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sentenza 29 giugno 1983, n. 191 (Gazzetta ufficiale 6 luglio 1983, n. 184); Pres. Elia, Rel....

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sentenza 29 giugno 1983, n. 191 (Gazzetta ufficiale 6 luglio 1983, n. 184); Pres. Elia, Rel. Ferrari; Caparra (Avv. Mazzei) c. Caparra (Avv. Ambrosio); interv. Pres. cons. ministri (Avv. dello Stato Baccari). Ord. App. Catanzaro 18 maggio 1976 (Gazz. uff. 1° dicembre 1976, n. 321) Source: Il Foro Italiano, Vol. 106, No. 9 (SETTEMBRE 1983), pp. 2073/2074-2077/2078 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23176979 . Accessed: 28/06/2014 11:04 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 46.243.173.128 on Sat, 28 Jun 2014 11:04:53 AM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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Page 1: sentenza 29 giugno 1983, n. 191 (Gazzetta ufficiale 6 luglio 1983, n. 184); Pres. Elia, Rel. Ferrari; Caparra (Avv. Mazzei) c. Caparra (Avv. Ambrosio); interv. Pres. cons. ministri

sentenza 29 giugno 1983, n. 191 (Gazzetta ufficiale 6 luglio 1983, n. 184); Pres. Elia, Rel.Ferrari; Caparra (Avv. Mazzei) c. Caparra (Avv. Ambrosio); interv. Pres. cons. ministri (Avv.dello Stato Baccari). Ord. App. Catanzaro 18 maggio 1976 (Gazz. uff. 1° dicembre 1976, n. 321)Source: Il Foro Italiano, Vol. 106, No. 9 (SETTEMBRE 1983), pp. 2073/2074-2077/2078Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23176979 .

Accessed: 28/06/2014 11:04

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

II

Motivi della decisione. — (Omissis). Per quanto attiene al me

rito, con il primo motivo di gravame, gli appellanti censurano la

sentenza, per avere il pretore dichiarato inammissibile, per inos

servanza del combinato disposto degli art. 414, 416, 418, 419 c.p.c., l'intervento adesivo autonomo, proposto nel giudizio di primo grado, con memorie del 28 febbraio e 13 marzo 1980, dai signori Carlino Benedetto, Cugusi Domenico, Farris Luciano, Marica

Sergio, Mura Pietro, Pacini Giorgio, Ponticelli Edmondo, Putzolu

Ivo e Vacca Pierluigi. Si afferma, in contrasto con quanto sostenuto dal pretore, che,

al fine di garantire, nei casi d'intervento di terzi nel processo, il

rispetto del principio del contraddittorio ex art. 101 c.p.c., poiché l'art. 419 c.p.c. non richiama espressamente gli art. 415 e 418

c.p.c., non è necessaria la notifica dell'atto di intervento avvenuto

fuori udienza alle altre parti, ma è sufficiente la comunicazione ad

opera del cancelliere, imposta dall'art. 267, 2° comma, c.p.c. che è

norma, peraltro, direttamente applicabile nella fattispecie in esame, stante la menzione, presente nell'art. 419 c.p.c., dell'art. 105 c.p.c.

La censura è fondata. Ed invero l'art. 419 c.p.c. che consente

nel processo del lavoro l'intervento di terzi, nelle diverse ipo tesi previste dall'art. 105 c.p.c., dopo aver stabilito che lo stesso

non può aver luogo oltre il termine di costituzione del convenuto

(art. 416, 1° comma, c.p.c.), rinvia direttamente, circa le relative

forme e modalità, agli art. 414 e 416, in quanto applicabili. Stante la non assoluta precisione della norma, si pone il

problema — già evidenziato in dottrina ed in giurisprudenza: Pret. Roma 10 gennaio 1975 (Foro it., Rep. 1976, voce Lavoro e

previdenza (controversie), n. 167) — se l'intervento, particolarmen te nelle forme c.d. innovative di intervento principale ed adesivo

autonomo, debba proporsi con le forme previste dall'art. 418 c.p.c.

per la domanda riconvenzionale e cioè con memoria contenente

la richiesta di fissazione di una nuova udienza da notificarsi alle

altre parti, ovvero mediante il deposito in cancelleria di una

memoria almeno dieci giorni prima dell'udienza di discussione

(cosi come hanno fatto gli intervenuti). Sul punto è opinione del collegio che debba accogliersi quest'ul

tima tesi.

Occorre considerare, in primo luogo, che la possibilità di

utilizzare l'art. 418 c.p.c. per disciplinare la forma degli interventi dei terzi nel processo di lavoro, trova grave ostacolo nell'esegesi dell'art. 419 c.p.c. che rinvia, expressis verbis, non a tale norma, bensì e solamente agli art. 414 e 416 c.p.c. in quanto applicabili.

