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sentenza 7 aprile 1983, n. 85 (Gazzetta ufficiale 13 aprile 1983, n. 101); Pres. Elia, Rel....

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sentenza 7 aprile 1983, n. 85 (Gazzetta ufficiale 13 aprile 1983, n. 101); Pres. Elia, Rel. Andrioli; Clemente; interv. Pres. cons. ministri (Avv. dello Stato Caramazza). Ord. Trib. Torino 5 novembre 1976 (Gazz. uff. 2 febbraio 1977, n. 31) Source: Il Foro Italiano, Vol. 106, No. 6 (GIUGNO 1983), pp. 1511/1512-1515/1516 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23177074 . Accessed: 25/06/2014 09:52 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 62.122.73.86 on Wed, 25 Jun 2014 09:52:10 AM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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sentenza 7 aprile 1983, n. 85 (Gazzetta ufficiale 13 aprile 1983, n. 101); Pres. Elia, Rel. Andrioli;Clemente; interv. Pres. cons. ministri (Avv. dello Stato Caramazza). Ord. Trib. Torino 5novembre 1976 (Gazz. uff. 2 febbraio 1977, n. 31)Source: Il Foro Italiano, Vol. 106, No. 6 (GIUGNO 1983), pp. 1511/1512-1515/1516Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23177074 .

Accessed: 25/06/2014 09:52

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PARTE PRIMA 1512

sul punto, dalla prevalente dottrina non ritiene di poter condivi dere. Giova in proposito, cosi come ha fatto la difesa degli intervenuti, presidente del consiglio dei ministri e ministro delle

finanze pro tempore, prendere le mosse dall'abrogata legge tribu

taria sulle successioni (r. d. 30 dicembre 1923 n. 3270). Il legisla tore del 1923, dopo aver posto come regola generale la deducibi

lità dei debiti certi e liquidi risultanti da atto scritto in data

certa anteriore all'apertura della successione (art. 45, 1°, 2° e 4°

comma) aveva dettato regole speciali volte ad attenuare il rigore formale della prova in tal modo richiesta tenendo conto della

particolare natura di taluni tipi di passività. Tra queste regole viene qui in considerazione quella di cui al 5° comma del

medesimo art. 45 che, per la deducibilità dei debiti di commer

cio o « risultanti da cambiali od altri effetti all'ordine », stabi liva essere sufficiente che fossero annotati nei libri di commer

cio, regolarmente tenuti a norma di legge, del debitore o del

creditore. Questa disposizione agevolativa non fu in giurispru denza giudicata applicabile all'emissione di assegni in c/c, per i

quali si riteneva perciò necessaria la prova non della sola esi

stenza dell'assegno quietanzato, bensì' anche dell'esistenza del

rapporto sottostante e ciò nei modi previsti dalla regola generale di cui ai comma 1°, 2° e 4° dell'art. 45. Siffatto rigore probato rio fu però fortemente attenuato con l'art, unico 1. 24 dicembre

1969 n. 1038 (contenente «norme interpretative ed integrative» del citato art. 45) che sostituì — per la deduzione dei « debiti

derivanti da saldo passivo di conto corrente bancario, originato da emissione di assegni » — alla dimostrazione del rapporto contrattuale di base mediante atto di data certa (« quale che sia

il rapporto contrattuale sottostante ») quella « dell'integrale svol

gimento del conto a partire dal 31 dicembre dell'anno anteriore

all'apertura della successione o dall'ultimo saldo attivo del con

to »; dimostrazione da darsi mediante dichiarazione dell'istituto

di credito o estratto notarile sulla base delle registrazioni operate anche per riassunto nei libri inventari e giornale dello stesso

istituto di credito ed integrata con la produzione degli assegni e

con una dichiarazione di sussistenza del debito.

Rispetto a tale regolamentazione, quella introdotta con il

d. p. r. 637/72, da un lato, ha mantenuto sostanzialmente, sul

piano della documentazione richiesta ai fini probatori, le disposi zioni agevolative di cui alla 1. n. 1038/69 (peraltro escludendo

dal computo gli assegni presentati al pagamento meno di quattro

giorni prima dell'apertura della successione e rendendo solo e

ventuale la produzione degli assegni); dall'altro, ha limitato

l'applicabilità di tali disposizioni ai soli assegni emessi in base a

contratti di apertura di credito in conto corrente bancario (con esclusione di altri contratti bancari, come il deposito in conto

carente).

