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Sentenza 4 maggio 1960, n. 29; Pres. Azzariti P., Rel. Petrocelli; imp. Baldi e Ginori Conti (Avv.Sabatini, Sermonti); interv. Pres. Cons. ministri (Avv. dello Stato Salerni)Source: Il Foro Italiano, Vol. 83, No. 5 (1960), pp. 709/710-713/714Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23174893 .
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
più volte ritenuto questa Corte, non esclude che il legisla tore ordinario possa dettare norme diverse per regolare situazioni considerate diverse.
Appena occorre aggiungere, in fine, che nessuna vio
lazione può ravvisarsi dell'art. 37 Cost., del resto inciden
talmente richiamato nell'ordinanza, poiché alla parifica zione delle donne agli uomini, per quanto riguarda la retri
buzione nel caso di uguali prestazioni, ha espressamente
provveduto, come si è in precedenza accennato, l'art. 1,
ultimo comma, legge 4 febbraio 1958 n. 23. Con la conse
guenza, riguardo all'attuale controversia, che le retribuzioni
dovute ai portieri di entrambi i sessi, devono essere equi
parate, anche quando essi abbiano rispettivamente la
qualità di capo famiglia o di non capo famiglia. Per questi motivi, dichiara non fondata la questione,
proposta con ordinanza del 19 giugno 1959 del Tribunale
di Napoli, sulla legittimità costituzionale dell'art. 1 della
legge 4 febbraio 1958 n. 23 (contenente norme per il conglo bamento e perequazioni salariali in favore dei portieri ed
altri lavoratori addetti alla pulizia e custodia di stabili
urbani), in riferimento agli art. 36 e 37 della Costituzione.
SORTE COSTITUZIONALE.
Sentenza 4 maggio 1960, n. 29; Pres. Azzariti P., Rei.
Petrocelli ; imp. Baldi e Ginori Conti (Avv. Sabatini,
Sermonti) ; interv. Pres. Cons, ministri (Avv. dello
Stato Salerni).
Sciopero e serrala — Serrata — Incostituzionalità
della normativa (Costituzione della Repubblica, art.
39, 40 ; cod. pen., art. 502).
Per contrasto con gli art. 39 e 40 della Oostituzione sono di
chiarati illegittimi l'art. 502, 1° comma, cod. pen., che
punisce con la multa non inferiore a lire diecimila Vivi
prenditore, il quale, al solo scopo d'imporre ai suoi dipen
denti modificazioni ai patti stabiliti o di opporsi a modi
ficazioni di tali patti, ovvero di ottenere o di impedire una
diversa applicazione dei patti o usi esistenti, sospende
in tutto o in parte il lavoro nei suoi stabilimenti, aziende o
uffici, e il 2° comma dolio stesso articolo, che punisce con
la multa sino a mille lire i lavoratori, addetti a stabili
menti, aziende o uffici, i quali, in numero di tre o più,
abbandonano collettivamente il lavoro, ovvero lo prestano in
modo da ridurne la continuità o la regolarità, col solo scopo
di imporre agli imprenditori patti diversi da quelli
stabiliti, ovvero di opporsi a modificazioni di tali patti o,
comunque, di ottenere o impedire una diversa applica
zione dei patti o usi esistenti. (1)
La Corte, ecc. —- La questione di legittimità costitu
zionale, proposta con le ordinanze del Giudice istruttore
presso il Tribunale di Pisa, ba per oggetto di stabilire se
l'art. 502, 1° comma, cod. pen., posto con altre norme a
tutela dell'ordinamento corporativo istituito con la legge
3 aprile 1926 n. 564, sia in contrasto col sistema di libertà
sindacale e col sistema di libera iniziativa economica, sanciti
negli art. 39, 40 e 41 della Costituzione.
