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sentenza 8 aprile 1997, n. 87 (Gazzetta ufficiale, 1 a serie speciale, 16 aprile 1997, n. 16); Pres.Granata, Est. Mirabelli; Bettin c. «Tutto per il parrucchiere». Ord. Giud. istr. Trib. Udine 26gennaio 1996 (G.U., 1 a s.s., n. 16 del 1996)Source: Il Foro Italiano, Vol. 122, No. 6 (GIUGNO 1999), pp. 1765/1766-1767/1768Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23193703 .
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
che l'impugnazione del riconoscimento del figlio minorenne per difetto di veridicità possa essere accolta solo quando sia ritenu
ta dal giudice rispondente all'interesse del minore stesso.
2. - Ad avviso del tribunale rimettente, la norma censurata, che non considera in alcun modo il preminente interesse del
minore alla conservazione dell'ambiente familiare nel quale è
inserito, si porrebbe in contrasto con gli indicati parametri co
stituzionali, espressione delle esigenze di tutela dei minori.
3. - La questione non è fondata.
Come questa corte ha già avuto modo di affermare (sentenza n. 158 del 1991, Foro it., Rep. 1991, voce Filiazione, nn. 39-41)
l'impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità è ispi rata al «principio di ordine superiore che ogni falsa apparenza di stato deve cadere», in quanto nella verità del rapporto di
filiazione è stato individuato un valore necessariamente da tute
lare. L'attribuzione della legittimazione ad agire anche all'auto
re in mala fede del falso riconoscimento e la imprescrittibilità dell'azione dimostrano infatti come il legislatore, nel conforma
re l'istituto in esame, abbia voluto privilegiare il favor veritatis, in funzione di un'imprescindibile esigenza di certezza dei rap
porti di filiazione. La tutela della verità deve porsi in relazione anche alla neces
sità di impedire che attraverso fraudolenti atti di riconoscimen
to siano eluse le norme in materia di adozione, poste ad esclusi
va tutela dei minori. Il legislatore, infatti, per contrastare il dif
fondersi di prassi illecite, ha ritenuto di dover istituire un sistema
di controllo degli atti di riconoscimento, effettuati da parte di
persona coniugata, di figli naturali non riconosciuti dall'altro
genitore, attribuendo al tribunale per i minorenni, ai sensi del
l'art. 74 1. n. 184 del 1983, il potere di disporre opportune inda
gini al fine di accertare la veridicità del riconoscimento e, con
seguentemente, il potere di nominare al minore un curatore spe ciale per l'impugnazione del riconoscimento, in presenza di
fondati motivi per ritenere che questo non sia veritiero.
La finalità così perseguita dal legislatore deve individuarsi pro
prio nell'attuazione del diritto del minore all'acquisizione di uno
stato corrispondente alla realtà biologica, ovvero, qualora ciò
non sia possibile, all'acquisizione di uno stato corrispondente a quello dei figli legittimi, ma solo attraverso le garanzie offerte
dalle norme sull'adozione.
Non si può contrapporre al favor veritatis il favor minoris, dal momento che la falsità del riconoscimento lede il diritto
del minore alla propria identità.
4. - Non ignora questa corte che il perseguimento della verità
del rapporto di filiazione può costituire causa di grave pregiudi zio per il minore, che può essere costretto, talvolta anche dopo molti anni, ad un repentino allontanamento dall'ambiente fa
mazione del figlio naturale, da parte di chiunque vi abbia interesse; Corte cost. 6 maggio 1985, n. 134, id., 1985, I, 1905 e 2532, con nota
di richiami e osservazioni di Amatucci, commentata da Adami, in Dir.
famiglia, 1985, 397; Carbone, in Corriere giur., 1985, 738; De Cupis, in Giur. it., 1985, I, 1, 1153, e da Finocchiaro, in Giust. civ., 1985, I, 2142, che ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costi tuzionale dell'art. 263 c.c., nella parte in cui sancisce l'imprescrittibilità dell'azione con la quale si impugna il riconoscimento del figlio naturale
per difetto di veridicità, invece di prevedere termini brevi di decadenza
per il suo esercizio. Per la manifesta infondatezza della questione di costituzionalità dell'art. 263 c.c. per la parte in cui stabilisce il carattere
imprescrittibile dell'azione, v. Cass. 24 maggio 1991, n. 5886, Foro it.,
1992, I, 449, con nota di richiami.
Sull'impugnazione del riconoscimento di figlio naturale per difetto di veridicità, v. Cass. 24 maggio 1991, n. 5886, cit., circa la rilevanza
della consapevolezza, da parte di chi ha effettuato il riconoscimento, del difetto di veridicità dello stesso.
