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Sentenza 4 maggio 1960, n. 30; Pres. Azzariti P., Rel. Manca; D'Angelo c. Lepre; interv. Pres. Cons....

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Sentenza 4 maggio 1960, n. 30; Pres. Azzariti P., Rel. Manca; D'Angelo c. Lepre; interv. Pres. Cons. ministri (Avv. dello Stato Salerni) Source: Il Foro Italiano, Vol. 83, No. 5 (1960), pp. 705/706-709/710 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23174892 . Accessed: 28/06/2014 09:06 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 91.223.28.130 on Sat, 28 Jun 2014 09:06:59 AM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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Page 1: Sentenza 4 maggio 1960, n. 30; Pres. Azzariti P., Rel. Manca; D'Angelo c. Lepre; interv. Pres. Cons. ministri (Avv. dello Stato Salerni)

Sentenza 4 maggio 1960, n. 30; Pres. Azzariti P., Rel. Manca; D'Angelo c. Lepre; interv. Pres.Cons. ministri (Avv. dello Stato Salerni)Source: Il Foro Italiano, Vol. 83, No. 5 (1960), pp. 705/706-709/710Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23174892 .

Accessed: 28/06/2014 09:06

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705 GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE 706

CORTE CliSriTUZlONALE.

Sentenza 18 maggio 1960, n. 33 ; Pres. Azzariti P., Rei.

Cassandro ; Oliva (Avv. Mortati) c. Min. interni

(Aw. dello Stato Tracanna) ; interv. Pres. Cons,

ministri.

Concorso ad un impiego — Esclusione delle donne

da uffici pubblici — Incostituzionalità della norma

(L. 17 luglio 1919 n. 1176, capacità giuridica delle donne,

art. 7 ; Costituzione della Repubblica, art. 51).

È incostituzionale l'art. 7 della legge 17 luglio 1919 n. 1176,

che esclude le donne da tutti gli uffici pubblici che impli cano l'esercizio di diritti e potestà politici. (1)

La Corte, ecc. — Nell'ordinanza la questione di costi

tuzionalità sembra prospettata principalmente, se non

esclusivamente, sotto un profilo particolare : quello, cioè,

secondo il quale la norma «contenuta nell'art. 7 legge 17

luglio 1919 n. 1176 si porrebbe in contrasto col precetto

del 1° comma dell'art. 51 Cost., per il fatto che attribuisce

al regolamento la potestà di specificare gli impieghi pub

blici che implicano l'esercizio di diritti e di potestà politi

che, l'ammissione ai quali è preclusa alle donne. E anche le

parti hanno trattato prevalentemente questo punto e negli

scritti difensivi e nella discussione orale.

Senonchè la Corte non può non osservare che la norma

imp ugnata, dispone in primo luogo l'esclusione delle donne

da tutti i pubblici uffici che comportano l'esercizio di diritti

e potestà politiche, riservando alla legge di determinare

i casi eccezionali di ammissione delle donne a taluno di essi, e,

viceversa, al regolamento di specificare quali siano quelli

ricompresi nella categoria generale : una riserva che ine

risce strettamente al precetto principale posto dalla norma

e che ha senso appunto in ragione di questo legame. La Corte

deve pertanto portare il suo esame sulla norma tutt'intera,

così del resto come l'ordinanza stessa l'ha enucleata dal

l'art. 7, non già soltanto su una sua parte. Ora, non può

essere dubbio che una norma che consiste nell'escludere le

donne in via generale da una vasta categoria di impieghi

pubblici, debba essere dichiarata incostituzionale per l'ir

rimediabile contrasto in cui si pone con l'art. 51, il quale

proclama l'accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive

degli appartenenti all'uno e all'altro sesso in condizioni di

eguaglianza. Questo principio è stato già interpretato dalla

Corte nel senso che la diversità di sesso, in sè e per sè consi

derata, non può essere mai ragione di discriminazione legisla

tiva, non può comportare, cioè, un trattamento diverso degli

appartenenti all'uno o all'altro sesso davanti alla legge.

