sentenza 28 giugno 2002, n. 295 (Gazzetta ufficiale, 1 a serie speciale, 3 luglio 2002, n. 26);Pres. Vari, Est. Flick; B.G. e altri; interv. Pres. cons. ministri. Ord. G.i.p. Trib. Genova 22febbraio 2001 (G.U., 1 a s.s., n. 34 del 2001)Source: Il Foro Italiano, Vol. 126, No. 11 (NOVEMBRE 2003), pp. 2927/2928-2933/2934Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23197855 .
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2927 PARTE PRIMA 2928
intesa a rendere più lieve la posizione della persona colta in
stato di manifesta ubriachezza in luogo pubblico o aperto al
pubblico. Nella relazione governativa al d.leg. n. 507 del 1999
la ratio della disciplina emerge con inequivoca chiarezza: tra
sformare in illeciti amministrativi una serie di reati eterogenei
quanto ad oggettività giuridica e modalità di condotta, «il cui
unico comune denominatore è rappresentato dall'esiguo spesso re sanzionatorio». Nel trasporre sul piano amministrativo la ri
sposta sanzionatoria in modo da ridurre l'area del diritto penale e sollevare così gli uffici giudiziari da oneri impropri, si inten
deva altresì «evitare di 'rivitalizzare' talune fattispecie che a
causa del loro evidente anacronismo trovano oggi un'applica zione assai limitata».
Se questo era il fine perseguito dal legislatore del 1999, con
riferimento al reato di ubriachezza, emerge un'intrinseca irra
zionalità della disciplina censurata in quanto il risultato non è
stato unicamente la depenalizzazione del reato base, ma anche
l'eventuale trattamento sanzionatorio più severo a carico di chi
abbia riportato condanne per delitto non colposo contro la vita o
l'incolumità individuale.
Infatti, nella prospettiva dell'aggravante speciale, entro la
quale si manteneva la vecchia previsione del 2° comma dell'art.
688, il giudice ben avrebbe potuto, in applicazione dell'art. 69
c.p., bilanciare tale aggravante con eventuali circostanze atte
nuanti rinvenibili nel concreto atteggiarsi della fattispecie e, una
volta rimossa l'aggravante e reso così applicabile il reato base
di cui al 1° comma, irrogare nelle ipotesi più lievi la sola am
menda, prevista come pena alternativa. Nel sistema attuale la
possibilità di commisurare la pena all'effettivo disvalore del
fatto è fortemente limitata: in effetti, il 2° comma dell'art. 688
c.p. non costituisce più una circostanza aggravante, ma configu ra un reato autonomo, sicché non può più parlarsi di bilancia
mento con eventuali circostanze attenuanti, le quali, ove ravvi
sabili, possono determinare un abbattimento del minimo editta
le, ma non esimere il giudice dall'applicare comunque la pena dell'arresto.
3. - Oltre ad avere trasformato una semplice circostanza ag
gravante in elemento costitutivo del reato, ciò che comporta, nel
caso dell'ubriachezza, la rilevata incongruenza, la disposizione censurata è affetta dagli ulteriori vizi, anch'essi denunciati dal
rimettente, derivanti dalla violazione dei principi costituzionali
di legalità della pena e di orientamento della pena stessa all'e
menda del condannato, ai quali, in base agli art. 25, 2° comma, e 27, 3° comma, Cost., deve attenersi la legislazione penale.
L'avere riportato una precedente condanna per delitto non
colposo contro la vita o l'incolumità individuale, pur essendo
evenienza del tutto estranea al fatto-reato, rende punibile una
condotta che, se posta in essere da qualsiasi altro soggetto, non
assume alcun disvalore sul piano penale. Divenuta elemento co
stitutivo del reato di ubriachezza, la precedente condanna assu
me le fattezze di un marchio, che nulla il condannato potrebbe fare per cancellare e che vale a qualificare una condotta che, ove
posta in essere da ogni altra persona, non configurerebbe illecito
penale. Il fatto poi che il precedente penale che qui viene in ri
lievo sia privo di una correlazione necessaria con lo stato di
ubriachezza rende chiaro che la norma incriminatrice, al di là
dell'intento del legislatore, finisce col punire non tanto l'ubria chezza in sé, quanto una qualità personale del soggetto che do vesse incorrere nella contravvenzione di cui all'art. 688 c.p. Una contravvenzione che assumerebbe, quindi, i tratti di una sorta di reato d'autore, in aperta violazione del principio di of fensività del reato, che nella sua accezione astratta costituisce
un limite alla discrezionalità legislativa in materia penale posto sotto il presidio di questa corte (sentenze n. 263 del 2000, id.,
Rep. 2000, voce Reato in genere, n. 19, e n. 360 del 1995, id., 1995, I, 3083). Tale limite, desumibile dall'art. 25, 2° comma, Cost., nel suo legame sistematico con l'insieme dei valori con
nessi alla dignità umana, opera in questo caso nel senso di im
pedire che la qualità di condannato per determinati delitti possa trasformare in reato fatti che per la generalità dei soggetti non
costituiscono illecito penale. Sotto un concorrente profilo, infine, la disposizione censura
ta, nel trasformare irragionevolmente in elementi costitutivi del reato di ubriachezza fatti per i quali è già intervenuta una con danna irrevocabile, vanifica la finalità rieducativa che l'art. 27, 3° comma, Cost, assegna alla pena.
Per questi motivi, la Corte costituzionale dichiara l'illegitti mità costituzionale dell'art. 688, 2° comma, c.p.