Soprattutto — per quanto qui interessa — la normativa vigen te ha circoscritto agli addebitamenti da assegni emessi nell'ulti mo anno di vita del defunto la regola probatoria, meno rigorosa, della quale si discute. Di conseguenza, mentre in base alla 1. n.

1038/69 era sempre possibile la dimostrazione dell'esistenza di

un saldo passivo attraverso le scritture contabili della banca, in

quanto la ricostruzione delle vicende del conto corrente era in

ogni caso effettuata a partire da un saldo attivo (quello del 31 dicembre dell'anno anteriore all'apertura della successione, ove

risultasse, appunto, attivo, ovvero il saldo attivo anteriore a tale

data, in caso contrario), con la nuova normativa l'idoneità pro batoria di tali scritture contabili è limitata agli addebitamenti ed accreditamenti degli ultimi dodici mesi, sicché un eventuale sal do passivo preesistente non è provabile allo stesso modo.

Non possono però ritenersi mutati, rispetto alla disciplina preesistente, né la natura delle disposizioni dettate nella materia esaminata né il tipo di rapporto strutturale intercorrente tra di esse. Tutte le disposizioni contenute nell'art. 13 d.p.r. n.

637/72 sono, infatti, dirette a disciplinare non la rilevanza, ai fini dell'imposta sulle successioni, dei debiti nelle stesse conside rati, bensì la prova che di tali debiti occorre fornire perché essi siano deducibili dall'attivo ereditario. L'intero art. 13 contiene, cioè, un sistema di predeterminazione legale dei mezzi di prova che il legislatore, al fine di evitare evasioni fiscali e possibili collusioni dirette a realizzarle, ritiene necessari per la dimo strazione della preesistenza del debito all'apertura della succes sione e quindi per la sua deducibilità dall'attivo ereditario.

In secondo luogo, non è mutato, rispetto alla disciplina pree sistente, il rapporto intercorrente tra la regola generale dettata nel 1° comma dell'art. 13 (corrispondente al 1° comma del l'art. 45 r.d. n. 3270/23) e le regole particolari che in materia di debiti cambiari e di debiti dipendenti da emissioni di assegni sono poste dal 2°, dal 3° e dal 4° comma del medesimo ar ticolo (corrispondenti rispettivamente, al 5° comma del citato art. 45 ed all'art, unico 1. 1038/69). Tra la prima regola

e le successive vi è cioè pur sempre, anche in base alla nuova disciplina, un rapporto di sussidiarietà, nel senso che le

seconde, per agevolare l'assolvimento dell'onere probatorio, dero

gano alla prima ponendo requisiti meno rigorosi; il che compor ta, ove questi ultimi requisiti non ricorrano, non già l'irrilevanza del debito, ma il suo assoggettamento alla regola probatoria generale. Tanto i debiti cambiari che quelli dipendenti da emis sione di assegni sono, infatti, di per sé suscettibili di dimostra zione attraverso la prova del rapporto contrattuale sottostante, sicché ove questo sia documentato in un atto scritto di data certa anteriore all'apertura della successione non vi è ragione per escluderli dal novero di quelli la cui prova può essere fornita alla stregua della norma generale. Non si tratta, cioè, sotto il profilo in esame, di una diversa categoria di debiti ed il fatto che, a proposito dei debiti cambiari, non sia stata ripetuta nell'art. 13 la locuzione esplicitante il rapporto di sussidiarietà contenuta nel 5° comma del citato art. 45 r. d. n. 3270 del 1923

(«qualora non si trovino nelle condizioni previste nei precedenti capoversi ») non toglie che in sede di interpretazione logico-si stematica tale rapporto, secondo la comune opinione della dot trina, debba essere pur sempre riconosciuto sussistente.

Ne consegue che altrettanto deve dirsi per i debiti dipendenti da emissione di assegni avvenuta in base a contratti di apertura di credito in conto corrente bancario, posto che per essi l'art.

13, 3° comma, estende espressamente « la disposizione del com ma precedente » dettata per i debiti cambiari.