Neanche può condividersi la tesi del pretore, secondo il quale il

fatto che l'art. 416, 2° comma, c.p.c., cui rinvia l'art. 419 c.p.c.,

prevede l'esercizio da parte del resistente della domanda riconven

zionale, comporta l'applicazione dell'art. 418 c.p.c. all'intervento di

terzi nel processo del lavoro. Ed invero — come rilevato da autorevole dottrina — un tale

argomento esegetico perde importanza se si considera che l'art. 416

c.p.c. nel contemplare la riconvenzionale, non si riferisce all'inter

veniente, poiché la domanda riconvenzionale è un diritto potesta tivo che non rientra nei poteri di quest'ultimo. Non può addursi

inoltre — come ritiene il giudice di primo grado — per sostenere

l'applicazione dell'art. 418 c.p.c. all'intervento una presunta assi

milazione tra la domanda riconvenzionale e l'intervento volontario

ed adesivo autonomo, data dal fatto che entrambi gli istituti

comportando un allargamento del thema decidendum della causa necessitano l'adozione di una serie di tecniche processuali, tra cui

non ultima la notifica alle altre parti dei relativi atti processuali,

per garantire il rispetto del diritto di difesa e del principio del

contraddittorio.

Ed invero la regola secondo cui va fissata una nuova udienza di

discussione nelle ipotesi di domanda riconvenzionale (art. 418

c.p.c.) o di chiamata in causa (art. 420, 9° comma, c.p.c.), non

essendo un principio di ordine generale nel processo del lavoro, non può estendersi all'ipotesi, diversamente disciplinata dall'art.

419 c.p.c., dell'intervento di terzi nel processo. Su un piano più generale va considerato che l'art. 419 c.p.c.

dev'essere integrato, per tutto quanto non previsto, dalle disposi zioni in materia d'intervento, dettate negli art. 267-272 c.p.c., essendo la novella 11 agosto 1973 n. 533, che ha introdotto l'art.

419 c.p.c., lex specialis rispetto alla lex generalis data dal codice di

procedura civile.

Tale integrazione s'impone, inoltre, sia perché l'art. 419 c.p.c.,

stante lo specifico richiamo dell'art. 105 c.p.c. non ha inteso

creare delle ipotesi d'intervento diverse da quelle proprie del

procedimento a cognizione ordinaria, sia in quanto l'art. 311 c.p.c.

dispone che il procedimento davanti ai pretori, per tutto quanto non regolato, è retto dalle norme relative al procedimento innanzi

al tribunale, in quanto applicabili.

Tanto premesso è opinione del collegio che l'intervento di terzi nel processo del lavoro, in tutte le sue forme, debba proporsi con

memoria, avente il contenuto di cui all'art. 414 c.p.c., da deposita re in cancelleria almeno dieci giorni prima dell'udienza di discus

sione (art. 419 e 416 c.p.c.).

Dall'inapplicabilità dell'art. 418 c.p.c. discende che non è neces

sario — a differenza di quanto sostenuto dal pretore — la notifica dell'atto d'intervento (avvenuto fuori udienza) alle altre parti, ma

è sufficiente, per garantire il rispetto del principio del contraddit

torio e del diritto di difesa, la comunicazione ad opera della

cancelleria, prevista all'art. 267, 2° comma, c.p.c. {Omissis)

CORTE COSTITUZIONALE; sentenza 29 giugno 1983, n. 191

(Gazzetta ufficiale 6 luglio 1983, n. 184); Pres. Elia, Rei.

Ferrari; Caparra (Avv. Mazzei) c. Caparra (Avv. Ambrosio); interv. Pres. cons, ministri (Avv. dello Stato Baccari). Ord.

App. Catanzaro 18 maggio 1976 (Gazz. uff. 1° dicembre 1976, n. 321).

Successione ereditaria — Figli naturali — (Dichiarazione giudi ziale di paternità successiva alla morte del « de cuius » >—

Diritto di accettare l'eredità — Decorrenza del termine —

Questione infondata di costituzionalità (Cost., art. 3; cod. civ., art. 480, 2935).

E infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 480

c.c. nella parte in cui non prevede che, per i figli naturali non

riconosciuti, il termine di prescrizione per l'accettazione dell'e

redità decorra dal giorno in cui è stata dichiarata giudizialmente la paternità, in riferimento all'art. 3 Cost. (nella specie, la corte ha ritenuto che ai sensi dell'art. 2935 c.c. il termine decennale di

prescrizione non può correre finché non sia stata accertata

giudizialmente la paternità). (1)

(1) L'ordinanza di rimessione App. Catanzaro 18 maggio 1976 è massimata in Foro it., 1976, I, 2964.