Il Foro Italiano — 2003.
CORTE COSTITUZIONALE; sentenza 28 giugno 2002, n.
295 (Gazzetta ufficiale, la serie speciale, 3 luglio 2002, n.
26); Pres. Vari, Est. Flick; B.G. e altri; interv. Pres. cons,
ministri. Ord. G.i.p. Trib. Genova 22 febbraio 2001 (G.U., 1J
s.s., n. 34 del 2001).
spionaggio e rivelazioni o raccolta ai segreti o ai notizie mi
litari — Rivelazione di notizie di cui sia stata vietata la di vulgazione
— Questioni infondata e manifestamente
inammissibile di costituzionalità (Cost., art. 3, 25; cod. pen., art. 261, 262; 1. 24 ottobre 1977 n. 801, istituzione e ordina
mento dei servizi per le informazioni e la sicurezza e discipli na del segreto di Stato, art. 12; 1. 7 agosto 1990 n. 241, nuove
norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto
di accesso ai documenti amministrativi, art. 24).
E infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art.
262 c.p., nella parte in cui punisce chiunque rivela od ottiene
notizie delle quali l'autorità competente ha vietato la divul
gazione, in riferimento all'art. 25, 2° comma, Cost. (1) È manifestamente inammissibile, per carenza dì potere deciso
rio in capo al giudice a quo, la questione di legittimità costi
tuzionale dell'art. 262 c.p., nella parte in cui punisce chiun
que rivela od ottiene notizie delle quali l'autorità competente ha vietato la divulgazione, in riferimento agli art. 3 e 25, 2°
comma. Cost. (2)
(1-2) La sentenza in epigrafe (riportata in Giur. costit., 2002, 2123, con nota di Pisa-Scopinaro, Segreto di Stato e notizie riservate: un 'in
terpretazione costituzionalmente corretta in attesa della riforma del codice penale, e con nota di Bonzano, La Consulta torna a pronunciar si sul segreto di Stato: brevissime note in margine alla sent. n. 295 del
2002) conferma la posizione, già più volte assunta dalla Consulta, sulla
problematica delle c.d. norme penali in bianco (in argomento, cfr. Corte cost. 8 luglio 1971, n. 168, Foro it., 1971, I, 2101; 27 giugno 1972, n.
117, id., 1972, I, 2736; in dottrina, v. Fiandaca-Musco, Diritto penale, parte generale, Bologna, 2001, 56 ss.; Fiandaca-Di Chiara, Una intro
duzione al sistema penale, Napoli, 2003, 65 ss.; Marinucci-Dolcini, Corso di diritto penale, Milano, 2001, 99 ss.; Id., Diritto penale, parte generale, Milano, 2002, 41 ss.; Carboni, L'inosservanza dei provvedi menti dell'autorità, Milano. 1970, 154 ss.; Id., Norme penali in bianco e riserva di legge: a proposito della legittimità costituzionale dell'art. 650 c.p., in Riv. it. dir. e proc. pen., 1971, 454 ss.) e nel contempo pro pone, dopo interminabili contrasti dottrinali e giurisprudenziali, l'inter
pretazione corretta del quadro normativo vigente in materia di segreto di Stato (sul tema, tra gli altri, cfr. Fiandaca-Musco, Diritto penale, parte speciale, Bologna, 1999, 60 ss.; Pisa, Il segreto di Stato. Profili penali, Milano, 1977; Id., Spionaggio. II. Spionaggio politico-militare (dir. pen.), voce dell' Enciclopedia giuridica Treccani, Roma, 1993, XXX; Insolera, Spionaggio, voce dell' Enciclopedia del diritto, Mila
no, 1990, XLIII, 455 ss.). La censura d'incostituzionalità, sollevata in riferimento al principio
di legalità sotto il duplice profilo della riserva di legge e della tassati vità della fattispecie di reato, investiva l'art. 262 c.p., il quale punisce chiunque rivela od ottiene «notizie delle quali l'autorità competente ha vietato la divulgazione» (c.d. notizie riservate). Secondo l'ordinanza di
rimessione, concernente la rivelazione di notizie riguardanti la costru zione di un carcere di massima sicurezza, la disposizione impugnata violerebbe l'art. 25, 2° comma, Cost., in quanto non delineerebbe il nu cleo essenziale della fattispecie punibile, lasciandone integralmente la definizione all'autorità amministrativa: la mancanza di un parametro legale cui fare riferimento per l'identificazione delle notizie riservate, non essendo ad esse riferibile, ad avviso del rimettente, la definizione di cui all'art. 12 1. n. 801 del 1977 (sulle notizie coperte dal segreto di
Stato), lascia un ampio margine di discrezionalità al potere esecutivo in ordine alla scelta concreta delle notizie cui apporre il divieto di divul
gazione; disancorando, infatti, la fattispecie di cui all'art. 262, 1° com
ma, c.p. dall'ambito della tutela penale del segreto e della correlativa
nozione, non resta che un precetto assolutamente scarno e incapace di delimitare l'oggetto della tutela entro confini certi: in palese contrasto con il principio della sufficiente determinatezza della fattispecie incri minatrice.
