed il volume di affari,
quanto per costituire nuove imprese operanti nello stesso campo o in diversi settori di attività. Sono state formate, con particolare
frequenza, più società, spesso nello stesso settore produttivo o
commerciale. Le risorse a disposizione dei singoli esponenti mafiosi non sono state più concentrate in un solo strumento
aziendale.
In questo processo di ristrutturazione economica, si è tra
sformato anche l'assetto giuridico-formale della proprietà delle
imprese e dei patrimoni immobiliari e finanziari. Si è diffuso
quindi il modello della c.d. impresa di proprietà del mafioso.
Si è realizzata una situazione in cui gli esponenti mafiosi di
spicco tendono a non mantenere più nelle loro mani la titolarità
formale ed i compiti diretti di direzione e gestione dell'impresa. Essi, invece, si limitano a conservare la proprietà indiretta del
l'impresa e ad esercitare in modo mediato la loro funzione di di
rezione.
In questo modo si è costruita una schermatura tra l'impresa, da un lato, e l'origine illegale dei capitali e l'autore dell'accu
mulazione illecita, dall'altro.
Mentre l'impresa mafiosa tradizionale si fonda sulla spendita del nome del mafioso, l'impresa di proprietà del mafioso cerca
di operare senza manifestare — se non quando ciò diviene indi
spensabile — il nome del soggetto al quale essa appartiene.
Questa trasformazione risponde alla necessità di Cosa nostra
di tutelarsi rispetto alla normativa antimafia, evitando i provve dimenti di sequestro e di confisca attraverso l'occultamento del
collegamento dell'impresa con l'esponente mafioso che ne è
l'effettivo titolare.
Vengono utilizzati come prestanome, per la gestione di atti
vità economiche apparentemente «pulite», sia altri «uomini
Il Foro Italiano — 2003 — Parte II-\1.
d'onore» la cui appartenenza a Cosa nostra non è nota alle forze
dell'ordine, sia soggetti che non sono formalmente affiliati al
l'organizzazione criminale, pur operando al suo servizio.
Può trattarsi anche di prestanome aventi precisi requisiti pro fessionali: questi soggetti non si limitano a svolgere un'azione
di copertura formale delle proprietà e dell'impresa del mafioso, ma vengono incaricati della gestione dell'impresa e dispongono di poteri relativamente autonomi nell'ambito dei compiti loro
assegnati. Tutti questi accorgimenti rispondono ad esigenze di progres
siva mimetizzazione delle imprese mafiose.
Alle stesse finalità sono funzionali le frequenti trasformazioni
degli assetti societari ed amministrativi: spesso si realizza una
continua evoluzione delle imprese, con mutamenti delle persone dei soci, degli amministratori, dell'oggetto, della ragione socia
le, del tipo di società, allo scopo di impedire l'identificazione
dei soggetti che si celano dietro di esse.
I continui processi di ristrutturazione delle imprese ricondu
cibili alla mafia, comunque, si riferiscono quasi sempre all'as
setto societario o all'ambito operativo, e non alla struttura
aziendale e produttiva. Secondo la ricostruzione storica del fenomeno che stiamo
velocemente ripercorrendo, in prossimità dell'approvazione della legge Rognoni-La Torre (1. 13 settembre 1982 n. 646), che
ha reso meno agevole l'utilizzazione di prestanome, si è affer
mato un nuovo modello: quello della c.d. impresa a partecipa zione mafiosa.
Si tratta di imprese spesso sorte nel rispetto della legalità, ma
che hanno (sin dall'inizio o in un momento successivo) instau
rato rapporti di cointeressenza e compartecipazione con deter
minati esponenti mafiosi, i cui capitali sono stati investiti in
modo organico e stabile nelle aziende. Si verifica così una com
presenza di interessi, soci, e capitali illegali, con interessi, soci, e capitali legali.
La formazione di imprese a partecipazione mafiosa costitui
sce il frutto degli intensi e stabili rapporti creati dall'organizza zione mafiosa con i più vari settori dell'economia legale: Cosa
nostra ha cercato di fondare questo rapporto non solo su atti
violenti, ma anche su una reciprocità di interessi e su una com
penetrazione di capitali e competenze.
L'impresa a partecipazione mafiosa permette alla struttura
criminale di rendere ancora più occulti i canali di riciclaggio e
di reimpiego dei capitali illeciti, di diversificare ulteriormente
gli investimenti, di disporre di strutture imprenditoriali che, per la loro rispettabilità e la loro esperienza, sono capaci di operare come normali agenti di mercato; ma anche di compenetrare l'e
conomia mafiosa con quella legale, rendendole difficilmente di
stinguibili tra loro, e di realizzare una regolazione complessiva del mercato locale e un più solido controllo del territorio.
L'impresa a partecipazione mafiosa si differenzia dall'impre sa di proprietà del mafioso perché l'imprenditore con cui
l'«uomo d'onore» si associa non è un prestanome, ma rappre senta anche i propri interessi. L'impresa a partecipazione mafio
sa, comunque, pur non essendo espressione esclusiva dell'am
biente criminale, è anche un'impresa di servizio degli interessi
dell'esponente mafioso ed un'impresa di riferimento per inve stire in modo «pulito» i suoi capitali.
II mafioso può associarsi ad un altro imprenditore attraverso
l'interposizione di un prestanome oppure in modo diretto ma
non formalizzato, costituendo una società di fatto. In entrambi i
casi la presenza degli interessi mafiosi resta celata a quasi tutti i
terzi. La relazione societaria si fonda sulla parola, senza alcun
documento che attesti il rapporto di compartecipazione del ma
fioso all'impresa. In genere l'imprenditore apparentemente «pulito» conserva,
oltre alla titolarità, anche la gestione dell'azienda, pur impe
gnandosi ad operare al servizio degli interessi dell'esponente mafioso. La gestione economica e tecnica è esercitata dunque dal primo, mentre le grandi scelte strategiche sono compiute di
comune accordo con il mafioso o direttamente da quest'ultimo. In ogni caso il mafioso assume o condivide il controllo del
l'impresa indipendentemente dalla consistenza della sua quota societaria. Conseguentemente è l'impresa nel suo complesso che finisce per entrare nell'orbita del sistema mafioso e per es
sere condizionata dalla sua forza di intimidazione e dai suoi
progetti, anche quando continua a presentare un capitale misto,
legale e illegale. L'«uomo d'onore» diviene il dominus dell'impresa, ne assu
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PARTE SECONDA
me la direzione strategica ed esercita un controllo sugli investi
menti, indirizzandoli in modo conforme alle esigenze dell'orga nizzazione mafiosa, anche quando ciò è in contrasto con l'eco
nomicità aziendale.
L'impresa a partecipazione mafiosa, oltre ad essere diretta —
almeno per quanto riguarda le scelte strategiche di fondo — da
un soggetto affiliato a Cosa nostra, viene a dipendere da un
centro finanziario esterno, che però non lega permanentemente ad essa i suoi capitali: questi ultimi possono in qualsiasi mo
mento essere sganciati dall'impresa a partecipazione mafiosa,
spesso provocandone la rovina economica.
Questa tipologia di impresa si struttura prevalentemente nella
forma della società di capitali, che permette una migliore mi
metizzazione delle disponibilità finanziarie e dei soci apparte nenti all'associazione criminale.
Questi tre modelli fondamentali di partecipazione di «uomini
d'onore» alla titolarità di imprese, si ricollegano a momenti di
versi di un'unica strategìa di controllo dell'economia e del ter
ritorio da parte di Cosa nostra, ma sono non di rado compresenti nel medesimo contesto sociale, e danno luogo ad ulteriori tipo
logie composite, come quella della partecipazione occulta di un
esponente di primo piano dell'illecito sodalizio ad un'impresa in apparenza gestita esclusivamente da un soggetto che risulta
dotato di adeguati requisiti tecnici e privo di palesi collusioni
con la criminalità organizzata, ma, in realtà, legato a Cosa no
stra da un rapporto di organico inserimento o di stabile collabo
razione.
