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sentenza 6 dicembre 1982; Giud. Pivetti; Giorgi (Avv. Mancuso) c. Soc. La Procellaria, Soc. L'Eremo,...

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Page 1: sentenza 6 dicembre 1982; Giud. Pivetti; Giorgi (Avv. Mancuso) c. Soc. La Procellaria, Soc. L'Eremo, Soc. Limas (Avv. Giordano)

sentenza 6 dicembre 1982; Giud. Pivetti; Giorgi (Avv. Mancuso) c. Soc. La Procellaria, Soc.L'Eremo, Soc. Limas (Avv. Giordano)Source: Il Foro Italiano, Vol. 106, No. 7/8 (LUGLIO-AGOSTO 1983), pp. 2047/2048-2049/2050Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23175370 .

Accessed: 24/06/2014 20:01

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2047 PARTE PRIMA 2048

Motivi della decisione. — (Omissis). Venendo, quindi, al merito

della controversia, in relazione al ricorrente Lepureni, va osser

vato che nella controversia non esiste alcuna questione di fatto,

pacifico essendo in causa che il Lepureni ha partecipato al con

corso indetto dall'E.n.el., compartimento di Firenze, in data 5

luglio 1979, n. 12; che nella graduatoria finale per merito il

Lepureni si era classificato al posto n. 83; che il bando di con

corso, al paragrafo IV, comma 3°, prevede che « Per la coper

tura dei posti messi a concorso avranno la precedenza, purché

idonei, i candidati residenti nei comuni ove insistono gli im

pianti » ; che il Lepureni risiedeva in comune diverso da quelli

in cui insistono gli impianti, mentre gli assunti a lui preferiti,

idonei, risiedevano in detti comuni.

La questione oggetto della controversia attiene, quindi, sol

tanto all'accertamento della legittimità o meno della clausola

sopra indicata, sotto il profilo della sua illiceità per violazione di

norme imperative. In proposito giova osservare che l'argomentazione svolta dalla

difesa dell'E.n.el., secondo la quale gli art. 1343 e 1418 c. c., in

quanto attinenti ai contratti, non sarebbero applicabili al bando

di concorso in questione, in quanto atto unilaterale dell'ente,

appare alquanto debole, ove si consideri che, alla stregua della

prevalente giurisprudenza del Supremo collegio, una volta che

l'ente pubblico economico, al quale è applicabile certamente la

disciplina privatistica in relazione al rapporto di lavoro con i

suoi dipendenti, abbia scelto quale metodo di reclutamento quello

concorsuale anziché quello del collocamento, il vincolo giuridico

derivante e instauratosi fra ente e partecipante al concorso si

iscrive in un rapporto di carattere obbligatorio, intendendo ga

rantire l'accesso al posto di lavoro e la progressione in carriera,

con la connessa capacità di guadagno del soggetto. Ne deriva che

non è necessario procedere neanche al preciso inquadramento

dogmatico del meccanismo processuale in fattispecie civilistiche

tipiche (offerta al pubblico, promessa al pubblico) per ammettere

la possibilità di annullamento della procedura viziata che, per

divergenza dal fine suo proprio, non possa conseguire gli effetti

assegnatile. Senza contare la rilevanza dell'efficacia invalidante

di cui all'art. 1345 c.c. in relazione al motivo illecito, unico de

terminante, quando il motivo contrasti con norme imperative.

Ne deriva che, quale che sia la fonte del vincolo obbligatorio in relazione alla clausola in oggetto, questa dovrà essere ritenuta

illegittima ove si accerti la sua illiceità per contrasto con norme

imperative. Ciò posto, deve riconoscersi che la giurisprudenza del Supremo

collegio e quella di merito tende a considerare nulle le clausole

che discriminano in relazione a requisiti cosiddetti estrinseci

coloro che partecipano ai cosiddetti concorsi privati. Sul punto

proprio della fattispecie in oggetto si è già pronunciato il Tri

bunale di Palermo (cfr. sent. 28 marzo 1981, Foro it., Rep.

1981, voce Lavoro (rapporto), n. 1036) il quale, con motivazione

ricca di argomentazioni, ha affermato l'illegittimità della clausola

in oggetto per contrasto con norme imperative, con particolare

riguardo agli art. 1, 4, 16 e 120 Cost., nonché con l'art. 8

1. n. 264/49, come modificato dall'art. 2 1. n. 5/61.