Conclusivamente, non può essere condivisa la interpretazione delle disposizioni di legge denunziate dalla quale muove la Commissione tributaria di secondo grado di Rovigo per sollevare la questione di legittimità costituzionale di che trattasi. Al

contrario, si deve ritenere che, ove alla data di apertura della

successione, in base a contratto di apertura di credito in conto corrente bancario risulti un saldo passivo (e cioè un debito del defunto verso la banca) derivante — in tutto o in parte — da

assegni emessi oltre un anno prima, la prova di questi addebi tamenti potrà essere offerta nei modi previsti dal 1° comma dell'art. 13, ferma restando l'applicabilità della regola di cui al 4° comma del medesimo art. 13 per gli addebitamenti infrannuali.

4. - Le suesposte considerazioni conducono ad escludere che le norme impugnate configurino un presupposto d'imposta non cor

rispondente alla effettiva capacità contributiva degli eredi, dal momento che non precludono la computabilità, a fini di dedu zione, degli addebitamenti ultrannuali. Il fatto che per questi sia richiesta una prova più rigorosa e, che, conseguentemente, l'ere de possa non essere in grado di fornirla non si può addurre a motivo di incostituzionalità della norma che la pretende. Come la corte ha già avvertito — in riferimento al citato art. 45 r. d. n. 3270/23 — nella sentenza n. 50 del 1965 (Foro it., 1965, I, 1332), l'impossibilità materiale di fornire la prova richiesta si risolve in un impedimento di mero fatto, come tale estraneo alla problematica costituzionale; e d'altra parte, ove tale impossibilità sia incolpevole torneranno applicabili le disposizioni dettate, in via generale, dall'art. 2724 c. c. Né può dirsi che la configura zione di una prova legale rigorosa equivalga a dare una base fittizia all'imposizione tributaria. La prova legale mira a garanti re la certezza dei rapporti giuridici e, in materia tributaria, anche a tutelare l'interesse generale alla riscossione dei tributi contro ogni tentativo di evasione; e rientra nella discrezionalità del legislatore — il cui apprezzamento, ove non trasmodi in palese arbitrarietà o irrazionalità, sfugge al sindacato di questa corte — la scelta dei meccanismi probatori che si ritengano maggiormente idonei a conseguire tale risultato.

Per questi motivi, dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 13, 3° e 4° comma, d. p. r. 26 ottobre 1972 n. 637 sollevata in riferimento all'art. 53 Cost, dalla Commissione tributaria di se condo grado di Rovigo con l'ordinanza indicata in epigrafe.

CORTE COSTITIZIONALE; sentenza 7 aprile 1983, n. 85 (Gazzetta ufficiale 13 aprile 1983, n. 101); Pres. Elia, Rei. Andrioli; Clemente; interv. Pres. cons, ministri (Aw. dello Stato Caramazza). Ord. Trib. Torino 5 novembre 1976 (Gazz. uff. 2 febbraio 1977, n. 31).

Prova testimoniale — Incapacità a testimoniare — Mancata esten sione a favore del terzo imputato — Questione infondata di costituzionalità (Cost., art. 3, 24; cod. proc. civ., art. 246; cod. pen., art. 384).

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Page 3: sentenza 7 aprile 1983, n. 85 (Gazzetta ufficiale 13 aprile 1983, n. 101); Pres. Elia, Rel. Andrioli; Clemente; interv. Pres. cons. ministri (Avv. dello Stato Caramazza). Ord. Trib.

GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

È infondata, in riferimento agli art. 3 e 24 Cost., la questione di

legittimità costituzionale dell'art. 246 c. p. c., in relazione all'art.

384, 2" comma, c. p., nella parte in cui non prevede l'incapa cità a testimoniare e quindi non vieta la deposizione di chi è

imputato di un fatto reato, resa in giudizio civile su circostanze

relative al fatto medesimo. (1)

Fatto. — 1. - Serantoni Paolo, ispettore commerciale della

Lancia s.p.a., dolendosi che Clemente Dario, commissionario della

ditta per la zona di Casale Monferrato, Io avesse diffamato

accusandolo alla presenza del dirigente del servizio del personale, dell'addetto all'ufficio legale e di altro funzionario della società

di essersi fatto corrispondere la somma di lire 2.000.000 quale

compenso della nomina a commissionario, sporse querela contro

il Clemente per diffamazione aggravata sotto la data 26 luglio 1967.

