Sezione I civile; sentenza 10 maggio 1984, n. 2855; Pres. ed est. Santosuosso, P. M. Cantagalli(concl. conf.); Cossu (Avv. De Luca) c. Bedini e Proc. gen. App. Milano. Cassa App. Milano 11ottobre 1982Source: Il Foro Italiano, Vol. 107, No. 6 (GIUGNO 1984), pp. 1501/1502-1521/1522Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23176109 .
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
ancora, sez. un. 23 maggio 1975, n. 2056, cit.; 10 giugno 1983, n.
3981, id., Mass., 832). Con il secondo motivo le amministrazioni ricorrenti deducono
il difetto di giurisdizione, in relazione agli art. 2 1. 20 marzo 1865
n. 2248, ali. E, 11 e 1(13 Cost., 360, n. 1, e 362 cjpjc., nonché, sotto altro profilo, in relazione agli art. 7 1. 6 dicembre 1971 n.
1034 e 30 t.u. 26 giugno 1924 n. 1054, censurando la decisione
impugnata dove ha riconosciuto fondate ed accolto le domande
degli istanti relative alla rivalutazione monetaria ed agli interessi, escludendo che da rivalutazione potesse riconoscersi a titolo di
risarcimento del danno {considerando irrilevanti le cause del
ritardo) ed osservando che se ne dovesse fare attribuzione in
applicazione di istituti che si fondano sul fatto obiettivo che
determinati crediti vengono soddisfatti in epoca successiva a
quella in cui erano (o si devono ritenere) maturati.
Le amministrazioni sostengono che è certo che nell'ordinamento
vige in via generale il principio nominalistico per i debiti di
valuta e non esistono, invece, gli istituti generali ai quali l'adu
nanza generale ha fatto riferimento, giacché la norma dell'art. 429
c.p.c. è affatto speciale e, per pacifica interpretazione non concerne
il rapporto di pubblico impiego. E da ciò consegue il rilievo che
il Consiglio di Stato non ha fatto opera di interpretazione, ma
(così impingendo in difetto assoluto di giurisdizione) di creazione
di norme.
Le amministrazioni soggiungono che, ove dovesse ravvisarsi
nella pronuncia l'attribuzione della rivalutazione a titolo risarcito
rio, del pari dovrebbe ritenersi il difetto di giurisdizione, essendo
le questioni risarcitone, anche se conseguenziali a pronuncia resa
nelle materie attribuite al giudice amministrativo, riservate alla
cognizione del giudice ordinario.
Analogo discorso le amministrazioni fanno per gli interessi, dal
Consiglio di Stato qualificati corrisipettivi, essendo evidente da un
lato — per pacifica interpretazione — che non esiste una norma che consenta di attribuirli, per i debiti dello Stato, se non dal
momento della liquidazione della spesa, ed essendo certo, d'altro
canto, che si tratterebbe comunque di diritti patrimoniali conse
guenziali, sottratti alla cognizione del giudice amministrativo. Il motivo è in parte inammissibile ed in parte infondato.
Il profilo del « difetto assoluto di giurisdizione » è poggiato su
manifeste petizioni di principio, e cioè sulla incontestabilità di una certa qualificazione giuridica dei crediti per retribuzioni
dovute dalla p.a. ai propri dipendenti, da un lato, e della
improduttività di interessi corrispettivi dei debiti dello Stato, fino
ad una certa fase del procedimento della loro liquidazione, dall'altro. Si tratta, invece, di questioni dibattute che coinvolgono l'esame di un complesso di norme e di principi e dalle loro
correlazioni; esame che deve essere condotto dal giudice che ha
giurisdizione sul rapporto (nella specie, dal giudice amministrati
vo che ha giurisdizione esclusiva sul rapporto d'impiego).
Sotto l'aspetto di una questione di giurisdizione, si vuole introdurre in realtà l'esame di una questione di merito e pertanto il motivo è — per questa parte — inammissibile, per le ragioni
già indicate supra.
Appartiene, invece, ad una questione di giurisdizione, lo stabili
re se si tratti di « diritti patrimoniali conseguenziali », ex art. 7, 2° comma, 1. 6 dicembre 1971 n. 1034 e 30, 2° comma, t.u. 26
giugno 1924 n. 1054.
In proposito, le amministrazioni non deducono alcun argomen to contrario alla giurisprudenza di queste sezioni unite, che
pertanto si deve riconfermare.
Le domande di rivalutazione e di interessi, riguardanti crediti
per retribuzioni di prestazioni lavorative, proposte da un dipen dente di un ente pubblico non economico, sono attribuite alla
giurisdizione esclusiva dei giudici amministrativi, ove ineriscano a
crediti derivanti da comportamenti della p.a. contrastanti unica
mente con la disciplina del rapporto ed incidenti immediatamente
e direttamente sui diritti del dipendente, considerati nella misura
ad essi attribuita dalla detta disciplina e purché la rivalutazione
sia pretesa secondo il criterio del calcolo automatico di cui
all'art. 150 disp. att. c.p.c. o altro analogo e gli interessi siano
qualificabili come corrispettivi e tenuti entro la percentuale legale
(sez. un. 3 novembre 1982, n. 5750, id., 1982, I, 2755; 12 ottobre
1982, n. 5225, id., Rep. 1982, voce Impiegato dello Stato, n. 719; 5
maggio 1983, n. 3072, id., 1983, I, 1587 ed altre successive). Il Con
siglio di Stato si è conformato ai suddetti principi e pertanto la
decisione è incensurabile. (Omissis)
Per questi motivi, la Corte di cassazione a sezioni unite dichiara
inammissibile il primo motivo di ricorso; dichiara inammissibile
e, per quanto di ragione, infondato il secondo motivo del ricorso; condanna il ministero di grazia e giustizia ed il ministero del
tesoro, in solido, a rifondere le spese del giudizio di cassazione,
liquidate in lire 3.035.520 di cui lire 3.000.000 di onorari ai
controricorrenti Sergio Letizia e litisconsorti in salido; nonché in
lire 3.046.750 di cui lire 3.000.000 per onorari ai controricorrenti
Giovanni Cannata e litisconsorti in solido; in lire 3.040.350 di cui
lire 3.000.000 per onorari ai controricorrenti Lanfranco Mossini e
litisconsorti in solido; in lire 1.003.000 di cui lire 1.000.000 per onorari a favore di Francesco Serra e litisconsorti; ed infine in
lire 803.000 di cui lire 800.000 per onorari a favore di Alberto
Androvetto. Condanna la presidenza del consiglio dei ministri ed
il ministero del tesoro in solido a rifondere le spese del giudizio di cassazione, liquidate in lire 2.016.500 di cui lire 2.000.000 per onorari ai controricorrenti Vincenzo Sammarco e litisconsorti in
solido; nonché in lire 2.009.520 di cui lire 2.000.000 per onorari
ai controricorrenti Giovanni Bestente e litisconsorti in solido; ed
infine in lire 2.040.750 di cui lire 2.000.000 per onorari ai
controricorrenti Giuseppe Albenzio e litisconsorti in solido; riget ta la domanda di danni per responsabilità processuale aggravata
proposta dai controricorrenti Sergio Letizia e Lanfranco Mossini
e loro litisconsorti.
I
CORTE DI CASSAZIONE; Sezione I civile; sentenza 10 mag gio 1984, n. 2855; Pres. ed est. Santosuosso, P. M. Cantagalli
(conci, conf.); Cossu (Avv. De Luca) c. Bedini e Proc. gen.
App. Milano. Cassa App. Milano 11 ottobre 1982.
Matrimonio — Matrimonio concordatario — Sentenza ecclesiasti
ca di nullità per esclusione unilaterale del « bonum sacramen
ti » — Contrarietà all'ordine pubblico internazionale — Esclu sione — Fattispecie (Cost., art. 7; 1. 27 maggio 1929 n. 810, esecuzione del trattato e del Concordato, sottoscritti in Roma, fra la Santa Sede e l'Italia, I'll febbraio 1929, art. 1; Concor dato: art. 34; 1. 27 maggio 1929 n. 847, disposizioni per l'applicazione del Concordato dell'I 1 febbraio 1929 fra la Santa
Sede e l'Italia, nella parte relativa al matrimonio, art. 17; cod.
civ., art. 123).
Non contrasta con l'ordine pubblico internazionale la sentenza ec
clesiastica dichiarativa di nullità del matrimonio per esclusione del bonum sacramenti da parte di uno degli sposi, qualora l'inten
zione sia stata in qualche modo manifestata all'altro ovvero vi
siano stati elementi obiettivi rivelatori di tale intenzione
non percepiti da quest'ultimo per sua grave negligenza. (1)
II
CORTE DI CASSAZIONE; Sezione I civile; sentenza 3 maggio
1984, n. 2678; Pres. Santosuosso, Est. A. Finocchiaro, P. M.
Cant agalli (conci, conf.); Lera (Avv. De Cesari s, Mat alone) c. Fiore e Proc. gen. App. Milano. Cassa App. Milano 15 giu
gno 1982.
Matrimonio — Matrimonio concordatario — Sentenza ecclesiasti
ca di nullità per esclusione pattizia del « bonum prolis » —
Contrarietà all'ordine pubblico — Esclusione (Cost., art. 7; 1.
27 maggio 1929 n. 810, art. 1; Concordato: art. 34; 1. 27
maggio 1929 n. 847, art. 17; cod. civ., art. 123).
