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sentenza 29 marzo 1984, n. 79 (Gazzetta ufficiale 4 aprile 1984, n. 95); Pres. Elia, Rel.Bucciarelli Ducci; Carè ed altri; Bertello ed altri; Tosi ed altri; interv. Pres. consiglio ministri.Ord. Pret. Salò 19 febbraio 1977 (tre) (Gazz. uff. 19 ottobre 1977, n. 286)Source: Il Foro Italiano, Vol. 107, No. 5 (MAGGIO 1984), pp. 1189/1190-1191/1192Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23175672 .
Accessed: 28/06/2014 07:46
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
l'impossibilità definitiva di cui al 1° comma e l'impossibilità
temporanea di cui al cpv. dell'art. 1256; e non era stato,
comunque, portato alle sue estreme conseguenze, poiché l'estin
zione veniva collegata alle sole interruzioni del rapporto che si
protraessero oltre i limiti di normale tollerabilità. In un secondo
tempo, perciò, la stessa Cassazione ha rettificato la propria
giurisprudenza, nello sforzo di bilanciare gli interessi del lavora tore e del datore di lavoro: dapprima applicando in materia l'art.
1464 c.c., nei termini ricordati dall'ordinanza di rimessione; e
quindi rifacendosi — come si è verificato negli anni più recenti — all'art. 3, 2° parte, 1. 15 luglio 1966 n. 604, in tema di « licenziamento per giustificato motivo ... determinato ... da ra
gioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa ».
Per contro, il Pretore di Roma è dell'avviso che nessun bilanciamento del genere debba essere effettuato dai giudici di merito: dal momento che l'unica soluzione costituzionalmente
legittima consisterebbe nel privilegiare in modo assoluto gli inte ressi del lavoratore, precludendo l'estinzione del rapporto sino all'eventuale condanna definitiva (o sino a quando la carcerazione
preventiva non fosse venuta altrimenti a cessare). In altri termini, il pretore richiede alla corte di garantire comunque ai lavoratori interessati la conservazione del posto di lavoro, introducendo
nell'ordinamento un nuovo caso di sospensione del rapporto, ben diverso per natura e per effetti da quelli considerati nell'art. 2110
c.c. Ed effettivamente in questo articolo vengono previste le sole
ipotesi « d'infortunio, di malattia, di gravidanza o di puerpe rio », consentendo anche a fronte di esse che l'imprenditore
addivenga al recesso, una volta decorso il cosiddetto periodo di
comporto, « stabilito dalla legge, dalle norme corporative, dagli usi o secondo equità »; mentre nell'ipotesi in discussione si
tratterebbe di escludere del tutto il potere di recesso, finché non
sia cessata quella causa di temporanea o parziale impossibilità della prestazione di lavoro.
Non senza ragione, perciò, l'ordinanza di rimessione non indica
a sostegno della prospettaata pronuncia di accoglimento additivo
nessun disposto o principio desunto dal diritto privato in generale o dal diritto del lavoro in ispecie. Al di là del codice civile e
delle « norme sui licenziamenti individuali », l'ordinanza fa invece
riferimento, da un lato, alla disciplina concernente il rapporto di
pubblico impiego, con particolare riguardo agli art. 85 e 91 d.p.r. 10 gennaio 1957 n. 3 (contenente lo statuto degli impiegati civili
dello Stato), per argomentarne che il diverso trattamento del
rapporto di lavoro privato determinerebbe una violazione del
principio generale d'eguaglianza; e, d'altro lato, assume che la
mancata conservazione del posto a beneficio del lavoratore arre
stato contrasterebbe senz'altro con il parametro costituzionale
dell'art. 27, 2° comma, per cui « l'imputato non è considerato
colpevole sino alla condanna definitiva ».
3. - Sotto entrambi gli aspetti, però, la proposta questione non
è fondata.
Anzitutto, è ben vero che questa corte ha dato atto — nella
sentenza n. 118 del 1976 (Foro it., 1976, I, 1415 e in altre
decisioni precedenti) — della « tendenziale convergenza tra lo
stato giuridico del lavoratore privato e quello del lavoratore
pubblico, che va realizzandosi mediante una osmosi tra le due
discipline ». Ma la corte stessa ha contestualmente sottolineato
« le innegabili differenze che tuttora intercorrono tra impiego
privato ed impiego pubblico, per la diversa genesi, per la diversa
struttura, per la diversa funzione »; ed è appunto in vista di
siffatte differenze che l'art. 91, 1° comma, d.p.r. n. 3 del 1957 cit.