Essendo, a seguito di tale accusa, ritenuta veritiera dalla datri

ce di lavoro, stato licenziato in tronco dalla Lancia, il Serantoni, con atto notificato il 20 febbraio 1968, convenne avanti il Tri

bunale civile di Torino la Lancia per conseguire il pagamento dell'indennità ed accessori dovuti in dipendenza della cessazione

del rapporto di lavoro; il Clemente, indotto quale teste dalla

convenuta, espose — sotto vincolo di giuramento — circostanze

diverse atte a scagionare il Serantoni dall'accusa di corruzione e,

pertanto, la Lancia, sotto la data del 30 luglio 1973, lo denunciò

per il delitto di falsa testimonianza, dopoché il processo per diffamazione a carico dello stesso Clemente era stato, in data 21

novembre 1970, archiviato per intervenuta amnistia.

2. - Nel giudizio di appello avverso la sentenza, con la quale il Pretore di Torino ebbe a giudicare il Clemente responsabile

per falsa testimonianza condannandolo alla pena di mesi quattro di reclusione, il difensore dell'imputato sollevò in via preliminare incidente d'incostituzionalità dell'art. 246 c.p.c. in riferimento

(1) L'ordinanza di rimessione 5 novembre 1976 del Trib. Torino è massimata in Foro it., 1977, II, 147, con nota di richiami.

Sull'art. 246 c.p.c., v. Corte cost. 23 luglio 1974, n. 248 {id., 1974, I, 2220, con nota di richiami, annotata da M. Cappelletti, La sentenza del bastone e della carota, in Giur. costit., 1974, 3586, da Saletti, La dichiarazione di incostituzionalità dell'art. 247 c.p.c.: prospettive e problemi, in Riv. dir. proc., 1975, 99, e da Martone, Incostituzionalità del divieto di testimoniare e sue conseguenze nel rito del lavoro, in Dir. lav., 1974, II, 456, nonché Montesano, L'interrogatorio libero di « terzi interessati » dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 248 del 1974, in Riv. dir. proc., 1975, 222 e Comoglio, Incapacità e divieti di testimoniare nella prospettiva costi

tuzionale, id., 1976, 41) che dichiarò l'illegittimità dell'art. 247 c.p.c. ma ritenne infondata la questione di costituzionalità dell'art. 246

c.p.c.; Corte cost. 22 aprile 1980, n. 64 (Foro it., 1980, I, 1246, con nota di richiami) che ha dichiarato infondata la questione di costitu zionalità dell'art. 421, 4° comma, c.p.c. nella parte in cui, in caso

di riunione di cause connesse, consente al giudice di interrogare liberamente persone che, essendo testi in una causa, e parti in un'al

tra, sarebbero incapaci a testimoniare ai sensi dell'art. 246 c. p. e. (nel la motivazione si precisa che la riunione di controversie, in materia di lavoro e di previdenza e assistenza, la quale sia disposta soltanto

per identità di questioni da decidere e non per connessione di

petitum o causa petendi, non priva le persone, che rivestono la

qualità di parte in alcune di esse e siano ad un tempo indotte come testi in altre, della capacità di testimoniare sotto giuramento); Corte cost., ord. 15 dicembre 1980, n. 164 (id., 198], I. 292, con nota di Andrioli, Un'occasione mancata, in cui fra l'altro si sottopongono a serrata critica gli argomenti addotti dalla sentenza n. 248 del 1974

per escludere la incostituzionalità dell'art. 246 e. p. c.) ha rimesso gli atti al giudice a quo, evitando in tal modo di pronunciarsi sulla

questione di costituzionalità dell'art. 246 c. p. e. sollevata in riferimen to all'art. 24 e, per disparità di trattamento con quanto già disposto dall'art. 421, 4° comma, in riferimento all'art. 3 Cost.

Sulla prova testimoniale in genere e sulla incapacità a testimoniare in ispecie, v., oltre agli scritti suindicati, Andrioli, Prova testimonia

le, voce del Novissimo digesto, Torino, 1967, XIV, 334; Id., Diritto

processuale civile, Napoli, 1979, I, 723; E. T. Liebman, Manuale di diritto processuale civile3, 'Milano, 1981, II, 164; M. Cappelletti, La

testimonianza della parte nel sistema della oralità, Milano, 1967. Sulla costituzionalità dei limiti probatori in genere, v. riassuntiva

mente, da ultimo, Comoglio, in Commentario della Costituzione, a cura dì Branca, Bologna-Roma, 1981, 63, sub art. 24-26.