Non contrasta con l'ordine pubblico italiano la sentenza ecclesia
stica che, su domanda proposta dopo oltre tre anni di conviven
za, abbia dichiarato la nullità del matrimonio, per aver i coniugi
escluso, d'accordo fra loro, il requisito del bonum prolis. (2)
(1-4, 6) Nella varietà delle fattispecie oggetto delle pronunce in epi grafe, che vanno ad arricchire l'ampia casistica in materia di esecutività delle sentenze ecclesiastiche di nullità del matrimonio concordatario, il filo conduttore, per cosi dire, sembra rinvenibile nel filtro dell'ordine
pubblico. Sul punto, le decisioni della corte di legittimità non offrono certo un esempio di uniformità interpretativa (e per chi sia disposto a cimentarsi nella paziente ricostruzione delle diverse nozioni fornite dalla Cassazione successivamente a Corte cost. 2 febbraio 1982, n. 18, Foro it., 1982, I, 934, nel volenteroso tentativo di venirne a capo, si
rinvia alle motivazioni di Cass. 15 maggio 1982, n. 3024, ibid., 1880, con nota di S. Lariccia, Prime decisioni della Cassazione dopo la
sentenza della Corte costituzionale n. 18 del 1982 sul matrimonio
concordatario-, 1° ottobre 1982, n. 5026, ibid., 2799, con nota di
Lariccia, Esecutorietà delle sentenze ecclesiastiche in materia matri moniale e ordine pubblico italiano; 17 febbraio 1983, n. 1225, id., 1983, I, 644; in dottrina, fra i contributi più recenti, Dall'Ongaro, La sentenza n. 18J82 della Corte costituzionale ed i limiti dell'ordine
pubblico, in Dir. famiglia, 1982, 519; S. Lener, Incidenza delle sen
tenze 16-18/82 della Corte costituzionale sulla esecutorietà della de
cisione dei tribunali ecclesiastici, in Foro it., 1983, I, 922 (che, pur ap
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1503 PARTE PRIMA 1504
Ill
CORTE DI CASSAZIONE; Sezione I civile; sentenza 12 aprile 1984, n. 2357; Pres. Santosuosso, Est. Virgilio, P. M. Ami
rante (conci, conf.); De Paolis (Avv. Arieta) c. Paris (Avv.
Ottaviani, Cappelli) e Proc. gen. App. Roma. Conferma App. Roma, ord. 19 ottobre 1982.
Matrimonio — Matrimonio concordatario — Sentenza ecclesiasti
ca di nullità — Mancata partecipazione del difensore alle
operazioni peritali — Diritto di difesa — Violazione — Insus
sistenza (Cost., art. 7, 24; 1. 29 maggio 1929 n. 847, art. 17).
La mancata partecipazione dei difensori delle parti alle operazio ni peritali, disposte dal tribunale ecclesiastico nel procedimento
per la dichiarazione di nullità del matrimonio, non è di ostacolo
alla pronuncia di esecutività della relativa sentenza. (3)
IV
CORTE DI CASSAZIONE; Sezione I civile; sentenza 12 aprile 1984, n. 2351; Pres. Santosuosso, Est. Bologna, P. M. Nicita
(conci, conf.); Garuglieri (Avv. Manfredini, Medici) c. Torrini
e Proc. gen. App. Firenze. Conferma App. Firenze, ord. 10
settembre 1981.
Matrimonio — Matrimonio concordatario — Nullità « ob me
tum » — Azione esercitata cinque anni dopo la celebrazione —
Sentenza ecclesiastica di nullità — Dichiarazione di esecutività — Contrarietà all'ordine pubblico — Esclusione (Cost., art. 7; 1.
29 maggio 1929 n. 847, art. 17; cod. civ., art. 122).
Non contrasta con l'ordine pubblico italiano la sentenza ecclesiasti
ca che abbia dichiarato la nullità del matrimonio per una causa
non ritenuta invalidante dall'ordinamento statuale (metus reve
rentialis) e su domanda proposta dopo un lungo periodo di coabi
tazione (nella specie, oltre cinque anni). (4)
provando Cass. 5026/82, disancora il principio del consenso dalle pro spettive dell'ordine pubblico e ne afferma il valore in un modo che esclude la ribaltabilità della soluzione in dipendenza di fatti
posteriori); G. Tucci, Le vicende giurisprudenziali del matrimonio con
cordatario, in Riv. critica dir. prìv., 1983, 938 ss.; S. Gherro, Rapporti tra Stato e Chiesa in tema di matrimonio concordatario, Padova, 1983, 65 ss.; Petroncelli, La efficacia civile della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio religioso ed il nodo dei suoi riflessi nel campo patrimoniale delle parti, in Dir. eccl., 1983, 77.
Sul problema della esecutività della sentenza ecclesiastica dichiara tiva della nullità del matrimonio per riserva mentale, cfr. Cass. 17 febbraio 1983, n. 1225, cit. (nella specie i giudici della Suprema corte hanno affermato che il coniuge autore della riserva, esclusione del bonum sacramenti, non può contrastare la dichiarazione di esecutorietà dedu cendo che il proprio intento non era stato comunicato all'altro coniuge prima del matrimonio); 24 dicembre 1982, n. 7128, id., 1983, I, 36, con nota di A. Lener, cui si rinvia per ulteriori riferimenti (nella specie si trattava di esclusione del bonum prolis). In sede di merito v. App. Milano, ord. 30 settembre 1982, Dir. famiglia, 1983, 91 (m); App. Milano 22 dicembre 1982, ibid., 101, con nota di G. B. Nappi, Dopo la sentenza n. 18 del 1982 della Corte costituzionale la «revisione» dell'art. 34 del Concordato-, nonché App. Bari, ord. 29 dicembre 1982, Foro it., 1983, I, 420. iln dottrina cfr. Tucci, cit., 944; Gherro, cit., 144 s.; R. Botta, La « delibazione » delle sentenze ecclesiastiche di nulli tà matrimoniale dopo la sentenza n. 18/82 della Corte costituzionale (due anni di giurisprudenza: Rassegna delle decisioni delle corti d'appel lo e della Corte di cassazione), in Dir. eccl., 1983, 940.
Sul problema dell'esecutività della sentenza ecclesiastica che abbia dichiarato la nullità del matrimonio per metus reverentialis, cfr. App. Napoli 30 aprile 1982, Foro it., Rep. 1982, voce Matrimonio, n. 214, con nota contraria a L. Liberti, Compatibilità tra « metus reverentia lis » ed ordine pubblico italiano, in Giust. civ., 1982, I, 3136.
iln dottrina, v., specificamente, P. Zambelli, Note in tema di « metus reverentialis », in Dir. eccl., 1979, II, 206, con ampi riferimenti alla giurisprudenza e alla dottrina canonista.
Per una panoramica circa i vizi del consenso cfr., da ultimo, E. Perego, La libertà del consenso nel matrimonio civile, Milano, 1983, in particolare sulla violenza, 33 ss.; nonché O. Fumagalli Carulli, Intelletto e volontà nel consenso matrimoniale in diritto canonico, Milano, 1983.
Quanto alle garanzie processuali relative al diritto di agire e di resistere nel giudizio canonico di nullità matrimoniale, cfr. Cass. 16 dicembre 1983, n. 7447, Foro it., 1984, I, 1323, con nota di richiami.
In dottrina, da ultimo, P. Moneta, Il processo matrimoniale nel nuovo codice di diritto canonico, in Dir. famiglia, 1983, I, 673.
(5) I nodi vengono al pettine. L'assurda ratio decidendi di Cass. 1° ottobre 1982, n. 5026 (Foro it., 1982, I, 2799, con ampia nota di richiami e commento critico di S. Lariccia), ricalcata ad litteram da Cass. 24 dicembre 1982, n. 7128 (id., 1983, I, 36, con annotazione critica di A. Lener concernente specificamente questo punto), e probabilmente dall'inedita Cass. 28 gennaio 1983, n. 770 (id., Rep. 1983, voce Matrimonio, n. 318). Fonda la contrarietà all'ordine pubbli co della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio per esclusione
V
CORTE DI CASSAZIONE; Sezione I civile; sentenza 12 gen naio 1984, n. 243; Pres. Brancaccio, Est. Zappulli, P. M. An
toci (conci, conf.); Carboni (Avv. Ligi, Guidetti) c. Scara
belli Opizzi. Cassa App. Bologna 17 luglio 1982.
Matrimonio — Matrimonio concordatario — Sentenza ecclesiasti ca di nullità per esclusione unilaterale del « bonum prolis » —
Adesione dell'altro coniuge alla dichiarazione di nullità —
Contrasto della sentenza con l'ordine pubblico italiano —
Insussistenza (Cost., art. 7; 1. 27 maggio 1929 n. 810, art. 1; Concordato: art. 34; 1. 27 maggio 1929 n. 847, art. 17).
Non contrasta con l'ordine pubblico italiano la sentenza eccle siastica dichiarativa della nullità del matrimonio per esclusione
del bonum prolis con riserva mentale di uno dei coniugi non
manifestata all'altro, allorché sia proprio quest'ultimo a dedurre la nullità del matrimonio o a chiedere la pronuncia di esecuti vità della relativa decisione ecclesiastica. (5)
VI
CORTE D'APPELLO DI BARI; ordinanza 2 agosto 1983; Pres.
Mezzina, Rei. Semeraro; Fato (Avv. Amenduni) c. Orlando.
Matrimonio — Matrimonio concordatario — Sentenza ecclesiasti ca di nullità per riserva mentale unilaterale — Esecutività
(Cost., art. 7; 1. 29 maggio 1929 n. 847, art. 17; cod. civ., art.
123).
Va accolta la domanda di esecutività della sentenza ecclesiastica
dichiarativa della nullità del matrimonio (nella specie per esclu sione del bonum sacramenti,), avanzata dal coniuge che ha dato
luogo alla causa di nullità, ove l'altro non si opponga. (6)
I
Motivi della decisione. — 1. - Con l'ordinanza impugnata, la
Corte d'appello di Milano ha negato la dichiarazione di esecutivi
di uno dei bona (sacramenti o prolis) mediante riserva mentale
unilaterale, non palesata all'altro coniuge, sull'esigenza di tutelare « la buona fede e l'affidamento incolpevole » di quest'ultimo. La sentenza
riportata, seguendo Cass. 17 febbraio 1983, n. 1225 (id., 1983, I, 644: che però, come rilevato nella nota redazionale, criticava « da destra »
l'affermazione di contrasto con l'ordine pubblico, sicché la sua
argomentazione a contrario intesa al riconoscimento di valore della
pronuncia ecclesiastica di nullità assumeva un significato polemico che alla sentenza attuale manca), ha ribaltato la soluzione quando sia stato
proprio il coniuge, a suo tempo ignaro della riserva dell'altro, a dedurre davanti al giudice ecclesiastico questo motivo di nullità del matrimonio o a chiedere la dichiarazione di esecutorietà della pronuncia ecclesiastica di nullità, affermando, con le parole della sent. n.