11 problema dell'applicabilità dei principi in tema di prescrizione, al fine di individuare il momento da cui far decorrere il termine decennale per l'accettazione dell'eredità da parte del figlio naturale riconosciuto tale dopo la morte del de cuius, non risulta essere mai stato analizzato dalla giurisprudenza. V., però, una risalente pronuncia (Cass. 6 marzo 1952, n. 606, id., 1952, I, 572), resa in applicazione del codice del 1865, che ha riconosciuto idoneo ad evitare la decorrenza del termine per la proposizione dell'azione di riduzione per lesione della legittima, l'impe dimento derivante dalla mancanza del riconoscimento. In dottrina cfr. A. Finocchiaro, Sussiste il diritto del figlio la cui filiazione sia stata giudizialmente dichiarata dopo l'entrata in vigore del nuovo diritto di famiglia di partecipare alla successione del genitore naturale apertasi sotto il vigore del codice civile del 1942 non ancora riformato? (nota a Cass. 18 marzo 1981, n. 1584, id., Rep. 1981, voce Successione eredi

taria, n. 43), in Giust. civ., 1981, I, 2042 che, contestando un'affermazione di Gabrielli (Commentario alla riforma del diritto di famiglia, a cura di Carraro, Oppo, Trabucchi, Padova, 1976, II, 40), secondo il quale ci sarebbe un'ingiustificata disparità di trattamento tra i figli privi di riconoscimento al momento dell'entrata in vigore del nuovo diritto di

famiglia, ed i figli invalidamente riconosciuti, visto che solo questi ultimi non possono far valere i loro diritti se non hanno accettato l'eredità entro tre anni dall'apertura della successione, nota come i primi si trovino in una situazione totalmente differente, non potendosi per essi parlare di inerzia fino al momento in cui non sarà intervenuta una dichiarazione giudiziale di paternità.

Per quanto riguarda la natura giuridica del termine previsto dall'art. 480 c.c., risulta ormai consolidato l'indirizzo che lo considera previsto non a pena di decadenza ma di prescrizione (Cass. 14 novembre 1981, n.

6032, Foro it., Rep. 1982, voce cit., n. 31; 9 aprile 1980, n. 2290, id., Rep. 1980, voce cit., n. 34; 19 marzo 1979, n. 1596, id., Rep. 1979, voce cit., n. 31; 14 marzo 1977, n. 1017, id., Rep. 1977, voce cit., n. 36; 17 febbraio 1976, n. 522, id., Rep. 1976, voce cit., n. 38; App. Bari 23 ottobre 1975, ibid., n. 38; Azzariti, Le successioni e le donazioni, Padova, 1982, 88; contra Ferri, Successioni in generale, in

Commentario, a cura di Scialoja e Branca, 1964, 247-251, sub art.

480); e la giurisprudenza, rifacendosi all'orientamento per il quale

l'impedimento di cui all'art. 2935 c.c. deve avere natura giuridica, nega rilevanza alla circostanza della mancata conoscenza del testamento. In

tal senso v. Cass. 18 maggio 1971, n. 1482, in motivazione (la sentenza

è riassunta in massima, ma per il solo profilo dell'irrilevanza, ai fini

dell'art. 2935, degli impedimenti di fatto, in Foro it., Rep. 1971, voce

Prescrizione e decadenza, n. 28); 5 gennaio 1970, n. 11, id., Rep. 1970, voce Successione ereditaria, n. 27; 7 giugno 1962, n. 1393, id., 1962, I, 1472. Quest'ultima decisione è stata criticamente commentata da Ricca,

Conoscenza del testamento e decorrenza del termine per l'accettazione

dell'eredità, in Giust. civ., 1963, I, 1412 ss. Nella specie si trattava di

'un testamento, successivamente revocato da un altro, pubblicato ad oltre

dieci anni dal primo. L'autore citato ammette che, essendo stata provata

Il Foro Italiano — 11983 — Parte I-133.