2.2. - II punto di vista «della merce o del prodotto venduto».
Oltre che dal punto di vista dell'impresa, come accennavamo, il
rapporto fra l'organizzazione criminale ed il mondo imprendito riale è stato analizzato nell'ottica della merce venduta e scam
biata dall'associazione stessa: ovvero, la c.d. «protezione pri vata».
Secondo tale prospettiva, in generale, la mafia è una vera e
propria industria che produce, promuove e vende protezione
privata. Si è osservato, quindi, che la protezione è un bene ambiguo
con caratteristiche molto particolari e che tocca due corde con
trastanti: una rassicurante, l'altra minacciosa. La prima evoca
l'immagine di un riparo sicuro offerto da un amico potente, la
seconda evoca l'imposizione di un tributo, un «prezzo per la
tranquillità» imposto per evitare un più grave danno.
La protezione agisce come una sorta di lubrificante negli scambi e nelle vicissitudini economiche, e per tale ragione il
mercato principale per i «servizi» della mafia è da ricercare nel
campo delle transazioni instabili, in cui la fiducia è fragile o as
sente.
Ed invero, il fenomeno in parola ha radici assai risalenti in
Sicilia poiché rimanda alla metà dell'ottocento, ovvero alla c.d.
attività di «protezione» dei campi e dei prodotti della terra, esercitata appunto dai «campieri», che erano le guardie armate
dei latifondi. La mafia dei primordi imponeva i «campieri» e così si arro
gava il potere di tutelare i campi dalla violenza, proprio attra
verso l'uso della violenza stessa, o della semplice minaccia, con ciò assicurandosi il controllo sulle più importanti risorse eco nomiche.
Se il proprietario non accettava la proposta, in genere pre sentata sotto forma di «consiglio», i poteri criminali passavano all'intimidazione aperta che poteva consistere in qualunque ge sto che potesse suscitare un effettivo timore e che, comunque, fosse significativo del potere esercitato dall'associazione sul
territorio controllato.
Sulla base della ricostruzione in esame, è proprio quello che è
stato definito il «mercato della protezione» a disegnare quella linea di continuità che conduce dal «controllo» del latifondo —
e di un'economia in cui le principali risorse erano grano, be
stiame e manodopera a basso costo — fino ai nostri giorni, ove diviene fondamentale l'esercizio degli stessi poteri criminali —
semplicemente rivisitati alla luce del mutare dei tempi e delle
circostanze — sull'economia imprenditoriale quale attuale pri maria fonte di ricchezza.
Il mafioso, infatti, «vende» il «bene» della protezione, per il
quale viene pagato un prezzo, ed impone tale servizio ad un'u nica impresa o ad una pluralità di imprese, poiché basta assai
spesso la sua «reputazione» a creare l'effetto intimidatorio.
Si è detto che quella creata dalla protezione è una sorta di ve ra e propria «polizia privata», basata sull'ambiguità del rapporto che si viene a creare fra protetto e protettore.
Il Foro Italiano — 2003.
Il «consiglio» della famiglia mafiosa consiste nell'imporre, dietro il corrispettivo di un prezzo, la propria protezione, crean
do quello che è stato definito il sistema della «estorsione con
trollata».
In un siffatto sistema, peraltro, la violenza è solo eventuale ed
episodica, poiché realizza, innanzitutto, una parvenza di corri
spettività: il mafioso «vende» la propria protezione alla stregua di un «bene» del quale effettivamente l'imprenditore talvolta ri
esce ad avvantaggiarsi, alla lunga assai spesso divenendo con
nivente.
Quanto fin qui esposto evidenzia, fra l'altro, come nel feno
meno mafia esista una continuità molto forte: il controllo co
mincia dalla terra, si sposta sui mulini, quindi diviene controllo
dell'impresa. La mafia imprenditrice dimostra chiaramente di non avere af
fatto rinunciato alla propria caratteristica «logica della protezio ne» che le consente, ora come allora, la ricerca della ricchezza
attraverso l'intimidazione diffusa.
Proprio attraverso il «mercato della protezione» l'associazio
ne intercetta i suoi numerosi «clienti» che spaziano, notoria
mente, nell'ambito di ogni categoria produttiva.
Quello che, per semplificare, potremmo chiamare il «con
tratto di protezione», si esplica nelle più varie modalità e tende,
per sua stessa natura, a divenire perpetuo. Alcuni accordi vengono, infatti, stipulati su singoli affari, ma
sovente — poiché il contratto predetto è, per sua stessa natura,
assai vischioso — chi conclude l'accordo è «amico» della «fa
miglia» o ad essa in qualche modo collegato. Attraverso l'industria della protezione, ed attraverso la rete
dei contatti a vari livelli che essa produce, si sviluppa tutta una
serie indefinita di legami organici che disegnano i tratti essen
ziali del fenomeno mafia.
Nonostante la protezione si accompagni quasi sempre all'il
legalità, non di rado risulta difficile circoscriverla ed indivi
duarla esattamente come attività illecita se non si tiene conto del
contesto socio-criminale di riferimento.
È stato osservato che mentre alcuni clienti stringono accordi
con i mafiosi su singoli affari, ciascuno limitato ad una partico lare transazione, altri sono organicamente collegati ad una «fa
miglia», ed altri ancora, pur inizialmente estranei, mostrano un
vero e proprio interesse razionale ad accordarsi su un contratto
di durata indefinita.
In tale ipotesi i «clienti» vengono progressivamente ad essere
inglobati o, meglio, internalizzati: divengono cioè elementi
permanenti dell'impresa, in pratica si trasformano in proprietà. Ed infatti, vi è una profonda ambiguità tra estorsione e prote
zione: il pagamento iniziale di una somma di denaro, che nel
l'immediato consente il superamento dell'inimicizia dei mal
fattori, può progressivamente trasformarsi in un vero e proprio
rapporto di recìproco e vantaggioso scambio.
Fra l'altro, per tale ragione, è più probabile che si venga a
conoscenza solo delle vere e proprie estorsioni poiché, quando tutto fila liscio e l'accordo, per così dire, funziona, è più diffi cile che l'illecito venga a galla.
Anche nella ricostruzione del fenomeno appena proposta, si
segnala dunque che, nonostante la protezione si accompagni
quasi sempre all'illegalità, a volte è difficile circoscriverla
esattamente come attività illecita.
2.3. - il punto di vista «dell'imprenditore». Infine, deve esse re segnalato un ulteriore metodo di analisi — anch'esso ricchis
simo di validi spunti di riflessione — che potremo definire
«soggettivo» poiché guarda il fenomeno in esame proprio dal
punto di vista dei soggetti, ovvero degli imprenditori, studiando il modo in cui essi strutturano la propria condotta nel momento
in cui vengono a contatto con l'organizzazione mafiosa.
Muovendo dalla premessa secondo la quale in una zona ad
alta densità mafiosa gli operatori economici debbono effettiva
mente, in qualche modo, fare i conti con la mafia, si osserva come il rapporto che si instaura non vada inteso a senso unico, bensì come un'interazione che si sviluppa in un quadro di vin coli e di opportunità in cui c'è spazio per le valutazioni e le pre ferenze degli imprenditori, come anche per il calcolo dei costi e dei benefici connessi al tipo di relazione da attivare.
Infatti, ciò che spesso si dimentica è che lo stesso comporta mento degli operatori economici incide in modo specifico sul contenuto e sulla forma del rapporto intrattenuto con i mafiosi, sulle sue manifestazioni esplicite e su quelle latenti.
In linea generale, si osserva che i mafiosi inducono gli im
prenditori ad essere nei loro confronti «cooperativi», anche se
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GIURISPRUDENZA PENALE
tale cooperazione può assumere diversi gradi e tonalità: non bi
sogna dimenticare che per alcuni operatori economici la mafia
rappresenta un vincolo, per altri un'opportunità. In termini ideal-tipici, a partire da una ricerca sul campo con
dotta su una zona ad alta densità mafiosa, vengono delineate le
modalità diverse di rapportarsi alla mafia da parte degli impren ditori, distinguendoli fra subordinati e collusi.