1225/83, che non può « farsi rientrare nei rigorosi limiti dell'ordine
pubblico anche la tutela della buona fede del coniuge che respinge quella tutela». Con ciò l'equivoco emerge nella luce più piena, perché la valutazione di contrarietà (o non contrarietà) all'ordine pubblico della pronuncia ecclesiastica di nullità del matrimonio viene fatta
dipendere non da una circostanza inerente al contenuto della decisione o allo svolgersi del procedimento davanti al giudice ecclesiastico, ma da un apprezzamento di convenienza, anche posteriore alla conclusione di quel giudizio, del coniuge « in buona fede ».
Il rilievo esplicito è necessario, perché nel presentare la sent. n.
1225/83, a motivo dell'impostazione polemica della motivazione, che contestava
' a monte ' l'operatività del limite dell'ordine pubblico
(diversamente dalla sentenza attuale), la massima fu redatta senza alcun riferimento concettuale a quel limite, ma registrando l'obiettività di un decisum che, visto dal lato del coniuge autore della riserva mentale causativa della nullità canonica, suonava come un divieto di venire contra factum proprium col contrastare l'esecutorietà della sentenza ecclesiastica, che quella nullità registrava. La decisione qui riprodotta, anche se adopera sul punto parole uguali alla precedente, impone di rettificare il tiro spostando la mira sull'altro coniuge, che
respinge la tutela per lui apprestata ed anzi, come è detto, « la invoca in senso contrario », ciò che renderebbe inoperante il limite dell'ordine
pubblico nel modo in cui è inteso dai precedenti citati all'inizio. Sull'art. 8 del nuovo Concordato fra Stato e Chiesa, firmato il
18 febbraio 1984, che per l'efficacia civile delle pronunce ecclesiastiche di nullità di matrimonio concordatario esige che sia stato assicurato alle parti il diritto di agire e di resistere in giudizio in modo non difforme dai principi fondamentali dell'ordinamento italiano e che ricorrano le altre condizioni richieste dalla legislazione italiana per la dichiarazione di efficacia delle sentenze straniere (rinvio che ha un valore aggiuntivo solo per il n. 7 dell'art. 797 c.p.c., il quale richiede che la sentenza non contenga « disposizioni contrarie all'ordine pubbli co italiano », che non si è voluto esplicitamente nominare), cfr. Colaianni, Prime note su Concordato e Intesa, in Foro it., 1984, V, 111; e, ante litteram, Gherro, Rapporti tra Stato e Chiesa in tema di matrimonio concordatario, Padova, 1983, 15 e 65 ss.
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
tà della sentenza ecclesiastica — che aveva pronunciato la nullità
del matrimonio per esclusione del bonum sacramenti — rilevando
una duplice contrarietà -ai principi dell'ordine pubblico italiano.
Il primo motivo di contrarietà è individuato nel fatto che la
nullità è stata dichiarata per l'accertata « simulazione parziale »
di uno dei nubendi in ordine all'indissolubilità del matrimonio,
laddove nel nostro ordinamento « l'esclusione dell'indissolubilità,
da parte di uno o di entrambi i coniugi contraenti non influisce
sull'essenza dell'unione, quale è protetta dalla legge italiana, onde
non può dare adito a una causa di nullità del vincolo »: nel
nostro ordinamento, cioè, il consenso dato pur nell'esclusione del
vincolo è pienamente valido, per cui la causa di nullità accertata
dalla sentenza ecclesiastica è incompatibile con il nostro sistema
matrimoniale e, perciò, con l'ordine pubblico. Il secondo motivo
di contrarietà è individuato anzitutto nel rilievo che la nullità del
matrimonio per simulazione è prevista dall'ordinamento statale
solo nell'ipotesi in cui detta simulazione sia assoluta (art. 123
c.c.), sia nel fatto che la nullità per simulazione era stata (dal tribunale ecclesiastico) pronunciata quantunque la relativa do
manda fosse stata proposta dopo il trascorso di un anno dalla
celebrazione del matrimonio (durante il qual periodo i due
contraenti avevano convissuto come coniugi): ed è principio di
ordine pubblico, nel nostro ordinamento, che dopo trascorso quel
periodo (e verificatasi quella situazione di fatto) la nullità del
matrimonio, per divergenza tra la volontà interna e quella mani
festata da uno o da entrambi i contraenti, non può più essere
pronunciata.
Con l'unico motivo di censura (denunciando, ai sensi dell'art.
360, n. 3, c.p.c. la violazione e falsa applicazione degli art. 797
c.px., 1 1. 27 maggio 1929 n. 818 e 17 1. 27 maggio 1929 n. 847
nel testo emendato dalla sentenza n. 18 del 1982 della Corte
costituzionale, Foro it., 1982, I, 934) il ricorrente deduce l'erro
neità della pronuncia impugnata, per non avere la stessa tenuto
conto degli enunciati giurisprudenziali secondo cui: a) in linea
generale, non può essere ravvisata contrarietà ai principi di
ordine pubblico nel fatto che 'la nullità del matrimonio religioso sia stata pronunciata per un motivo che è, bensì', previsto dall'ordinamento canonico, ma non dall'ordinamento italiano; b) in particolare, in tema di nullità per esclusione del bonum
sacramenti la contrarietà all'ordine pubblico può essere ravvisata
solo nell'ipotesi in cui, non avendo il contraente autore della
riserva mentale reso quest'ultima manifesta all'altro contraente, la
pronuncia di nullità del matrimonio concreti una violazione del
principio di buona fede (cioè di tutela dell'affidamento): viola
zione che, nel caso concreto, non è stata mai dedotta né nel
giudizio canonico né in quello civile.
2. - Il ricorso è fondato.
È da premettere, in via generale, che la diversità dei modelli di
matrimonio, nei rispettivi ordinamenti — civile e canonico — era
presente alle parti contraenti che, stipulando nel 1929 i patti
Iateranensi, vollero attribuire effetti civili all'istituto matrimoniale
come disciplinato dall'ordinamento canonico, nelle condizioni di
validità del momento genetico e, di conseguenza, nelle sue cause
di nullità, e non invece prevedere una mera forma di celebrazio
ne religiosa del matrimonio civile. In proposito la Corte costitu
zionale (da ultimo sent. n. 18 del 1982) ha ribadito che « il
negozio cui si attribuiscono gli effetti civili nasce nell'ordinamen
to canonico e da questo è regolato nei suoi requisiti di validità »; ed ha ritenuto che tale principio essenziale del nostro sistema
matrimoniale è conforme alla Costituzione. Anche per la sent. n.
5026 del 1982 delle sezioni unite di questa Suprema corte {id.,
1982, I, 2799), le nullità tipiche dell'ordinamento canonico devono
essere valutate secondo la regolamentazione propria di tale ordi
namento.
Da questa premessa, la costante giurisprudenza dell'una o
dell'altra delle due corti ha tratto la conseguenza che la mera
diversità delle cause di nullità del matrimonio, corrispondente alle
differenze connaturali dell'ordinamento canonico rispetto a quello
civile, non osta alla efficacia nello Stato italiano delle sentenze
ecclesiastiche, così come voluta dai patti Iateranensi.
3. - Per quanto riguarda il limite dell'efficacia di tale pronuncia in Italia, va anzitutto ricordato che la Corte costituzionale, con le
sentenze nn. 30, 31 e 32 del 1971 (id., 1971, I, 524), e poi con le
sentenze n. 175 del 1973 (id., 1974, I, 12) e n. 1 del 1977 (id., 1977,
I, 6), pur riconoscendo che l'art. 7 Cost, ha dato rilevanza ai
patti Iateranensi, osservò tuttavia che il sistema concordatario
non ha la forza di negare i « principi supremi dell'ordinamento
costituzionale dello Stato ». Ritenne però che tali principi supre mi non risultavano violati per la « specialità » dei giudici (sent.
30/71), per la disparità di trattamento del matrimonio tra affini
di primo grado che il diritto canonico consente, previa dispensa
(sent. 31/71), per la riserva di giurisdizione esclusiva in materia
Il Foro Italiano — 1984 — Parte I-97.
matrimoniale, compatibile con la -sovranità dello Stato (sent.
175/73). Con la più recente sentenza n. 18 del 1982, la Corte costituzio
nale ha affermato la validità del criterio limite dei principi
supremi dell'ordinamento costituzionale dello Stato, ritenendo che
il sistema concordatario non viola il principio supremo del diritto
alla tutela giurisdizionale, da riguardarsi « nel suo nucleo ristretto
ed essenziale (omissis) non essendo consentito accertare se spe cificamente contrastino, in ragione della diversa disciplina dei
corrispondenti istituti del processo matrimoniale canonico, le
denunziate norme concordatarie, atteso che a questo minor livello
opera (omissis) la copertura costituzionale dalla quale esse sono
assistite ».
Peraltro la stessa corte, dopo avere avvertito che gli organi e la giurisdizione ecclesiastica in materia hanno una « tradizione
plurisecolare », che « la riserva (di giurisdizione ecclesiastica) costituisce uno dei cardini del vigente sistema matrimoniale
concordatario, e di ciò era ben consapevole il costituente allorché all'art. 7 ha fatto esplicita menzione dei patti lateranensi », e
dopo aver condiviso l'orientamento della « giurisprudenza inno
vatrice di questa Corte di cassazione circa gli adattamenti dell'ordinario giudizio di delibazione delle sentenze straniere alla speciale materia oggetto delle norme pattizie », e in particola re circa « l'accertamento che la sentenza ecclesiastica non contra
sti con l'ordine pubblico italiano, nel limiti consentiti dalla
copertura costituzionale delle norme concordatarie », ritenne di « ascrivere al novero dei principi supremi dell'ordinamento costi tuzionale » gli elementi essenziali del diritto di agire e di resistere in giudizio nonché dell'ordine pubblico.