Tuttavia questo giudice non ritiene di poter condividere le tesi

esposte dal tribunale nella sentenza citata.

Esaminando, dapprima, un profilo di contrasto evidenziato an

che nella causa decisa dal tribunale e al quale quest'ultimo giu dice non sembra aver dato molta importanza, contrasto dedotto

in questa causa dal ricorrente, deve dirsi che sicuramente la

clausola impugnata non contrasta con l'art. 8 1. n. 300/70, poiché nella specie il datore di lavoro non assume alcuna informazione

in ordine al partecipante al concorso, ed è invece quest'ultimo che provvede a dimostrare la sussistenza di un certo requisito mediante relativa certificazione.

Quanto, invece, all'art. 8 1. sul collocamento il tribunale, con

brillante motivazione, induce il conflitto affermando che, posto il diritto di trasferire la propria iscrizione dalla lista della cir

coscrizione di residenza ad altra lista senza cambiare residenza,

l'ente sarebbe stato costretto ad assumere dipendenti non resi

denti nei comuni ove si trovano gli impianti ove avesse scelto

1981, I, 2, 777, con nota di G. Santoro-'Passarelli, Bandi di concorso

privati e clausole nulle-, Pret. Palermo 5 settembre 1979, Foro it.,

Rep. 1980, voce cit., n. 605. Per ulteriori riferimenti di giurisprudenza e di dottrina sui con

corsi per l'assunzione di personale o per la promozione a qualifica

superiore v. le note di richiami a Gas?. 19 giugno 1982, n. 3773, 12

giugno 1982, n. 3592, 8 febbraio 1982, n. 755, 14 aprile 1981, n. 2778.

14 aprile 1981, n. 2250, id., 1983, I, 113, ed a Trib. Roma 17 luglio 1982 e Pret. Roma 14 aprile 1981, in questo fascicolo, I, 2020; adde

Pret. Trento 27 novembre 1982, Giust. civ., 1983, I, 1026, con nota

di M. Papaleoni, Sui c.d. bandi di concorso privati e le clausole di

parentela.

tale metodo di reclutamento del personale, sicché con la clau

sola in oggetto avrebbe oggettivamente ed illegittimamente eluso

norme imperative. Questo giudice non condivide l'impostazione

suddetta, innanzitutto perché nulla vieta che l'ente datore di

lavoro nell'ambito della propria autonomia decisionale preveda clausole non previste nell'ambito del collocamento ordinario, po sto che i due procedimenti non hanno necessariamente le me

desime esigenze, anche se hanno gli stessi fini. In secondo luogo va osservato che la disciplina dei concorsi esterni rientra, a

differenza di quelli interni, regolati dalla normazione collettiva, nell'autonomia organizzativa dell'imprenditore, che può prevedere clausole specifiche, in vista di esigenze particolari, purché lecite.

E nella specie l'illiceità delle esigenze non è stata neppure de

dotta, poiché ci si è limitati a dedurre l'illiceità della discrimi

nazione, tout court.

Quanto ai profili di conflitto con norme costituzionali, questo è stato individuato nella compressione del diritto costituzional

mente garantito, dagli art. 4, 16 e 120 Cost., esaminati in un

quadro interpretativo unitario, di scegliere liberamente il luogo di lavoro, determinata dalla clausola in oggetto, che tende al

l'accertamento di requisiti estrinseci a quelli propri attitudinali

che soli devono formare oggetto del concorso.

Osserva il giudicante in proposito che la clausola in oggetto non attiene ai requisiti di ammissibilità al concorso, ma attiene

invece e soltanto all'ordine di preferenza in sede di graduatoria definitiva ai fini dell'assunzione; sicché la « discriminazione », se avviene e quando avviene, si verifica soltanto ex post, una volta che se ne siano attuate tutte le condizioni.