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2075 PARTE PRIMA 2076

Diritto. — (Omissis). 2. - La questione di legittimità costituzio

nale sollevata dalla Corte d'appello di Catanzaro con ordinanza

emessa il 18 maggio 1976 (r.o. 636/1976) consiste nell'assunto che

l'art. 480 c.c., dopo avere stabilito in via generale che « il diritto di

accettare l'eredità si prescrive in dieci anni » e che tale « termine

decorre dal giorno dell'apertura della successione », preveda due

sole eccezioni: quella dell'istituzione condizionale, in cui il termine

decorre « dal giorno in cui si verifica la condizione », e quella dei

« chiamati ulteriori », per i quali « il termine non corre ... se vi è

stata accettazione da parte di precedenti chiamati e successivamen

te il loro acquisto ereditario è venuto meno ». Il giudice a quo la

menta che un'analoga eccezione non sia prevista anche per i sog

getti che siano stati dichiarati figli naturali del de cuius con senten

za passata in giudicato posteriormente al decorso del termine de

cennale di prescrizione, benché si trovassero, « al pari degli istituti

sub conditione e dei chiamati ulteriori, nella posizione di non '

vocati '

e, come tali, nell'impossibilità » di esercitare il diritto di

accettare l'eredità entro il decennio dall'apertura della successione.

Rilevando pertanto tra i due casi eccettivi previsti, da un lato, e

quello non previsto, dall'altro lato, « una disciplina normativa

differenziata quanto alla decorrenza del termine di prescrizione »

e, quindi, la violazione del principio d'eguaglianza (art. 3 Cost.), denunzia l'illegittimità costituzionale dell'art. 480 c.c. « nella parte in cui non si prevede per i figli naturali la decorrenza del termine

di prescrizione del diritto di accettare l'eredità paterna dal giorno della dichiarazione giudiziale di paternità ».

3. - Ai fini della più chiara impostazione del problema, giova tener presente la vicenda giudiziaria da cui ha tratto origine la

questione in oggetto, la quale, benché particolarmente annosa e

tormentata, si lascia tuttavia agevolmente compendiare: nel 1952, decedeva in Ciro tale Caparra Salvatore, nel possesso dei cui beni

si immettevano i quattro figli che il de cuis aveva riconosciuto.

Nel 1965 — e perciò, tredici anni dopo il decesso del summenzio

nato Caparra Salvatore, e due anni dopo la sentenza di questa corte n. 7 del 1963 (Foro it., 1963, I, 471), la quale aveva

dichiarato illegittima l'improponibilità dell'azione per la dichiara

zione giudiziale di paternità nei confronti dei nati anteriormente al

1° luglio 1939 (art. 123, 1° e 2° comma, disp. trans, c.c.) — tali

Romeo Domenico, Carmine Benedetto, Fortunato ed i figli di una

loro sorella premorta convenivano davanti al Tribunale di Crotone

i figli riconosciuti del defunto Caparra Salvatore per sentire

dichiarare giudizialmente che questi era il padre naturale anche di

essi attori. Nel 1972 — e perciò, a distanza di venti anni

dall'apertura della successione in parola — i suddetti Romeo

proponevano azione in petizione di eredità, chiedendo il ricono

scimento del loro diritto successorio e, quindi, tra l'altro, la

dichiarazione di apertura della successione, la divisione dei beni

caduti in eredità, la collazione dei beni ed i necessari provvedi

menti cautelari.

Benché in prime cure dichiarati soccombenti, i Romeo poterono giovarsi della rimessione in termini per la dichiarazione di

paternità, stabilita con la novella n. 1047 del 1971 nei riguardi dei

figli nati anteriormente al 1° luglio 1939, ed ottenere la sentenza

con cui veniva riconosciuto il loro status di figli naturali del defunto Caparra Salvatore, del quale pertanto assunsero anch'essi il cognome. In seguito alla produzione di tale sentenza, passata in

giudicato nelle more dell'appello proposto avverso il rigetto in

primo grado della domanda in petizione di eredità, la corte di Catanzaro ha sollevato la questione in esame, reputando che dalla sua soluzione « dipende la decisione sulla validità dell'accettazione dell'eredità fatta dopo il decennio dall'apertura della successione »

da parte dei Romeo « dichiarati figli naturali » nel corso del

giudizio d'appello « e, quindi, sulla loro legittimazione alla do manda di petizione ».

4. - Con la sollevata questione, il giudice a quo chiede in effetti che questa corte integri l'art. 480 c.c., statuendo che anche per i

figli naturali, e perciò in aggiunta agli istituiti condizionali ed ai

chiamati ulteriori, il termine prescrizionale del diritto di accettare l'eredità non decorre dal giorno dell'apertura della successione, come seconda regola generale, bensì' da quello della dichiarazione

giudiziale di paternità.