4. - Per l'esigenza di precisare questo secondo principio in
relazione alla speciale materia, le sezioni unite di questa Corte
suprema, con la sentenza n. 5026 del 1982, hanno anzitutto richiamato la giurisprudenza che distingue fra i principi cogenti non derogabili dei cittadini con private pattuizioni (c.d. ordine
pubblico interno) e gli imperativi ispirati a somme esigenze di
civiltà giuridica la cui inosservanza è ostativa alla delibazione di sentenze straniere (c.d. ordine pubblico internazionale). Ma —
ha agggiunto — l'ordine pubblico al quale va commisurato il
giudizio di esecutività della sentenza canonica non si identifica con la nozione elaborata (dalla giurisprudenza) con riferimento al
giudizio di delibazione delle sentenze di un qualsiasi Stato estero. E ciò in considerazione sia del riconoscimento del diritto canonico come disciplina di quel tipo di matrimonio, sia della
specialità del regime concordatario in materia matrimoniale, che
costituiscono, essi stessi, due regole fondamentali in cui quell'or dine pubblico si sostanzia.
Ed invero, a differenza di quanto accade nei confronti delle sentenze straniere, il riconoscimento del matrimonio canonico e delle relative pronunce ecclesiastiche di nullità formano oggetto di norme pattizie di natura internazionale e assistite da specifica copertura costituzionale. In forza di dette norme, 'le parti, ove abbiano liberamente scelto il tipo di matrimonio canonico, non hanno alternativa alla riserva di giurisdizione esclusiva, sulla va lidità o meno di tale vincolo; validità che va stabilita solo alla
stregua del diritto canonico o dal giudice competente di questo diritto.
Dal momento, quindi che — come conclude la citata sentenza
(5026/82) — si riscontra una « maggiore disponibilità » dell'ordi namento statale rispetto a quello canonico di quanto non accade
per la delibazione di qualsiasi altra sentenza straniera, il limite non superabile nell'esclusività delle pronunce ecclesiastiche va ritenuto ancora più ristretto ed essenziale delle « somme esigenze di civiltà giuridica la cui inosservanza è ostativa alla delibazio ne di sentenze straniere (c.d. ordine pubblico internazionale) ».
La citata sentenza parla di « una contrarietà » (ai canoni essenziali cui si ispira il diritto dello Stato e alle regole fondamen tali che definiscono la struttura dell'istituto matrimoniale) « cosi accentuata da superare il margine di disponibilità (omissis) per cui non ha portata impeditiva una pur rilevante differenza di
disciplina fra le cause di nullità del matrimonio considerate nei due ordinamenti ».
Si tratta di un criterio di valutazione della gravità della contrarietà affidato alla sensibilità del giudice, ma — ai fini della coerenza con la volontà di legge e della uniformità di giudizio di tutto il territorio nazionale — va avvertito che la grave contrarie tà deve riguardare i « canoni essenziali » del diritto dello Stato e le « regole fondamentali » dell'istituto matrimoniale, nel suo nu cleo ristretto ed essenziale (come si è espressa la Corte costitu zionale nella citata sentenza n. 18 del 1082).
5. - Da quanto sopra esposto, pertanto, possono trarsi i
seguenti principi. Secondo le norme pattizie, assistite da copertura costituzionale
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1507 PARTE PRIMA 1508
e ritenute legittime dalla Corte costituzionale, il negozio matri
moniale cui si attribuiscono gli effetti civili nasce dall'ordinamen
to canonico e da questo è regolato nei suoi limiti di validità, i
quali ultimi vengono accertati esclusivamente dal giudice del
detto ordinamento.
Il giudice statuale dà normalmente efficacia civile a dette
pronunce ecclesiastiche salvo che non riscontri ch'esse contrastino
con i principi supremi dell'ordinamento costituzionale dello Stato, tra i quali vanno ascritti gli elementi essenziali del diritto di
agire e di resistere in giudizio, nonché dell'ordine pubblico.
Una pur rilevante differenza di disciplina dell'ordinamento
canonico rispetto a quello civile in tema di cause di nullità del
matrimonio e dei relativi istituti processuali non impedisce di
dare esecutività in Italia alle sentenze ecclesiastiche, a meno che
non si accerti una contrarietà (non a qualsiasi disposizione
inderogabile relativa al matrimonio civile, qual è — per stare al
caso concreto — quella contenuta nel 2° comma dell'art. 123 c.c.,
ma) al nucleo ristretto ed essenziale delle regole fondamentali
dello Stato o dell'istituto matrimoniale, così accentuata da supera re il margine di maggiore disponibilità dell'ordinamento statuale a
recepire le pronunce ecclesiastiche rispetto a quello della deliba
zione delle sentenze straniere.
Un parametro orientativo, in questa valutazione, è il riscontro
che determinati principi siano proclamati come essenziali nella
Costituzione italiana e consacrati in solenni dichiarazioni interna
zionali, come il diritto al matrimonio, la pari dignità dei coniugi, la piena libertà del consenso matrimoniale, la solidarietà e la
responsabilità dei componenti la famiglia.
6. - Nel valutare se una sentenza straniera non contrasti con i
principi di ordine pubblico in tema di simulazione, non ha
rilevanza il diverso modo di essere di questa causa, e cioè che
uno dei due ordinamenti preveda la simulazione assoluta e l'altro
quella relativa, né è necessario analizzare su quali elementi o
caratteri incida la volontà simulatrice; salvo che la violazione
dell'ordine pubblico si prospetti a prescindere dal vizio di simu
lazione.
A maggior ragione questa analisi non è consentita nel raffronto
fra matrimonio canonico e matrimonio civile (le cui discipline
prevedono entrambe la nullità per simulazione) tenuto conto della
maggiore disponibilità dell'ordinamento statuale a dare efficacia
alle sentenze ecclesiastiche per i motivi sopra esposti; fermo
restando sotto altri profili il limite di ordine pubblico non
superabile nemmeno da detta disponibilità.
La giurisprudenza di questa corte, successiva alla sentenza
18/82 della Corte costituzionale (cfr. le sent. 3024/82, id., 1982, I,
1880; 5026/82, cit.; 770/83, id., Rep. 1983, voce Matrimonio, n.
318; 1225/83, id., 1983, I, 644; 6862/83, id., Rep. 1983, voce cit., n. 320, e altre) ha già esaminato casi di nullità canonica
in cui alterutra vel utraque pars positivo voluntatis actu excludant
matrimonium ipsum vel matrimonii aliquod elementum, valutando se la riserva unilaterale non conosciuta dall'altra parte potesse assi
milarsi al fenomeno della vera e propria simulazione e si ponesse in contrasto col fondamentale principio della tutela dell'affidamento
incolpevole; ma detta giurisprudenza non ha esteso l'indagine —
pur potendolo — circa il carattere, assoluto e relativo, della riserva
o sull'oggetto della stessa.
Anche nel caso concreto, quindi, compito della corte che ha
emesso l'ordinanza impugnata e del giudice di rinvio che sarà
designato, era e sarà quello (soltanto) di accertare se la nullità fu
pronunciata per accordo simulatorio o per riserva mentale; e, in
questo secondo caso, se tale riserva fu partecipata o comunque conosciuta: non rientrando anche il tipo di simulazione e l'ogget to dello stesso in quel nucleo ristretto ed essenziale non superabi le dall'anzidetta « maggiore disponibilità ». In particolare, va
rilevato che in dottrina è quantomai controverso se la nuova
formulazione dell'art. 123 c.c. abbia introdotto con la riforma del
diritto di famiglia, tra le cause di nullità del matrimonio civile, la
simulazione assoluta o quella relativa, o entrambe; ed anche per
questa considerazione appare assurdo che si possa erigere una
norma ordinaria, di interpretazione cosi discutibile, a principio essenziale di un ordine pubblico munito di speciale protezione.
7. - Volendo, ciononostante, passare ad abundantiam alla valu tazione particolare della nullità del matrimonio per simulazione contra bonum sacramenti, va rilevato che, nell'ordinamento sta
tale vigente, la dissolubilità non è principio fondamentale del
l'atto costitutivo del vincolo matrimoniale, ma attiene solo alla
patologia del rapporto coniugale.
Se, invero, la dissolubilità riguardasse l'atto, con natura di
fondamentale ed essenziale principio di ordine pubblico, non
derogabile nemmeno nel caso di copertura costituzionale e patti zia non potrebbe trovare ingresso nel nostro ordinamento, me
diante la trascrizione, nemmeno l'atto costitutivo del matrimonio
canonico che è essenzialmente voluto come indissolubile. In realtà, anche la legge statale concepisce il vincolo matrimo
niale un consortium omnis vitae (Modestino Fr. I, de ritu nupt XXIII, 2) tendenzialmente stabile e naturalmente duraturo per tutta la vita degli sposi; tanto da prevedere anche rigorosi termini di decadenza per far valere cause di nullità o da
escludere che le parti possano vincolarsi ad tempus o inserire clausole di dissolubilità.
La legge favorisce in ogni modo la stabilità anche della
convivenza e concepisce il divorzio solo come estemo rimedio al disfacimento della comunione coniugale non altrimenti superabile.
Una conferma di questa concezione si ha nel fatto che il
divorzio, per quanto riguarda il matrimonio concordatario, ne
dispone la cessazione degli « effetti civili » non incidendo sull'atto
costitutivo (sul quale invece incidono le cause di nullità) e, anche
sul piano del matrimonio civile, il divorzio non esclude che l'atto abbia pienezza di effetti, ma prende in considerazione solo il
verificarsi di sopravvenute circostanze che rendano non protraibili alcuni di quegli effetti, e ne dispone solo ex nunc la cessazione.
In ogni caso il fatto che la legge statuale non dà rilevanza alla
riserva sulla dissolubilità del matrimonio non significa che tale dissolubilità costituisce principio fondamentale dello Stato e rego la essenziale di tutto il sistema matrimoniale.
Sussiste quindi compatibilità fra il rimedio della dissolubilità del rapporto coniugale nell'ambito del diritto civile e l'indissolubi lità dell'atto nell'ambito del diritto canonico, con le relative
conseguenze circa la mancanza di un essenziale principio di ordine pubblico ostativo alla esecutività di pronunce di nullità
dell'atto.
Sarebbe, in ogni caso, assurdo che si intendesse tener fermo il vincolo in virtù del principio della dissolubilità del vincolo stesso.
8. - Più in particolare per quanto attiene all'argomento che l'ordinanza impugnata ha creduto di trarre dal disposto dell'art.