Secondo il giudice a quo ci troveremmo, dunque, dinanzi ad una norma penale in bianco rispetto alla quale mancherebbe una sufficiente
specificazione legislativa dei presupposti, dei caratteri, del contenuto e dei limiti dei provvedimenti amministrativi alla cui trasgressione deve
seguire la pena. L'incertezza del precetto penale e, in particolare, la mancata indica
zione nel contesto dell'art. 262 c.p. dei motivi per i quali può essere di
sposta la non divuigabilità delle notizie (rimettendo la norma in toto al l'autorità amministrativa le ragioni del divieto), precluderebbe altresì il
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
Diritto. — 1. - Il giudice per le indagini preliminari del Tri bunale di Genova dubita della legittimità costituzionale, in rife
rimento agli art. 3 e 25 Cost, dell'art. 262 c.p., che, con disposi zione collocata nell'ambito dei delitti contro la personalità dello
Stato, punisce chiunque rivela od ottiene «notizie delle quali l'autorità competente ha vietato la divulgazione» (c.d. notizie
riservate). Ad avviso del rimettente, risulterebbe leso anzitutto il princi
pio di tassatività della legge penale, sancito dall'art. 25 Cost., essendosi al cospetto di una norma penale in bianco rispetto alla
sindacato incidentale di legittimità del giudice penale sul provvedi mento.
La premessa interpretativa da cui parte il g.i.p. rimettente, ossia
l'impossibilità di estendere anche alla categoria delle notizie riservate le indicazioni legislative sul concetto di notizie segrete, lo induce a
propendere per l'assoluta eterogeneità delle due classi di ipotesi legata principalmente alla diversità dei beni protetti dalle due disposizioni: l'una, l'art. 261 c.p., a presidio «dell'unità fisica dello Stato rispetto ad
attacchi esterni o interni» e del «continuo e corretto funzionamento de
gli organi costituzionali»; l'altra, l'art. 262 c.p., a tutela di «interessi non individuabili a priori, ma comunque privi di rango costituzionale e
di minore valore». Il problema alla base dell'interpretazione del complesso normativo
riguardante le notizie riservate è essenzialmente imperniato sulla diffi
coltà di delimitare in base a riferimenti legislativi predeterminati la no
zione di notizia riservata, soprattutto in rapporto all'area semantica co
perta dal concetto di notizia segreta in senso stretto. In proposito, la tesi
della sostanziale omogeneità delle notizie segrete e delle notizie riser
vate era stata pacificamente accolta dalla dottrina prevalente (per tutti, cfr. Pisa, Il segreto di Stato, cit., 56) sotto la vigenza del codice del
1930, considerata la notevole elasticità del concetto di segreto di Stato
coincidente con le «notizie che nell'interesse della sicurezza dello Stato
o, comunque, nell'interesse politico interno o internazionale dello Sta
to, debbono rimanere segrete». Si coglie nella definizione legislativa su
riportata «la volontà di dare massima ampiezza all'ambito dei segreti tutelati in sede penale» (così, Insolera, Spionaggio, cit., 457); volontà
peraltro assecondata dalla tendenza della dottrina ad assimilare, quanto
agli obiettivi di tutela, le notizie riservate al segreto di Stato in senso
proprio. Il quadro così delineato appariva, già allora, sospettabile d'incostitu
zionalità in riferimento al principio di stretta legalità: sia sotto il profilo del principio di tassatività (per la scarsa afferrabilità e l'estesa latitudi
ne della nozione di interesse politico, interno o internazionale), sia
sotto il profilo della riserva di legge (a causa dell'assoluta indetermi natezza dei parametri che dovrebbero guidare l'autorità amministrativa
nell'imposizione del divieto).
L'aspetto principale che differenziava le due categorie di notizie ve
niva individuato nella natura oggettiva o soggettiva del criterio utiliz
zato dal legislatore per definirle: alla sfera dei segreti di Stato in senso
stretto, delineata secondo un criterio oggettivo essenzialmente basato
sulla protezione di interessi superiori, di natura politica o militare, dello
Stato, si contrapponeva l'area delle notizie riservate «costruita secondo
un criterio soggettivo, consentendo alla pubblica amministrazione di
stabilire che determinate notizie siano sottratte alla libera circolazione a
seguito di un apprezzamento (in larga misura insindacabile) sulla peri colosità della divulgazione delle stesse per dati interessi statuali» (Pisa, Il segreto di Stato, cit., 93).
Solo con la 1. 24 ottobre 1977 n. 801 preceduta da due importanti de cisioni della Corte costituzionale sul segreto di Stato (cfr. Corte cost.
14 aprile 1976, n. 82, Foro it., 1976, I, 1157, e 24 maggio 1977, n. 86,
id., 1977, I. 1333) si perviene ad una determinazione normativa del
concetto di segreto di Stato che consente di interpretare con sufficiente
precisione le fattispecie incriminatrici ad esso relative. A fronte di un orientamento restio ad applicare la nuova disciplina
anche alle notizie delle quali l'autorità competente ha vietato la divul
gazione (nel senso dell'applicabilità della normativa prevista dalla 1. n.