Una norma che questo facesse violerebbe un principio fon

damentale della Costituzione, quello posto dall'art 3, del

quale la norma dell'art. 51 è non soltanto una specificazione,

ma anche una conferma.

Senonchè, l'Avvocatura dello Stato ritiene che la Corte

abbia dato dell'art. 51 un'interpretazione che consenti

rebbe al legislatore di stabilire esclusioni o ammissioni a

pubblici uffici, muovendo dall'appartenenza all'uno o

all'altro sesso di coloro che aspirano ad accendervi. Ma

rion è questa, così genericamente definita, la portata della

sentenza n. 56 del 13 ottobre 1958 (Foro it., 1958, I,

1393). L'art. 51 o, più esattamente, l'inciso « secondo i re

quisiti stabiliti dalla legge » non sta punto a significare che

il legislatore ordinario possa, senza limiti alla sua discre

zionalità, dettare norme attinenti al requisito del sesso,

ma vuol dire soltanto che il legislatore può assumere, in

casi determinati e senza infrangere il principio fondamen

tale dell'eguaglianza, l'appartenenza all'uno o all'altro

sesso come requisito attitudinario, come condizione, cioè,

che fàccia presumere, senza bisogno di ulteriori prove, la

(1) L'ordinanza 12 giugno 1959 della XV Sezione del Consiglio

di Stato, che ha rimesso alla Corte costituzionale la questione

di legittimità ora riconosciuta fondata, è massimata in questo

volume, III, 48, con nota di richiami.

Il Fobo Italiano — Volume LXXXIII — Parte 7-46.

idoneità degli appartenenti a un sesso a ricoprire questo o quell'ufficio pubblico : un'idoneità che manca agli appar tenenti all'altro sesso o è in possesso di costoro in misura

minore, tale da far ritenere che, in conseguenza di codesta

mancanza, l'efficace e regolare svolgimento dell'attività

pubblica ne debba soffrire. Ora che questo non sia il caso

della norma impugnata è di tutta evidenza. In essa, infatti,

il sesso femminile è assunto come tale a fondamento di inca

pacità o di minore capacità, non già a requisito di idoneità

attitudinale, per una categoria amplissima di pubblici uf

fici (e, ch'è più, di incerta definizione e in conseguenza di

vaghi confini), in via di regola, non già in via di eccezione

e con riferimento concreto a particolari situazioni, ponen

dosi, anzi, in via d'eccezione e con rinvio alla legge, il caso

di ammissione delle donne a taluno degli uffici ricompresi

nella categoria generale di esclusione. La sua illegittimità

costituzionale è pertanto evidente al lume della giurispru

denza di questa Corte.

Con che, peraltro, si è anche detto come il legislatore

possa intervenire a regolare l'ammissione ai pubblici impieghi

in ragione dell'appartenenza all'uno o all'altro sesso, per dare

all'intera materia la necessaria disciplina richiesta dal so

pravvenuto precetto costituzionale.