Per la manifesta infondatezza della questione di costituzionalità del
l'art. 74 1. 4 maggio 1983 n. 184, nella parte in cui non prevede per i minori, il cui riconoscimento da parte di persona coniugata avvenga
dopo il riconoscimento dell'altro genitore, l'obbligo di segnalazione da
parte dell'ufficiale dello stato civile al tribunale per i minorenni ed il
correlativo potere-dovere di detto tribunale di provvedere ai necessari
accertamenti, v. Corte cost., ord. 31 marzo 1988, n. 388, id., 1989,
I, 933, con nota di richiami. Su tale disposizione, v. pure Trib. min.
Torino 2 febbraio 1989, id., 1990, I, 277, con nota di richiami, e, in
dottrina, Cosentino, Brevi osservazioni sull'art. 74 l. 4 maggio 1983 n. 184: una norma lacunosa, monca ed immediatamente da riformare, in Dir. famiglia, 1997, 1009.
La sentenza in epigrafe è commentata da Cosentino, ibid., 845.
Il Foro Italiano — 1999.
miliare nel quale è stato inserito, eventualmente anche con fro
de. Tale effetto tuttavia non deriva dalla pretesa incostituziona
lità della norma censurata, la quale, si è detto, intende tutelare
il diritto alla verità del rapporto di filiazione, ma è per lo più connessa ai tempi di durata delle varie fasi e dei gradi del giudi zio di impugnazione, durante i quali si possono consolidare le
gami affettivi, difficilmente rimovibili.
A tali situazioni ben può porsi rimedio con il ricorso ad altri
strumenti, tipici di tutela del minore, quali l'adozione in casi
particolari, di cui all'art. 44, lett. c), 1. n. 184 del 1983, molto
spesso applicati dai tribunali per i minorenni. In tal modo si
rispetta l'esigenza di verità del rapporto di filiazione, ricono
sciuta dal nostro ordinamento, e nel contempo si tutelano i le
gami affettivi instaurati dal minore, che potrebbe restare nella
famiglia nella quale si è formata e si è sviluppata la sua perso
nalità, acquisendo lo stato di figlio adottivo.
Per questi motivi, la Corte costituzionale dichiara non fonda
ta la questione di legittimità costituzionale dell'art. 263 c.c.,
sollevata, in riferimento agli art. 2, 3, 30 e 31 Cost., dal Tribu
nale di Napoli con l'ordinanza indicata in epigrafe.
CORTE COSTITUZIONALE; sentenza 8 aprile 1997, n. 87
(Gazzetta ufficiale, la serie speciale, 16 aprile 1997, n. 16); Pres. Granata, Est. Mirabelli; Bettin c. «Tutto per il par rucchiere». Ord. Giud. istr. Trib. Udine 26 gennaio 1996
(G.U., la s.s., n. 16 del 1996).
Prova testimoniale — Obbligo di deposizione — Praticanti pro curatori — Mancata esenzione — Questione infondata di co
stituzionalità nei sensi di cui in motivazione (Cost., art. 3,
24; cod. proc. civ., art. 249; cod. proc. pen., art. 200; r.d.l.
27 novembre 1933 n. 1578, ordinamento delle professioni di
avvocato e di procuratore, art. 13).
È infondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di
legittimità costituzionale degli art. 249 c.p.c., in relazione al
l'art. 200 c.p.p., e 13 r.d.l. 27 novembre 1933 n. 1578, nella
parte in cui non prevederebbero la possibilità di astenersi dal
deporre come testimoni anche per i praticanti procuratori che
abbiano assistito a colloqui tra il cliente e l'avvocato presso il cui studio svolgono la pratica forense, in riferimento agli art. 3, 1° comma, e 24, 1 ° comma, Cost, (in motivazione,
la corte afferma che la possibilità di astenersi deve ritenersi
estesa in tali ipotesi anche ai praticanti procuratori). (1)
(1) Il giudice a quo aveva ritenuto di dover escludere la possibilità di un ricorso all'interpretazione estensiva o all'analogia, dal momento che l'astensione a favore degli avvocati e procuratori (oggi solo avvoca
ti) appariva come un'eccezione (da interpretare in modo rigoroso) alla
regola generale dell'obbligo di testimoniare. La corte rileva invece nella
specie come non si tratti di un'eccezione ad una regola, bensì del risul tato di un bilanciamento tra il dovere di rendere testimonianza e quello di mantenere il segreto su quanto appreso in ragione dell'attività pro fessionale, il che rende possibile estendere, in via interpretativa, quanto previsto per gli avvocati ai praticanti procuratori.