(come pure l'art. 249, 1° comma, 1. comunale e provinciale del
1934, anch'essa ricordata dal giudice a quo), dispone la « sospen sione cautelare obbligatoria » dell'impiegato sottoposto a procedi mento penale, a carico del quale venga « emesso mandato od
ordine di cattura ». Come ha giustamente ricordato l'avvocatura
dello Stato, la sospensione prevista in tal caso non ha di mira la
conservazione del posto già ricoperto dal dipendente sospeso, bensì la tutela degli interessi della p.a., con particolare riguardo alla regolarità del servizio ed al prestigio dello Stato-apparato: tanto è vero che la sospensione stessa va disposta in modo
immediato e che lo stipendio si converte senz'altro in un ridotto
« assegno alimentare » (cfr. l'art. 82 d.p.r. cit.), mentre la destitu
zione non dipende neppure — in varie ipotesi — da una
condanna passata in giudicato ma da un successivo procedimento
disciplinare.
Sia nel primo che nel secondo senso, le vicende del rapporto di pubblico impiego sono dunque dissimili da ciò che si verifica
per il rapporto di lavoro privato, la sospensione del quale non è
affatto dovuta ad alcun particolare effetto, mentre la risoluzione
di esso richiede che l'assenza del lavoratore arrestato si protragga a tal punto da costituire un giustificato motivo di licenziamento.
E ciò conferma che le situazioni e le discipline messe a raffronto
dal giudice a quo non sono omogenee, sicché non sussiste la
denunciata violazione del principio generale di uguaglianza. Inoltre, anche la presunzione di non colpevolezza dell'imputato
viene impropriamente richiamata dal giudice a quo. Indipenden temente dal problema se l'art. 27, 2° comma, sia caratterizzato
dalla « polivalenza » che il Pretore di Roma pone a base del suo
ragionamento, sta di fatto che « nel caso di specie la carcerazione
preventiva è stata disposta con riferimento alla imputazione di un
illecito estraneo al rapporto e ai doveri verso il datore di lavoro » (come ricorda espressamente l'ordinanza di rimessione). In tali circostanze, l'eventuale licenziamento non implica nessun
anticipato giudizio sulla colpevolezza del lavoratore arrestato, ma
presuppone soltanto che sussistano — secondo la più recente
giurisprudenza della Cassazione — le obiettive ragioni di giu stificazione del recesso indicate dall'art. 3, 2" parte, 1. n. 604/66.
Per questi motivi, la Corte costituzionale dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2110, 2° comma, c.c. — « nella parte in cui esclude, in caso di carcerazione
preventiva del lavoratore, la sospensione del rapporto di lavoro subordinato fino alla sentenza definitiva » — sollevata dal Pretore di Roma, in riferimento agli art. 3, 1° comma, e 27, 2° comma, Cost., con l'ordinanza indicata in epigrafe.
CORTE COSTITUZIONALE; sentenza 29 marzo 1984, n. 79
(Gazzetta ufficiale 4 aprile 1984, n. 95); Pres. Elia, Rei. Buc
ciarelli Ducei; Carè ed altri; Bertello ed altri; Tosi ed
altri; interv. Pres. consiglio ministri. Ord. Pret. Salò 19 feb braio 1977 (tre) (Gazz. uff. 19 ottobre 1977, n. 286).
Prezzi (disciplina dei) — Comitati provinciali prezzi — Determi
nazione discrezionale — Questione infondata di costituzionalità
(Cost., art. 3; d.l.c.p.s. 15 settembre 1947 n. 8%, nuove
disposizioni per la disciplina dei prezzi, art. 7, 8, 14).
È infondata la questione di legittimità costituzionale degli art. 7, 8 e 14 d.l. c.p.s. 15 settembre 1947 n. 896, nella parte in cui
sanzionano penalmente la violazione dei provvedimenti adottati
dai comitati provinciali prezzi, in riferimento all'art. 3 Cost. (1)
Diritto — La questione è infondata. Innanzitutto il giudice a quo non indica rispetto a quale categoria generale di destinatari
di norme penali si verifichi la lamentata discriminazione che
sarebbe contenuta negli articoli impugnati. Difettando, quindi, del
tutto la indicazione del tertium comparationis, mal si comprende in che modo si determini la denunciata violazione del principio di uguaglianza.
La motivazione delle ordinanze dimostra, peraltro, come la
discriminazione prospettata dal pretore riguardi non un diverso
trattamento in linea generale tra soggetti che si trovano in
identiche condizioni, quanto piuttosto le eventuali differenze di
trattamento che si potrebbero avere tra i produttori dei diversi
beni soggetti a calmiere; differenze determinate da una non
corretta valutazione di mercato, per mancanza da parte degli
organi pubblici (comitati dei prezzi) di idonei strumenti di
indagine, tale da rendere la fissazione dei prezzi puramente arbitraria e da impedire, quindi, al giudice qualsiasi sindacato
sull'esercizio del potere discrezionale spettante alla p.a. Sul punto, tuttavia, questa corte è già intervenuta con sent. n.