Ed allora che dire di tutti i punteggi suppletivi assegnati ai concorrenti di concorsi pubblici, successivamente alla dichiara zione di idoneità, che pur non incidendo sull'assunzione, tuttavia incidono in ordine alle possibilità di scelta del lavoro e, se

gnatamente del luogo di lavoro, restringendo la scelta delle sedi

per coloro che tali punteggi aggiuntivi non hanno, in relazione a requisiti del tutto estrinseci all'accertamento delle attitudini all'im

piego dei candidati? Forse che lo scapolo non debba avere la medesima facoltà di scelta della sede rispetto allo sposato? Diremo che anche tali clausole, o criteri di redazione della gra duatoria finale sono nulle incidendo in ordine alla scelta del

luogo di lavoro, che può essere condizionata soltanto dai meriti, o ragionevolmente non arriveremo mai a tali conclusioni? E non è forse un'esigenza sociale, costituzionalmente protetta, quella di assicurare il lavoro, ex art. 4 Cost., innanzitutto nel luogo di residenza liberamente scelto dal cittadino prima di partecipare al concorso, piuttosto che agli altri, cosi eliminando le cause del fenomeno dell'emigrazione? Ovvero, una volta garantita la libertà di scegliere il luogo di lavoro, costringeremo quelli che non hanno trovato lavoro nel luogo di residenza perché meno meritevoli degli altri a cercare lavoro altrove, cosi' violando anche il loro diritto di scegliere il luogo di residenza e di lavoro?

Qual'è il vero, effettivo e concreto contenuto del diritto a sce

gliere la propria residenza e il proprio luogo di lavoro?

Una più attenta e complessiva lettura del dettato costituzio nale sembra a questo giudice che debba portare a privilegiare (in presenza di situazioni diverse e di condizioni diverse nei cui confronti non è possibile adottare soluzioni identiche, pro prio ai sensi dell'art. 3 Cost., come più volte chiarito dalla stessa Corte costituzionale) il diritto di chi ha già scelto un determinato luogo come quello della sua residenza e del suo

lavoro, rispetto al diritto di chi avendo scelto di vivere in un

luogo scelga successivamente un diverso luogo di lavoro, poiché se la scelta di quest'ultimo va garantita, tanto più e con pre cedenza deve essere garantita quella di chi l'ha operata prece dentemente e che dalla scelta del secondo potrebbe essere co stretto a mutare la propria scelta.

Ne deriva che, a parere del giudicante, la clausola in oggetto non contrasta con alcuna norma imperativa, ma che anzi costi tuisce un'attuazione di principi costituzionalmente garantiti, se visti in un quadro unico, complesso e globale. (Omissis)

PRETURA DI ROMA; sentenza 6 dicembre 1982; Giud. Pi

vetti; Giorgi (Avv. Mancuso) c. Soc. La Procellaria, Soc. L'Eremo, Soc. Limas (Avv. Giordano).

PRETURA DI ROMA;

Società — Società di capitali — Amministratore — Diritto al

compenso — Limiti (Cod. civ., art. 2364, 2389, 2486, 2487).

All'amministratore di società di capitali non spetta alcun com

penso per l'attività prestata, qualora il compenso stesso non

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

sia previsto dall'atto costitutivo o dallo statuto né sia stato

deliberato dall'assemblea. (1)

Motivi della decisione. — (Omissis). 2. Secondo la giurispru denza che si è fin qui pronunziata sull'argomento, il diritto al

compenso degli amministratori delle società è implicitamente riconosciuto negli art. 2364, 2389, 2392 e 2383 c. c. e pertanto, ove manchi la previsione e la determinazione di esso nell'atto

costitutivo e nello statuto e l'assemblea ometta o si rifiuti di

determinarlo o lo determini in misura manifestamente inade

guata, l'amministratore può richiedere al giudice la determina

zione del congruo compenso, cosi come è espressamente previsto

per il mandatario dall'art. 1709 (Cass. 22 giugno 1967, n. 1498, Foro it., Rep. 1967, voce Società, n. 178; 22 luglio 1969, n. 2755,

id., Rep. 1969, voce cit", n. 187; 21 febbraio 1979, n. 1113,

id., Rep. 1979, voce cit., n. 170; 9 maggio 1962, n. 923, id.,

Rep. 1962, voce cit., n. 169; 13 maggio 1960, n. 1135, id.,

1960, I, 1334; 25 maggio 1949, n. 1346, id., Rep. 1949, voce cit., n. 184). A tale indirizzo, che risale a prima dell'entrata in vi

gore del codice del 1942 (Cass. 15 febbraio 1935, id.,

1935, I, 1081 e 17 gennaio 1936, id., 1936, 1, 1044) — quando il riferimento legislativo al mandato per la definizione del rap

porto di amministrazione era più stringente — si è uniformata

gran parte della dottrina, peraltro con autorevoli voci in contrario.

Il pretore ritiene che tale indirizzo non abbia sufficiente fon

damento normativo.