All'uopo, dopo avere preliminarmente osservato che le due sole

deroghe alla regola generale '(istituzione condizionale e chiamati

ulteriori) sono insuscettibili, sia d'applicazione analogica, sia d'in

la conoscenza, da parte dell'istituito erede col secondo testamento, della sua esistenza, egli non poteva accampare alcuna scusa, ma critica la sentenza per aver generalizzato la regola, statuendo l'impossibilità di far valere, in ogni caso, l'ignoranza circa l'esistenza della vocazione, e propone che il termine decennale previsto dall'art. 480 inizi a decorrere dal momento della pubblicazione del testamento (sempre che l'istituito non ne abbia avuto conoscenza effettiva in un momento precedente).

terpretazione estensiva, «stante il loro carattere eccezionale»,

esclude progressivamente che la decisione possa fondarsi sull'art.

2935 c.c. o sull'art. 715 stesso codice ovvero ancora sulla 1. n. 1047

del 1971 o infine sul nuovo diritto di famiglia. In quanto al

principio, secondo cui « la prescrizione comincia a decorrere dal

giorno in cui il diritto può essere fatto valere » (art. 2935 c.c.), si

afferma nell'ordinanza che esso non è « valido... in materie

particolari », ove siano previste « espresse statuizioni normative di

diversa decorrenza », come sono quelle di cui al 2° e 3° comma

dell'art. 480 c.c., le quali hanno appunto una diversa decorrenza

del termine prescrizionale e perciò escludono implicitamente « la

possibilità d'interferenza, in materia d'accettazione di eredità, della

disposizione dell'art. 2935 ». Di nessuna utilità risulterebbe altresì

la norma, la quale considera come caso d'impedimento alla

divisione ereditaria « la pendenza di un giudizio sulla legittimità o

sulla filiazione naturale di colui che, in caso di esito favorevole

del giudizio, sarebbe chiamato a succedere » (art. 715 c.c.), perché

ivi nulla è previsto « in ordine alla decorrenza del termine

prescrizionale in questione». E per lo stesso motivo, cioè per la

mancanza di alcuna statuizione in deroga al termine per l'accetta

zione dell'eredità, non gioverebbe far riferimento, né alla 1. n.

1047 del 1971, né al nuovo diritto di famiglia. A riguardo di

quest'ultimo, anzi, la corte di Catanzaro rileva che l'art. 230, 3°

comma, 1. 19 maggio 1975 n. 151 (riforma del diritto di famiglia),

disponendo la validità, « anche agli effetti delle successioni aperte

prima » della sua entrata in vigore, del « riconoscimento dei figli

naturali, compiuto prima di tale data », richiede il verificarsi di

una delle tre condizioni ivi previste: che i diritti successori « non

siano stati esclusi con sentenza passata in giudicato»; che non

siano stati «definiti con convenzione tra le parti»; che «siano

trascorsi tre anni dall'apertura della successione senza che il figlio

abbia fatto valere alcuna ragione ereditaria sui beni della succes

sione ». Ebbene, conclude il giudice a quo, nessuna di tali

condizioni « innova il principio concernente la decorrenza del

termine di prescrizione ex art. 480 c.c. ». Pertanto, non potendosi ritenere che la efficacia retroattiva delle norme sul riconoscimento

e sulla dichiarazione giudiziale di paternità « si estenda agli effetti

successori, perché questi risultano regolati in modo autonomo »,

si ottiene conferma che tra i figli naturali non ancora riconosciuti

o non ancora dichiarati tali, da una parte, e gli istituiti sotto

condizione ed i chiamati ulteriori, dall'altra parte, si determine

rebbe « una disparità di trattamento, contrastante non solo col

principio costituzionale dell'eguaglianza dei cittadini davanti alla

legge, ma anche con l'esigenza di ragionevolezza».

5. - Gli argomenti sopra riassunti, nonostante la loro apparente

varietà, sono fondamentalmente riconducibili a tre motivi, peraltro connessi tra loro: l'inestensibilità dell'art. 480, 2° e 3° comma, c. c.,

oltre le eccezioni ivi espressamente previste; l'inapplicabilità nella

fattispecie del principio di cui all'art. 2935 c.c.; la mancanza

dell'esplicita previsione di una diversa decorrenza del termine

prescrizionale, sia nell'art. 715 c.c., sia nella 1. n. 1047 del 1971, sia

nel nuovo diritto di famiglia (art. 230 e 232 1. n. 151/75).