Sull'art. 384 c. p. (oltre Corte cost. 23 luglio 1980, n. 124, Foro it., 1980, I, 2628. con osservazioni di Pizzorusso, che ha dichiarato inammissibile la questione di costituzionalità, e alla successiva ordi

nanza di rimessione della medesima questione del Trib. Novara 3

giugno 1980, id., 1981, II, 88) v. Cass. 28 aprile 1976, Costella, id., 1976, II, 345, con nota di richiami; e, in dottrina, Manzini. Trattato di diritto penale, Torino, 1982, V, 931; G. Ruggiero, Falsa testimo

nianza, voce delì'Enciclopedia del diritto, Milano, 1967, XVI, 344;

Antolisei, Manuale di diritto penale, parte speciale, Milano, 1977, II, n. 207.

all'art. 384 c. p. per violazione degli art. 3 e 24 Cost, nella parte in cui la disposizione del codice di procedura civile non vieta la

testimonianza di un soggetto imputato dello stesso fatto o di un

fatto connesso a lui attribuito quale reato.

Con ordinanza emessa il 5 novembre 1976, comunicata il 10 e

notificata il 15 dello stesso mese, pubblicata nella G. U. n. 31

del 2 febbraio 1977 e iscritta al m. 72 r.o. 1976, il Tribunale di

.Torino giudicò la questione di legittimità costituzionale dell'art.

246 c. p. c. in relazione all'art. 384, 2° comma, c. p., I) rilevante

perché attinente all'applicabilità dell'art. 372 c. p. nei confronti

dell'appellante Clemente, che verrebbe escluso dall'esimente del

l'art. 384 c. p. e in applicazione del principio statuito dall'art. 2,

3° comma, c. p., e II) in riferimento agli art. 3 e 24 Cost, non

manifestamente infondata perché a) l'art. 246 c.p.c., secondo il

quale « non possono essere assunte come testimoni le persone aventi nella causa un interesse che potrebbe legittimare la loro

partecipazione al giudizio », s'ispira all'incompatibilità tra le po sizioni di parte e di teste e mira ad evitare che il giudicato civile si formi con l'apporto diretto o indiretto dei soggetti che

potrebbero invocarne a proprio favore gli effetti, b) siffatta

incompatibilità appare di maggior rilievo nel caso sottoposto all'esame dei giudici penali di Torino in quanto « la (sua)

posizione di soggetto informato dei fatti non è al di fuori della

controversia in atto fra le parti, ma ha dato origine, sia pure con il concorso di altre posizioni personali, alla controversia

stessa » e « l'incompatibilità appare di maggior rilievo perché inerisce all'interesse del soggetto obbligato alla testimonianza a

non subire condanne penali in dipendenza della sua posizione di

persona informata dei fatti», III) «appare (in questa ipotesi)

giuridicamente rilevante l'interesse del soggetto che assume la

duplice qualità, sia pure in sedi diverse, di testimone e di

imputato, a rappresentare al giudice la realtà dei fatti, in modo

da non pregiudicare la propria posizione d'imputato», c) «la

delicata situazione nella quale il soggetto viene a trovarsi è

altresì' pregiudizievole all'accertamento della verità che è funzio

ne essenziale della testimonianza », d) « Se il soggetto nega i

fatti e la veridicità dei medesimi risulta altrimenti provata si

espone alla condanna per falsa testimonianza » e « In ogni caso

il suo diritto di difesa garantito dall'art. 24 Cost, appare viola

to», e) va richiamato l'art. 304 c. p. p. — nella formulazione di

cui alla 1. 5 dicembre 1969 n. 932 e, da ultimo, alla 1. 15

dicembre 1972 n. 773 —, il quale «prevede il caso che nel corso

dell'interrogatorio (meglio deposizione) di persona non imputata

(teste), emergono a suo carico indizi di reità, ed impone al

giudice l'obbligo di avvertire l'interrogando che da quel momen

to ogni parola da lui detta può essere utilizzata contro di lui,

con la sanzione dell'inutilizzazione delle dichiarazioni rese in

assenza del difensore ».

In conclusione il tribunale ravvisò l'incostituzionalità dell'art.

246 c. p. c. in relazione all'art. 384, T comma, c. p., nella parte in cui non prevede l'incapacità a testimoniare, non vieta cioè la

testimonianza di chi è imputato di un fatto reato, da questi resa

in giudizio civile, su circostanze relative al fatto medesimo o

connesse con il fatto-reato stesso.