È noto che, anteriormente al sistema corporativo, la
serrata e lo sciopero, in conformità di quanto era stabilito
in quasi tutti gli ordinamenti democratici dell'epoca, costi
tuivano illecito penale solo se attuati con violenza o minac
(1) Il Giudice istruttore penale del Tribunale di Pisa, con
le ordinanze 2 e 4 marzo 1959 (Le Leggi, 1959, 332), aveva ri
messo alla Corte costituzionale la questione d'incostituzionalità
del 1° comma dell'art. 502 cod. pen., ma la Corte, in applicazione
dell'art. 27 legge 11 marzo 1953 n. 87, dichiara l'incostituzio
nalità anche del 2° comma ; successivamente, il Giudice istrut
tore penale del Tribunale di Vicenza, con ordinanza 18 gennaio
1960 (in questo volume, II, 111, con nota di richiami) ha
rimesso alla Corte costituzionale la cognizione della questione
d'illegittimità del 1° comma dell'art. 502.
eia, sì da trascendere in impedimento o restrizione della
libertà del lavoro. La dottrina penalistica, infatti, in rela
zione alle fattispecie prevedute negli art. 166 e segg. cod.
pen. del 1889, considerava oggetto della tutela penale l'in
teresse della libertà individuale sotto l'aspetto della libera
esplicazione del lavoro ; come del resto si deduceva dal
fatto che quegli articoli erano compresi nel capo denominato
appunto dei delitti contro la libertà del lavoro.
Ben diverso sistema fu instaurato con la ricordata legge del 3 aprile 1926. Il regime di libera competizione fu sosti
tuito con una « disciplina giuridica dei rapporti collettivi
di lavoro» (tale fu il titolo della nuova legge), disciplina della quale uno dei criteri fondamentali fu quello espresso nell'art. 13 della legge, cioè che tutte le controversie relative
ai rapporti collettivi di lavoro, concernenti, sia l'applicazione dei contratti collettivi e di altre norme esistenti, sia la ri
chiesta di nuove condizioni di lavoro, divenivano di compe tenza delle corti di appello funzionanti come magistrature del lavoro ; criterio che trovò il suo suggello nell'art. 22
della legge, il quale configurava come delitto la mancata
esecuzione delle decisioni del magistrato del lavoro. Di
fronte a tale sistema la serrata e lo sciopero apparvero come forme di ribellione alla nuova disciplina giuridica, la quale, essendo fondata sulla risoluzione giudiziaria dei
conflitti del lavoro, non tollerava atti che ne costituissero
sostanzialmente un rifiuto, traducendosi, nell'ambito di
quel sistema, in una vera e propria forma di ragion fattasi.
Ne veniva di conseguenza il divieto della serrata e dello
sciopero, divieto che si volle presidiare con la sanzione pe
nale, trasformando in reato fatti che erano stati libera
espressione delle competizioni del lavoro. Al qual proposito è particolarmente significativo un passo della Kelazione
ministeriale al progetto definitivo per il cod. pen. del 1931
(vol. II, pag. 289), dove si sostenne che il divieto della ser
rata e dello sciopero si rendeva necessario « per segnare un
netto trapasso fra due regimi, e porre un energico discono
scimento del principio democratico, che, all'opposto, am
metteva la libertà di coalizione e di sciopero ».
Il sistema posto su queste basi non poteva soprav vivere al ripristino dell'ordinamento democratico. Infatti,
ancor prima dell'avvento della Costituzione, col decreto
legge 9 agosto 1943 n. 72, e poi col decreto legisl. Iuog. 23
novembre 1944 n. 349, si volle subito, non ostante qualche
sopravvivenza di carattere non fondamentale, incidere
radicalmente sulle strutture essenziali di quel sistema.
Il problema del divieto penale dello sciopero e della serrata
non tardò a presentarsi, ma assunse il suo preciso rilievo
con l'entrata in vigore della Costituzione, la quale nell'art. 40,
mentre dichiarava essere lo sciopero un diritto del lavora
tore, da esercitarsi nell'ambito di leggi regolatrici, taceva
del tutto della serrata. A parte le questioni sul diritto di
sciopero, presto suscitate dalla larga enunciazione dell'art.