6. - Per quanto riguarda il motivo esposto per ultimo, il ragiona

mento appare far perno su quei noti broccardi che, in seguito al

raffronto tra ciò che il legislatore ha detto e ciò che ha taciuto,

attribuiscono all'asserito silenzio il valore di omissione intenziona

le. E nella specie, dalla mancanza nella normativa sopra indicata

di un'esplicita e puntuale prescrizione di efficacia retroattiva anche

agli effetti successori si dedurrebbe la preclusione all'interprete di

riconoscere, relativamente al termine per l'esercizio dell'azione in

petizione di eredità, una decorrenza coincidente con l'acquisto dello status di figlio naturale. Ma il criterio ermeneutico

di cui sopra è troppo malsicuro, e conseguentemente non può riconoscersi piena attendibilità alla deduzione, ove non trovi con

valida nel sistema.

7. - Non può dirsi che ne siano una convalida gli argomenti dedicati specificamente all'art. 480 c.c.

a) In primo luogo, il giudice a quo afferma che deroghe

espresse ad una regola generale non avrebbero capacità di espan dersi a fattispecie eccettive non previste, ancorché rivelino la

medesima ratio. Si può prescindere da tale argomento, che di per sé non è decisivo e, anzi, accresce il già consistente disputabile che si rinviene nell'ordinanza; oltre tutto, non potrebbe ignorarsi

l'opposta concezione, secondo cui le norme in deroga darebbero a

loro volta vita ad un loro proprio sistema.

b) A conferma della fondatezza dell'argomento che precede e

della giustezza della sua applicazione all'art. 480 c.c., la corte di

Catanzaro invoca una sentenza della Cassazione (10 giugno 1973, n. 274 [recte: 29 gennaio 1973, n. 274, id., 1973, I, 1050]). Se

nonché, tale pronuncia statuisce, si', effettivamente — anche

se la controversia atteneva agli art. 2941 e 2942 c.c. — la

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

tassatività delle ipotesi di sospensione della prescrizione, ma

soggiunge, cosi precisando il proprio pensiero, che la legge, « per il carattere di ordine pubblico dell'istituto », limita le cause sospen sive « a quelle che consistono in veri e propri impedimenti d'ordine giuridico, con esclusione degli impedimenti di mero fatto». Del resto, si tratta di un indirizzo ampiamente consolidato in materia di prescrizione, cui non potrebbe pertanto disconoscersi il valore di diritto vivente. Proprio con riguardo all'art. 2935 c.c., infatti, risulta affermato da tempo e costantemente ribadito: che la

prescrizione « non può avere inizio in presenza di un impedimento d'ordine giuridico all'esercizio del diritto » (Cass. 4 aprile 1949, n. 779, id., Rep. 1949, voce Prescrizione, n. 5); che « la dispo sizione dell'art. 2935 c. c.... va intesa nel senso che la prescri zione non decorre, se esistono impedimenti legali » (Cass. 25 ot tobre 1966, n. 2592, id., Rep. 1967, voce cit., n. 38); che un

impedimento di fatto « è inidoneo a fermare il corso della pre scrizione, tale potere dovendosi riconoscere soltanto alle cause giu ridiche ostative all'esercizio del diritto » (Cass. 3 aprile 1970, n. 896, id., 1970, I, 1367). Ma già anteriormente, cioè nella relazione del guardasigilli sul progetto dei primi due libri del

vigente c.c., è dato leggere che la decorrenza del termine prescri zionale è legata alla «possibilità giuridica di accettare l'eredità».

c) Né appare maggiormente esatta l'affermazione — che pure è il presupposto su cui si basa la denunzia di « una disciplina normativa differenziata » — secondo cui le due deroghe espressa mente previste nel 2° e 3° comma dell'art. 480 c.c. riguarderebbero soggetti « non vocati » al pari dei soggetti tardivamente riconosciu ti o dichiarati figli naturali. Al contrario, il menzionato articolo costituisce ed esaurisce l'ambito della vocatio, in cui rientrano, sia

gli istituti sub condicione sia i chiamati ulteriori; questi, per letterale dettato della stessa norma, quelli, per la logica della delazione condizionata. Di conseguenza, non sembra corretto

elevare le due fattispecie in parola a testium comparationis. 8. - In ordine, da ultimo, all'art. 2935 c.c. — ai sensi del quale

« la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto

può essere fatto valere » — il giudice a quo enuncia, come più sopra già riportato, che il relativo « principio di portata generale è valido quando manchino espresse statuizioni normative di diversa decorrenza in materie particolari». E poiché materia particolare è il diritto ereditario, e questo contiene appunto due espresse statuizioni di diversa decorrenza, ne inferisce l'inapplicabilità del

principio generale al caso di specie. Ma si è già osservato più sopra che le due statuizioni di cui all'art. 480, 2° e 3° comma, costituiscono un ambito loro proprio — quello della vocatio — nel

quale non rientrano, e non possono farsi rientrare, i figli naturali che ottengano la dichiarazione giudiziale di paternità posterior mente all'apertura della successione, con conseguente incomparabi lità tra questi ultimi, da una parte, gli istituiti sub condicione ed i chiamati ulteriori, dall'altra parte.