123, 2" comma, c.c., va in primo luogo ricordato quanto già si è avuto occasione di osservare circa la dubbia interpretazione della norma stessa, quale elemento idoneo ad escludere che quella regola di « decadenza » possa assurgere a principio essenziale del
nostro ordinamento. Peraltro, è stato in dottrina osservato che
quella decadenza sarebbe stata voluta dal legislatore non tanto
per dare « certezza » a vincoli non fondati su un valido consenso
(pienezza del consenso, che è ritenuta dalla convenzione dell'ONU sommo principio di civiltà giuridica) quanto per valorizzare il « consenso sopravvenuto » o, comunque, comportamenti atti a dimostrare che la simulazione non vi era stata.
Ora, da una parte, va affermato che la limitata rilevabilità nel
tempo dei vizi matrimoniali non costituisce principio generale di ordine pubblico del nostro ordinamento tanto caratterizzante da
impedire la dichiarazione di esecuzione di una sentenza ecclesia stica che tale limite non rispetti, in presenza dell'art. 124 c.c., che ammette il coniuge ad impugnare in qualunque tempo il prece dente matrimonio dell'altro coniuge.
Deve, d'altra parte, osservarsi che anche nel diritto canonico sono disciplinati (can. 1156 ss. c. vigente) istituti che appunto va lorizzano l'efficacia sanante di un consenso sopravvenuto.
Certo è che se alla norma predetta si attribuisse quella forza ostativa che l'impugnata ordinanza ha creduto di ravvisare, ver rebbero in gran parte vanificati altri principi prevalenti, primo fra essi la riserva esclusiva della giurisdizione ecclesiastica che ha
copertura costituzionale, con l'ulteriore incongruenza che i relativi accertamenti esigerebbero un riesame di merito sul comportamen to dei coniugi incompatibili con la detta riserva, oltre che con la natura « camerale » del procedimento di esecutività.
9. - L'impugnata ordinanza, pertanto, deve essere cassata e la causa va rimessa al giudice di rinvio — che si designa nella Corte d'appello di Torino — il quale si atterrà ai seguenti principi: a) secondo le norme pattizie, assistite da copertura costituzionale, il negozio matrimoniale cui si attribuiscono effetti civili nasce dall'ordinamento canonico e da questo è regolato nei suoi requisiti di validità, i quali vengono accertati nell'ambito
giurisdizionale di detto ordinamento; b) il giudice statuale dà normalmente efficacia civile alle pronunce ecclesiastiche, salvo riscontro di un loro contrasto con i principi supremi dell'ordina mento costituzionale dello Stato, tra i quali sono ascritti gli elementi essenziali del diritto di agire e di resistere in giudizio, nonché dell'ordine pubblico; c) a questi fini, rilevavano non i
principi cogenti non derogabili dai cittadini con private pattui zioni (ordine pubblico interno) ma gli imperativi ispirati a somme
esigenze di civiltà giuridica, insite nel comune sentire dei paesi di cultura affine e talvolta espresse in dichiarazioni universali o convenzioni internazionali, cui si armonizzano le regole fonda mentali dello Stato o dell'istituto matrimoniale; d) tra detti
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
principi e in particolare fra quelli del sistema matrimoniale
vigente in Italia, in cui si sostanzia l'ordine pubblico al quale deve farsi riferimento nella peculiare materia, va considerato che, a differenza di quanto accade per le sentenze di altri Stati esteri
il nostro ordinamento riconosce, con norme pattizie assistite da
copertura costituzionale, che il matrimonio concordatario ha una
specifica disciplina, che l'accertamento delle condizioni di validità
dello stesso sono riservate alla giurisdizione ecclesiastica, di
plurisecolare tradizione, e che non è data alternativa, per definire
la certezza del proprio status, a chi sia vincolato da questo tipo di matrimonio offerto dalla legge alla scelta delle parti; e) una
pur rilevante differenza di disciplina tra l'ordinamento canonico
rispetto a quello civile in tema di cause di nullità del matrimonio
e dei relativi istituti processuali non impedisce di dare esecutività in Italia alle sentenze ecclesiastiche, salvo che si accerti una
contrarietà cosi' accentuata da violare il ristretto ambito dell'ordi
ne pubblico rilevante nella specifica materia; /) la limitata
rilevabilità nel tempo dei vizi matrimoniali non costituisce princi pio generale di ordine pubblico tanto caratterizzante del nostro
ordinamento da impedire la dichiarazione di esecutività di una
sentenza ecclesiastica in presenza dell'art. 124 c.c., che prevede
un'impugnabilità senza limiti di tempo, e dei canoni 1156 ss. che
valorizzano l'efficacia sanante #i un consenso sopravvenuto; g) nel rapporto fra matrimonio concordatario e matrimonio civile, le
cui discipline prevedono entrambe la nullità per simulazione, non è consentito analizzare se uno dei due ordinamenti contem
pli la simulazione assoluta e l'altro quella relativa o su quali elementi e caratteri incida la volontà simulatrice, salvo che la
violazione dell'ordine pubblico si prospetti a prescindere dal vizio di simulazione e superi la maggiore disponibilità dell'ordinamento
statuale a dare efficacia alle sentenze ecclesiastiche; h) non
contrasta con i principi di ordine pubblico internazionale una
sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio per esclusione da parte di un coniuge del bonum sacramenti; i) ai
fini dell'esecutività di una sentenza ecclesiastica di nullità del
matrimonio per simulazione unilaterale, la corte d'appello deve
accertare se l'intenzione di uno dei coniugi contro gli elementi
essenziali dell'istituto sia rimasta confinata nell'ambito della sua
sfera psichica, ovvero sia stata in qualsiasi modo esternata e
conosciuta dall'altro coniuge, e se, comunque, vi siano stati
obiettivi elementi rivelatori di detta intenzione non percepiti dall'altro esclusivamente per sua grave negligenza, da valutarsi in
concreto; Z) in relazione alle sue indagini, la corte d'appello, sulla
base dei dati, di fatto e di diritto, evidenziati dalle parti e dalle
prove da queste offerte, traendo elementi di giudizio anche dalla
stessa sentenza ecclesiastica o da atti idonei ad interpretare la
sentenza medesima (quali il riscontro della Segnatura apostolica o
il comportamento tenuto dalle parti nel processo canonico e in
quello civile), ovvero da copie di atti del procedimento ecclesia
stico che possono essere anche nel giudizio di esecutività. (Omis
sis)
II
Motivi della decisione. — Va innanzitutto disposta la riunione
dei due ricorsi proposti avverso la stessa sentenza.
Con i due motivi di ricorso — da esaminarsi congiuntamente in quanto logicamente connessi — si deduce motivazione contrad
dittoria ed insufficiente, violazione dell'art. 797, n. 7, c.p.c. e del
l'art. 123 c.c. in riferimento all'art. 7 Cost., nonché violazione e fal
sa applicazione dell'art. 797, n. 7, c.p.c. in riferimento agli art. 3 e
7 Cost., per avere la corte d'appello ritenuto contrastante con
l'ordine pubblico italiano una sentenza ecclesiastica dichiara
tiva della nullità del matrimonio concordatario per esclusione del
bonum prolis senza tener presente che i supremi principi costitu
zionali dello Stato non sono violati dalla mera differenza di
regime riscontrabile fra il vincolo civile e quello canonico, né
dalla mancanza di una sostanziale rispondenza fra le cause di
nullità del vincolo previsti dai due ordinamenti e per non avere
la stessa corte tenuto presente che la scelta del tipo di matrimonio
è riconosciuta ed autorizzata dall'art. 7 Cost, e che la riserva di
giurisdizione in favore dei tribunali ecclesiastici non incide sulla
parità di trattamento fra cittadini e non è contraria né all'art. 3
Cost., né ai principi supremi dell'ordinamento.
Il ricorso è fondato e merita accoglimento. A seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 18 del
1982 (Foro it., 1982, I, 934), che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 1 1. n. 810 del 1929, limitatamente all'ese
cuzione data dal 6° comma dell'art. 34 del Concordato, nonché del
2° comma dell'art. 17 1. n. 847 del 1929 nella parte in cui non
prevedono che alla corte d'appello, all'atto di rendere esecutiva la
sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio
canonico trascritto agli effetti civili, spetta accertare che nel
procedimento innanzi ai tribunali ecclesiastici sia stato assicurato
alle parti il diritto di agire e resistere in giudizio a difesa dei
propri diritti, e che la sentenza non contenga disposizioni contra
rie all'ordine pubblico italiano, la giurisprudenza di questa corte
è orientata nell'affermazione del principio secondo cui la corte
d'appello nelle anzidette ipotesi può negare la dichiarazione di
esecutività solo in presenza di una contrarietà di siffatta sentenza
ai canoni essenziali cui si ispira in un determinato momento
storico il diritto dello Stato ed alle regole fondamentali che
definiscono la struttura dell'istituto matrimoniale cosi accentuata
da superare il margine di maggiore disponibilità che l'ordinamen
to statuale si è imposto rispetto all'ordinamento canonico, con la
conseguenza che, ai fini della dichiarazione di esecutività, non ha
portata impeditiva una pur rilevante differenza fra le cause di
nullità del matrimonio considerate nei due ordinamenti che non
superi quel livello di maggiore disponibilità tipico dei rapporti fra Stato e Chiesa cattolica (Cass. 1° ottobre 1982, n. 5026, id.,
1982, I, 2799; 24 dicembre 1982, il. 7128, id., 1983, I, 36; 28
gennaio 1983, n. 770, id., Rep. 1983, voce Matrimonio, n. 318; 17
febbraio 1983, n. 1225, id., 1983, I, 644; 28 marzo 1983, n. 2208,
id., Rep. 1983, voce cit., n. 317, e successive conformi).