In ordine alla posizione del difensore tecnico di fronte al dovere di
testimoniare su fatti conosciuti in conseguenza della propria attività pro fessionale, v. Trib. Milano, ord. 8 maggio 1996, Foro it., 1997, I, 955, con nota di richiami e osservazioni di Danovi, La testimonianza del l'avvocato nel processo, secondo cui il difensore di una delle parti del
processo è istituzionalmente e funzionalmente incapace a rendere testi monianza nell'ambito dello stesso giudizio; Cons. ord. avvocati e pro curatori Vicenza 25 ottobre 1995, id., Rep. 1997, voce Avvocato, n.
83, il quale ha ritenuto non conforme ai canoni deontologici il prestare testimonianza su circostanze sfavorevoli alla controparte, apprese nel corso di colloquio tendente alla transazione della lite, non potendo ave
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1767 PARTE PRIMA 1768
Diritto. — 1. - Il dubbio di legittimità costituzionale investe
la disciplina della facoltà di astensione dei testimoni nel proces so, che, a tutela del segreto professionale, consente agli avvoca
ti e procuratori legali di astenersi dal deporre, ma non prevede rebbe la medesima facoltà per i praticanti procuratori legali.
Il giudice istruttore presso il Tribunale di Udine, competente
per l'assunzione della testimonianza, ritiene che possano essere
in contrasto con il principio di eguaglianza (art. 3, 1° comma,
Cost.) e con la garanzia del diritto di difesa (art. 24, 1° comma,
Cost.): a) l'art. 249 c.p.c., che, richiamando le disposizioni del
codice di procedura penale relative alla facoltà di astensione
dei testimoni (art. 351, ora sostituito dall'art. 200 del nuovo
c.p.p.), stabilisce che non possono essere obbligati a deporre su quanto hanno conosciuto per ragione del proprio ministero, ufficio o professione, tra gli altri, gli avvocati ed i procuratori
legali (secondo la dizione anteriore alla 1. 24 febbraio 1997 n.
27, che ha unificato le due categorie sostituendo al termine «pro curatore legale», contenuto nelle disposizioni legislative, quello di «avvocato»);
b) l'art. 13 r.d.l. 27 novembre 1933 n. 1578 (ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore), che stabilisce che
gli avvocati (ed i procuratori legali, prima della unificazione
delle professioni disposta con la 1. n. 27 del 1997) non possono essere obbligati a deporre nei giudizi di qualsiasi specie su quanto sia stato loro confidato o sia pervenuto a loro conoscenza per
ragione del proprio ufficio.
Le due disposizioni, nella parte in cui non prevedono che
possano astenersi dal deporre anche i praticanti procuratori chia
mati a testimoniare e che abbiano assistito a colloqui tra il cliente
e l'avvocato presso il cui studio svolgono la pratica forense, violerebbero il principio di eguaglianza, giacché anche essi sa
rebbero tenuti a compiere attività che, come per l'avvocato presso il quale svolgono la pratica, li porta a conoscenza di fatti e
circostanze destinati a rimanere riservati. Sarebbe, inoltre, leso
il diritto di difesa, garantito dall'art. 24 Cost., che implica l'af
fidamento del cliente al professionista che lo assiste, il quale non può essere costretto a divenire teste contro il suo assistito, in modo da rendere una sorta di confessione per interposta
persona. 2. - La questione è infondata, nei sensi di seguito precisati. La complessiva disciplina normativa del segreto di chi eserci
ta la professione forense e della correlativa facoltà di astenersi
dal deporre, quale testimone in giudizio, su quanto conosciuto
nell'esercizio di tale professione, si ispira ad un principio che, nel suo contenuto essenziale, è risalente nel tempo. Questa di
sciplina risponde all'esigenza di assicurare una difesa tecnica, basata sulla conoscenza di fatti e situazioni, non condizionata
dall'obbligatoria trasferibilità di tale conoscenza nel giudizio, attraverso la testimonianza di chi professionalmente svolge una
tipica attività difensiva.
La facoltà di astensione dalla testimonianza in giudizio pre suppone la sussistenza di un requisito soggettivo e di un requisi to oggettivo.
Il primo, riferito alla condizione di avvocato di chi è chiama to a testimoniare, consiste nell'essere la persona professional mente abilitata ad assumere la difesa della parte in giudizio. Il secondo requisito è riferito all'oggetto della deposizione, che deve concernere circostanze conosciute per ragione del proprio ministero difensivo o dell'attività professionale, situazione que sta che può essere oggetto di verifica da parte del giudice.
re rilievo la dismissione del mandato difensivo anteriormente alla pre stazione della testimonianza.