103 del 25 giugno 1957 (Foro it., 1957, I, 1139), che ha escluso
(1) Le ordinanze di rimessione — massimate in Foro it., 1978, II, 64, con nota di richiami — lamentavano, nella sostanza, l'assoluta arbitrarietà nel procedimento di fissazione autoritativa dei prezzi, con
conseguente insindacabilità dei relativi provvedimenti dell'a.g.o. I giu dici della Consulta ripescano un precedente di antica data (Corte cost. 8 luglio 1957, n. 103, id., 1957, I, 1139) per ribadire non soltanto l'ovvia ricorribilità ai tribunali amministrativi (cfr., indicativamente, la nota di richiami a Cons. Stato, sez. VI, 2 aprile 1982, n. 163, e altre
tre, id., 1982, III, 266), ma anche la possibilità di controllo giurisdi zionale ad opera del giudice penale chiamato a dare applicazione alle norme repressive: cfr., riguardo alla fattispecie che qui interessa, Trib. Avellino 29 dicembre 1976, id., Rep. 1978, voce Prezzi, n. 45 (contra, Pret. Torino 26 luglio 1974, id., Rep. 1975, voce Competenza penale, n. 45).
In generale, sul problema della disapplicazione dell'atto amministra tivo illegittimo in ambito penale, v. G. Contento, Giudice penale e p.a. - Il problema del sindacato giudiziale sugli atti amministrativi in materia penale, Bari, 1979; R. Villata, « Disapplicazione » dei provve dimenti amministrativi e processo penale, Milano, 1980, spec. 83 ss., nonché la nota di C. M. Barone a Cass. 11 febbraio 1982, Simonelli; Foro it., 1982, II, 88.
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PARTE PRIMA 1192
l'illegittimità costituzionale dello stesso art. 14 d.l.c.p.s. n. 896/47,
qui impugnato, pronunciandosi su una questione analoga, in cui si lamentava, in relazione ad un diverso parametro costituzionale, la mancata prefissione di criteri per l'esercizio del potere discre zionale del C.i.p. e dei comitati provinciali dei prezzi. La corte in tale occasione ha affermato che il potere di tali comitati, « lungi dall'essere illimitato è collegato a elementi di natura tecnica
che ne circoscrivono l'ambito ». Rilevava infatti la citata sen
tenza — né vengono prospettati dal giudice a quo argomenti o
profili nuovi tali da indurre questa corte a diversa valutazione —
che la determinazione dei prezzi è preceduta da un iter istrutto rio disciplinato legislativamente, nel corso del quale l'accertamen
to del costo delle merci viene compiuto da apposite commissioni, di cui fanno parte le stesse categorie interessate, non in maniera
simbolica ma con precisi poteri consultivi e deliberanti, tanto che
le deliberazioni adottate dai comitati prezzi, essendo ancorate a
precisi elementi tecnici, non sono sfornite di garanzie giurisdizio nali, potendosi ricorrere contro di esse davanti al giudice ammi
nistrativo. Pertanto anche in sede ordinaria il giudice penale, chiamato ad applicare le norme impugnate, non incontra alcun ostacolo al pieno esercizio del suo potere di controllo giurisdizio naie di legittimità sui provvedimenti, la cui violazione viene contestata all'imputato.
Mancando, quindi, lo stesso presupposto della arbitraria discri minazione lamentata, cioè l'illimitata discrezionalità della p.a., viene meno ogni pretesa violazione del principio di uguaglianza (o più precisamente viene meno la pretesa violazione del princi pio di imparzialità della p.a., implicitamente richiamata mediante l'invocazione dell'art. 3 Cost.), denunciata nell'ordinanza di ri
messione.
Per questi motivi, la Corte costituzionale dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli art. 7, 8 e 14
d.l.c.p.s. 15 settembre 1947 n. 896, nella parte in cui sanzionano
penalmente la violazione dei provvedimenti adottati dai comitati
provinciali dei prezzi, sollevata, in relazione all'art. 3 Cost., con l'ordinanza indicata in epigrafe.
CORTE COSTITUZIONALE; sentenza 29 marzo 1984, n. 78
(Gazzetta ufficiale 4 aprile 1984, n. 95); Pres. Elia, Rei. Fer
rari; Rau c. Comune di Tempio Pausania; Demartis c. Con
sorzio per l'area di sviluppo industriale di Cagliari; Muscas c.