801 del 1977 esclusivamente al segreto di Stato, «e non anche alle noti
zie riguardanti cose, fatti ed atti che sono conosciuti in un determinato
ambito spaziale o personale ma che, comunque, nell'interesse dello
Stato non possono essere divulgate», v. Cass. 12 febbraio 1982, Biasci, Riv. pen., 1982, 886, e Foro it., Rep. 1983, voce Spionaggio, n. 1). ap
pare predominante l'opinione che invece attribuisce alla nuova legge l'effetto di determinare un sostanziale avvicinamento tra i due settori di
notizie penalmente tutelate. Il fondamento di questa interpretazione viene individuato in due fondamentali ordini di ragioni: in primo luogo
nell'oggettiva omogeneità degli interessi protetti dalle due classi di no
tizie, così come evidenziati dalla norma definitoria di cui all'art. 12 1.
n. 801 del 1977, i quali costituirebbero «un substrato sostanziale comu
ne» alle due distinte categorie del segreto; in secondo luogo, nell'espli cito richiamo fatto dall'art. 18, sempre al fine di una delimitazione
contenutistica del segreto, all'art. I stessa legge e quindi ai poteri del
Il Foro Italiano — 2003.
quale mancherebbe una sufficiente specificazione legislativa dei
presupposti, dei caratteri, del contenuto e dei limiti dei provve dimenti amministrativi alla cui trasgressione deve seguire la pe na: carenza, questa, che — segnatamente a fronte del silenzio
della legge circa i fini per i quali il divieto di divulgazione di determinate notizie può essere imposto
— precluderebbe anche
il sindacato incidentale di legittimità del giudice ordinario sul
provvedimento, in vista della sua eventuale disapplicazione. La norma incriminatrice impugnata
— comminando una pena
uguale, nel massimo, a quella prevista dall'art. 261 c.p. per il
presidente del consiglio sull'apposizione e sulla tutela del segreto di
Stato (a favore dell'esistenza di un'omogeneità di interessi posti a fon
damento delle due categorie di segreti, cfr. Cass. 4 luglio 1985, Acun
zo, Riv. pen., 1985, 965, e Foro it., Rep. 1986, voce cit., n. 1, la quale afferma che per la sussistènza del delitto di cui all'art. 256, 3° comma,
c.p., «le notizie devono concernere la sicurezza o altro interesse politi co interno o internazionale dello Stato onde non ogni notizia la cui di
vulgazione sia vietata dall'autorità competente può venire in considera
zione ai fini dell'ipotesi delittuosa»). L'unica differenza tra le due categorie consisterebbe nel fatto che «le
notizie segrete possono prescindere da qualsiasi intervento di classifi
cazione e quindi vanno tutelate anche se l'autorità competente non è
intervenuta in materia» laddove le notizie riservate sono quelle anche
conosciute da un'ampia fascia di soggetti, ma in ordine alle quali appa re opportuno circoscriverne la conoscenza con un apposito provvedi mento «classificatorio» che ne vieta l'ulteriore divulgazione (cfr., sul
punto, Pisa-Scopinaro, op. cit., 2133). Il sospetto d'incostituzionalità della disposizione censurata, legato
alla dicotomia esistente tra segreto di Stato e notizie riservate, presup pone peraltro il rifiuto implicito della tesi (cfr., sul punto, Fiandaca
Musco, Diritto penale, parte speciale, cit., 60; Cavallari, Dal segreto politico-militare al segreto di Stato, in Segreto e prova penale, Atti del
XII convegno De Nicola, 1979, 27; Conso, Relazione di sintesi, ibid.,
195; Gallo-Musco, Delitti contro l'ordine costituzionale, Bologna, 1984, 113), secondo cui con l'entrata in vigore della 1. n. 801 del 1977
si sarebbe verificata un'abrogazione tacita delle norme poste a tutela
delle notizie riservate o, comunque, un superamento della categoria. A
sostegno della tesi si osserva che la nuova disciplina, ridefinendo al
l'art. 12, in linea con i principi costituzionali in materia, la nozione di
segreto di Stato, non ha fatto alcun riferimento alle notizie delle quali è
vietata la divulgazione; per di più, l'art. 18 1. cit., estenderebbe la defi
nizione contenuta nell'art. 12 all'intera normativa codicistica concer
nente il segreto di Stato, senza fare alcuna menzione delle disposizioni attinenti alle notizie riservate. Da tali argomentazioni si è dedotta la
volontà del legislatore di eliminare dall'ordinamento penale la catego ria delle notizie riservate, incompatibile con la connotazione marcata
mente oggettiva che la legge di riforma ha inteso dare alla sfera dei se
greti. Una ulteriore conferma si ricaverebbe dalla disciplina processua le: il testo dell'art. 202 c.p.p. sottrae alla pubblicità del processo le sole
notizie segrete, a differenza del testo originario del codice previgente che si riferiva anche alle notizie riservate.
Si tratta comunque di un'opinione oggi smentita dalla nuova inter
pretazione prospettata dalla Consulta nella sentenza in rassegna, che fa
proprio l'indirizzo di recente espresso dalla Cassazione in merito al
l'attuale disciplina concernente le notizie segrete e le notizie riservate
(cfr. Cass. 10 dicembre 2001, Bazzanella, Cass, pen., 2002, 2694, con
nota di Massa, Notizie riservate, libertà di parola e valore della tolle
ranza', Dir. e formazione, 2003, fase. 2, 203, con nota di Murgia, Il
problema della tutela penale delle notizie riservate per la salvaguardia di interessi non vitali della personalità dello Stato, e Foro it., Rep. 2002, voce Personalità dello Stato (delitti), nn. 8, 9).