Stando così le cose, la questione, intorno alla quale si

sono affaticate le parti, perde ogni rilievo nel presente giu

dizio. Poco importa, infatti, ricercare la legittimità di una

disposizione che attribuisce al potere regolamentare la po

testà di elencare gli uffici che « implichino l'esercizio di diritti

e di potestà politiche », e che pertanto respingono da sè

le donne, quando è in primo luogo illegittima la norma,

della quale quella disposizione è parte inscindibile, che

esclude le donne da quella categoria di uffici pubblici e in

ragione di siffatta esclusione. E poco importa, in conse

guenza, esaminare il questito proposto dalla difesa della

dott.ssa Oliva se e come una norma di procedimento o una

norma attributiva di competenze possa assumere il valore

e l'efficacia di una norma sostanziale e, in quanto tale,

spiegare i suoi effetti anche in confronto di norme anteriori

all'entrata in vigore della Costituzione. Nè, infine, la Corte

può pronunciarsi sull'altro quesito, proposto dall'Avvo

catura dello Stato, che è della validità di un regolamento

emanato in base a una norma promulgata prima dell'en

trata in vigore della Costituzione e poi dichiarata illegit

tima, quesito che è di competenza del giudice ammini

strativo. Per questi motivi, dichiara l'illegittimità costituzionale

della norma contenuta nell'art. 7 legge 17 luglio 1919 n. 1176,

che esclude le donne da tutti gli uffici pubblici che impli

cano l'esercizio di diritti e di potestà politiche, in riferi

mento all'art. 51, 1° comma, della Costituzione.

CORTE COSTITUZIONALE.

Sentenza 4 maggio 1960, n. 30 ; Pres. Azzariti P., Rei.

Manca ; D'Angelo c. Lepre ; interv. Pres. Cons, ministri

(Avv. dello Stato Salerni).

Lavoro (rapporto) — Conglobamenti c perequazioni

salariali ili Savore dei portieri — Permanenza

della discriminazione tra capi famiglia e non

capi-famiglia — Incostituzionalità della norma

tiva — Questione infondata (Costituzione della Re

pubblica, art. 36, 37 ; 1. 4 febbraio 1958 n. 23, conglo

bamento e perequazioni salariali in favore dei portieri,

art. 1).

È infondata la questione d'incostituzionalità dell'art. 1 della

legge 4 febbraio 1958 n. 23, consistente in ciò che, nel

'procedere al conglobamento, in una unica voce contribu

tiva, uguale per uomo e per donna, i minimi salariali

e le indennità di contingenza, di carovita e di caropane,

avrebbe lasciato sopravvivere la discriminazione tra por

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707 PARTE PRIMA 708

tieri capo-famiglia e portieri non capo-famiglia, istituita nella precedente normativa legislativa e collettiva. (1)

La Corte, ecc. — L'art. 1 della legge 4 febbraio 1958 n. 23 stabilisce che sono conglobati, a tutti i fini contrat tuali e di legge, in un'unica voce retributiva, uguale per uomo e donna, oltre i salari minimi spettanti ai portieri ed ai lavoratori addetti, con rapporto continuativo, alla

pulizia degli immobili urbani, anche le indennità di caro

vita, di caropane e quella di contingenza, di cui all'art, unico del decreto legisl. 22 aprile 1947 n. 285, aumentata da altre leggi successivamente emanate. In relazione ap punto a questa indennità è stata proposta la questione di

legittimità costituzionale dell'accennata disposizione della

legge del 1958. Il Tribunale di Napoli infatti ha sollevato il dubbio che la disposizione stessa sia in contrasto con il 1° comma dell'art. 36 e con l'art. 37 Cost., in quanto, nel

disporre il conglobamento delle varie voci retributive, avrebbe mantenuto ferma, riguardo alla misura dell'in dennità di contingenza, la distinzione fra capo famiglia e non capo famiglia, contenuta nella tab. A allegata al de creto legisl. 22 aprile 1947, già ricordato, richiamato espres samente dalla legge del 1958.

Ora, l'interpretazione in tal senso di detta legge, come

presupposto logico della questione di costituzionalità, deve ritenersi esatta. È da premettere infatti che il congloba mento di per sè non porta necessariamente a ritenere sop pressa la distinzione di cui si è fatto cenno, dato che, nella determinazione della retribuzione unificata da attribuire

rispettivamente al capo famiglia e al non capo famiglia, possono confluire elementi differenziati, in dipendenza della diversa misura delle varie indennità e quindi anche di quella di contingenza.