40, relativamente sia al carattere stesso della norma e
alla sua estensibilità o meno allo sciopero non economico,
sia alla esistenza di limiti già nel vigente ordinamento, per ciò che riguarda la serrata, la dottrina e la giurisprudenza si
manifestarono prevalentemente nel senso che anche quel divieto penale dovesse considerarsi caduto col vecchio
sistema. Significativa a tal proposito è una sentenza della
Corte di cassazione (18 giugno 1953, Foro it., 1954, I, 34), la quale statuì essere la serrata un atto penalmente lecito,
sebbene non, a differenza dello sciopero, esercizio di un di
ritto. All'incirca nello stesso ordine di idee venne a trovarsi
quella parte della dottrina che ritenne di qual'f carela serrata
come un diritto di libertà, assumendo genericamente tale
espressione nel senso di facoltà giuridica di fare tutto ciò che
non è vietato dalla legge. Bullo sfondo di questi precedenti va appunto esa
minata la questione propriamente devoluta all'esame di
questa Corte, se cioè la norma del 1° comma dell'art. 502
cod. pen. sia in contrasto con gli indicati articoli della Co
stituzione.
È da ritenere in primo luogo non esatta la impostazione iniziale dell'Avvocatura dello Stato, enunciata sin dal
l'atto di intervento del 20 aprile 1959, secondo la quale il
problema della legittimità o meno del divieto penale della
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711 PARTE PRIMA 712
serrata andrebbe esaminato esclusivamente in relazione alla norma costituzionale dell'art. 40, in quanto irrilevante sarebbe il riferimento ai principi della libertà di organiz zazione sindacale e della libertà di iniziativa economica,
rispettivamente sanciti negli art. 39 e 41 Costituzione.
Prescindendo per ora dal considerare l'art. 41 e il diverso
profilo di illegittimità che si presenta col richiamo di tale
norma, ritiene la Corte che la delimitazione proposta dal l'Avvocatura non sia accettabile. Sebbene enunciati in due distinti norme, il principio della libertà di sciopero e il
principio della libertà sindacale non possono non conside rarsi logicamente congiunti. Non senza significato, a tal
proposito, è il fatto che, in qualcuna delle prime proposte presentate in seno alla Costituente, la dichiarazione dei due principi era contenuta in unico contesto. L'art. 39 e l'art. 40 sono da considerare come espressione unitaria del nuovo sistema ; e pertanto il significato dell'art. 39 non
può essere circoscritto entro i termini angusti di una dicliia razione di mera libertà organizzativa, mentre invece, nello spirito delle sue disposizioni e nel collegamento con l'art. 40, esso si presenta come affermazione della libertà di azione sindacale.
Altro importante elemento della indagine è il silenzio dell'art. 40 in ordine alla serrata. Su questo punto insiste l'Avvocatura dello Stato, e osservando che il legislatore costi tuente ha inteso attribuire rilevanza costituzionale allo
sciopero e non anche alla serrata, sembra voler trarre proprio da ciò motivo per contrastare la tesi della illegittimità costituzionale dell'art. 502 cod. penale.