La distinzione si basa essenzialmente sulla maggiore o mino
re distanza che si viene a creare fra l'impresa e l'ordinamento
mafioso.
Agli imprenditori subordinati è imposta una protezione passi va: essi sono assoggettati attraverso un rapporto non interattivo, fondato sulla intimidazione o sulla pura coercizione.
Ed infatti, gli imprenditori subordinati — che vengono ulte
riormente distinti in «oppressi» e «dipendenti» — sono le vere
vittime del sistema mafioso (e spesso, temendo lo sviluppo di
simili rapporti, essi evitano di ampliare le loro iniziative sul
campo economico, autolimitando la propria attività; essi, perce
pendo la presenza mafiosa come rischiosa rispetto a nuove ini
ziative di investimento, cercano dunque, quanto più possibile, di
«non dare troppo nell'occhio») poiché versano in un effettivo
stato di costrizione che, oltre a gravare pesantemente sul bilan
cio dell'azienda, incide anche sulle prospettive future.
I collusi, invece, possono usufruire di un tipo di protezione attiva, stabilendo con i mafiosi un rapporto interattivo, fondato
più che sulla coercizione, su legami personali di fedeltà; si sta
biliscono in tal modo dei metodi e sistemi cooperativi nell'am
bito dei quali i mafiosi cercano di manipolare a loro vantaggio le condizioni e le regole che condizionano lo scambio.
Gli imprenditori collusi sono legati ai mafiosi mediante in
centivi, non solo materiali ma anche simbolici. La cooperazione
per questa tipologia di imprenditori è motivata dalla prospettiva di un vantaggio economico, dalla fede nel codice dell'omertà o,
infine, dal fatto che è un «amico» a chiederla.
Dagli imprenditori che hanno instaurato un simile rapporto di
scambio (e che quindi fruiscono di una protezione attiva), il
gruppo mafioso pretende dal canto suo prestazioni diffuse, che
possono assumere il contenuto più vario.
Gli imprenditori collusi sono disposti a trovare con i mafiosi
un accordo attivo dal quale derivano obblighi reciproci di colla
borazione, scambio e lealtà. Tutto ciò spesso è il frutto di un ve
ro e proprio calcolo razionale; la relazione diviene infatti reci
procamente vantaggiosa. Non si deve pensare, dunque, che essi
siano semplici strumenti in balia dei mafiosi, poiché giovandosi del rapporto instaurato con l'associazione possono svolgere una
serie di transazioni assai redditizie.
All'interno della categoria degli operatori economici in collu
sione con la mafia, la ricerca sul campo ha permesso di indivi
duare due varianti: gli imprenditori «strumentali» e gli impren ditori «clienti».
Vengono qualificati «strumentali» gli imprenditori che risul
tano sufficientemente forti da poter instaurare con i mafiosi rap
porti di scambio: essi accettano preventivamente di «collabora
re» poiché ritengono comunque che la cooperazione possa pro muovere i loro interessi economici.
Solitamente essi sono a capo di imprese di vaste dimensioni, forti sia dal punto di vista delle capacità finanziarie che della
dotazione tecnica, e che operano nel settore degli appalti pub blici.
Gli imprenditori strumentali raggiungono con il mafioso un
«compromesso» che ha carattere condizionale e contingente: nessun accordo di questo tipo vale una volta e per tutte; l'accor
do deve essere quindi rinegoziato continuamente.
La presenza mafiosa viene vista in questa prospettiva come
una sorta di costo aggiuntivo che, comunque, si tenta di far ri
cadere sull'ente appaltante. I mafiosi, da parte loro, sono ben lieti di accettare la collabo
razione degli imprenditori più disponibili, ai quali offrono la lo
ro protezione ed una sicura garanzia di «tranquillità», in cambio
di una partecipazione più o meno diretta ai lavori in cui sono
impegnati (solitamente mirano ad assicurarsi la gestione dei
subappalti). L'altra variante del fenomeno collusivo concerne invece gli
imprenditori definiti «clienti». Questi ultimi si caratterizzano per il fatto di stabilire con la
mafia rapporti stabili e continuativi che coinvolgono intera
mente la loro attività.
Fra questi imprenditori e i mafiosi si stabilisce «un'interazio
II Foro Italiano — 2003.
ne diadica asimmetrica», che ha natura di scambio, e assume
spesso un carattere fortemente personalizzato. In questo rapporto il mafioso riveste sempre una posizione
privilegiata che gli deriva dalla capacità coercitiva che è in gra do di esprimere, ma che resta puramente sottintesa, ad uno sta
dio, per così dire, potenziale. La gamma di prestazioni offerte dai «clienti» ai mafiosi è
molto varia: si va dall'offerta di informazioni, all'accesso a de
terminati circuiti politici e/o finanziari, fino alla costituzione di
vere e proprie società.
Se, da un lato, il margine di libertà di cui gode l'imprenditore «cliente» è alquanto limitato, poiché egli deve comunque sotto
stare alle direttive impartitegli «dall'alto», dall'altro non si deve
pensare che tale categoria imprenditoriale non sia altro che un
mero strumento nelle mani della consorteria criminale.
Gli imprenditori «clienti», infatti, giovandosi della copertura dei mafiosi, possono comunque svolgere essi stessi una fitta se
rie di transazioni legali ed illegali assai lucrose, ed entrano co
munque a far parte di un sistema di rapporti interpersonali che
diviene un vero e proprio strumento di ascesa sociale.
Anche nell'analisi del fenomeno fin qui proposta si sottoli
nea, infine, come al di là delle categorie individuate, sia pure su
base empirica, non sia affatto agevole distinguere le condotte
collusive, poiché proprio l'area della collusione si caratterizza — anche sul piano sociologico
— per essere sfumata ed opaca.
2.4. - Il punto di vista giuridico. Gli studi citati, com'è evi
dente anche alla luce del rapidissimo excursus appena compiuto, descrivono a volte in modo assai dettagliato le molteplici carat
teristiche e le variegate sfumature che il rapporto mafia-impresa
può assumere.
Ciò che, fra l'altro, li accomuna è il fatto di adottare una pro
spettiva, evidentemente, non giuridica attraverso la quale il fe
nomeno viene analizzato e letto in modo globale (anche quando ci si sofferma su un singolo caso lo si fa per cogliere differenze
e similitudini con casi simili), cogliendone le evoluzioni stori
che e le caratteristiche di volta in volta più significative. Assai diversa, com'è ovvio, è la prospettiva del giudice che si
confronta invece, di volta in volta, con un singolo caso giudizia rio, avendo comunque a disposizione solo quegli elementi che
validamente entrano a far parte dell'orizzonte della decisione e
che, in ogni caso, dovranno necessariamente condurlo ad un
giudizio in ordine all'eventuale responsabilità dell'imputato. La rappresentazione del fenomeno nel suo insieme, tuttavia,
può costituire un ulteriore strumento — purché prudentemente e
criticamente utilizzato — che, insieme ad altri, consente al giu dice di avere una maggiore consapevolezza delle innumerevoli
sfaccettature che il rapporto mafia-impresa assume nella realtà, e che può magari indurlo, ad esempio, a valorizzare dati proba tori solo apparentemente poco significativi.
Occorrerà naturalmente rifuggire, come anche la Suprema corte ha posto in evidenza, dalla tentazione di fuorviami gene ralizzazioni.
È proprio la consapevolezza della complessità del fenomeno, al contrario, ad invitare l'interprete alla massima cautela nel va
gliare le concrete circostanze e caratteristiche presenti nel fatto
concreto oggetto di giudizio. E comunque assai significativo il fatto che le analisi che ab
biamo sinteticamente richiamato, pur muovendo da diversi punti di vista, convergano tutte nell'accendere una sorta di spia lumi
nosa che segnala — descrivendole assai dettagliatamente
— una
inquietante realtà: troppe volte, infatti, al di là di un apparente
semplice esercizio dell'attività imprenditoriale, si celano arti
colati e complessi rapporti con l'associazione criminale, che
rappresentano spesso una vera e propria comunanza di interessi
in vista della realizzazione di un reciproco vantaggio. Il rapporto mafia-impresa è stato sottoposto ripetutamente al
vaglio della giurisprudenza ed ha dato vita ad una serie di pro nunce non sempre fra loro in perfetta sintonia.