La Cassazione, infatti, con la decisione sopra citata indica la soluzio
ne corretta al problema dei rapporti tra «segreto» e «riservato», ravvi
sando una matrice comune alle due categorie che consenta di far rien
trare anche le notizie non divulgabili nell'ambito della tutela penale del
segreto in senso stretto. La premessa ermeneutica da cui era partito il giudice a quo viene co
sì sovvertita dalla Corte costituzionale sulla base delle considerazioni
elaborate sul punto dalla Cassazione: «le notizie riservate [. . .] costitui
scono categoria omogenea, sul piano dei requisiti oggettivi di pertinen za e di idoneità offensiva, rispetto a quella delle notizie sottoposte a se
greto di Stato». Ai fini, dunque, della legittimità del provvedimento amministrativo che impone il divieto di divulgazione integrando il pre cetto di cui all'art. 262 c.p., è necessario che la notizia sia inerente alle
medesime finalità che, a norma dell'art. 12 1. n. 801 del 1977, giustifi cano il segreto di Stato e mostri altresì una concreta attitudine ad arre
care pregiudizio agli interessi ivi indicati.
In considerazione dell'asserita omogeneità strutturale delle due cate
gorie di notizie, confermata inoltre dal regime delle esclusioni del di
ritto di accesso delineato all'art. 24 1. 7 agosto 1990 n. 241 (che esclude
il diritto di accesso per i documenti coperti da segreto di Stato ai sensi
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PARTE PRIMA 2932
delitto di rivelazione di segreti di Stato (anni ventiquattro di re
clusione) -— si porrebbe altresì in contrasto con l'art. 3 Cost. Si
tratterebbe, infatti, di equiparazione irragionevole, stante la di
versità dei beni protetti dalle due disposizioni: beni che, nel ca
so dell'art. 261 c.p., si identificherebbero — alla luce della de
finizione del segreto di Stato offerta dall'art. 12 1. 24 ottobre
1977 n. 801 — nell'unità fisica dello Stato rispetto ad attacchi
interni o esterni, e nel continuo e corretto funzionamento degli
organi costituzionali; e nell'ipotesi dell'art. 262 c.p., invece, in
interessi non individuabili a priori, ma comunque privi di rango costituzionale.
Sarebbe violato, infine, il principio di legalità della pena, enunciato dall'art. 25, 2° comma, Cost. L'eccessivo divario tra
la pena edittale minima e massima comminata per il delitto in
questione —
rispettivamente tre anni di reclusione (che potreb bero scendere a due, in caso di concessione delle attenuanti ge neriche, e a pena ancora inferiore nell'ipotesi di ricorso a riti
alternativi) e ventiquattro anni di reclusione (quale limite desu
mibile, in difetto di specifica indicazione, dall'art. 23 c.p.) — lascerebbe infatti al giudice un margine talmente ampio, da ren
dere arbitrarit) il suo potere di determinazione della pena in con
dell'art. 12 1. n. 801 cit., nonché nei casi di segreto o di divieto di di
vulgazione altrimenti previsti dall'ordinamento), e facendo leva su una lettura storico-sistematica del quadro normativo di riferimento in su biecta materia, la Corte costituzionale riferisce al settore delle notizie riservate i principi propri della sfera del segreto indicati nella 1. n. 801 del 1977 in modo da salvare la legittimità della norma penale in bianco denunziata.
Pertanto, confermando l'orientamento della giurisprudenza costitu zionale in merito all'ammissibilità delle diverse forme d'integrazione tra legge penale e fonti normative secondarie (sul tema, cfr. Corte cost.
282/90, id., 1991, I, 3020, con nota di Albeggiane Riserva dì legge e
determinazione dei soggetti attivi di un reato proprio; 333/91, ibid., 2628, con nota di Fiandaca, La nuova legge anti-droga tra sospetti di incostituzionalità e discrezionalità legislativa; 168/71, cit.; 117/72, cit.), la corte ritiene compatibile con il principio della riserva di legge e di tassatività l'ipotesi in cui la norma penale si limita a sanzionare l'i
nottemperanza a provvedimenti amministrativi che vietano la divulga zione di determinate notizie, essendo rinvenibile nella 1. n. 801 del 1977 una sufficiente specificazione dei presupposti, del carattere, del contenuto e dei limiti dei provvedimenti medesimi.
Peraltro, seguendo una diversa impostazione (cfr. Marinucci
Dolcini, Corso di diritto penale, cit., 109 ss.), la disposizione impu gnata non costituirebbe neppure un'ipotesi dì norma penale in bianco in contrasto con il principio della riserva di legge, dovendosi ritenere tale soltanto quella «norma che mutui il precetto da un atto generale e astratto del potere esecutivo, a meno che l'apporto di quest'ultimo ab bia carattere puramente tecnico» (Marinucci-Dolcini, op. cit., 115). Laddove invece il legislatore penale reprima l'inottemperanza a un
provvedimento amministrativo individuale e concreto, il provvedi mento non integrerebbe la previsione legislativa: il fatto penalmente rilevante sarebbe compiutamente descritto dalla norma incriminatrice, la quale individuerebbe una classe di provvedimenti amministrativi il cui rispetto è imposto dalla legge a tutela degli interessi che quei tipi di
provvedimenti mirano a garantire. Non si profilerebbe, dunque, un'i
potesi di una norma in bianco che necessita, per essere tale, di essere
«riempita» da una fonte normativa subordinata (Marinucci-Dolcini, op. loc. cit.).
Se quindi si esclude che norme di tal genere contrastino con la riser va di legge, è tuttavia possibile che si prospetti una violazione del prin cipio di legalità sotto il diverso profilo della sufficiente determinatezza della fattispecie, qualora la norma legislativa sia formulata in modo
impreciso. In proposito si ritiene che l'esigenza di precisione sia soddi sfatta solo quando la disposizione legislativa identifichi ben definite classi di provvedimenti sotto le quali ricondurre il singolo provvedi mento concreto, indicando le autorità competenti ad emanarli, nonché le condizioni e i presupposti della loro emanazione (Marinucci Dolcini, op. loc. cit.).