3.1. - Avanti la corte non si è costituito il Clemente; ha

spiegato intervento il presidente del consiglio dei ministri con

atto depositato il 18 febbraio 1977 nel quale l'avvocatura genera

le dello Stato ha concluso per la irrilevanza e, comunque, per l'infondatezza della proposta questione sulla base delle seguenti

argomentazioni. Una decisione additiva di accoglimento — come

è quella che viene nella specie prospettata dal giudice a quo —

presuppone che l'« esigenza costituzionale », non soddisfatta dal

legislatore, rientri nell'economia della norma denunciata e trovi

in questa la propria competente sede: condizione non sussistente

nel caso in esame in quanto, mentre l'art. 246 c. p. c. collega il

sospetto di mendacio all'interesse del testimone ad un certo

contenuto della sentenza civile ed esprime un divieto inderogabi le e rilevabile d'ufficio, l'ipotizzato intervento additivo della cor

te riguarderebbe una situazione in cui, da un lato, l'interesse a

mentire non si coordina ad un certo contenuto della sentenza

civile, e, dall'altro, la soluzione non potrebbe porsi in termini di

divieto della deposizione, ma soltanto configurare una facoltà del

testimone di astenersi dal deporre. L'impugnativa, quindi, si

sarebbe dovuta appuntare non contro l'art. 246 ma contro l'art.

249 c. p. c., né all'errore di bersaglio potrebbe rimediare la corte.

In subordine, non sussiste violazione del principio di egua

glianza perché le due ipotesi a raffronto (l'una contemplata

dall'art. 246 c. p. c„ in cui è in gioco l'interesse pubblico alla

genuinità di una fonte di prova, e l'altra che si vorrebbe oggetto

dell'intervento additivo, nella quale viene in considerazione l'in

teresse privato a non compromettere la propria difesa penale)

esibiscono differenze tali da giustificare il fatto che solo l'una, e

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1515 PARTE PRIMA 1516

non l'altra, sia oggetto della previsione normativa. D'altra parte, non sarebbe esatto — ad avviso dell'interveniente — che il

testimone nel caso in esame sarebbe costretto al dilemma di

autoaccusarsi o di esporsi alla responsabilità penale per falsa

testimonianza, in quanto l'art. 384, 1° comma, c. p. dispone che non è punibile chi ha deposto il falso « per esservi stato costretto dalla necessità di salvare se medesimo o un prossimo congiunto da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o

nell'onore », e tale previsione (costituente espressione del princi

pio di cui all'art. 54 c. p. ed operante, quindi, come causa di

esclusione della stessa antigiuridicità) ricomprenderebbe l'ipotesi considerata dal giudice a quo. Né si potrebbe obiettare che tale causa di giustificazione offre una tutela meno intensa di quella che sarebbe ottenibile attraverso la previsione, nel caso conside

rato, di un'incapacità a testimoniare (o di una facoltà di asten

sione), giacché l'apprezzamento della congruità della tutela rien tra nella discrezionalità del legislatore.

Né infine si ravvisa contrasto con l'art. 24, 2° comma, Cost., in quanto il teste, sotto l'usbergo dell'art. 384, 1° comma, c. p. è libero di tenere un comportamento che non pregiudichi la sua difesa in sede penale. Che se poi egli preferisce, per sue ragioni personali, deporre il vero nella causa civile e nuocere in tal

guisa alla propria difesa nell'altra sede, ciò non è dovuto ad una (costituzionalmente illegittima) lacuna normativa, ma ad una libera scelta. (Omissis)

Diritto. — 4. - Fermo che il giudizio di diffamazione (lo atte sta lo stesso giudice a quo) è stato definito per sopravvenuta amnistia, non sussiste violazione del principio d'eguaglianza per ché non sono giuridicamente comparabili e, ancor meno, equipa rabili la posizione dell'imputato nel processo penale e la situa zione della parte e del legittimato all'intervento nel processo civile: una cosa è: nemo testis in causa propria cui s'ispira l'art. 246 c. p. c., e altra cosa è: nemo tenetur edere contra se, che permea il novellato art. 304 c. p. p.

Né l'imputato di falsa testimonianza può dirsi offeso nel dirit to di difesa per essere costretto al dilemma di autoaccusarsi o di

esporsi a responsabilità penale per falsa testimonianza perché gli soccorrerebbe l'art. 384, 1° comma, c. p. e, più a monte, l'art. 376 c. p.