Comune di Villacidro; Arrais e. Consorzio per l'area di sviluppo industriale di Cagliari; interv. Pres. cons, ministri (Avv. dello
Stato Carafa). Orci. App. Cagliari 11 marzo e 10 giugno 1977
(due) (Gazz. uff. 20 luglio e 7 dicembre 1977, nn. 198 e 334); 10 giugno 1977 (id. 12 ottobre 1983, n. 281); 9 dicembre 1977
(id. 27 settembre 1978, n. 271).
Edilizia popolare ed economica — Procedimento di approvazione della legge — Maggioranza dei presenti e computo degli astenuti — Questione infondata di costituzionalità (Cost., art. 64, 72; 1.
22 ottobre 1971 n. 865, programmi e coordinamento dell'edili
zia residenziale pubblica; norme sull'espropriazione per pubblica utilità; modifiche ed integrazioni alle leggi 17 agosto 1942 n. 1150, 18 aprile 1962 n. 167, 29 settembre 1964 n. 847; ed autorizza
zione di spesa per interventi straordinari nel settore dell'edili
zia residenziale, agevolata e convenzionata).
Espropriazione per pubblico interesse — Determinazione dell'in
dennità di occupazione — Opposizione innanzi alla corte d'ap
pello — Questione infondata di costituzionalità (Cost., art. 3,
24; 1. 22 ottobre 1971 n. 865, art. 20).
Espropriazione per pubblico interesse — Espropriazione e occu
pazione d'urgenza — Determinazione delle indennità — Que
stione manifestamente infondata di costituzionalità (Cost., art.
3, 42, 53; 1. 22 ottobre 1971 n. 865, art. 16, 20).
È infondata la questione di legittimità costituzionale della l. 22 ot
tobre 1971 n. 865, approvata in prima lettura alla camera dei de
putati, in conformità al regolamento, dalla maggioranza dei
voti espressi, in riferimento agli art. 64, 3" comma, e 72, 1" comma, Cost. (1)
(1) L'ordinanza 11 marzo 1977 della Corte d'appello di Cagliari è massimata in Foro it., 1977, I, 2408, con nota di richiami e osservazioni di R. Moretti, e annotata da Traversa, Sindacato sul procedimento di formazione della legge per presunta invalidità della deliberazione
finale, in Giur. costit., 1977, I, 1316, con postilla di Modugno, ibid., 1337; App. Cagliari, ord. 9 dicembre 1977, Foro it., Rep. 1979, voce Edilizia popolare ed economica, n. 17. Questioni analoghe erano state
È infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 20, 4°
comma, l. 22 ottobre 1971 n. 865, nella parte in cui è previsto che l'opposizione contro la determinazione dell'indennità di occu
pazione è proposta direttamente davanti alla corte d'appello, in riferimento agli art. 3 e 24 Cost. (2)
È manifestamente infondata la questione di legittimità costituziona le degli art. 16 e 20 l. 22 ottobre 1971 n. 865, nella parte in cui si stabiliscono i criteri per la determinazione dell'indennità di
espropriazione e di occupazione, in riferimento agli art. 3, 42
e 53 Cost. (3)
dichiarate manifestamente infondatate: T.A.R Sardegna 14 gennaio 1976, n. 2 e 25 febbraio 1976, n. 46, id., 1977, III, 45 e 747, con nota di richiami ed osservazioni di G. Garrone.
Sull'inammissibilità della questione proposta avverso il regolamento parlamentare che prevede una speciale maggioranza per la deliberazio ne di messa in stato d'accusa, cfr. Corte cost., ord. 31 maggio 1983, n. 147, id., 1983, I, 2088, con nota di richiami ed osservazioni di R. Moretti. La sindacabilità del procedimento di formazione degli atti legislativi è stata dichiarata in numerose occasioni dalla Corte costituzionale: 26 gennaio e 17 aprile 1957, n. 3, 57 (id., 1957, I, 1899); 12 dicembre 1957, n. 129 (ibid., 2099); 9 marzo 1959, n. 9 (id., 1959, I, 313); 15 luglio 1969, n. 134 (id., 1969, I, 2045); 7 luglio 1976, n. 153 (id., 1976, I, 2769); 6 dicembre 1976, n. 235 (id., 1977, I, 542).