Nel caso in rassegna la corte, nulla dicendo in ordine ai parametri cui fare riferimento per accertare un grado «sufficiente» di determinatezza nella formulazione legislativa, sembra piuttosto avere utilizzato il prin cipio di tassatività nella sua accezione di canone ermeneutico incidente sui risultati interpretativi, così da sanare con un'interpretazione c.d. tassativizzante l'indubbia indeterminatezza della disposizione relativa alle notizie riservate (su tale tecnica ermeneutica, cfr. Palazzo, Orien tamenti dottrinali ed effettività giurisprudenziale del principio di de terminatezza-tassatività in materia penale, in AA.VV., Le discrasie tra dottrina e giurisprudenza in diritto penale, Napoli, 1991, 34 ss). [F. Serraino]
Il Foro Italiano — 2003.
creto; tale potere, pertanto, cesserebbe di essere strumentale al
l'esigenza di adeguamento della risposta sanzionatoria al caso
singolo, per investire lo stesso apprezzamento del disvalore del
fatto tipico: compito, questo, riservato per contro al legislatore. 2.1. - La prima delle tre censure di costituzionalità non è fon
data.
Essa poggia, infatti, sulla premessa interpretativa dell'impos sibilità di riferire alla categoria delle «notizie riservate», pro tette dall'art. 262 c.p., le indicazioni rinvenibili nella 1. n. 801
del 1977 a proposito del segreto di Stato. Da tale premessa il
giudice a quo trae il duplice corollario dell'eterogeneità delle
due classi di notizie (segrete e riservate), sul versante degli obiettivi di tutela; e della sostanziale indeterminatezza delle
condizioni legittimanti l'apposizione del divieto di divulgazio ne, presidiato dalla norma incriminatrice impugnata: norma la
cui operatività verrebbe perciò a dipendere da valutazioni del
l'autorità amministrativa, svincolate da ogni parametro legale e
insindacabili da parte del giudice penale. L'indicata premessa interpretativa è stata, peraltro, recente
mente contraddetta dalla Corte di cassazione, la quale, con deci
sione successiva all'ordinanza di rimessione (cfr. sez. I 10 di
cembre 2001, Bazzanella, Foro it., Rep. 2002, voce Personalità
dello Stato (delitti), nn. 8, 9), si è espressa nell'opposto senso
che le notizie riservate — intese come notizie «delle quali, pur conosciute o conoscibili in un determinato ambito, è vietata la
divulgazione con provvedimento dell'autorità amministrativa» — costituiscono categoria omogenea, sul piano dei requisiti og
gettivi di pertinenza e di idoneità offensiva, rispetto a quella delle notizie sottoposte a segreto di Stato. Facendo leva sul col
legamento storico-sistematico, riscontrabile tra le due categorie di notizie, e traendo altresì specifico argomento dal regime delle
esclusioni del diritto di accesso delineato dall'art. 24 1. 7 agosto 1990 n. 241 e dalla relativa normativa regolamentare di attua
zione, il giudice di legittimità ha affermato, più in particolare, non soltanto che le notizie riservate debbono inerire ai medesi
mi interessi che, a mente dell'art. 12 1. n. 801 del 1977, giustifi cano il segreto di Stato; ma altresì che la loro diffusione deve ri
sultare idonea — al pari di quanto avviene per le notizie sotto
poste a segreto di Stato, in forza della norma definitoria da ul
timo citata — a recare un concreto pregiudizio ai predetti inte
ressi. Nella medesima decisione si precisa, inoltre, che il divieto
di divulgazione, analogamente a quello impositivo del segreto di Stato — concorrendo ad integrare la componente precettiva della norma incriminatrice — resta soggetto a sindacato di le
gittimità da parte del giudice penale, segnatamente in rapporto
agli accennati requisiti di inerenza contenutistica e di attitudine
offensiva della notizia che ne costituisce oggetto. Viene prospettata, in tal modo, una possibile lettura del qua
dro normativo, che si presta a sottrarre la disposizione impu
gnata al sospetto di violazione del principio di tassatività della
fattispecie di reato, nonché del principio di legalità in materia
penale sotto il profilo della riserva di legge (anch'esso sostan
zialmente evocato dalla doglianza del giudice a quo). Al lume
di tale lettura, risulta difatti rinvenibile nella legge una suffi
ciente specificazione dei presupposti, del carattere, del conte
nuto e dei limiti dell'atto di natura amministrativa che impone il
divieto assistito da sanzione penale, tale da permettere un effi
cace controllo incidentale di legittimità dell'atto medesimo
(cfr., ex plurimis, sentenze n. 333 del 1991, id., 1991,1, 2628, e
n. 282 del 1990, ibid., 3020). Resta comunque auspicabile che il legislatore si faccia carico
dell'esigenza di una revisione complessiva della materia in
esame: esigenza avvertita, per vero, già all'epoca dell'emana
zione della 1. n. 801 del 1977, il cui art. 18 assegnava carattere
di «transitorietà» al regime delineato dal titolo I del libro II del
codice penale, in vista dell'emanazione di una «nuova legge or
ganica relativa alla materia del segreto». 2.2. - Manifestamente inammissibili risultano, invece, le resi
due censure, che ineriscono in via esclusiva al trattamento san
zionatorio della figura criminosa.