Ma la illazione non può ritenersi esatta. Che l'art. 40 abbia attribuito soltanto allo sciopero la qualifica di diritto costituzionalmente garantito non può essere messo in dub bio ; e si spiega tenendo presente che la Costituzione fu orientata verso una energica tutela degli interessi dei lavo
ratori, e che la solenne riaffermazione del diritto di sciopero si volle proprio in aperta contraddizione del divieto posto dal sistema corporativo ; ma questo esplicito riconoscimento di un diritto di sciopero e non anche di un diritto di serrata non può ritenersi decisivo ai fini della proposta questione di
legittimità costituzionale. La risoluzione della quale, in altri termini, non può essere avviata verso un unico sbocco, nel senso cioè che, escluso il riconoscimento della serrata come diritto, ne risulterebbe costituzionalmente legittimo il preesistente divieto penale. Diversa è invece la base su cui la questione va posta ; si tratta cioè di stabilire se, anche in mancanza di quel riconoscimento, possa dirsi compati bile col sistema sancito dalla Costituzione quella norma pe nale che a suo tempo fu disposta contro la serrata a tutela del sistema corporativo. Un quesito non diverso, in sostanza, da quello che sarebbe sorto per lo sciopero qualora, in ipo tesi, si fosse ritenuto di dover omettere, come taluni opina vano, quella che fu poi la esplicita dichiarazione dell'art. 40 : eventualità di fronte alla quale sembra ben difficile il so stenere che lo sciopero avrebbe dovuto continuare ad essere, come prima, oggetto di divieto penale, sol perchè non rico nosciuto esplicitamente come diritto dalla Costituzione.
Nell'esame della questione di legittimità costituzio nale vi è un punto che va posto nella maggiore evidenza : cioè la correlazione strettissima e, si potrebbe dire, organica fra la imposizione del divieto penale della serrata e dello
sciopero e i fondamenti del sistema corporativo instaurato dalla legge del 3 aprile 1926. Si è obiettato che questa correlazione non si presenta come necessaria ; ma ciò rende
opportuna una precisazione. La correlazione non va intesa nel senso logico di una inderogabile corrispondenza fra quel divieto da un lato e il sistema corporativo dall'altro, doven dosi al contrario ammettere che divieti analoghi possano essere e siano stati dettati a tutela anche di ordinamenti del tutto diversi. Si vuole invece intendere, con un riferi mento concreto e storico, la correlazione quale fu effettiva mente stabilita nella legge del 3 aprile 1926. Escluse rigoro samente le libere competizioni delle forze del lavoro e della
produzione, stabilita la risoluzione dei conflitti dall'alto, mercè decisioni alle quali a nessuna delle parti era lecito sot
trarsi, indirizzata ogni soluzione verso un interesse sovra
stante quello delle parti, le norme penali con cui si vietavano
lo sciopero e la serrata per fini contrattuali furono ispirate e determinate puntualmente da un tal sistema ; più ancora :
furono specificamente poste a tutela degli istituti e dello
discipline in cui esso si articolava. Erano dunque norme
proprie e peculiari di quel sistema e ad esso strettamente e
organicamente collegate. Caduto il sist ema, veniva per esse
a mancare l'originario e proprio fondamento. Ma anche a
voler considerare la norma impugnata come isolata dal
sistema, dal quale e per il quale era sorta, è evidente il posi tivo contrasto che risulta dal suo raffronto col sistema
nuovo : contrasto che deriva non già da un generico difetto
di armonica correlazione, quale frequentemente si mani festa fra ogni ordinamento nuovo, rapidamente soprav venuto, e quelle norme dell'antico di cui pur necessita
la sopravvivenza ; bensì da Tina incompatibilità specifica, che tocca una correlazione essenziale. Da un lato silia l'art. 39 Cost., il quale, esprimendo un indirizzo nettamente de
mocratico, dichiara il principio della libertà sindacale ; dall'altro l'art. 502 cod. pen., cioè una norma che fu ideata e imposta a tutela di un sistema che negava quella libertà. A voler considerare l'art. 502 come non contraddicente al
sistema si giungerebbe, oltre tutto, a questo : che il vigente ordinamento, il quale vuol essere di libera e democratica
organizzazione dei rapporti di lavoro, verrebbe a mantenere nel suo ambito una norma che, come innanzi si è ricordato, si disse a suo tempo esplicitamente dettata al fine di « porre un energico disconoscimento del principio democratico ».