Nell'ambito della decisione della Corte di cassazione che ab
biamo più sopra richiamato (Cass. 5 gennaio 1999, Cabib) e che
si è occupata, fra l'altro, di cercare un giusto equilibrio nell'uso
da parte del giudice delle massime di esperienza tratte dalle
scienze sociali, il collegio ha affrontato anche il complesso pro blema della configurazione giuridica dei rapporti mafia-impresa, tentando di rintracciare un criterio di carattere generale in grado di distinguere i rispettivi ruoli di complice e di vittima dell'as
sociazione criminale, che, come abbiamo visto, nella realtà ap
paiono assai confusi.
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PARTE SECONDA
Nella valutazione dei rapporti tra mafia e imprenditori — si
legge nella sentenza — non può mai prescindersi da un effettivo
e serio vaglio delle variabili contingenti peculiarità della singola
fattispecie, poiché al giudice è affidato — nella piena esplica zione del principio del prudente apprezzamento e nella rigida osservanza del dovere di motivazione — il difficile compito di
individuare la fluida linea di confine tra lecito e illecito, e di di
stinguere le situazioni nelle quali l'imprenditore è complice delle organizzazioni criminali, da quelle in cui ne è vittima.
La Cassazione, nel caso concreto sottoposto al suo vaglio, ha
ravvisato nel provvedimento del tribunale del riesame una illo
gicità manifesta, laddove aveva ricondotto i rapporti instauratisi
fra l'imprenditore e le associazioni criminali non nell'area —
penalmente rilevante — della contiguità compiacente, bensì a
quella contiguità soggiacente, non sussumibile entro i margini
applicativi di cui all'art. 416 bis c.p. I giudici di legittimità hanno dunque contestato ai giudici del
merito di aver applicato astratti stereotipi socio-criminologici in
luogo di un attento vaglio delle prove raccolte (ad esempio, le
riunioni tra l'imprenditore e un boss, il vantaggio lucrato dal
primo grazie all'intermediazione dell'associazione, ecc.), ed
hanno ritenuto che è la sussistenza o meno di una condizione di
«ineluttabile coartazione» che imprime all'imprenditore che
entra in contatto con la mafia i connotati di vera e propria vitti
ma dell'estorsione.
La Suprema corte ha quindi escluso la condizione di vittima
nell'imprenditore che assume preventivamente l'iniziativa nei
confronti dell'organizzazione criminale al fine di ottenere una
«protezione a pagamento». Ai giudici di legittimità è parsa, dunque, inconciliabile l'ine
luttabilità del comportamento dell'imprenditore — assurta a
criterio distintivo, come abbiamo visto, fra la condizione di vit
tima e quella di complice — con le trattative intercorse fra
l'imprenditore medesimo e l'associazione criminale, in assenza
di una minaccia diretta ed esplicita da parte di quest'ultima. Effettivamente, sembra difficile sostenere processualmente
l'esistenza di uno stato psicologico del tipo indicato, in colui
che pianifica le attività della propria azienda in un determinato
territorio, negoziando con l'associazione mafiosa il «prezzo della propria tranquillità» da includere fra i costi dell'impresa.
La soluzione adottata — che evoca, a ben vedere, una sorta di
stato di necessità, o di non esigibilità, delle condotte non con
formi alle prescrizioni di legge — tuttavia sembra difficilmente
generalizzabile, poiché, probabilmente, semplifica troppo un fe
nomeno che — proprio le scienze sociali, oltre che i concreti ca
si giurisprudenziali — ci avvertono essere assai più complesso.
Ed infatti, proprio gli studi sociali che abbiamo sommaria
mente richiamato, sottolineano il persistere di quell'innegabile ed alto tasso di intimidazione derivante dal vincolo associativo
mafioso, che produce soggezione ed omertà nel contesto territo
riale in cui l'organizzazione opera, e che configura purtroppo fino ad oggi, in ogni caso, lo sfondo con il quale il mondo im
prenditoriale si confronta quotidianamente. Proprio per tale ragione, appare problematico assumere quale
criterio distintivo fra il ruolo di vittima e quello di complice
dell'organizzazione criminale, giusto quella piattaforma di dif fusa intimidazione che rappresenta una vera e propria costante, ovverosia lo scenario comune rispetto al quale i soggetti artico lano variamente le loro condotte.
Appare, invece, più proficuo, oltre che in perfetta sintonia
con il principio del carattere personale della responsabilità pe nale, volgere un accurato sguardo alle singole condotte dei sog
getti che, nell'esercizio della loro attività imprenditoriale, en
trano in contatto con la consorteria criminosa e di conseguenza modulano diversamente il loro atteggiamento.
Ci si trova così di fronte ad un panorama assai variegato che è
compito del giudice di volta in volta qualificare sul piano giuri dico.
Abbiamo visto che gli approfonditi studi extragiuridici sul tema -—
pur muovendo da punti di vista assai diversi — hanno
all'unisono evidenziato una inquietante realtà, ovvero quella dello stretto e diversificato rapporto che si stabilisce fra gli im
prenditori ed i mafiosi, e che si risolve spesso in un «reciproco
vantaggio» che, proprio per tale ragione, non ha motivo di esse
re denunciato da alcuno, e resta così tendenzialmente ricoperto da un tranquillizzante, quanto pericoloso, alone di effimera e
solo apparente legalità. Passando ad un'analisi strettamente giuridica del fenomeno,
non può dubitarsi che è proprio alla concreta condotta posta in
Il Foro Italiano — 2003.
essere dall'imprenditore che l'attenzione dell'interprete deve
essere rivolta. Infatti un attento vaglio del materiale probatorio implica
un'analisi approfondita del rapporto di dare ed avere, o di costi
benefici, fra l'impresa e Cosa nostra, che può integrare tutti i
requisiti previsti dalla norma che descrive plasticamente la con
dotta associativa (norma che, com'è noto del resto, ha una chia
ra matrice sociologica).
L'esperienza processuale dimostra che, in molti casi, proprio nelle pieghe di quelli che potrebbero
— ad un osservatore di
stratto — sembrare comportamenti neutri, o magari semplice mente equivoci, si annidano gli aspetti di un'insidiosa, quanto certa, illiceità penale.
In questa ricostruzione non facile alla quale il giudice è chia
mato, se si vuole individuare un possibile criterio selettivo tra
imprenditori collusi ed imprenditori vittime, che rifugga da
classificazioni di carattere generale — le quali, seppure assai
valide sul piano scientifico, trasposte in una pronuncia giurisdi zionale rischiano di condurre ad esiti non sempre univoci — lo
si può rintracciare proprio nel «reciproco vantaggio», ovvero
nel rapporto reciprocamente utile che si instaura fra l'impresa e
Cosa nostra.
E significativo il fatto che, adottando un simile criterio, la fa
se genetica del rapporto mafioso/imprenditore passa in secondo
piano. Il legame fra l'imprenditore ed il mafioso può nascere infatti
anche a seguito di un impatto, per così dire, traumatico e non
necessariamente (come pure spesso avviene) da una preventiva «messa a disposizione» del titolare dell'impresa animato dalla
consapevolezza della realtà che lo circonda.
L'associazione criminale spesso, com'è noto, avverte della
sua ingombrante presenza attraverso molteplici forme: con una
richiesta di somme di denaro (il c.d. «pizzo»), ovvero con l'im
posizione all'imprenditore di assumere determinati soggetti o di
avvalersi di un certo fornitore. La prima fase del contatto con
chi è inizialmente extraneus può risolversi in una minaccia più o
meno velata, o anche concentrarsi in un vero e proprio atto di
danneggiamento a titolo di «avvertimento».