La questione è stata sollevata, infatti, dal giudice rimettente
nella veste di giudice dell'udienza preliminare: veste nella quale
egli non è chiamato a determinare la pena per il fatto per cui si
procede, essendo il suo potere decisorio, nel caso di specie, cir
coscritto all'alternativa fra la sentenza di non luogo a procedere e il decreto che dispone il giudizio.
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
La dedotta irragionevolezza della pena massima e l'asserita
eccessiva ampiezza del divario fra il massimo e il minimo della
pena edittale, previsto dall'art. 262 c.p., non vengono pertanto in alcun modo in rilievo nel perimetro del thema decidendum
del giudice a quo (cfr., sempre in riferimento all'art. 262 c.p. e
con riguardo a situazione processuale analoga, ordinanza n. 156
del 2000, id., Rep. 2000, voce Spionaggio, n. 2). Per questi motivi, la Corte costituzionale:
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell'art. 262 c.p. sollevata, in riferimento all'art. 25 Cost., dal
giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Genova con l'ordinanza in epigrafe;
dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legit timità costituzionale dell'art. 262 c.p., nella parte relativa al
trattamento sanzionatorio, sollevata, in riferimento agli art. 3 e
25 Cost., dal predetto giudice con la medesima ordinanza.
CORTE COSTITUZIONALE; sentenza 24 giugno 2002, n. 268 (Gazzetta ufficiale, la serie speciale, 3 luglio 2002, n.
26); Pres. Ruperto, Est. Contri. Orci. App. Torino 20 novem
bre 2000 (G.U., la s.s., n. 9 del 2001).
Adozione e affidamento — Adozione di minori in casi parti colari — Assunzione automatica del cognome dell'adot
tante anteposto a quello originario del minore adottato —
Questione infondata di costituzionalità (Cost., art. 2, 3, 30,
31; 1. 4 maggio 1983 n. 184, diritto del minore ad una fami
glia, art. 55).
È infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art.
55 l. n. 184 del 1983, nella parte in cui, rinviando all'art. 299
c.c. per l'attribuzione del cognome al minore adottato in casi
particolari, non consente che il minore, o suoi legali rappre
sentanti, o gli adottanti possano ottenere, sempre nell'inte
resse del minore, che questi mantenga il suo precedente co
gnome, anteponendolo o aggiungendolo a quello dell'adot
tante, o sostituisca il cognome di quest'ultimo al suo, in rife rimento agli art. 2, 3, 2° comma, 30, 3° comma, e 31, 2°
comma, Cost. (1)
(1) I. - Con la pronuncia in epigrafe la Consulta ribadisce il princi
pio secondo cui il cognome è una parte essenziale ed irrinunciabile della personalità, un tratto essenziale dell'identità personale ed è quindi riconosciuto come un «bene oggetto di un autonomo diritto dall'art. 2
Cost.»; in tal senso si erano già espresse Corte cost. 3 febbraio 1994, n.
13, Foro it., 1994,1, 1668; 23 luglio 1996, n. 297, id., 1996, I, 3600; 11
maggio 2001, n. 120, id., 2002, I, 646, con nota di V. Raparelli, ri
chiamate in motivazione. Per l'affermazione secondo cui oggetto del diritto all'identità personale, sotto il profilo del diritto al nome, non è la
scelta del nome, bensì il nome acquisito per estensione legale che me
glio tutela l'interesse alla conservazione dell'unità familiare, v. Corte
cost., ord. 11 febbraio 1988, n. 176, id., 1988, I, 1811, con nota di D.
Caruso. In dottrina, sui rapporti tra diritto al nome e identità personale, v. M.
Dogliotti, L'identità personale, in Trattato Rescigno, Torino, 1999, I, 2, 145; V. Zeno-Zencovich, Identità personale, voce del Digesto civ., Torino, 1993, IX; A. Cerri, Identità personale, voce deh'Enciclo
pedia giuridica Treccani, Roma, 1989, XV.
II. - In caso di adozione particolare ex art. 44, lett. b), 1. 184/83, nel
senso che il minore, riconosciuto da un solo genitore naturale e poi adottato dal coniuge della donna, conserva il doppio cognome, v. Cass.
19 agosto 1996, n. 7618, Foro it., Rep. 1997, voce Adozione, n. 50.
Nella giurisprudenza di merito, v. App. min. Salerno 2 luglio 1991,
id., Rep. 1993, voce cit., n. 48; in tale pronuncia si afferma che il mino
re, figlio naturale riconosciuto da un solo genitore e poi adottato con
adozione in casi particolari, assume il solo cognome degli adottanti, so
stituendolo al proprio, diversamente dal figlio naturale riconosciuto da
Il Foro Italiano — 2003.
Diritto. — 1. - La questione di legittimità costituzionale sol
levata dalla Corte d'appello di Torino, sezione per i minorenni,
investe l'art. 55 1. 4 maggio 1983 n. 184 (disciplina dell'adozio
ne e dell'affidamento dei minori; ora, dopo le modifiche intro
dotte dalla 1. 28 marzo 2001 n. 149: diritto del minore ad una
famiglia), che, per l'attribuzione del cognome al minore adot
tato in casi particolari, rinvia all'art. 299 c.c., norma dettata per l'adozione di persone maggiori d'età; in forza di tale rinvio
entrambi i genitori (e poi adottato con adozione non piena), il quale as sume il cognome degli adottanti anteponendolo al proprio, che conser va.