Un dato, inoltre, non trascurabile nei rapporti fra la norma penale in questione e il sistema della Costituzione può cogliersi anche nelle tendenze che si manifestarono in seno alla Costituente e nello spirito che, rispetto alla materia in questione, ne animò i lavori. La serrata non venne in
considerazione come possibile oggetto di divieto penale ; che anzi un motivo insistente delle discussioni, in sotto commissione e in assemblea, fu quello relativo alla opportu nità del riconoscimento costituzionale anche di un diritto di serrata accanto al diritto di sciopero. Vi furono manife
stazioni, anche vivaci, di avverse opinioni ; vi furono vota zioni contrarie alle proposte di riconoscimento, ma non si manifestò alcun positivo orientamento verso la incrimina zione della serrata quale contrapposto al riconoscimento del diritto di sciopero. Una isolata proposta, presto respinta, poneva, ai fini della incriminazione, accanto alla serrata anche lo sciopero.
La posizione che, rispetto allo sciopero e alla serrata, è venuta a determinarsi nell'ambito del sistema di libertà sancito dagli art. 39 e 40 Cost, è dunque questa : che lo scio
pero è riconosciuto costituzionalmente come un diritto, desti nato però, secondo il preciso dettato dell'art. 40, ad essere
regolato dalla legge ; e che la serrata, priva di un tal ricono
scimento, ma in pari tempo anche della qualificazione giuri -
dico-penale a suo tempo posta dall'ordinamento corporativo, si presenta attualmente come un atto penalmente non vie tato, o, come si suol dire, penalmente lecito : conclusione che si riannoda alle due significative manifestazioni della coscienza giuridica già ricordate, vale a dire la sentenza della Corte di cassazione, che appunto qualificava la ser rata atto penalmente lecito sebbene non, come lo sciopero, esercizio di un diritto, e l'orientamento dottrinale che con sidera la serrata come un diritto di libertà nel senso larghis simo di facoltà di compiere ciò che non è vietato.
La posizione innanzi delineata è però tale che immedia tamente si presenta con l'aspetto di una provvisorietà che attende una soluzione. Da un lato infatti si ha un diritto di sciopero che è costituzionalmente garantito, ma per il
quale è la stessa Costituzione a dichiarare la necessità di una legge regolatrice ; dall'altro la serrata, la cui attuale posizione giuridica di atto penalmente lecito è piuttosto la oggettiva risultante di un sommovimento di sistemi che non l'effetto di una propria disciplina normativa. Spetterà al legislatore il valutare la necessità di una tale disciplina, e di dettare anche per la serrata, nell'ambito della Costi tuzione, le norme che riterrà opportune. Le quali dovranno trovare ispirazione e fondamento nel sistema attuale, in
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
conformità altresì delle concrete finalità ed esigenze che
potranno risultare da una auspicabile organica disciplina di tutta la materia sindacale.
Risoluta la questione nei termini di cui innanzi, ap
pare ultroneo ogni riferimento all'art. 41 Cost., le cui fina
lità del resto sono diverse e non propriamente riferibili alla
disciplina dei rapporti sindacali.
Ritiene infine la Corte che, a norma dell'art. 27 della
legge n. 87 del 1953, deve essere dichiarata la illegittimità costituzionale anche del 2° comma dell'art. 502 cod.
pen., che riguarda il divieto penale dello sciopero, a più forte ragione non compatibile con gli art. 39 e 40 Cost.
Per questi motivi, pronunciando con unica sentenza nei
procedimenti indicati in epigrafe : 1) dichiara la illegitti mità costituzionale dell'art. 502, 1° comma, cod. pen., in
riferimento agli art. 39 e 40 della Costituzione ; 2) e, in ap
plicazione dell'art. 27 legge 11 marzo 1953 n. 87, dichiara
altresì l'illegittimità costituzionale del 2° comma dello
stesso art. 502 cod. penale.