Per questi motivi, dichiara non fondata la questione di costi tuzionalità dell'art. 246 c. p. c., in relazione all'art. 384, 2° com ma, c. p. e in riferimento agli art. 3 e 24, 2° comma, Cost, sollevata dal Tribunale di Torino con ordinanza 5 novembre 1976 (n. 725 r.o. 1976).

CORTE COSTITUZIONALE; sentenza 23 marzo 1985, n. 73 (Gazzetta ufficiale 30 marzo 1973, n. 88); Pres. Elia, Rei. Saja; imp. Capitanio ed altri; interv. Pres. cons, ministri (Avv. dello Stato Carafa). Ord. Trib. Macerata 24 ottobre 1977 (Gazz. uff. 22 febbraio 1978, n. 53).

Banca — Reati bancari — Aggiotaggio bancario — Responsabilità penale per divulgazione di notizie false, esagerate o tenden ziose concernenti aziende di credito — Preteso contrasto con la libertà di manifestazione del pensiero — Questione infon data di costituzionalità (Cost., art. 21, 41, 47; 1. 7 marzo 1938 n. 141, conversione in legge, con modificazioni, del r. d. 1. 12 marzo 1936 n. 375, contenente disposizioni relative alla difesa del risparmio ed alla disciplina della funzione creditizia, art. 98).

Banca — Reati bancari — Aggiotaggio bancario — Raffronto con la normativa in tema di aggiotaggio comune — Diversità dell'elemento soggettivo del reato in ordine a fatti aventi la medesima oggettività materiale — Questione infondata di co stituzionalità (Cost., art. 3; cod. pen., art. 501; 1. 7 marzo 1938 n. 141, art. 98).

È infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 98 l. 7 marzo 1938 n. 141, sul ed. aggiotaggio bancario, in riferi mento all'art. 21 Cost., in quanto il bene giuridico protetto dalla disposizione penale trova espresso rilievo nella Costituzio ne e può, quindi, rappresentare un valido limite alla libertà di manifestazione del pensiero. (1)

(1-2) Quanto alla prima massima vedi, quale precedente analogo, Corte cost. 20 maggio 1976, n. 123, Foro it., 1976, I, 2080, con nota di richiami, ove si è ritenuto, appunto, che la fattispecie in materia di aggiotaggio comune (art. 501 c. p.) non contrasta con il principio di libertà di manifestazione del pensiero essendo posta a tutela di un bene giuridico (economia pubblica) avente rilievo costituzionale. Non constano, invece, precedenti editi quanto alla seconda massima.

È infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 98 I. 7 marzo 1938 n. 141, sul c.d. aggiotaggio bancario, in riferi mento all'art. 3 Cost., nella parte in cui la disposizione penale

prevede il (semplice) dolo generico a differenza di quanto sta

bilito in materia di aggiotaggio comune ove è, invece, richiesto

il dolo specifico, la diversità di trattamento rientrando nelle

scelte di politica criminale rimesse alla valutazione discrezio

nale del legislatore. (2)

Sull'elemento oggettivo dei reati in materia di aggiotaggio, vedi Cass. 29 gennaio 1979, Pazzola, id., 1980, II, 313, eon nota di richiami ed osservazioni di N. Mazzacuva; vedi poi, quanto a singole applicazioni delle norme in materia di aggiotaggio, Cass. 9

luglio 1980, Crivellaro, e Cass. 13 novembre 1980, Costa, id., 1980, li, 515, con ulteriori note di richiami, cui adde, in dottrina e con specifico riguardo all'aggiotaggio bancario, Antolisei, Manuale di diritto penale. Leggi complementari, Milano, 1983. 586; Alibrandi, / reati bancari, Milano, 1976, 78.

* ♦ ♦

Bene giuridico tutelato ed elemento soggettivo del reato in ma

teria di aggiotaggio bancario.

Nell'ambito del « diritto penale dell'economia » (1) una singolare sorte sembra essere riservata alle disposizioni incriminatrici in materia di aggiotaggio: vecchi (2) e nuovi (3) difetti tecnici nella formulazione delle relative norme condizionano, infatti, fortemente l'efficacia delle

singole figure criminose; inoltre, nelle limitate ipotesi in cui si riesce ad avviare il procedimento penale, residuano spesso dei dubbi circa la legittimità costituzionale delle fattispecie da applicare e diviene, pertanto, necessario il ricorso al giudizio della Corte costituzionale.