III. - In tema di adozione di maggiorenni, cfr. — richiamata in moti
vazione — Corte cost. 11 maggio 2001, n. 120, cit., che ha dichiarato
l'illegittimità costituzionale dell'art. 299, 2° comma, c.c., nella parte in cui non prevede che, qualora sia figlio naturale non riconosciuto dai
propri genitori, l'adottato possa aggiungere al cognome dell'adottante anche quello originariamente attribuitogli.
IV. - In riferimento all'attribuzione ai figli legittimi del solo cogno me paterno, v. Corte cost., ord. 19 maggio 1988, n. 586, id., Rep. 1988, voce
Nome, n. 6, che ha dichiarato manifestamente inammissibile, trattando si di questione di politica e di tecnica legislativa di competenza esclusi va del conditor iuris, la questione di legittimità costituzionale degli art.
73 r.d. n. 1238 del 1939, e 6, 143 bis, 236, 237, 2° comma, e 262, 2°
comma, c.c., nella parte in cui le norme denunciate prevedono che ai
figli legittimi debba imporsi solo il cognome paterno, senza prevedere la facoltà per la madre di trasmettere loro il proprio cognome d'origine e per i figli medesimi di assumere il cognome materno. In precedenza, nello stesso senso, v. Corte cost., ord. 11 febbraio 1988, n. 176, cit.; nonché ord. 5 marzo 1987, n. 76, ibid., voce Stato civile, n. 16, che ha di
chiarato manifestamente inammissibile, per difetto di rilevanza, analo
ga questione di legittimità costituzionale sollevata da Trib. Lucca, ord.
21 gennaio 1985, id., 1985,1, 1809, con nota di V. Sinisi.
Nella giurisprudenza di merito, cfr. App. Milano 4 giugno 2002, Fa
miglia e dir., 2003, 173, con nota di A. Figone; con tale pronunzia i
giudici milanesi affermano che non è consentito ai genitori di un figlio
legittimo chiedere la sostituzione del cognome paterno del figlio con
quello materno, atteso che, pur in mancanza di espressa previsione legis lativa, sussiste nell'ordinamento una norma consuetudinaria che im
pone al figlio legittimo il solo cognome paterno. In dottrina, nel senso che si tratterebbe di una consuetudine praeter
legem, v. A. Finocchiaro, Il figlio legittimo può aggiungere al proprio
cognome anche quello della madre?, in Giust. civ., 1985,1, 879. V. - In tema di filiazione naturale, cfr. Corte cost. 23 luglio 1996, n.
297, cit., che ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell'art. 262
c.c., nella parte in cui non prevede che il figlio naturale, nell'assumere il
cognome del genitore che lo ha riconosciuto, possa ottenere dal giudice il riconoscimento del diritto a mantenere, anteponendolo o, a sua scelta,
aggiungendolo a questo, il cognome precedentemente attribuitogli con
atto formalmente legittimo, ove tale cognome sia divenuto autonomo
segno distintivo della identità personale. In conseguenza di tale pronuncia, nella giurisprudenza di merito, v.
Trib. min. Perugia 1° febbraio 2000, Foro it., Rep. 2000, voce Filiazio
ne, n. 75, secondo cui il figlio minorenne, in tempi successivi ricono
sciuto da entrambi i genitori naturali, può conservare il solo cognome della madre che per prima l'ha riconosciuto, se ciò risponde meglio al
l'interesse del figlio, specialmente sotto il profilo del minor trauma
quanto all'identificazione personale nella cerchia sociale ove è vissuto
col cognome materno nel lungo intervallo temporale tra il primo e il se condo riconoscimento. Contra, Trib. min. Salerno 16 giugno 1998, id..
Rep. 1998, voce cit., n. 97. Prima dell'intervento della Consulta, v. App. Torino, decr. 15 feb
braio 1993, id.. Rep. 1994, voce cit., n. 38, secondo cui l'art. 262, 2°
comma, c.c. andava interpretato nel senso che al figlio, prima ricono
sciuto dalla madre e successivamente dal padre, andava attribuito il co
gnome paterno anteposto al cognome materno, ove così richiedeva
l'interesse del minore; nello stesso senso, Trib. min. Trieste 29 luglio 1985, id., Rep. 1986, voce cit., n. 58.
Nel senso che il tribunale per i minorenni, richiesto di decidere, ex
art. 262 c.c., circa l'assunzione del cognome paterno, non poteva mai
decretare l'obliterazione di quest'ultimo potendo, tutt'al più, consentire
il mantenimento del cognome materno abbinato al cognome, insoppri mibile, paterno, cfr. Trib. min. Roma, decr. 2 novembre 1994, id., Rep. 1995, voce cit., n. 49.
VI. - In materia di legittimazione dei figli naturali, in relazione ai
rapporti fra la trasmissione del cognome e l'identità personale, v. Cass.
27 aprile 2001, n. 6098, id.. Rep. 2001, voce cit., n. 47, secondo cui,
nell'ipotesi in cui il minore figlio naturale, riconosciuto prima dalla
madre e poi dal padre, venga legittimato per provvedimento del giudi ce, deve essere esclusa ogni automaticità nell'attribuzione del cognome al figlio legittimato, spettando al giudice di merito valutare l'interesse
esclusivo del minore, avuto riguardo al diritto del medesimo alla pro
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