Risulta d'altra parte dai lavori preparatori che la leggo del 1958, ora in esame, ha testualmente riprodotto l'art. 1 di una delle tre proposte di legge di iniziativa parlamen tare, presentate per favorire i portieri e gli altri lavoratori addetti alla pulizia e custodia degli immobili urbani. Non ha invece riprodotto l'art. 2 della proposta stessa, che, allo

scopo di uniformare e rendere omogenee le retribuzioni, stabiliva minimi salariali a carattere nazionale, da valere

per uomini e donne, eliminando anche per l'indennità di

contingenza ogni distinzione, compresa quella fra capo fa

miglia e non capo famiglia, com'è precisato nella Relazione; e stabilendo soltanto un diverso trattamento salariale in relazione alle due zone nelle quali era, al riguardo, diviso il territorio nazionale, e tenuto conto delle qualità di por tiere addetto alla pulizia e custodia degli stabili, o di lavo ratore addetto soltanto alla pulizia. Se ne può fondatamente desumere che, nella legge del 1958, per quanto attiene al

conglobamento, si è seguito un sistema diverso da quello adottato nell'accennata proposta. Con la conseguenza quindi che, essendosi, nella predetta legge, soppressa la distinzione relativa al sesso, ed essendosi consentita, riguardo ai por tieri che esercitano altro mestiere, una riduzione non supe riore al 20% della retribuzione complessiva, in luogo di una diversa misura dell'indennità di contingenza, riman

gono tuttora operanti le altre differenziazioni prevedute, per l'indennità stessa, dal decreto legislativo del 1947, e, in particolare, quella inerente alla qualità o meno di capo famiglia. Il che del resto, secondo quanto risulta dalla circolare del Ministero del lavoro e della previdenza sociale n. 17381/41 G del 15 settembre 1958, corrisponde all'inter

pretazione che le organizzazioni sindacali interessate hanno dato pacificamente quasi ovunque alla citata legge del 1958.

Come si desume inoltre dall'ordinanza, il Tribunale ha ritenuto che la questione circa la legittimità costituzionale di tale distinzione sia rilevante per la definizione del giu dizio principale (riguardante le indennità dovute ad una donna che esercitava il mestiere di portiera), osservando esattamente dal punto di vista giuridico che, data la parifi

(1) La massima della ordinanza 19 giugno 1959 del Tribunale di Napoli, che ha sollevato la questione d'incostituzionalità ora riconosciuta infondata, leggesi in questa raccolta, 1959, I, 1624.

cazione delle donne agli uomini stabilita dall'art. 1 della

legge del 1958, sopra ricordata, la qualità di capo famiglia o di non capo famiglia riguarda, in base a tale disposizione, anche le donne. E ciò a differenza di quanto stabiliva il

decreto legisl. del 1947 (tab. A), che commisurava l'in

dennità di contingenza all'esistenza o meno di tale qualità soltanto per gli uomini, mentre per le donne prevedeva una diversa indennità esclusivamente in relazione all'eser

cizio o meno di altro mestiere.

La questione per altro non può ritenersi fondata. Il 1°

comma dell'art. 36 Cost, attribuisce al lavoratore il diritto « ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro, e, in ogni caso, sufficiente ad assicurare a sè e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa ». La re

tribuzione quindi deve rispondere a due fondamentali e

diverse esigenze. L'una si ricollega al rapporto di scambio tra prestatore d'opera e datore di lavoro, considerando la

prestazione di lavoro nella sua consistenza quantitativa e

qualitativa ; l'altra si riferisce alla situazione familiare del lavoratore. Ciò è pure ammesso,dal Tribunale, il quale pone in rilievo che, nel precetto costituzionale, sono contenuti due principi relativi all'elemento di carattere obiettivo e

a quello subiettivo, che si integrano a vicenda, di guisa che la retribuzione del lavoratore « va riguardata nello stesso tempo sotto duplice aspetto : quello della propor zionalità della retribuzione alla quantità e qualità del lavoro

prestato e quello dell'idoneità della retribuzione al sosten tamento del lavoratore e della sua famiglia ». Esprime tuttavia il dubbio che, con la diversa misura della retribu

zione, derivante dalla qualità o meno di capo famiglia, si verrebbe a stabilire « a parità di lavoro un'imparità della retribuzione stessa », in contrasto con la norma costitu zionale.