Sulla base di questo principio, ed in presenza di una sentenza
ecclesiastica che abbia dichiarato la nullità del matrimonio con
cordatario contratto prevedendo l'esclusione del bonum prolis, il
giudizio di conformità o di contrarietà della pronunzia all'ordine
pubblico italiano va formulato non già sulla base di un semplice confronto fra la disposizione del codice civile (art. 123 c.c.) che
attribuisce rilevanza alla simulazione del consenso matrimoniale, nel concorso di particolari condizioni, e la norma canonistica
(can. 1086) che ha un ipiu lato contenuto — dal momento
che il solo accertamento della differente disciplina fra le cause di nullità previste nei due ordinamenti non è di per sé sola
sufficiente ad integrare il contrasto con l'ordine pubblico ove non
superi anche quel margine di maggiore disponibilità che l'ordi
namento italiano si è imposto nei confronti di quello canonico, in
ragione della peculiare natura del rapporto fra essi intercorrente, — ma accertando se tale differente disciplina, in riferimento alla causa in relazione alla quale, in concreto, il matrimonio concor datario sia stato dichiarato nullo urti altresì' contro le regole fondamentali poste dalla Costituzione e dalle leggi — in quanto non tutti i principi fondamentali e caratterizzanti l'ordinamento
giuridico italiano sono posti dalla Costituzione (cfr. Cass. n. 5026 del 1982, in motivazione) — a base degli istituti giuridici in cui si articola l'ordinamento positivo nel suo perenne adeguarsi all'evoluzione della società.
Poiché, infatti, nel valutare se una sentenza straniera non
contrasti con il principio di ordine pubblico in tema di simulazio
ne, è sufficiente accertare se questa causa di nullità trovi « so stanziale rispondenza » nel nostro ordinamento, non avendo rile
vanza il diverso modo di essere di questa causa e cioè che uno dei due ordinamenti preveda la simulazione assoluta e l'altro
quella relativa e senza analizzare su quali elementi o caratteri
incida la volontà simulatrice, salvo che la violazione dell'ordine
pubblico si prospetti a prescindere dal vizio della simulazione; a
maggiore ragione questa analisi non è consentita nel raffronto fra
matrimonio concordatario e matrimonio civile — le cui discipline
prevedono entrambe la nullità per simulazione — tenuto conto
della rilevata maggiore disponibilità dell'ordinamento statuale a dare efficacia alle sentenze ecclesiastiche rispetto a quelle stranie
re, fermo restando, sotto altri profili, il limite dell'ordine pubblico non superabile nemmeno da detta maggiore disponibilità.
Con particolare riguardo alla simulazione matrimoniale un limite insuperabile è stato ravvisato nella tutela dell'affidamento
incolpevole, con la conseguenza che mentre non possono trovare
ingresso nel nostro ordinamento quelle sentenze che abbiano dichiarato la nullità del matrimonio concordatario valorizzando
quegli atteggiamenti che — in quanto rimasti nella sfera psichica di uno dei coniugi — non sono percepibili dall'altro, essendo per definizione privi del requisito della riconoscibilità (riserva menta
le) dal momento che il loro riconoscimento comporterebbe lo
snaturamento del sistema, non contrastano con tale limite, atte
nendo alla mera differenza di disciplina, quelle sentenze di nullità
che abbiano dato rilievo alla intenzione di una delle parti di non accettare una delle condizioni essenziali del matrimonio canonico
ove tale intenzione sia stata manifestata dall'altro coniuge, tanto se costui si sia limitato a prenderne atto, quanto se abbia
positivamente consentito a tale difformità fra volontà e dichiara
zione.
Non può invece riconoscersi valore di principio di ordine
pubblico, nel senso prima precisato, alla circostanza che l'art. 123
c.c. avrebbe dato cittadinanza nel nostro ordinamento alla sola
simulazione assoluta e non anche a quella relativa e ciò non solo
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PARTE PRIMA 1512
perché l'assunto non è pacifico in dottrina — sostenendosi
autorevolmente che tale norma abbia disciplinato la sola simula
zione relativa restando quella assoluta rilevante senza limite di
tempo — con la conseguenza che sarebbe assurdo erigere una
norma ordinaria di interpretazione cosi discutibile a principio essenziale dell'ordinamento, ma anche perché, pur ammettendo
nel nostro ordinamento la sola rilevanza della simulazione assolu
ta e non di quella relativa, ciò attiene ad una scelta del
legislatore che non permea di sé l'ordinamento giuridico sicché
l'ammissione di una diversa scelta non snatura il sistema (cfr. Cass. n. 5026/82).
Con particolare riguardo poi, alla nullità del matrimonio cano
nico per simulazione contro il bonum prolis è da rilevare che la
non menzione della procreazione fra i doveri nascenti dal matri
monio (art. 143 c.c.) non significa che, se un diverso ordinamento
valorizzi tale circostanza, si verifichi un radicale contrasto con
qualche principio fondamentale dell'ordinamento statuale, che
non solo non prevede alcun principio essenziale di « non procrea zione » ma configura il matrimonio come fondamento della fami
glia finalizzato, cioè, alla formazione di quella società naturale
comprendente anche i figli, quale normale, anche se non essenzia
le, sviluppo della unione coniugale (art. 29, 30, 31 Cost.) come è
evidenziato dall'ampia normativa che disciplina e tutela la
procreazione e la prole in una precisa analisi di diritti e doveri.
Né può parimenti erigersi a principio fondamentale di ordine
pubblico la circostanza che l'art. 123 c.c. in ipotesi di convivenza
come coniugi dopo la celebrazione del matrimonio esclude la
proponibilità della domanda di annullamento, mentre, nella specie
decisa, l'azione per la dichiarazione di nullità della simulazione
era stata iniziata dopo oltre un triennio da tale celebrazione.
È sufficiente in proposito richiamare quanto in precedenza rilevato, e precisamente che la differente disciplina fra cause di
nullità sostanzialmente coincidenti nei due ordinamenti non costi
tuisce di per sé solo motivo impeditivo per la dichiarazione di
esecutività della sentenza ecclesiastica che invece riconosca rilievo
più ampio al vizio simulatorio, ed aggiungere che la limitata
rilevabilità nel tempo dei vizi matrimoniali non costituisce princi
pio generale di ordine pubblico del nostro ordinamento tale da
impedire la dichiarazione di esecutività di una sentenza ecclesia
stica che detto limite non rispetti, in presenza dell'art. 124 c.c.
che ammette il coniuge a impugnare in qualunque tempo il
matrimonio dell'altro coniuge, in quanto ciò dimostra l'inesistenza
di un principio fondamentale caratterizzante l'ordinamento stesso.
Quale ulteriore argomento per negare la dichiarazione di esecu
tività della sentenza ecclesiastica, la corte del merito ha osservato
che la delibabilità di una siffatta sentenza avrebbe finito per creare una disparità di trattamento tra i cittadini uniti in matri
monio civile e quelli uniti in matrimonio concordatario, non
potendo i primi fruire, a differenza dei secondi, della causa di
nullità per patto di esclusione della prole. Al fine di disattendere tale rilievo è sufficiente richiamare la sen
tenza n. 18 del 1982 della Corte costituzionale, che, proprio dalla riconosciuta possibilità per il giudice italiano, a seguito della pro nuncia di incostituzionalità delle norme denunciate, di accertare l'eventuale contrasto delle sentenze ecclesiastiche con l'ordine pub blico italiano nel senso iprima precisato, ha ritenuto assorbito il pro filo di censura relativo all'introduzione nell'ordinamento dello Stato di un tipo di matrimonio contrastante con quello previsto dalla Co
stituzione, con ciò stesso rendendo evidente che il superamento da
iparte della sentenza ecclesiastica del vaglio circa la sua conformità all'ordine pubblico italiano impedisce di poter ritenere rilevante la circostanza dedotta.
La corte d'appello, nella controversia sottoposta al suo esame ed in cui era risultato accertato che l'intenzione della moglie di
escludere il bonum prolis era stata accettata anche dal marito, non si è attenuta agli anzidetti principi circa l'individuazione dell'ordine pubblico italiano nel senso in precedenza precisato, essendosi limitata a ravvisare nella diversa latitudine con cui
opera la simulazione matrimoniale nel diritto canonico rispetto alla disciplina introdotta nel nostro codice dalla riforma del
diritto di famiglia un motivo di contrasto della sentenza ecclesia stica che tale simulazione accerti con l'ordine pubblico italiano, senza tener presente che la semplice diversità fra i due istituti non integra quel contrasto con il concetto di « ordine pubblico »
enunciato dalla Corte costituzionale con la più volte richiamata
sentenza, con l'ulteriore conseguenza della completa irrilevanza —
sempre ai fini di tale contrasto — del fatto che, in conseguenza della diversa disciplina esistente, solo i cittadini uniti in matri monio concordatario possano usufruire della causa di nullità per patto di esclusione della prole.
La sentenza impugnata, pertanto, va cassata ed il giudice di
rinvio, che si designa nella Corte d'appello di Torino, nel decidere si atterrà ai seguenti principi di diritto:
Nel rapporto fra matrimonio concordatario e matrimonio civile — le cui discipline prevedono entrambe la nullità per simulazione — non è consentito analizzare se uno dei due ordinamenti contempli la simulazione assoluta e l'altro quella relativa o su quali elementi e caratteri incida la volontà simula
trice, salvo che la violazione dell'ordine pubblico si prospetti a
prescindere dal vizio di simulazione e superi la maggiore dispo nibilità dell'ordinamento statuale a dare efficacia alle sentenze ecclesiastiche rispetto a quelle straniere.