Per analoga affermazione della Corte costituzionale sulla necessità di bilanciare la possibile astensione dal dovere di testimoniare con altri valori costituzionalmente rilevanti, v. Corte cost. 27 giugno 1997, n. 205, ibid., voce Prova testimoniale, n. 32, relativamente all'ipotesi di astensione per i prossimi congiunti.
Per l'affermazione secondo cui il giudice non è obbligato ad avvisare i consulenti del lavoro della facoltà di astenersi dal deporre come testi su quanto è pervenuto a loro conoscenza per ragione della loro profes sione, v. Cass. 13 marzo 1996, n. 2058, id., Rep. 1996, voce cit., n. 35.
Per quanto concerne la figura dei praticanti procuratori, v. Cons, naz. forense 7 novembre 1997, n. 166, id., 1998, III, 195, con nota di richiami e osservazioni di Carbone, circa la validità del periodo di
pratica svolto presso lo studio di un avvocato italiano all'estero. La decisione in epigrafe è commentata da Lalli, in Giur. costit.,
1997, 889.
Il Foro Italiano — 1999.
L'esenzione dal dovere di testimoniare non è, dunque, diretta
ad assicurare una condizione di privilegio personale a chi eserci
ta una determinata professione. Essa è, invece, destinata a ga rantire la piena esplicazione del diritto di difesa, consentendo
che ad un difensore tecnico possano, senza alcuna remora, esse
re resi noti fatti e circostanze la cui conoscenza è necessaria
o utile per l'esercizio di un efficace ministero difensivo.
Da questo punto di vista la facoltà di astensione dell'avvoca
to non costituisce un'eccezione alla regola generale dell'obbligo di rendere testimonianza, ma è essa stessa espressione del diver
so principio di tutela del segreto professionale. Il legislatore,
disciplinando la facoltà di astensione degli avvocati, ha opera to, nel processo, un bilanciamento tra il dovere di rendere testi
monianza ed il dovere di mantenere il segreto su quanto appre so in ragione del compimento di attività proprie della professio ne. L'ampiezza della facoltà di astensione dei testimoni deve
essere interpretata nell'ambito delle finalità proprie di tale bi
lanciamento.
3. - La protezione del segreto professionale, riferita a quanto conosciuto in ragione dell'attività forense svolta da chi sia legit timato a compiere atti propri di tale professione, assume carat
tere oggettivo, essendo destinata a tutelare le attività inerenti
alla difesa e non l'interesse soggettivo del professionista.
Essa, dunque, non può che estendersi anche a chi, essendo
iscritto nei registri dei praticanti a seguito di delibera del consi
glio dell'ordine degli avvocati, adempie agli obblighi della prati ca forense presso lo studio del professionista con il quale col
labora.
Difatti la disciplina normativa della pratica forense attual
mente vigente comporta, anche quando non vi sia stata ammis
sione al patrocinio, il compimento di attività proprie della pro fessione, le quali devono essere svolte ottemperando al dovere di riservatezza (art. 1 d.p.r. 10 aprile 1990 n. 101, che regola menta la pratica forense in attuazione della 1. 24 luglio 1985
n. 406). Il praticante procuratore partecipa, sotto il controllo di un avvocato, al compimento degli atti tipici dell'attività pro fessionale forense, ed a tali atti si estendono le garanzie connes
se al ministero professionale.
Questa interpretazione delle disposizioni denunciate, coerente
con le finalità che caratterizzano l'esclusione dell'obbligo di de
porre, corrisponde ai criteri del bilanciamento, operato dal legis latore, tra dovere di testimoniare in giudizio e dovere di rispetto del segreto professionale da parte di chi adempie al ministero forense.
È, dunque, possibile dare alle disposizioni denunciate un'in
terpretazione che ne individui il contenuto normativo senza de
terminare il contrasto con la disposizione costituzionale denun
ciata; sicché, secondo un principio più volte enunciato dalla corte, dovrà essere preferita l'interpretazione compatibile con la Co stituzione (da ultimo, sentenza n. 421 del 1996, Foro it., 1997, I, 1304).
Per questi motivi, la Corte costituzionale dichiara non fonda
ta, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 249 c.p.c., in relazione all'art. 200 c.p.p., e dell'art. 13 r.d.l. 27 novembre 1933 n. 1578 (ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore), sollevata, in riferi mento agli art. 3, 1° comma, e 24, 1° comma, Cost., dal giudi ce istruttore presso il Tribunale di Udine con l'ordinanza indi cata in epigrafe.
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