Ma ciò che effettivamente conta, nella prospettiva qui accol
ta, è l'assetto dinamico che il contatto così instauratosi assume
nei suo concreto dispiegarsi. Assumono così significatività e concludenza in termini di af
fectio societatis diversi elementi della condotta che possono, ma
non devono necessariamente, tutti concorrere: il suo carattere
cooperativo e tendenzialmente continuativo, il suo esplicarsi in
prestazioni diffuse in favore del sodalizio mafioso che non ri
sultano necessariamente connesse all'attività imprenditoriale esercitata, il carattere altamente personalizzato del rapporto di
scambio, l'intrecciarsi tra le finalità individuali del dominus
dell'impresa e quelle associative.
L'organizzazione mafiosa, sfruttando in modo continuativo le
prestazioni diffuse offerte dall'imprenditore, finisce per ricono
scergli un ruolo di sistematico conferimento al sodalizio di tutti i vantaggi ricollegabili alla sua posizione professionale e socia
le.
Al tempo stesso — come anche alcuni studi sociologici met
tono in evidenza — occorrerà comunque accertare concreta
mente che il rapporto mafioso/imprenditore abbia creato, più che un costo aggiuntivo, un «beneficio innaturale» in favore
dell'impresa (linee di credito, appalti, risorse finanziarie ed umane a basso costo, ecc.) che spesso produce un repentino au mento del capitale sociale, e che talvolta determina anche una
vera e propria riorganizzazione dell'impresa stessa che, alla
lunga, tende a sfociare in un rapporto di vera e propria compar
tecipazione.
Proprio per tale ragione, come si è già detto, fino a quando tutto fila liscio, ovvero fino a quando il rapporto di scambio fra i
due interlocutori funziona, è molto difficile che venga alla luce
l'area grigia della collusione: il rapporto illecito, per il fatto di
essere reciprocamente utile, tende per sua stessa natura a rima
nere sommerso, avendo le parti anche in tal senso un interesse
perfettamente coincidente.
La finalizzazione della condotta ad ottenere condizioni di
vantaggio consente di delineare con maggiore chiarezza, anche sul piano del disvalore penale, la differenza tra l'imprenditore colluso e la vittima delle estorsioni mafiose: la collusione, come
abbiamo detto, si inserisce in un'ottica di tipo sinallagmatico, dominata dal do ut des, ed alimenta la circolarità del ritorno di
utilità reciproche tra impresa e criminalità organizzata, riflet
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GIURISPRUDENZA PENALE
tendosi negativamente sull'intero mercato, di cui alla lunga vengono alterati gli equilibri e falsati i meccanismi.
Il rischio gravissimo che si corre in questo ambito è quello di
legittimare la condotta di qualsivoglia imprenditore che, per il
conseguimento dei propri interessi personali e patrimoniali, de
cidesse comunque di venire a patti con Cosa nostra riconoscen
dole, di fatto, il ruolo di soggetto deputato alla gestione di
quelle attività e quegli «interessi» che invece competono sol
tanto alle pubbliche amministrazioni.
Tutto ciò rappresenterebbe peraltro un'ulteriore mortificazio
ne dell'atteggiamento di quegli imprenditori che invece resisto
no alla tentazione di prestarsi alle logiche mafiose, ed equivar rebbe ad ignorare la differenza tra un comportamento necessi
tato, tipico dell'imprenditore esclusivamente succube della con
sorteria criminale, ed un comportamento illecitamente posto in
essere da quell'imprenditore «colluso» che invece sfrutta il rap
porto con la mafia, per conseguire una serie di vantaggi altri
menti più difficilmente raggiungibili. L'imprenditore, ponendo l'impresa sotto il controllo di Cosa
nostra, si assicura, infatti, tutela da furti, vandalismi e da tutte le
estorsioni che fuoriescano da quelle previamente «concordate»
e, soprattutto, si assicura preziose occasioni di profitto; dal
canto suo, l'associazione riscuote, quantomeno, le cosiddette
«mesate» e finisce di fatto per controllare l'attività produttiva
(magari imponendo determinate forniture, influendo in generale sulle determinazioni relative al personale da assumere e così
via) godendo, a volte, anche di una serie di servizi accessori.
L'imprenditore, anche se non necessariamente affiliato in
maniera formale a Cosa nostra (con la classica «punciuta»), fi
nisce con il rivestire un ruolo assai importante nell'organi
gramma dell'associazione, della quale con la sua condotta, di
fatto, condivide le logiche, svolgendo — come abbiamo visto —
una serie di attività che rafforzano concretamente la posizione sociale del clan malavitoso, e che non possono non essere con
siderate emblematiche della sua appartenenza — dal punto di
vista sostanziale — all'associazione stessa.
Si tratta di quella che è stata definita la c.d. nuova «zona gri
gia» di Cosa nostra, un'area abitata da soggetti che costituisco
no la manifestazione evidente della pericolosa contiguità fra
normalità e devianza: è l'area di confine in cui si collocano
quegli imprenditori che, giustificando la loro vicinanza all'asso
ciazione con la necessità di lavorare in un contesto ambientale
ostile, hanno finito per trarne notevoli vantaggi di ordine eco
nomico ed anche processuale. Come abbiamo già accennato, in una fase come quella attuale
si è parlato della «strategia dell'immersione» adottata dall'asso
ciazione criminale e che consiste nel «non farsi notare», ovvero
di apparire entro una inquietante quanto insidiosa cornice di
normalità, utilizzando per il conseguimento dei propri fini ille
citi, soggetti apparentemente insospettabili. Al giudice non resta allora che il compito non facile di ana
lizzare le singole condotte sviscerando la novità degli scenari
probatori che conseguentemente gli si schiudono innanzi, e spe rimentando nuovi e diversi strumenti d'indagine.
Occorre tenere in considerazione che è proprio attraverso
l'industria della protezione, ed attraverso la rete dei contatti a
vari livelli che essa produce, che si sviluppa tutta quella serie
indefinita di legami organici che disegnano i tratti essenziali del
fenomeno mafia.
Sanzionare le condotte degli imprenditori collusi significa
prendere atto del fatto — talvolta purtroppo dimenticato anche
nelle applicazioni giurisprudenziali — che intrecciare relazioni
esterne non ha per la mafia alcun carattere di eccezionalità: sen
za questa finestra che si affaccia all'esterno Cosa nostra perde rebbe gran parte della sua forza espansiva.
Occorrerà dunque, in questi casi, non soltanto soffermarsi sui
benefici che derivano all'organizzazione mafiosa a seguito dei
rapporti intrattenuti con il mondo dell'imprenditoria (ad esem
pio, raccolta del «pizzo», controllo del mercato e del territorio), ma «dare voce» anche ai vantaggi conseguiti dall'imprenditore: dare contezza della condotta concretamente da esso tenuta, veri
ficando con scrupolo, alla luce dei dati probatori raccolti, se sia
stata o meno di tipo «cooperativo», ovvero, orientata o meno a
rendere attiva e proficua la «protezione» offerta o richiesta, in
vista del conseguimento di vantaggi altrimenti assai difficil
mente ottenibili.
Sul piano probatorio, la formazione di una proficua intesa fra
l'impresa e la mafia può desumersi — anche in imprese che già
Il Foro Italiano — 2003.
in precedenza intrattenevano rapporti (ad esempio di tipo estor
sivo) con organizzazioni criminali — da vari indici sintomatici,
come, ad esempio, l'improvviso e consistente aumento del ca
pitale sociale, non giustificato dalla pregressa attività aziendale
e dal normale giro d'affari (sicché la ricapitalizzazione della so
cietà si risolve in uno strumento per investire denaro di prove nienza mafiosa).
Altrettanto significativa è l'effettiva dipendenza dell'impresa da un centro finanziario esterno (soprattutto se rimasto almeno
in parte occulto), che non lega permanentemente ad essa i suoi
capitali, i quali possono in ogni momento essere sganciati dal
l'unità produttiva, provocandone la rovina economica.