9. - Le considerazioni sopra esposte mostrano che, prestandosi la

normativa da applicare — in- particolare, il combinato disposto degli art. 480 e 2935 c.c. — ad una interpretazione logico-sistema tica diversa dalla lettura che ne offre il giudice a quo, e potendosi

conseguentemente risolvere la controversia in base alla suddetta

interpretazione, non si configura la questione di legittimità costitu

zionale sollevata dalla corte di Catanzaro.

Per questi motivi, dichiara non fondata, nei sensi di cui in

motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 480

c.c., sollevata dalla Corte d'appello di Catanzaro in riferimento all'art. 3 Cost, con l'ordinanza in epigrafe.

CORTE COSTITUZIONALE; sentenza 13 giugno 1983, n. 163

(Gazzetta ufficiale 15 giugno 1983, n. 163); Pres. Elia, Est.

Saja; Egger (Avv. Novelli) c. I.n.p.s.; interv. Pres. cons, mi

nistri (Avv. dello Stato Ghiarotti). Ord. Trib. Venezia 18 ot

tobre 1976 (Gazz. uff. 2 febbaio 1977, n. 31); Tib. Bolzano

26 novembre 1976 (id. 6 aprile 1977, n. 94).

Previdenza sociale — Pensione d invalidità — Preesistenza dell in

validità — Incostituzionalità (Cost., art. 38; r.d.l. 14 aprile 1939 n. 636, disposizioni sulle assicurazioni obbligatorie per invalidità e vecchiaia, art. 10; 1. 3 giugno 1975 n. 160, norme

per il miglioramento dei trattamenti pensionistici e per il col

legamento alla dinamica salariale, art. 24).

È illegittimo, per violazione dell'art. 38, 2° comma, Cost., l'art. 10

r.d.l. 14 aprile 1939 n. 636 (secondo il testo risultante dall'art. 24

l. 3 giugno 1975 n. 160) nella parte in cui non prevede che sia

considerato invalido l'assicurato la cui capacità di guadagno, già

ridotta a meno di un terzo precedentemente alla costituzione del

rapporto assicurativo, subisca una ulteriore riduzione nel corso del rapporto stesso. (1)

(1) Le ordinanze di rimessione (che sono riassunte: Trib. Venezia 18 ottobre 1976, Foro it., Rep. 1977, voce Previdenza sociale, n. 365, e Trib. Bolzano 26 novembre 1976, id., 1977, I, 1321, con nota di

richiami) hanno riproposto, censurando l'art. 10 r.d.l. 636/39 (per riferimenti sull'art. 24 1. 3 giugno 1974 n. 160 che ha abbassato ad un terzo della capacità di guadagno la soglia dell'invalidità pensionabile in

precedenza prevista dall'art. 10 r.d.l. 636/39 ad un mezzo, v. Corte cost. 10 novembre 1982, n. 180, id., 1983, I, 19, con nota di richiami e osservazione di V. Ferrari), la stessa questione che la corte aveva ritenuto di non accogliere, in relazione agli art. 1886 e 1895 c.c., con sent. 12 aprile 1976, n. 91, id., 1976, I, 1444, con nota di richiami; in Riv. giur. lav., 1976, III, 136, con nota dì Agostini, e commentata da U. Novelli, in Sicurezza soc., 1976, 408, e 1977, 171.

In logica continuità con la motivazione resa nel 1976 la corte rileva

oggi che c la norma speciale (almeno « come intesa dalla giurisprudenza ordinaria »), e non gli articoli del codice civile, responsabile della « irrazionalità di una disciplina » che vuole « relegare su un piano di isolamento e di assurda discriminazione soggetti che, particolarmente colpiti nella loro efficienza fisica o mentale, hanno invece pieno di ritto di inserirsi nel mondo del lavoro ».

Nell'affermare ciò, però, la corte asserisce di volere <o potere) prescindere dal problema ampiamente dibattuto dell'equiparazione del rischio delle assicurazioni sociali a quello delle assicurazioni private.