La non menzione della procreazione fra i doveri nascenti dal matrimonio (art. 143 c.c.) non significa che, se un diverso ordinamento valorizzi tale circostanza ai fini della validità del
vincolo matrimoniale, si verifichi un radicale contrasto con qual che principio fondamentale dell'ordinamento statuale, che configu ra il matrimonio come fondamento della famiglia, finalizzato cioè
alla formazione di quella ' società naturale
' comprendente anche i
figli, quale normale, anche se non essenziale, sviluppo dell'unione
coniugale. La sentenza ecclesiastica che dichiara la nullità di un matrimo
nio concordatario per esclusione del bonum prolis in una fatti
specie in cui detta intenzione sia stata manifestata da un coniuge ed accettata dall'altro, non contiene disposizioni contrarie all'or
dine pubblico italiano e può quifldi essere dichiarata esecutiva ai
sensi dell'art. 1 1. n. 810/29 e dell'art. 17 1. n. 847/29, quali risultano dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale di cui
alla sentenza n. 18 del 1982 della Corte costituzionale. La limitata rilevabilità nel tempo dei vizi matrimoniali non
costituisce principio generale di ordine pubblico tanto caratteriz
zante del nostro ordinamento da impedire la dichiarazione di
esecutività di una sentenza ecclesiastica che tale limite non
rispetti, in presenza dell'art. 124 c.c. che ammette il coniuge ad
impugnare in qualunque tempo il precedente matrimonio dell'al tro coniuge. (Omissis)
ILI
Motivi della decisione. — La ricorrente deduce: 1) la corte
d'appello, dopo aver richiamato i principi enunciati dalla Corte
costituzionale con la sentenza n. 18 del 1982 (Foro it., 1982, I,
934), ha erroneamente ritenuto che non costituisca elemento essenziale del diritto di difesa 'la partecipazione dei difensori delle parti alle operazioni peritali, peraltro disposta nel caso
concreto ex officio, per cui non ha attribuito rilevanza al fatto che il difensore della ricorrente non ebbe la possibilità di
partecipare alle operazioni peritali sulle condizioni psichiche del
marito, con la conseguenza che la pronuncia di nullità del matrimonio risulta fondata su una consulenza tecnica non espleta ta con le imprescindibili garanzie richieste dagli art. 91 ss. del codice di rito dello Stato italiano; inoltre, la corte d'appello, del pari erroneamente, ai fini di escludere la contrarietà all'ordine
pubblico della statuizione emessa dal tribunale ecclesiastico, non ha attribuito rilevanza al fatto che nell'ordinamento italiano l'azione di impugnazione del matrimonio è soggetta a termine di
decadenza, omettendo di considerare che la norma sulla decaden za è di ordine pubblico; 2) mancanza di motivazione su punto decisivo della controversia, cioè sull'accertamento della coabita zione per un anno dopo il recupero, da parte del coniuge, della
pienezza delle facoltà mentali (art. 120, 2° comma, c.c.). Tutti i profili di censura prospettati nei due motivi, che vanno
esaminati congiuntamente perché strettamente connessi, sono privi di giuridico fondamento.
Circa la partecipazione del difensore alle operazioni peritali (quale elemeno essenziale, secondo la tesi della ricorrente, del diritto di agire e resistere, con la conseguenza che in mancanza di tale partecipazione non sarebbe consentita la declaratoria di esecutività in Italia delle sentenze ecclesiastiche di nullità matri
moniale), vanno anzitutto richiamate le sentenze (n. 3024/82, id., 1982, I, 1880; n. 1225/83, id., 1983, I, 644, ed altre), con le quali questa Corte suprema ha ritenuto che, in assenza di ulteriori
precisazioni da parte della Corte costituzionale, i predetti « ele menti essenziali del diritto di agire e di resistere » si identificano con quelli elencati dall'art. 797 c.p.c., condizionanti l'efficacia in Italia di qualsiasi sentenza straniera, con qualche « adattamento alla speciale materia oggetto delle norme pattizie » (come rileva Corte cost. n. 18/82), si che tali elementi si sostanziano nel
rispetto dei principi sulla competenza del giudice, sulla regolarità della citazione, sulla legittimità della rappresentanza e della declaratoria di contumacia delle parti; del rispetto, cioè, dell'es senziale garanzia del contraddittorio — la quale si atteggia diversamente in ragione dei diversi tipi di processo — dinanzi ad un giudice imparziale.
In altri termini, le citate sentenze hanno affermato il principio che il controllo da parte del giudice statuale va eseguito, non per
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
riscontrare se siano state puntualmente rispettate tutte le norme
canoniche e se queste norme diano le stesse garanzie offerte nel
nostro ordinamento, ma per accertare — nei limiti indicati dalla
Corte costituzionale — che le parti abbiano avuto una sufficiente
possibilità di provvedere alla propria difesa davanti al giudice
competente ed in contraddittorio fra loro.
Per sviluppare questi principi con particolare riguardo alla
presente fattispecie (in cui si denuncia la violazione dei diritti di
difesa non nel momento dell'instaurazione del contraddittorio ma
nel corso del processo, in occasione di uno specifico atto istrutto
rio) deve tenersi presente che la sent. 18/82 della Corte costitu
zionale, a proposito della giurisdizione ecclesiastica, rileva che si
tratta di organi e di procedimenti, la cui natura giurisdizionale è
suffragata da una tradizione plurisecolare. Certo — continua la
Corte costituzionale — non può negarsi che l'organizzazione e
l'esercizio della funzione giurisdizionale, in re matrimoniali, nel
l'ordinamento della Chiesa appaiono, sotto taluni aspetti, ispirati a
criteri non sempre conformi a quelli che caratterizzano l'organizza zione e l'esercizio della funzione giurisdizionale nell'ordinamento
dello Stato; anche se il divario si attenua alla luce dei principi
proclamati dalle costituzioni e decreti del concilio Vaticano II, ed
ora anche dalle norme del nuovo codice di diritto canonico, entrato in vigore il 27 novembre 1983.
La Corte costituzionale inoltre, dopo aver ritenute che il diritto
alla tutela giurisdizionale si colloca al livello di principio supre mo (inderogabile) solo nel nucleo più ristretto ed essenziale, testualmente prosegue: « Tale qualifica non può certo estendersi ai
vari istituti in cui esso concretamente si estrinseca e secondo le
mutevoli esigenze in cui storicamente si atteggia, pur se taluni di
questi istituti siano garantiti da precetti costituzionali. Con i quali ultimi — una volta riconosciuto indenne il principio supremo —
non è consentito accertare se specificamente contrastino, in ragio ne della diversa disciplina dei corrispondenti istituti del processo ■matrimoniale canonico, le denunciate norme concordatarie, atteso che a questo minor livello opera, come più volte affermato da
questa corte, la copertura costituzionale dalla quale esse sono
assistite ».
A conferma che le differenze fra l'ordinamento canonico e
quello statuale costituiscono un ostacolo all'esecutività delle sen
tenze ecclesiastiche per un margine molto ristretto ed essenziale, deve richiamarsi anche la sentenza n. 5026 del 1982 delle sezioni
unite di questa corte (id., 1982, I, 2799), nella quale si afferma
particolarmente che « l'ordine pubblico internazionale — al quale va commisurato il giudizio rivolto alla dichiarazione di nullità
della sentenza canonica — solo tendenzialmente coincide con la
nozione usuale elaborata dalla giurisprudenza con riferimento al
giudizio di delibazione delle sentenze straniere, ma non si iden
tifica totalmente in esso. La dichiarazione di esecutività può essere
negata infatti soltanto in presenza di una contrarietà ai canoni
essenziali cui si ispira in un determinato momento storico il
diritto dello Stato ed alle regole fondamentali che definiscono le
strutture dell'istituto matrimoniale cosi accentuata da superare il
margine di maggiore disponibilità che l'ordinamento statuale si è
imposto rispetto all'ordinamento canonico ».
Dovendosi tener presenti gli indicati limiti, pur se si voglia verificare il rispetto dei diritti di difesa in tutto il corso del
procedimento canonico, va affermato che il giudice statuale deve
limitarsi a controllare che non siano stati violati gli elementi essenziali del diritto di agire e di resistere, sia al momento di instaurazione del processo canonico che nell'ulteriore corso del
medesimo, ma solo con riferimento a quel minimo essenziale di
possibilità di difesa, che non può essere superato nemmeno da
quella maggiore disponibilità che l'ordinamento statuale dimostra
verso le sentenze canoniche rispetto alle sentenze di altri ordina
menti stranieri.
In applicazione degli enunciati principi, va ora esaminato se la
mancanza di partecipazione del difensore all'esecuzione della
perizia violi il minimo essenziale per la difesa dei diritti delle
parti in causa.
Va subito rilevato che, a norma del can. 1797, par. 2, « partes non solum interesse possunt iurisurandi praestationi, sed etiam
exsecutioni muneris perito demandati »; ed il riferimento alle
partes potrebbe ritenersi, in principio o in pratica, comprensivo dell'assistenza defensionale con la quale la parte (in senso stretto)
agisce in giudizio.
Ma, pur in una interpretazione riduttivamente rigorosa, non
può negarsi che l'ordinamento processuale canonico in ordine allo
svolgimento delle operazioni peritali riconosce alle parti un com
plesso di diritti e di facoltà di tale portata da garantire più che il minimo essenziale di possibilità di difesa.
Ed invero, oltre ad una serie di garanzie e di cautele nella
scelta dei periti (art. 140, 142, 143, 144 dell'istruzione « Provida
Mater »), deve ricordarsi che le parti sono citate in occasione
della nomina dei periti (art. 146); esse possono ricusarli (art.
145); sono chiamate a contribuire alla formulazione dei « capita circa quae peritorum opera versori debet ut puta, utrum amentia
sit habitualis, an fuerit transitoria et an lucida admiserit interval
la » (art. 147; inoltre « partibus fas est quaestiones proponere, de
quibus ... periti, in peritia conficienda, rationem habere debent ».
Inoltre, le perizie devono essere motivate e depositate; possono essere sottoposte alla critica dei difensori con l'ausilio di tecnici; non sono vincolanti per il tribunale, il quale « debet in rationibus
decidendi exprimere, quibus notum argumentis peritorum conclu
siones vel admiserit vel reiecerit ») (art. 154). Naturalmente le
perizie possono essere criticate in sede di impugnazione, con
possibilità per i giudici di grado superiore di nominare altri periti o dei peritiores.
Alla stregua delle considerazioni che precedono, la prima censura non può ritenersi fondata.
Neppure gli ulteriori profili di censura contenuti nel primo e
nel secondo motivo possono ritenersi fondati.
La decadenza comminata dall'art. 120, 2° comma, c.c. in tema
di impugnazione del matrimonio (nel caso di coabitazione per un
anno dopo che il coniuge incapace ha recuperato la pienezza delle facoltà mentali) non è elemento di diversità, rispetto all'or
dinamento canonico, idoneo a comportare la impossibilità di
attribuire esecutività alla sentenza ecclesiastica di annullamento
del matrimonio per amentia di uno dei coniugi, considerandola
contrastante con l'ordine pubblico italiano.
Va al riguardo sottolineato che la detta decadenza, come quella
analoga di cui all'art. 122, ult. comma, non è tanto finalizzata a
conferire certezza a vincoli non fondati su valido consenso
(pienezza del consenso che è ritenuta dalla convenzione del
l'O.n.u. del 1962 sommo principio di civiltà giuridica), quanto a
valorizzare il valido consenso sopravvenuto. Va inoltre sottolineato che l'ordinamento canonico, ancor più
improntato al favore della conservazione del vincolo, disciplina analiticamente in numerosi canoni (1133 ss. del codice del 1971; 1156 ss. del codice entrato in vigore il 27 novembre 1983) gli istituti della convalidatio e della sanatio in radice, diretti appunto a valorizzare un valido consenso sopravvenuto, sia pure tacita
mente, in modo analogo a quanto previsto nell'ordinamento
italiano.