Nella stessa prospettiva, assume un preciso rilievo anche la
frequente realizzazione di taluni movimenti anomali — quali il
cambio degli amministratori, il mutamento delle persone dei so
ci, dell'oggetto, della ragione sociale o del tipo di società, gli
scioglimenti, le liquidazioni, le rilevazioni, gli accorpamenti, i
fallimenti — che si riferiscono quasi sempre sull'assetto socie
tario o all'ambito operativo, e non alla struttura aziendale e pro duttiva, e sono generalmente funzionali allo scopo di impedire l'identificazione dei soggetti che si celano dietro le unità eco
nomiche.
Assai pregnante è pure la valenza sintomatica che può attri
buirsi alla vistosa facilità nel reperire risorse finanziarie, all'ac
cesso agevolato al credito, soprattutto se in violazione delle co
muni regole di ordine giuridico ed economico, e, più in genera le, al trattamento privilegiato accordato all'impresa da un siste
ma bancario notoriamente condizionato dalle organizzazioni criminali.
Altri elementi dotati di un univoco valore dimostrativo sono
dati dall'aggiudicazione di gare di appalto per effetto dell'inte
ressamento di esponenti di Cosa nostra, dal subentro «di fatto»
nell'esecuzione di appalti formalmente aggiudicati ad altre im
prese, dall'ottenimento di subappalti e forniture in virtù della
forza di intimidazione del vincolo associativo.
Rivestono, evidentemente, un indubbio rilievo probatorio la
posizione di monopolio raggiunta in determinati contesti territo
riali e settori produttivi e la possibilità di imporre il prezzo di
determinati beni, quando trovano la loro ragion d'essere non in
ragioni economiche ma nella forza di intimidazione mafiosa che
consente di regolare il mercato, dettando criteri di comporta mento a tutti gli operatori, e di eliminare la concorrenza.
E lo stesso deve dirsi per tutti gli altri indebiti vantaggi, che
trovano la loro logica ragione giustificativa in dinamiche tipi camente mafiose.
Ulteriori elementi che denotano i legami organici dell'azien
da con il sodalizio criminale possono cogliersi sul piano dell'ef
fettiva titolarità e direzione dell'impresa: in particolare, risulta
fortemente significativo il riscontro di scelte strategiche o di in
dirizzi gestionali che si ricollegano a progetti più generali con
formi alle esigenze dell'organizzazione mafiosa, anche quando ciò è in contrasto con l'economicità aziendale.
Assumono, dunque, una precisa rilevanza tutti gli indici che
evidenziano il finanziamento dell'impresa con un capitale che è
frutto, in tutto o in parte, di attività aventi carattere illecito (per la loro natura o per le modalità con cui sono esercitate); ovvero
la presenza di una capacità competitiva strettamente collegata all'interessato sostegno dell'associazione mafiosa; oppure la
configurabilità di meccanismi di controllo «di fatto» dell'azien
da fondati sulla forza di intimidazione che deriva dal legame del
soggetto con l'associazione mafiosa.
La collusione dell'imprenditore con l'organizzazione crimi
nale è univocamente desumibile anche dalle prestazioni «diffu
se» da lui effettuate in favore dell'illecito sodalizio, le quali
possono assumere il più vario contenuto e non sempre risultano
connesse all'attività imprenditoriale esercitata: può trattarsi, in
particolare, della frequente disponibilità a presentare «offerte di
comodo» idonee ad agevolare l'attuazione del sistema di con
trollo mafioso degli appalti, dello svolgimento di una funzione
di «intermediazione» nel sistema di riscossione del «pizzo», dell'accesso assicurato agli interessi mafiosi presso determinati
circuiti politico-amministrativi ed economico-finanziari, ma an
che dell'offerta di informazioni, dell'ospitalità a latitanti, delle
deposizioni «omertose» volte a celare agli inquirenti gli intrecci
tra mafia ed economia, e di ogni altro contributo apportato dal
singolo alla realizzazione degli scopi dell'associazione.
Quando l'accordo mafioso-imprenditore — che non è per sua
stessa natura necessariamente espresso poiché nasce e si conso
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PARTE SECONDA
lida progressivamente nel concreto dispiegarsi del rapporto —
assume, nella sua dinamica articolazione, le caratteristiche che
abbiamo fin qui individuato, saremo senz'altro di fronte ad una
condotta di partecipazione all'associazione criminale, anche
nell'ipotesi assai ricorrente in cui non vi sia stata una formale
affiliazione a Cosa nostra.
È appena il caso di sottolineare, infatti, che nei casi in esame,
proprio in considerazione dell'atipicità della fase genetica del
rapporto che, come abbiamo visto, si viene a creare «di fatto»
sulla base di una condivisa e proficua comunanza di interessi, la
non formale affiliazione sarà la regola piuttosto che l'eccezione.
Come si vedrà, e come a chiare lettere emerge dalle risultanze
dell'istruttoria dibattimentale, le condotte illecite di alcuni degli
imputati denotano con assoluta chiarezza la sussistenza del le
game associativo con la consorteria mafiosa.
Ed è significativo, come pure vedremo, che tale legame di
viene ancora più evidente valorizzando quei dati probatori che
dimostrano, nel caso in esame, fra il gruppo mafioso dominante
e gli imprenditori della zona, la sussistenza di un rapporto sta
bile e continuativo, fondato sulla cooperazione reciproca, reci
procamente vantaggioso e volto al perseguimento di interessi
comuni. (Omissis) 1. - Premessa, cenni sul contesto criminale di riferimento e
sul ruolo, al suo interno, rivestito dal Di Pisa. Anche a Giusep
pe Di Pisa è stato contestato, unitamente a Giovanni Pavone,
Filippo Merendino e Giuseppe Vasta, il reato di partecipazione all'associazione mafiosa Cosa nostra di cui al capo A, per aver
fatto parte della famiglia mafiosa di Misilmeri, operando ed in
teragendo, fino al momento dell'arresto, intervenuto il 3 ottobre
2000, nel settore dell'acquisizione e della gestione di lavori
pubblici in stretta connessione con Angelo Bonanno (quest'ul timo ucciso a seguito di un agguato di chiara matrice mafiosa ad
opera di ignoti la sera del 21 dicembre 1999), entrambi noti
quali elementi di spicco della famiglia citata.
Il Di Pisa è altresì imputato del delitto di estorsione aggravata di cui al capo B, con riferimento ad un intervento effettuato in
relazione ad alcuni lavori per i quali è stato chiesto ed ottenuto
il pagamento di una somma di denaro a titolo di «pizzo» per la
c.d. messa a posto del cantiere dell'impresa di Carmelo Spitale
(il quale, oltre ad essere persona offesa da tale reato, è imputato a propria volta del reato di favoreggiamento per aver ostacolato
le indagini volte all'accertamento dell'ipòtesi delittuosa in esa
me). Prima di esaminare le numerose prove che convergono tutte a
dimostrare la responsabilità del Di Pisa in ordine ai reati conte
statigli, occorre solo brevemente ricordare che le condotte cri
minose da lui stesso poste in essere, e che ci apprestiamo a de
scrivere, si svolgono in un contesto territoriale e personale pe culiare, che contribuisce ad attribuire alle stesse uno spessore criminale assai elevato.
Ed infatti, le condotte in esame si inseriscono nell'ambito
delle aspre e cruente vicende criminose che negli ultimi anni, tra la metà del 1998 e l'autunno del 2000, hanno segnato il territo
rio di Misilmeri e di Belmonte Mezzagno, dove due famiglie mafiose si erano contese fino all'estate del 1995 — anche vio
lentemente — il comando del mandamento.
Le due fazioni in lotta erano rappresentate rispettivamente da
Benedetto Spera e da Pietro Lo Bianco.
L'uccisione del Lo Bianco, avvenuta sul finire dell'agosto del
1995, aveva spianato la strada all'ascesa incontrastata al vertice
del mandamento di Spera Benedetto, al quale il Bonanno era le
gato.
Dopo la decimazione del gruppo capeggiato da Lo Bianco, dalla collaborazione con la giustizia di uno dei suoi uomini più fidati, Cosimo Lo Forte, sono emerse le figure di altri soggetti — fra cui gli imputati di questo processo
— che, in tempi re
centissimi (certamente fino all'ottobre del 2000), hanno soste
nuto e curato gli interessi del «gruppo vincente».