Avvalorandosi, cosi, non solo la ricorrente osservazione che denuncia la sostanziale inutilità della normativa in questione, ma anche le più diverse (4) censure circa la stessa compatibilità della disciplina penale dell'aggiotaggio con i « superiori » principi della norma fondamenta le.

L'approccio ha assunto — com'è evidente — un taglio volutamente

«provocatorio»: in quanto, in realtà, non mancano certo significativi riscontri di una rinnovata attenzione del legislatore verso le più diffuse forme di speculazione in materia economica; attenzione giu stificata proprio dalla particolare natura degli interessi in gioco, senz'altro meritevoli di un'adeguata protezione penalistica. Cosi, ai recenti interventi normativi volti a fronteggiare manovre speculative estremamente pericolose in determinate congiunture economiche (5), si è accompagnata la scelta — senz'altro apprezzabile quanto alle sue astratte motivazioni (6) — di escludere dalla sfera di operatività degli ultimi provvedimenti di amnistia o di depenalizzazione (7) proprio le

fattispecie penali in tema di aggiotaggio (8). Può risultare, allora, senz'altro utile muovere dalla decisione della

Corte costituzionale in epigrafe al fine di un'ulteriore riflessione

(1) È ormai invalso, nella delimitazione dei singoli settori della parte speciale del diritto penale, l'uso di siffatta « definizione » cor rispondente a quella di « criminalità economica » propria delle scien ze criminologiche e sociologiche: vedi, ad esempio, in tal senso la apposita « questione » dei colloqui preparatori per il XIII Congresso internazionale di diritto penale (in Rev. int. dr. pén., 1981, 557).

(2) Sul «gigantismo» dell'art. 501 c.p. (aggiotaggio comune) vedi, per tutti, Pedrazzi, Economia pubblica, industria e commercio (delitti contro la), voce dett'Enciclopedia del diritto, Milano, 1965, XIV, 281; per un esame dei lavori preparatori relativi a tale norma vedi anche Mazzacuva, Delitti contro l'economia pubblica, aggiotaggio e libertà di manifestazione del pensiero, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1975, 58.

(3) È noto il « contrasto » giurisprudenziale circa i'idoneità della norma di cui all'art. 501 bis (introdotto con 1. 27 novembre 1976 n. 787) a reprimere le condotte di c.d. « aggiotaggio immobiliare »: sul punto, vedi Cass. 18 maggio 1979, Ciotola, Foro it., 1979, II, 225, nonché in dottrina, tra gli altri, La Cute, Aggiotaggio immobiliare, in Giur. merito, 1979, II, 938.

(4) Accanto alla questione — ora in esame — di legittimità costi tuzionale della norma in tema di aggiotaggio bancario (in una rara ipotesi di « applicazione » di tale figura criminosa prevista dall'art. 98 1. bancaria), vedi invece — quale esempio di eccezione in malam partem — quella sollevata dal Pretore di Roma (ord. 8 marzo 1980. Foro it., 1980, II, 284, e in Temi romana, 1980, 174, con nota di D'Urbano) in relazione all'art. 501 bis: quest'ultima norma viene ritenuta in contrasto con gli art. 3, 41, 2° comma, 42, 2° comma. Cost., proprio in quanto idonea a colpire manovre speculative su beni mobili e, invece, completamente inefficace in materia di « aggiotag gio immobiliare ».

(5) Sulle ragioni giustificatrici dell'art. 501 bis c. p. vedi, diffusa mente, Polvani, La repressione delle manovre speculative sulle merci nell'art. 501 bis c.p.., in Riv. it. dir. e proc. pen., 1977, 1021.

(6) Nel senso che la « selezione » normativa vuole essere finalizzata ad una (giusta) considerazione dei primari interessi protetti da talune norme e ciò a prescindere dai limiti edittali della pena astrattamente prevista.

(7) Si vedano, appunto, le esclusioni concernenti gli art. 501 e 501 bis c. p. dalle amnistie di cui ai d. p. r. 4 agosto 1978 n. 413 e 18 dicembre 1981 n. 744 e dalla possibilità di applicare le pene « sosti tutive » di cui alla 1. 24 novembre 1981 n. 689.

(8) Facile, peraltro, porre in evidenza le « contraddizioni » del legislatore che ha amnistiato o ricompreso in taluni « benefici » l'aggiotaggio bancario (punito, per espresso rinvio normativo, con le stesse pene dell'aggiotaggio comune eli cui all'art. 501 c.p. escluso, invece, dai provvedimenti richiamati nella nota precedente).

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