Senonchè il criterio di proporzionalità all'entità della

opera prestata, che condiziona la misura del salario base, non può essere richiamato per determinare anche quella parte della retribuzione che deve assicurare al lavoratore un dignitoso tenore di vita, poiché, sotto tale aspetto, si deve tener conto del fatto che il lavoratore abbia o no

famiglia. Ciò si può desumere sia dalla formulazione della norma costituzionale, sia dai precedenti storici della norma stessa. La quale, per quanto attiene al tenore di vita libero e dignitoso che la retribuzione deve assicurare, considera

separatamente la persona del lavoratore e la sua famiglia. È pure da tener presente che, nella discussione svoltasi nell'Assemblea costituente a proposito dell'art. 32 del pro getto, fu rilevato che commisurare la retribuzione alle

esigenze oltreché del lavoratore anche della famiglia, avrebbe dato luogo a discriminazioni fra lavoratori che compiono un identico lavoro. Ma l'Assemblea approvò l'art. 32 (che corrisponde, con lievi modificazioni di forma, all'art. 36

Cost.) secondo il testo proposto dalla Commissione ; il cui Presidente aveva insistito sulla necessità che il salario debba corrispondere, oltreché alle esigenze personali del

lavoratore, anche a quelle della famiglia. Ora, in base a siffatta distinzione, si giustifica che il

corrispettivo, dovuto al prestatore d'opera, possa essere diverso nell'ammontare complessivo, in relazione alla situa zione personale del medesimo. Poiché la retribuzione, di una certa misura, può essere sufficiente per le esigenze della vita di un lavoratore non avente familiari a carico, ma non esserlo nell'ipotesi contraria.

Pertanto, dato che, come ha già ritenuto questa Corte (sentenze n. 1 e n. 6 del 1960, Foro it., 1960, I, 201 e 353), il fatto che la Costituzione attribuisca, come nel caso, un diritto subiettivo perfetto, senza rinvio ad una legge ordinaria, non esclude che questa possa inter venire per regolare in concreto l'esercizio del diritto

medesimo, ne consegue che la disposizione del decreto

legisl. del 1947, richiamata dall'art. 1 della legge del 1958 ora in esame, che stabilisce una misura diversa del l'indennità di contingenza in relazione alla qualità o meno di capo famiglia dei portieri, per quanto si è detto, non appare in contrasto, ma si adegua alla norma del l'art. 36, 1° comma, Cost. E si adegua altresì al principio dell'uguaglianza, contenuto nell'art. 3 : principio che, ha

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

più volte ritenuto questa Corte, non esclude che il legisla tore ordinario possa dettare norme diverse per regolare situazioni considerate diverse.

Appena occorre aggiungere, in fine, che nessuna vio

lazione può ravvisarsi dell'art. 37 Cost., del resto inciden

talmente richiamato nell'ordinanza, poiché alla parifica zione delle donne agli uomini, per quanto riguarda la retri

buzione nel caso di uguali prestazioni, ha espressamente

provveduto, come si è in precedenza accennato, l'art. 1,

ultimo comma, legge 4 febbraio 1958 n. 23. Con la conse

guenza, riguardo all'attuale controversia, che le retribuzioni

dovute ai portieri di entrambi i sessi, devono essere equi

parate, anche quando essi abbiano rispettivamente la

qualità di capo famiglia o di non capo famiglia. Per questi motivi, dichiara non fondata la questione,

proposta con ordinanza del 19 giugno 1959 del Tribunale

di Napoli, sulla legittimità costituzionale dell'art. 1 della

legge 4 febbraio 1958 n. 23 (contenente norme per il conglo bamento e perequazioni salariali in favore dei portieri ed

altri lavoratori addetti alla pulizia e custodia di stabili

urbani), in riferimento agli art. 36 e 37 della Costituzione.