CORTE COSTITUZIONALE.
Sentenza 29 marzo 1960, n. 14 ; Pres. Azzariti P., Rei.
Castelli Ayolio ; Pres. Regione Trentino-Alto Adige
(Avv. Gasparri, G. Guarino) c. Pres. Cons, ministri
(Avv. dello Stato Guglielmi).
Trentino-Allo Adige •— Istituzioni pubbliche di assi
stenza e beneficenza — Sospensione e sciogli
mento delle amministrazioni — Competenza sostitutiva del Commissario del Governo — Le
gittimità (Statuto speciale per il Trentino-Alto Adige, art. 5, n. 2 ; d. pres. 26 gennaio 1959 n. 97, norme d'at
tuazione dello Statuto speciale per la Regione Trentino
Alto Adige, in materia d'istituzioni pubbliche di assi
stenza e beneficenza, art. 7, 1° comma). Trentino-Alto Adige — Enti comunali «li assistenza —
Riparto di fondi per l'integrazione dei bilanci
Competenza del Commissario del Governo — Le
gittimità (Statuto speciale per il Trentino-Alto Adige,
art. 5, n. 2 ; d. pres. 26 gennaio 1959 n. 97, art. 9).
Non contrasta con le disposizioni dello Statuto speciale per il
Trentino-Alto Adige, che disciplinano le istituzioni pub bliche di assistenza e beneficenza, l'art. 7, 1° comma,
delle norme d'attuazione dello Statuto medesimo, approvate con decreto pres. 26 gennaio 1959 n. 97, che, nei casi di
persistenti violazioni di leggi, attribuisce al Commissario
del Governo la competenza a sospendere e a sciogliere le
amministrazioni di quelle istituzioni, se gli organi regio
nali non vi provvedano entro tre mesi dalla richiesta del
Commissario medesimo. (1) Non contrasta con le disposizioni dello Statuto speciale per
il Trentino Alto-Adige, che disciplinano le istituzioni
pubbliche di assistenza e beneficenza, l'art. 9 delle norme
d'attuazione dello Statuto medesimo, approvate con de
creto pres. 26 gennaio 1959 n. 97, che attribuisce al Com
missario del Governo la competenza a provvedere al ri
parto dei fondi per l'integrazione dei bilanci degli enti
comunali di assistenza. (2)
La Corte, ecc. — La difesa della Regione Trentino
Alto Adige riassume nei seguenti termini la prima que
stione proposta, col ricorso, relativa alla legittimità costi
tuzionale dell'art. 7, 1° comma, del decreto del Presidente
della Repubblica 26 gennaio 1959 n. 97 : lo Stato non ha
alcun potere diretto di sospendere o sciogliere le ammini
(1-2) Sulla funzione delle norme d'attuazione degli statuti
regionali, su cui si diffonde la sentenza riportata, v., da ultimo,
Corte cost. 19 dicembre 1959, n. 65, retro, 357, nonché, sui limiti
dei controlli della Regione sugli enti locali, Corte cost. 5 maggio
1959, n. 23 (menzionata nella motivazione della presente), Foro it.,
1959, I,' 718, con nota di richiami.
strazioni delle istituzioni di assistenza e beneficenza nella
Regione ; più particolarmente, lo Stato non ha il potere di
sostituirsi alla Regione che abbia omesso di adottare, nei
confronti delle dette amministrazioni, il provvedimento
di sospensione o di scioglimento. È bene precisare che la Regione non nega quanto è
stabilito nello stesso comma dell'art. 7, che lo Stato, attra
verso il suo rappresentante nella Regione, e cioè il Commis
sario del Governo, ha il potere di adottare gli indicati prov
vedimenti per motivi di ordine pubblico. Si tratta dunque
di accertare se sia costituzionalmente legittima l'attribu
zione di tale potere allo Stato anche quando quei provve
dimenti siano richiesti nei casi di « persistenti violazioni di
leggi », se gli organi della Regione non abbiano provveduto.