Le condotte criminose di questi soggetti — fra i quali emerge la figura del Di Pisa — che attivamente operavano nell'ambito della famiglia mafiosa di Misilmeri, hanno posto in luce il con
creto e dinamico dipanarsi degli affari della famiglia in parola, i
suoi collegamenti con i latitanti, i rapporti con il mondo im
prenditoriale, in un intreccio di condotte che con rara chiarezza
hanno costituito l'univoca rappresentazione di quel sistema di
controllo del territorio — che si realizza attraverso l'intimida
zione che, a propria volta, innesca il circuito della protezione —
Il Foro Italiano — 2003.
che è forse il vero e proprio «emblema» del c.d. «metodo ma
fioso». La responsabilità del Di Pisa in ordine ai reati a lui ascritti
emerge chiaramente dalle risultanze dibattimentali che disegna no un ricco quadro probatorio che ha consentito di accertare il
suo stretto rapporto criminale con Angelo Bonanno — con il
quale, come vedremo, si consultava in ordine alle estorsioni da
commettere ed in relazione a quelle, per così dire, in corso di
svolgimento — e, per il suo tramite, con altri appartenenti alla
consorteria mafiosa, a propria volta coinvolti nel giro di interes
si legato al circuito estorsivo.
Come si è già detto ampiamente, Bonanno Angelo, titolare
della Si.cer. di Misilmeri (un esercizio di vendita al pubblico di
materiali per l'edilizia), tratto in arresto per il reato di parteci
pazione all'associazione mafiosa Cosa nostra il 24 luglio 1997, è stato indicato da Cosimo Lo Forte (escusso, all'udienza del 17
settembre 2002) come uno dei personaggi di maggiore spessore criminale nell'ambito della famiglia mafiosa di Misilmeri.
Egli, non appena scarcerato, il 29 maggio 1998, ha certa
mente ripreso ad esercitare attivamente il suo ruolo nell'ambito
della «famiglia», non soltanto divenendo un sicuro punto di rife
rimento per tutti gli altri associati, lìberi e detenuti, ma anche
costituendo un'importante sponda operativa per l'allora latitante
Benedetto Spera. Un'ascesa, quella del Bonanno, resa evidentissima anche dal
contenuto delle conversazioni intercettate, ed interrotta solo dal
suo stesso omicidio, commesso la sera del 21 dicembre 1999.
Dagli elementi probatori raccolti emerge inequivocabilmente
l'appartenenza del Bonanno alla famiglia mafiosa di Misilmeri, il ruolo che vi ha svolto, e le attività illecite che ha diretto, in
stretta connessione operativa, fra l'altro come si dirà, proprio con il Di Pisa.
Il contenuto delle comunicazioni telefoniche e delle conver
sazioni tra presenti oggetto di intercettazione in questo proces so, oltretutto, conferma ulteriormente il ruolo di primissimo
piano assunto dal Bonanno, una volta rimesso in libertà, in ogni settore di attività della consorteria criminale: dall'acquisizione di lavori nel campo degli appalti pubblici, alla raccolta del «piz zo», dalla gestione degli stipendi in favore delle famiglie degli altri «uomini d'onore» ristretti o latitanti, fino alla mediazione
dei conflitti sociali, che si concretizza in quella sorta di eserci
zio alternativo dei poteri di giustizia, che da sempre ha caratte
rizzato l'operato dei soggetti più «autorevoli» nell'ambito di
Cosa nostra.
Come meglio si dirà, il Di Pisa, unitamente agli altri imputati di questo processo, faceva parte proprio di quei soggetti più strettamente legati al Bonanno.
L'odierno imputato, agendo nell'apparente esclusivo eserci
zio della propria attività imprenditoriale — nel tentativo di cela
re i suoi affari illeciti e gli interessi criminosi perseguiti — ha
fornito un essenziale contributo all'organizzazione mafiosa, nell'ambito della quale è risultato fattivamente inserito.
Com'è del resto noto, il settore degli appalti pubblici — nel
l'ambito del quale il Di Pisa operava — costituisce una delle
maggiori fonti dalle quali l'organizzazione mafiosa trae motivo
oltre che di arricchimento, di accrescimento del proprio potere:
un'importante e propizia occasione di «avvicinamento» di im
prenditori, magari inizialmente estranei al sodalizio mafioso ma
che — stabilito un nesso di reciprocità in termini di interessi —
vengono progressivamente «assorbiti» da Cosa nostra diventan
do una parte importante dei suoi criminosi ingranaggi.
Proprio per via del progressivo assorbimento nei gangli del
l'associazione, che finisce comunque con il determinare la na
scita di uno stabile e continuativo rapporto — di fatto e di reci
proco interesse — fra questi soggetti e Cosa nostra, le condotte
poste in essere sono indubbiamente inquadrabili nella fattispecie
prevista dall'art. 416 bis c.p., alla luce della giurisprudenza della Corte di cassazione che, ai fini dell'integrazione del reato
di partecipazione all'associazione mafiosa Cosa nostra, accorda
sicura preferenza a quei moduli interpretativi sostanziali che ri
connettono l'esistenza di un vincolo associativo tra il singolo ed il sodalizio mafioso, non soltanto alla formale affiliazione, la
c.d. combinazione, ma soprattutto alla rilevanza delle singole attività delittuose poste in essere, come momenti significativi di
un'appartenenza sostanziale, trattandosi di attività volte al rag giungimento dei fini tipici dell'associazione mafiosa ed al
mantenimento ed allo sfruttamento della forza di intimidazione
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GIURISPRUDENZA PENALE
derivante dal vincolo associativo, che costituisce l'elemento ca
ratterizzante della figura di reato in esame.
L'istruzione dibattimentale, oltre che tutto il materiale pro batorio costituito anche da annotazioni di polizia giudiziaria, di
chiarazioni di collaboratori di giustizia e trascrizioni in forma di
perizia di comunicazioni telefoniche e di conversazioni tra pre senti, acquisiti al fascicolo del dibattimento anche attraverso
l'intervenuto consenso delle parti, ha univocamente dimostrato
la colpevolezza del Di Pisa in ordine ai reati a lui ascritti.
Ed invero, come vedremo, anche per la posizione di questo
imputato, rivestono una notevole importanza i risultati delle in
tercettazioni di comunicazioni telefoniche e di conversazioni tra
presenti, i cui interlocutori sono successivamente stati escussi, in parte, nel dibattimento.
Si tratta di conversazioni sviluppatesi tra tutti i principali im
putati di questo processo, fra i quali il Di Pisa, che comunicava
ampiamente, di volta in volta, ai propri interlocutori fatti e cir
costanze in cui era coinvolto personalmente e direttamente, ap
presi da terze persone, delle quali veniva indicata l'identità.
Dall'ampia istruttoria dibattimentale risulta che il Di Pisa ha
attivamente preso parte alle attività illecite poste in essere dalla
consorteria criminale, in particolare operando nell'ambito della
famiglia mafiosa di Misilmeri nel cui contesto ha svolto un
ruolo di mediazione nella raccolta del «pizzo» derivante dalle
estorsioni e nell'imposizione dei subappalti in favore di imprese
legate, e comunque vicine, a Cosa nostra.
Ed inoltre, certa è la responsabilità dell'imputato anche in
relazione all'intermediazione prestata in occasione della richie
sta di denaro avanzata per la c.d. «messa a posto» nei confronti
della soc. Spitale costruzioni s.r.l., aggiudicataria di lavori pub blici realizzati nella zona di Termini Imerese (nota D.i.a. 6 giu
gno 2002, depositata udienza 11 giugno 2002; s.i. Spitale Car
melo 9 ottobre 2002, depositato udienza 14 febbraio 2002). Il Di Pisa, all'epoca dei fatti, era titolare di una ditta indivi
duale, la Cosedil, operante nel settore dell'edilizia (nota D.i.a. 5
luglio 2000, 137). Come accennato in premessa, egli, esercitando la propria atti
vità di imprenditore in un ambito «nevralgico» rispetto ai tipici «centri di interesse» dell'organizzazione criminale, coltivava ed
al tempo stesso si avvaleva abitualmente di una serie di «con
tatti» con alcuni soggetti che potremmo definire «strategici» nell'ambito di Cosa nostra (fra i quali Angelo Bonanno e Sal
vatore Geraci) con i quali intratteneva un rapporto di «reciproco e proficuo interesse».