SORTE COSTITUZIONALE.

Sentenza 4 maggio 1960, n. 29; Pres. Azzariti P., Rei.

Petrocelli ; imp. Baldi e Ginori Conti (Avv. Sabatini,

Sermonti) ; interv. Pres. Cons, ministri (Avv. dello

Stato Salerni).

Sciopero e serrala — Serrata — Incostituzionalità

della normativa (Costituzione della Repubblica, art.

39, 40 ; cod. pen., art. 502).

Per contrasto con gli art. 39 e 40 della Oostituzione sono di

chiarati illegittimi l'art. 502, 1° comma, cod. pen., che

punisce con la multa non inferiore a lire diecimila Vivi

prenditore, il quale, al solo scopo d'imporre ai suoi dipen

denti modificazioni ai patti stabiliti o di opporsi a modi

ficazioni di tali patti, ovvero di ottenere o di impedire una

diversa applicazione dei patti o usi esistenti, sospende

in tutto o in parte il lavoro nei suoi stabilimenti, aziende o

uffici, e il 2° comma dolio stesso articolo, che punisce con

la multa sino a mille lire i lavoratori, addetti a stabili

menti, aziende o uffici, i quali, in numero di tre o più,

abbandonano collettivamente il lavoro, ovvero lo prestano in

modo da ridurne la continuità o la regolarità, col solo scopo

di imporre agli imprenditori patti diversi da quelli

stabiliti, ovvero di opporsi a modificazioni di tali patti o,

comunque, di ottenere o impedire una diversa applica

zione dei patti o usi esistenti. (1)

La Corte, ecc. —- La questione di legittimità costitu

zionale, proposta con le ordinanze del Giudice istruttore

presso il Tribunale di Pisa, ba per oggetto di stabilire se

l'art. 502, 1° comma, cod. pen., posto con altre norme a

tutela dell'ordinamento corporativo istituito con la legge

3 aprile 1926 n. 564, sia in contrasto col sistema di libertà

sindacale e col sistema di libera iniziativa economica, sanciti

negli art. 39, 40 e 41 della Costituzione.

È noto che, anteriormente al sistema corporativo, la

serrata e lo sciopero, in conformità di quanto era stabilito

in quasi tutti gli ordinamenti democratici dell'epoca, costi

tuivano illecito penale solo se attuati con violenza o minac

(1) Il Giudice istruttore penale del Tribunale di Pisa, con

le ordinanze 2 e 4 marzo 1959 (Le Leggi, 1959, 332), aveva ri

messo alla Corte costituzionale la questione d'incostituzionalità

del 1° comma dell'art. 502 cod. pen., ma la Corte, in applicazione

dell'art. 27 legge 11 marzo 1953 n. 87, dichiara l'incostituzio

nalità anche del 2° comma ; successivamente, il Giudice istrut

tore penale del Tribunale di Vicenza, con ordinanza 18 gennaio

1960 (in questo volume, II, 111, con nota di richiami) ha

rimesso alla Corte costituzionale la cognizione della questione

d'illegittimità del 1° comma dell'art. 502.

eia, sì da trascendere in impedimento o restrizione della

libertà del lavoro. La dottrina penalistica, infatti, in rela

zione alle fattispecie prevedute negli art. 166 e segg. cod.

pen. del 1889, considerava oggetto della tutela penale l'in

teresse della libertà individuale sotto l'aspetto della libera

esplicazione del lavoro ; come del resto si deduceva dal

fatto che quegli articoli erano compresi nel capo denominato

appunto dei delitti contro la libertà del lavoro.