È fuori dubbio che per l'art. 5, n. 2, dello Statuto spe
ciale per il Trentino-Alto Adige, la materia delle « istitu
zioni pubbliche di assistenza e beneficenza » appartiene
alla competenza così detta « concorrente » della Regione ;
e del pari non è dubbio, ed è questo un panto basilare della
difesa della Regione, che, per l'art. 13 dello Statuto, le
« potestà amministrative relative » alle materie sulle quali
la Regione può emanare norme legislative sono esercitate
dalla Regione (o dalla Provincia). Bisogna tener conto
d'altra parte, del principio sviluppato con la costante giu
risprudenza della Corte costituzionale, basato sulla dispo
sizione Vili della Costituzione, secondo cui il concreto
passaggio alle Regioni delle funzioni amministrative statali
a queste attribuite deve essere regolato con leggi della
Repubblica. Tale è la finalità delle norme di attuazione
degli statuti speciali, le quali hanno, fra l'altro, lo scopo
di porre disposizioni di carattere normativo anche per le
relazioni, sulle quali si controverte appunto nel presente
giudizio, fra lo Stato e le Regioni (sentenza 16 luglio 1956,
n. 20, Foro it., 1956, I, 1256). Occorre, infine, notare che lo
Statuto speciale per il Trentino-Alto Adige, nel parlare delle
istituzioni di assistenza e beneficenza, non dà una compiuta
disciplina della materia dei controlli su di èsse. L'art. 48,
n. 5, considera bensì i poteri di vigilanza e di tutela, ma
non gli altri controlli (v. sentenza Corte cost. 5 maggio
1959, n. 23, id., 1959, I. 718).
Se così è, per risolvere la questione portata all'esame
della Corte, occorre inquadrare l'art. 7, della cui costitu
zionalità si discute, nel sistema delle relazioni mutue e
delle competenze della Regione e dello Stato, che sono
state stabilite, con riferimento alle disposizioni dello Sta
tuto speciale, con le disposizioni delle norme di attuazione,
di cui l'art. 7 stesso fa parte, emanate col decreto pres.
del 26 gennaio 1959 n. 97. Sono queste le norme che lo
Stato ha emanato per impartire concrete disposizioni sulla
materia delle istituzioni pubbliche di assistenza e benefi
cenza nel Trentino-Alto Adige ; ed è appena il caso di
notare che esse sono state emanate, come espressamente
risulta nelle premesse del decreto, con l'esplicito richiamo
degli art. 5, n. 2, e 48, n. 5, dello Statuto speciale, ossia
proprio degli articoli sui quali dalle parti in causa si con
troverte.
Bisogna rilevare che, in aderenza all'art. 5, n. 2, dello
Statuto speciale, con l'art. 1 del detto decreto tutta la
materia riguardante le istituzioni pubbliche di assistenza
e beneficenza, in quanto già di competenza dello Stato,
è attribuita alla Regione. L'art. 1 si richiama al testo fon
damentale, e cioè alla legge del 1890, al regolamento di
esecuzione e alle altre successive norme, che all'uopo ven
gono indicate, per dichiarare che « sono trasferite alla Re
gione le attribuzioni amministrative che la legge 17 luglio
1890 n. 6972, il relativo regolamento di esecuzione, ecc. . . .,
e altre norme legislative di modificazione e integrazione
demandano al Governo della Repubblica, al Ministro per
l'interno, al prefetto ed al comitato provinciale di assi
stenza e beneficenza pubblica, in materia di istituzioni
pubbliche di assistenza e beneficenza ».
Tuttavia, se questa norma è di tale ampiezza da. doversi
ritenere trasferita agli organi regionali tutta la materia
relativa alle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza,
ciò non implica che ai detti organi siano passate anche
funzioni di carattere essenzialmente statali ; ed appunto
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