Anche se non rileva direttamente nella fattispecie qui in esa

me, è opportuno osservare che la proposizione ripetuta nelle

citate pronunzie, secondo cui il giudice potrebbe decidere l'equo

compenso spettante all'amministratore pur in presenza di una

determinazione di esso ad opera dell'assemblea, quando que st'ultima determinazione sia inadeguata, appare contraddittoria

con il richiamo all'art. 1709 c. c., che esclude tale potere di

rettifica della volontà negoziale. È indicativo che alcune pro nunzie (Cass. 17 marzo 1981, n. 1554, id., Rep. 1981, voce

cit., n. 175, e altre ivi richiamate) abbiano limitato invece

tale principio alle ipotesi in cui la determinazione del compenso da parte dell'assemblea non sia stata accettata senza riserve da

parte dell'amministratore. Anche cosi delimitato, peraltro, il

principio si pone in contrasto con l'art. 2364, n. 3, che con

templa la determinazione del compenso come atto dell'assem

blea e non come atto contrattuale.

Più in generale, peraltro, va osservato che il richiamo agli art. 2389 e 2364, n. 3, non è sufficiente a sostenere che la

legge stabilisce il diritto dell'amministratore a ricevere un com

penso: tali norme, infatti, non affermano precettivamente l'esi

stenza di tale diritto, ma si limitano a regolare il modo in cui

(1) La sentenza si pone in contrasto con una giurisprudenza con

solidata, fino ad oggi pressoché uniforme. In motivazione infatti si

evidenzia che quasi tutte le pronunce rese sul punto in oggetto hanno affermato l'onerosità quale caratteristica normale del rap porto che lega l'amministratore alla società: cfr., oltre alle sen tenze citate in motivazione, Cass. 17 marzo 1981, n. 1555, Foro

it., Rep. 1981, voce Società, n. 176; App. Bologna 24 novembre

1978, id., Rep. 1980, voce cit., n. 215; App. Bologna 19 maggio 1979,

ibid., n. 217; Cass. 27 novembre 1979, n. 6209, id., Rep. 1979, voce

cit., n. 171; App. Genova 3 agosto 1977, ibid., n. 172, e in Giur.

comm., 1979, li, 733, con nota di Domenichini; App. Milano 18 mag gio 1976, lForo it., Rep. 1977, voce cit., n. 223; Cass. 26 gennaio 1976, n. 243, id., 1976, I, i613, con nota di richiami. Più specificamente, la

giurisprudenza testé richiamata stabilisce che, nulla disponendo in ma

teria l'atto costitutivo, qualora l'assemblea ometta o si rifiuti di de

terminare il compenso per l'amministratore, ovvero lo determini in

misura manifestamente inadeguata, l'amministratore stesso può rivol

gersi all'autorità giudiziaria affinché questa (in analogia a quanto di

sposto per il mandato dall'art. 1709 c.c.) liquidi il compenso. Sembra inoltre opportuno notare — ed è ancora la sentenza in epi

grafe a farlo — come alcune tra le citate sentenze specifichino espres samente che il diritto dell'amministratore al compenso è un diritto

disponibile, e che dunque il principio dell'onerosità dell'incarico è de

rogabile: di qui la validità di una clausola statutaria (implicitamente accettata dall'amministratore nell'accettare la nomina) che condizioni

il compenso al conseguimento di utili e ne commisuri l'ammontare

all'entità degli stessi, oppure addirittura stabilisca la gratuità dell'in

carico; di qui, ancora, l'impossibilità per l'amministratore di rivolgersi al giudice per la liquidazione del proprio compenso, allorché abbia

accettato e posto in esecuzione senza riserve la delibera assembleare

di determinazione del compenso stesso: cfr. ad es. Cass. 17 marzo

1981, n. 1554, 17 marzo 1981, n. 1555, 27 novembre 1979, n. 6209, 26 gennaio 1976, n. 243, citate.

Anche in dottrina l'opinione in larga misura prevalente è conforme

all'indirizzo giurisprudenziale dominante, fin qui ricordato: v., per

tutti, G. Ferri, Le società, 1971, 494-495 ed ivi nota 4, F. Ferrara

jr., Gli imprenditori e le società, 1978, 490-491, e G. Frè, Società per

azioni, in Commentario, a cura di Scialoja e Branca, 1982, 484-486.

il compenso stesso deve essere determinato e più precisamente a stabilire la competenza per tale determinazione. Anche il ri chiamo all'art. 2392 ed. il limando ivi contenuto alle norme sul mandato non apporta alcun argomento in favore della tesi esa minata. 11 generico rinvio alla diligenza del mandatario è in fatti chiaramente limitato a! fine di individuare un parametro per la valutazione dell'adempimento da parte dell'amministratore dei doveri ad esso imposti dalla legge e dall'atto costitutivo e non è certo idoneo a suffragare una assimilazione del rapporto di amministrazione a quello di mandato e la conseguente ap plicabilità della disciplina prevista per tale diverso istituto.