Ben diverso sistema fu instaurato con la ricordata legge del 3 aprile 1926. Il regime di libera competizione fu sosti

tuito con una « disciplina giuridica dei rapporti collettivi

di lavoro» (tale fu il titolo della nuova legge), disciplina della quale uno dei criteri fondamentali fu quello espresso nell'art. 13 della legge, cioè che tutte le controversie relative

ai rapporti collettivi di lavoro, concernenti, sia l'applicazione dei contratti collettivi e di altre norme esistenti, sia la ri

chiesta di nuove condizioni di lavoro, divenivano di compe tenza delle corti di appello funzionanti come magistrature del lavoro ; criterio che trovò il suo suggello nell'art. 22

della legge, il quale configurava come delitto la mancata

esecuzione delle decisioni del magistrato del lavoro. Di

fronte a tale sistema la serrata e lo sciopero apparvero come forme di ribellione alla nuova disciplina giuridica, la quale, essendo fondata sulla risoluzione giudiziaria dei

conflitti del lavoro, non tollerava atti che ne costituissero

sostanzialmente un rifiuto, traducendosi, nell'ambito di

quel sistema, in una vera e propria forma di ragion fattasi.

Ne veniva di conseguenza il divieto della serrata e dello

sciopero, divieto che si volle presidiare con la sanzione pe

nale, trasformando in reato fatti che erano stati libera

espressione delle competizioni del lavoro. Al qual proposito è particolarmente significativo un passo della Kelazione

ministeriale al progetto definitivo per il cod. pen. del 1931

(vol. II, pag. 289), dove si sostenne che il divieto della ser

rata e dello sciopero si rendeva necessario « per segnare un

netto trapasso fra due regimi, e porre un energico discono

scimento del principio democratico, che, all'opposto, am

metteva la libertà di coalizione e di sciopero ».

Il sistema posto su queste basi non poteva soprav vivere al ripristino dell'ordinamento democratico. Infatti,

ancor prima dell'avvento della Costituzione, col decreto

legge 9 agosto 1943 n. 72, e poi col decreto legisl. Iuog. 23

novembre 1944 n. 349, si volle subito, non ostante qualche

sopravvivenza di carattere non fondamentale, incidere

radicalmente sulle strutture essenziali di quel sistema.

Il problema del divieto penale dello sciopero e della serrata

non tardò a presentarsi, ma assunse il suo preciso rilievo

con l'entrata in vigore della Costituzione, la quale nell'art. 40,

mentre dichiarava essere lo sciopero un diritto del lavora

tore, da esercitarsi nell'ambito di leggi regolatrici, taceva

del tutto della serrata. A parte le questioni sul diritto di

sciopero, presto suscitate dalla larga enunciazione dell'art.

40, relativamente sia al carattere stesso della norma e

alla sua estensibilità o meno allo sciopero non economico,

sia alla esistenza di limiti già nel vigente ordinamento, per ciò che riguarda la serrata, la dottrina e la giurisprudenza si

manifestarono prevalentemente nel senso che anche quel divieto penale dovesse considerarsi caduto col vecchio

sistema. Significativa a tal proposito è una sentenza della

Corte di cassazione (18 giugno 1953, Foro it., 1954, I, 34), la quale statuì essere la serrata un atto penalmente lecito,

sebbene non, a differenza dello sciopero, esercizio di un di

ritto. All'incirca nello stesso ordine di idee venne a trovarsi

quella parte della dottrina che ritenne di qual'f carela serrata

come un diritto di libertà, assumendo genericamente tale

espressione nel senso di facoltà giuridica di fare tutto ciò che

non è vietato dalla legge. Bullo sfondo di questi precedenti va appunto esa

minata la questione propriamente devoluta all'esame di

questa Corte, se cioè la norma del 1° comma dell'art. 502

cod. pen. sia in contrasto con gli indicati articoli della Co

stituzione.

È da ritenere in primo luogo non esatta la impostazione iniziale dell'Avvocatura dello Stato, enunciata sin dal

l'atto di intervento del 20 aprile 1959, secondo la quale il

problema della legittimità o meno del divieto penale della

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