La giurisprudenza della Cassazione, anche di recente, ha affermato

che, in applicazione del combinato disposto degli art. 1886 e 1895 c.c., deve ritenersi nullo il rapporto assicurativo previdenziale nel caso di

preesistenza dell'invalidità alla sua costituzione (cfr. Cass. 6 novembre 1982, n. 5845, Foro it., Rep. 1982, voce cit., n. 611; 20 settembre 1982, n. 4919, ibid., n. 614; 27 marzo 1982, n. 1915, ibid., n. 616; 6 marzo

1982, n. 1440, ibid., n. 618; 18 maggio 1981, n. 3273, id., Rep. 1981, voce cit., n. 546; 26 giugno 1980, n. 4023, ibid., n. 547; 20 marzo 1980, n. 1899, id., Rep. 1980, voce cit., n. 561; 12 gennaio 1980, n. 260, ibid., n. 562; 5 aprile 1979, n. 1979, id., Rep. 1979, voce cit., n. 598; 19

maggio 1979, n. 2893, id., 1979, I, 1735, con nota di richiami), e ciò nonostante che la stessa corte nella sent. n. 996 dell'I 1 marzo 1977 (id., 1977, I, 1929, con nota di richiami e osservazione di Sconocchia), pur sempre negando il diritto a pensione nel caso di invalidità preesistente, avesse aperto uno spiraglio verso il superamento di una simile

concezione affermando in motivazione la « estraneità dell'istituto della nullità contrattuale al sistema delle assicurazioni sociali in generale ed a

quello contro l'invalidità in particolare ».

Nella giurisprudenza di merito tale valutazione è stata ripresa da

Pret. Pisa 23 dicembre 1978 (insieme alla contraria Trib. Genova 24

marzo 1978), id., 1979, I, 1279, con nota di richiami, che l'ha portata alle sue estreme conseguenze affermando il diritto alla pensione di

invalidità anche in caso di preesistenza del rischio. In dottrina, sostengono incontestati' l'inapplicabilità dell'istituto della

nullità contrattuale ex art. 1895 c.c. alle assicurazioni sociali, oltre a

Novelli nelle note cit., Costalunga, L'incidenza della preesistenza del

rischio nel giudizio di invalidità, in Sicurezza soc., 1977, 287, che

evidenzia come l'obbligatorietà, l'automaticità delle prestazioni, il prin

cipio della solidarietà e gli interventi finanziari dello Stato caratterizza

no il rapporto giuridico previdenziale distinguendolo da quello assicura

tivo privato; Persiani, Ancora sul rischio precostituito nell'invalidità

pensionabile, ibid., 109, il quale tra l'altro nota che il rischio,

nell'ipotesi in esame, non può coincidere con il verificarsi della

menomazione fisica, ma con la diminuzione della capacità di guadagno, da individuarsi in funzione dell'ambiente sociale in cui il lavoratore vive

ed opera; F. P. Rossi, Saggio sull'invalidità pensionabile, 1977, 95-104,

che, ribadendo quanto già sostenuto in Trattato di previdenza sociale, diretto da Bussi e Persiani, 1974, I, 362, definisce anacronistico dal

punto di vista giuridico e provocatorio da quello sociale il persistere di un atteggiamento di sostegno giurisprudenziale di un istituto come il rischio precostituito, oramai « franato, polverizzato e travolto dai

tempi ». Ma queste osservazioni non sono valse a mutare l'indirizzo della

Cassazione che rimane quello già descritto, influenzato probabilmente da

Cort. cost. n. 91/76, cit., nella cui motivazione si sostiene che le norme del codice civile sulla nullità del contratto di assicurazione per preesi stenza del rischio non contrastano col precetto dell'art. 38, 2° comma,

Cost., al tempo stesso in cui si afferma inesattamente (come ha già rilevato Novelli nella nota cit., in Sicurezza soc., 1977, 171) che la Cas

sazione non avrebbe desunto la propria tesi dagli art. 1886 e 1895

c.c., ma dalla normativa speciale sull'assicurazione generale obbligatoria. Tale ultima affermazione non si rinviene nella sentenza che si riporta

la quale, addirittura, per come s'è visto, intende prescindere dal

problema. A partire dall'entrata in vigore della 1. 30 aprile 1969 n. 153 che, tra

l'altro istituendo la pensione sociale, ha fatto intravvedere la possibilità di una traslazione verso i principi della sicurezza sociale del nostro

sistema previdenziale storicamente sorto sugli schemi del contratto di

assicurazione (cfr. Cherubini, Storia della previdenza sociale in Italia,

1977, 10 s.; Persiani, Lezioni di diritto della previdenza sociale, 1978, 13 s.; Levi Sandri, Istituzioni di legislazione sociale, 1979, 8 s.), la

natura e l'esistenza stessa del rischio nelle assicurazioni sociali finiscono

col costituire l'oggetto di un dibattito superato. Ma il non avere mai

trovato la necessaria sintesi di questo dibattito, mentre le prospettive di

dare una connotazione di sicurezza sociale al sistema rimangono tali, fa

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