(2) La garanzia del doppio grado di giurisdizione di merito è sempre stata riconosciuta sprovvista di tutela costituzionale, cfr., da ulti mo, Corte cost. 7 marzo 1984, n. 52, Foro it., 1984, I, 625, con nota di ri chiami. In dottrina, si veda il Quaderno XXXVI, 1980, a cura dell'Asso ciazione studiosi processo civile, nonché: Liebman, in Riv. dir. proc., 1980, 401; Denti, in Foro it., 1982, V, 111; Bellomia, in Giur. costit., 1982, I, 43.
(3) Riguardo agli art. 16 e 20 1. n. 865/71, come modificati dalla 1. n. 10/77, la corte aveva già disposto l'illegittimità (sent. 30 gennaio 1980, n. 5, Foro it., 1980, I, 273, con nota di richiami ed osservazioni di C. M. Barone), nella parte in cui le disposizioni fanno riferimento al valore agricolo dei terreni quale criterio per la determinazione dell'indennità di espropriazione e di occupazione. Sulla sentenza si vedano le annotazioni di Morello, ibid., 604; Klitsche de la Grande, Leone, in Cons. Stato, 1980, II, 187, 971; Pototschnig, in Nuove leggi civ., 1980, 590; Berti, in Le regioni, 1980, 429; Lipari, Luciani, Lombardi, in Giur. costit., 1980, I, 21, 40, 481; Peccerillo, in Riv. giur. edilizia, 1980, I, 17; Calvani, in Trib. amm. reg., 1980, II, 249; Trabucchi, in Riv. dir. civ., 1980, II, 42; Lucarelli, in Rass. dir. civ., 1980, 514. La Corte costituzionale ha altresì' dichiarato l'illegittimità della normativa provvisoria emanata in sostituzione della disciplina già giudicata incostituzionale (sentenza 19 luglio 1983, n. 223, Foro it., 1983, I, 2057, con nota di richiami ed osservazioni di C. M. Barone). In proposito, v. anche Cass., sez. un., 11 maggio 1983, n. 3243 (ibid., 2808), sull'applicabilità delle norme provvisorie di cui alla 1. n. 385/80. Un nuovo testo legislativo è ora all'esame delle camere, recante anch'esso una disciplina « provvisoria »; cfr. R. Moretti, Rubrica parlamentare, id., 1984, V, 126.
* * *
Note sul voto di astensione dei parlamentari.
1. - La Corte costituzionale, con una decisione sostanzialmente elusiva, ha rinunziato a risolvere l'antica questione relativa al computo dei voti di astensione nelle aule parlamentari, proposta fin dal 1977 dalla Corte d'appello di Cagliari in riferimento alle espressioni « pre sente » e « maggioranza dei presenti » contenute nell'art. 64, 3° comma, Cost. La disputa risale a tempi ormai remoti e si è infatti accesa sotto il vigore dello statuto albertino, che pur recava una formula differente (art. 54: « Le deliberazioni non possono essere prese se non alla maggiorità dei voti »). Da una parte, si è detto che « chi si astiene vota: e, votando, non approva la proposta » (V. E. Orlando, Consiglio comunale, voce del Digesto it., Torino, 1895-98, III, 2, 138), con opinione condivisa da illustri studiosi: Miceli, Le « quorum » dans les assemblies politiques, in Rev. droit, public., 1902, 221; Jèze, Essai d'une théorie générale de l'abstension en droit pubblio, id., 1905, 774; W. Jellinek, Forme di votazione negativa, in Studi in onore di O. Ranelletti, Padova, 1931, II, 67). Su un opposto versante si colloca la tesi di coloro che escludono gli astenuti dal numero dei votanti: U. Galeotti, Principi regolatori delle assemblee, Torino, 1900, 215; Racioppi, Brunelli, Commento allo statuto del regno, Torino, 1909, III, 86; De Gennaro, Determinazione e computo della maggioranza nelle pubbliche assemblee con speciale riguardo ai consigli comunali e provinciali, in Riv. amm., 1947, 123 (sulla scorta, i primi, del regolamento e della prassi della camera dei deputati, l'altro, dell'art. 49 r.d. 12 febbraio 1911 n. 297). Voto è solo il suffragio che si depone pro o contro l'oggetto in deliberazione, oppure votante è anche colui che manifesta — in forma espressa e con comportamenti significativi — una volontà né negativa né positiva? Alla camera dei deputati era (ed è) in auge la prima interpretazione, al senato si seguiva (e tuttora si osserva) l'orientamento contrario. A Montecitorio si è cosi stabilito che « gli astenuti non sono votanti e che la maggioranza non deve costituirsi sui presenti », nell'assemblea di Palazzo Madama non si è mai invece tenuto un separato conteggio degli astenuti, per cui la proposta è sempre considerata approvata
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