Neppure è probante il richiamo all'art. 2383, 3° comma, che

prevede il risarcimento del danno in caso di revoca anticipata senza giusta causa: il fatto che tale norma preveda la risarci bilità della perdita di guadagno non implica certo che un gua dagno debba necessariamente esserci. Se tale implicazione fosse

corretta, del resto, la retribuzione dovrebbe essere considerata non oggetto di una presunzione, ma elemento necessario del

rapporto. Né, infine, può servire il richiamo all'art. 2402 sulla retribu

zione dei sindaci: a prescindere dalla sostanziale diversità delle due figure e dalla eterogeneità del rapporto che la lega alla so cietà (sicché l'obbligatorietà del compenso per i sindaci potrebbe assolvere a funzioni proprie), vi è da osservare che neppure la norma in esame appare stabilire tale obbligatorietà, ché anzi

proprio la ratio di essa, che è da individuare nella garanzia di

indipendenza dei sindaci rispetto all'assemblea dei soci, porta a ritenere la nullità della determinazione del compenso effettuata dall'assemblea dopo la nomina.

Le pronunzie in questione non esplicitano tutte chiaramente

se, secondo l'indirizzo da esse accolto, l'incarico di amministra tore debba essere considerato obbligatoriamente retribuito, ov vero se tale esso sia da considerarsi solo in via presuntiva.

Per la prima versione la carenza di qualunque base normativa sarebbe evidente ed incongruo sarebbe il richiamo all'art. 1709.

Entrambe, ma sopratutto la seconda, sono in realtà un portato della non condivisibile assimilazione del rapporto di amministra zione ad un rapporto contrattuale tra società e amministratore, laddove il conferimento dell'incarico all'amministratore non av viene per contratto ma per atto unilaterale (dell'assemblea e non della società) interno, che ha l'oggetto e la natura di una

designazione ad un munus privato e rispetto al quale l'accet tazione da parte del designato si pone come condizione di effi cacia: il rapporto che ne deriva è poi un rapporto intrasogget tivo e non un rapporto intersoggettivo. All'integrazione per via di presunzione dell'atto costitutivo ovvero della delibera assem bleare silenti sulla questione del compenso ostano non soltanto la mancanza di una base normativa, ma anche il carattere ne cessariamente formale di tali atti, che impedisce di dare rilievo a volontà non espresse.

Va infine osservato che la determinazione ad opera del giudice trova un ostacolo, nella realtà concreta, nella mancanza di qual siasi parametro di comune esperienza che sia concretamente idoneo a valutare e a tradurre in termini pecuniari l'importanza dell'opera, l'entità e la qualità di essa, il vantaggio apportato, ecc., data l'infinita varietà ed incomparabilità di situazioni e di commisurazioni che, notoriamente, si presentano a questo riguardo nella realtà concreta: di fatto, la determinazione ad

opera del giudice non potrebbe essere che essenzialmente ar bitraria.

Né infine vi è alcuna ragione sostanziale per ritenere che la

legge abbia inteso attribuire al giudice, anche in questo campo, il compito ed il potere di supplire all'inerzia delle parti.

In conclusione, nessun compenso spetta all'amministratore, se il compenso stesso non è previsto nell'atto costitutivo né è stato deliberato dall'assemblea. In condizioni siffatte l'amministratore

può tutelare i propri interessi non accettando la carica o dimet tendosi.

La domanda deve quindi essere respinta. (Omissis)

Rivista di giurisprudenza costituzionale e civile Lavoro (rapporto) — Divieto di interposizione nelle prestazioni

di lavoro — Sussistenza dell'interposizione — Onere proba torio a carico del lavoratore — Questione infondata di costi

tuzionalità (Cost., art. 3, 24; cod. civ., art. 2697; cod. proc. civ., art. 414, n. 4; 1. 23 ottobre 1960 n. 1369, divieto di inter

mediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro e

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