Il Di Pisa, infatti, era stabilmente inserito nel circuito delle
estorsioni al quale prendeva parte, per così dire, dall'interno.
Egli fungeva infatti da intermediario nella raccolta del «piz zo» derivante dalle estorsioni, ed imponeva alle ditte aggiudi catarie veri e propri subappalti, dietro l'apparenza della stipula di noli a freddo.
L'imputato peraltro, oltre ad imporre l'uso dei propri mezzi, o di quelli di volta in volta «consigliati» dai suoi importanti re
ferenti, con modi arroganti e, peraltro, tipici del fare mafioso,
«garantiva» un clima di perdurante intimidazione anche grazie al fatto di assicurare la propria costante (ed apparentemente le
gittima) presenza in cantiere, per mezzo della stipula di contratti
di lavoro, che venivano formalizzati ed attuati oltre che per sé, anche per i suoi due figli.
I contratti in parola erano collegati chiaramente con quelli di
nolo a freddo in modo da dar vita ad un'operazione economica, sostanzialmente unica e riconducibile alla figura del subappalto.
II Di Pisa — come risulta chiaramente dalle prove raccolte
nel giudizio —
rappresentava solo una parte di un più grosso
ingranaggio e, proprio per tale ragione, come accennavamo,
aveva rapporti costanti con coloro che gestivano il complesso
giro della spartizione degli appalti, essendo, a propria volta, li
gio ai loro «consigli» ed all'esecuzione delle direttive.
Il Di Pisa, dunque, si poneva in una posizione sicuramente in
feriore rispetto ai propri «autorevoli referenti», ma era comun
que un soggetto indispensabile poiché rappresentava un vero e
proprio «prezioso» «braccio operativo» per il raggiungimento
degli scopi di illecito arricchimento del sodalizio. (Omissis)
Il Foro Italiano — 2003.
GIUDICE DI PACE DI FOGGIA; GIUDICE DI PACE DI FOGGIA; sentenza 19 giugno 2003; Giud. Carrillo; imp. Cicolella.
Procedimento penale davanti al giudice di pace — Defini
zioni alternative — Estinzione del reato conseguente a
condotte riparatone — Termine — Udienza di compari zione (D.leg. 28 agosto 2000 n. 274, disposizioni sulla com
petenza penale del giudice di pace, a norma dell'art. 14 1. 24
novembre 1999 n. 468, art. 35). Procedimento penale davanti al giudice di pace
— Defini
zioni alternative — Estinzione del reato conseguente a
condotte riparatone — Risarcimento del danno ad opera di soggetto diverso dall'imputato
— Esclusione (D.leg. 28
agosto 2000 n. 274, art. 35).
Nei procedimenti davanti al giudice di pace l'estinzione del
reato conseguente a condotte riparatone deve essere dedotta
dall'imputato non oltre l'udienza di comparizione, salva la
prova di non aver potuto provvedere prima. (1) Nei reati di competenza del giudice di pace la particolare causa
di estinzione, data dalle condotte riparatone di cui all'art. 35
d.leg. 274/00, non può operare in presenza di un mero risar
cimento del danno effettuato da un soggetto (nella specie, l'assicuratore) diverso dall'imputato. (2)
(1-2) La pronuncia fa applicazione piena della disciplina processuale posta dall'art. 35, 1° comma, d.leg. 274/00, che individua nell'udienza di comparizione davanti al giudice di pace il termine per la deduzione, da parte dell'imputato, dell'avvenuta riparazione del danno conse
guente al reato, ai fini della speciale causa di estinzione introdotta —
assoluta novità nell'ordinamento giuridico — proprio dalla norma ri chiamata, in attuazione della delega contenuta nell'art. 17, lett. h), 1. 468/99. Nessun dubbio sì può porre circa l'inderogabilità di tale termi
ne, entro il quale l'imputato deve almeno chiedere di porre in essere le condotte riparatorie, se dimostri di non averlo potuto fare in preceden za. A cospetto di tale istanza il giudice potrà disporre la sospensione del processo per non più di tre mesi; facoltà evidentemente rimessa alla discrezionalità del giudice, come ben si desume dal tenore della norma. In tal senso, Trib. Grosseto 14 febbraio 2002, Foro it.. Rep. 2002, voce Procedimento penale davanti al giudice di pace, n. 44, e Giudice di pa ce, 2002, 291, con nota di Albamonte. Si tratta dell'unico precedente noto che, sebbene riferito alla disciplina transitoria, pone senz'altro un
principio di ordine generale, arricchito dall'affermazione secondo cui il termine trimestrale non potrebbe comunque essere concesso all'impu tato ove già il processo abbia conosciuto precedenti differimenti intesi a consentire la conciliazione delle parti private. Questione che ha una sua
logica nel processo davanti al giudice ordinario (chiamato a decidere su reati di competenza del giudice di pace, ai sensi dell'art. 63 d.leg. 274/00), ma che non avrebbe ragione di porsi nel giudizio davanti al
giudice di pace, ove la disciplina della conciliazione — riguardante i soli reati perseguibili a querela — è sistematicamente racchiusa in un
singolo, stringente segmento temporale, che l'art. 29, 4° comma, d.leg. 274/00 pone ugualmente nell'udienza di comparizione, dopo la verifica di costituzione e prima dell'apertura del dibattimento. Unica deroga a tale schema è data dalla possibilità per il giudice di rinviare l'udienza
per un periodo non superiore a due mesi, al fine di favorire la concilia
zione, anche attraverso l'opera di strutture di mediazione. Nulla quaestio in dottrina circa la natura del termine posto dall'art.
35, 1° comma, d.leg. 274/00: Riviezzo, Il giudizio, in AA.VV., La com
petenza penale del giudice di pace, Milano, 2000, 163; Quattrocolo, in Giudice di pace e processo penale. Commento al d.leg. 28 agosto 2000 n. 274 e alle successive modifiche diretto da Chiavario e Marzaduri.
Torino, 2002, sub art. 35, 344; Guerra, L'estinzione de! reato conse
guente a condotte riparatorie, in II giudice di pace. Un nuovo modello di
giustizia penale a cura di Scalfati, Padova, 2001. 528 ss.; Bartoli, E
stinzione del reato per condotte riparatorie, in II giudice di pace nella
giurisdizione penale a cura di Giostra e Illuminati, Torino, 2001, 392 s. Meno agevole è l'individuazione del termine iniziale, che la norma
non indica espressamente. Nulla vieta, quindi, di ipotizzare che la deli bazione delle condotte riparatorie possa intervenire anche prima dell'u dienza di comparizione, ma comunque non prima della fase degli atti
preliminari al dibattimento, dovendosi con sicurezza escludere che l'i stituto possa operare durante la fase delle indagini, com'è evidente dalle molteplici evocazioni, contenute nella norma, della fase proces suale vera e propria, nel cui solo ambito sarebbe possibile il contrad dittorio che il giudice deve suscitare prima di pronunciare la sentenza di estinzione; in tal senso, Celeste-Iacoboni, Il giudice di pace. Le cau se civili e i processi penali, in corso di pubblicazione, par. 7.3.
Ragioni solo parzialmente analoghe ispirano, in un'applicazione della disciplina transitoria, Cass. 23 maggio 2002, Rufolo, Foro it..
Rep. 2002, voce cit., n. 46. che ritiene incompatibili con il giudizio di
cassazione le definizioni alternative di cui agli art. 34 e 35 d.leg. 274/00, in esso facendo difetto il necessario presupposto dato dal per sonale intervento degli interessati.
Quanto ai poteri del giudice di pace, oltre a quello di sospensione del
processo — che opera peraltro nel solo caso di riconosciuta impossibi
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