Inoltre, se si esigesse una perfetta corrispondenza dell'istituto
nei due sistemi, si vanificherebbe in gran parte l'applicazione di
altri sicuri principi prevalenti, quale la riserva esclusiva della
giurisdizione ecclesiastica nella materia in esame, con copertura costituzionale ai sensi dell'art. 7 Cost.
Va infine aggiunto che gli accertamenti sul comportamento dei
coniugi in ordine alla applicabilità dell'istituto della decadenza (ai
quali accertamenti si riferisce la censura prospettata con il secon do motivo) comporterebbero in ogni caso un riesame di merito
incompatibile con la suddetta riserva di giurisdizione e anche con la natura camerale del procedimento di esecutività.
Il ricorso va pertanto rigettato. (Omissis)
IV
Motivi della decisione. — Con il primo motivo (violazione
degli art. 122 e 1435 C;C., previa, occorrendo, dichiarazione di
incostituzionalità degli art. 1 1. 27 maggio 1929 n. 810 e 17 1. 27
maggio 1929 n. 847, in relazione agli art. 24 e 113 Cost.) si sostiene che la impugnata decisione ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio inter partes contrasta con l'ordine pubbli co italiano sia perché l'azione di nullità sarebbe stata proposta dopo cinque anni di coabitazione e sia perché la nullità del 'matrimonio sarebbe stata pronunziata ob metum pur non trattan dosi di eccezionale gravità come richiesto dall'art. 122 c.c. nella formulazione attuale.
La censura è priva di fondamento in tutti i suoi elementi e
connessioni. Al riguardo debbono essere formulate alcune premes se rilevanti per la soluzione delle questioni proposte all'esame di
questa corte.
La Corte costituzionale con sentenza n. 18 del 2 febbraio 1982
(Foro it., 1982, I, 934) ha dichiarato l'illegittimità costituzionale sia dell'art. 1 1. 27 maggio 1929 n. 810 (sulla esecuzione del
trattato, dei quattro allegati, del Concordato, sottoscritti in Roma
tra la S. Sede e l'Italia in data 11 febbraio 1929) limitatamente
all'esecuzione dell'art. 34, 6° comma, del Concordato, sia dell'art.
17, 2° comma, 1. 27 maggio 1929 n. 847 (contenente disposizioni per l'applicazione del Concordato dell'I 1 febbraio 1929 tra la S. Sede e l'Italia in materia di matrimonio) nella parte in cui le norme suddette non prevedono che alla corte d'appello, nell'atto di rendere esecutiva in Italia una sentenza canonica che pronunzi la nullità del matrimonio religioso, spetti accertare che nel
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1515 PARTE PRIMA 1516
procedimnto davanti ai tribunali ecclesiastici sia stato assicurato
alle parti il diritto di agire e resistere in giudizio a difesa dei
propri diritti e che la sentenza canonica non contenga statuizioni
contrarie all'ordine pubblico italiano.
Tra l'altro, la sentenza della Corte costituzionale ha fatto
rilevare la contrarietà — in linea di principio — con la Costitu zione di ogni differenza di regime giuridico tra matrimonio civile e matrimonio canonico, ed ha affermato che la riserva a favore della giurisdizione ecclesiastica delle cause di nullità dei matri
moni religiosi prescritti agli effetti civili, pur avendo riguardo alle
diversità degli istituti processuali propri della giurisdizione cano
nica, è pienamente compatibile con l'ordinamento costituzionale
italiano ai sensi dell'art. 7 Cost, alla condizione che nello speciale
procedimento di delibazione affidato alla cognizione della corte
d'appello si controlli il rispetto da parte dei giudici canonici dei
principi in materia di piena tutela dei diritti delle parti e di
ordine pubblico. Le sezioni unite di questa corte, con la sentenza n. 5026 del
1982 (id., 1982, I, 2799), hanno ritenuto di dover chiarire che, in
forza della singolare natura del rapporto tra Stato e Chiesa in
Italia per effetto dell'art. 7 Cost, e della specialità del regime concordatario in materia matrimoniale, trova una sua particolare
significazione il riferimento al concetto di ordine pubblico (con tenuto nella decisione della Corte costituzionale): questo concet
to, al quale va commisurato il giudizio della corte d'appello diretto alla dichiarazione di esecutività della sentenza canonica, solo tendenzialmente coincide con la nozione usuale di ordine
pubblico elaborata dalla giurisprudenza con riferimento al giudi zio di delibazione delle sentenze straniere, ma non si identifica con esso; invero la dichiarazione di esecutività della sentenza
canonica può essere negata soltanto in presenza di un contrasto
con i canoni essenziali cui si ispira in un determinato momento
storico l'ordinamento dello Stato e con le regole fondamentali che
definiscono la struttura dell'istituto matrimoniale, contrasto che
deve presentarsi tale da superare il margine di maggiore disponi bilità che l'ordinamento statuale si è imposto nei confronti
dell'ordinamento canonico, il quale, rispetto agli ordinamenti
stranieri, presenta un grado di estraneità minore.
Fatte queste necessarie premesse, va ora esaminato il primo
profilo impugnativo sallevato dalla ricorrente, secondo la quale costituisce principio di ordine pubblico ostativo all'esecutività della sentenza ecclesiastica il fatto che l'azione per la dichiara zione di nullità del matrimonio concordatario sia stata esercitata
cinque anni dopo la sua celebrazione, quando era cessata da
tempo la causa che aveva viziato il consenso.
Alla 'luce dei principi enunciati dalla Corte costituzionale e da
questa Suprema corte, la doglianza è infondata.
La decadenza prevista dall'art. 122, ult. comma, c.c. nell'ipotesi che l'azione di nullità del matrimonio sia esercitata dopo un anno dalla cessazione dei vizi della volontà (violenza, timore), trova la
sua giustificazione, non nel riconoscimento giuridico di una co
munione di vita instaurata di fatto fra persone di sesso diverso, ma in una sorta di sanatoria del negozio costitutivo del rapporto, sulla base di un valido consenso sopravvenuto (sia pure tacita
mente) desumibile dalla perdurante convivenza.
L'ordinamento canonico, ancor più improntato a favorire la
conservazione del vincolo matrimoniale, disciplina analiticamente
in numerosi canoni (can. 1133 ss. nel codice vigente, can. 1156 ss.
in quello che entra in vigore il 27 novembre 1983) gli istituti della
convalidatio e della sanatio in radice. Con quest'ultimo, in
particolare, il vizio viene sanato anche senza una espressa rinno
vazione del consenso e gli effetti del matrimonio retroagiscono al momento della sua celebrazione. Mediante questi diversi istituti, viene prevista una sanatoria del negozio costitutivo del rapporto, valorizzandosi un valido consenso sopravvenuto sia pure tacita
mente, analogamente a quanto disposto dall'ordinamento italiano
con il citato art. 122 c.c.
Può allora concludersi su questo punto con l'affermazione che
le differenze riscontrabili, rispettivamente nel diritto canonico ed
in quello statuale, in tema di efficacia del consenso sopravvenuto degli sposi per la validità del negozio matrimoniale viziato nel momento genetico, non sono tali da superare quel margine di
maggiore disponibilità che l'ordinamento statuale si è imposto rispetto a quello canonico. Dette differenze, pertanto, non hanno efficacia impeditiva dell'esecutività agli effetti civili della sentenza
ecclesiastica che abbia pronunziato la nullità del matrimonio
religioso, trascritto, avendo accertato l'esistenza di un vizio inva lidante l'originario consenso matrimoniale e l'inesistenza di una
successiva sanatoria basata sulla sopravvivenza di un valido
seppure tacito consenso (situazione questa ricorrente nella specie). Con il secondo profilo impugnativo enunciato nel primo motivo
di ricorso, si sostiene la illegittimità della dichiarazione di esecu
tività della pronunzia ecclesiastica di nullità in quanto la causa
ritenuta invalidante per quell'ordinamento (metus reverentialis) non sarebbe prevista da quello statuale.
Anche questa censura non è fondata. Si deve osservare che
(come si è già rilevato) l'esigenza di tutela dell'ordine pubblico, richiamata nella decisione della Corte costituzionale n. 18 del 1982 a proposito dei limiti alla dichiarazione di esecutività delle
sentenze ecclesiastiche in materia matrimoniale, si impone quando dette sentenze facciano applicazione di norme che contrastino con
i principi essenziali dell'ordinamento statuale, i quali non sono violati né dalla mera differenza di regime giuridico tra vincolo matrimoniale civile e canonico né dalla mancanza di una sostan
ziale rispondenza tra le cause di nullità del vincolo nei due
ordinamenti, purché tali differenze non incidano sui fondamentali
principi dell'ordinamento come sanciti dalla Costituzione e come
desumibili da solenni dichiarazioni contenute in convenzioni in
ternazionali (Cass. n. 3024/82, id., 1982, I, 1880; n. 5026/82, cit.). Ciò premesso, si rileva che il cosiddetto metus reverentialis non
trova riscontro nella normativa canonica come autonoma causa di
nullità. Il can. 1087 stabilisce che « Invalidum quoque est matri
monium initum ob vim metum gravem ab extrinseco et
iniuste incussum, a quo ut quis se liberet, eligsre cogatur matri
monium », e aggiunge: « Nullus alius metus, etiamsi det causam
contractui, matrimonii nullitatem secumfert ».
Il nuovo codice di diritto canonico ripete la prima formula, sostituendo soltanto ali 'iniuste, la precisazione « etiam haud con
sulto incussum» (can. 1103). Le formulazioni normative rispettivamente della disposizione
canonica e dell'art. 122, 1° comma, c.c., sono molto simili; e, se la norma statuale aggiunge alla « gravità » la qualificazione di « eccezionale », quella canonica sottolinea lo stesso sostanziale
fenomeno quando esige che il timore sia di tale gravità da non
offrire al soggetto nessun altro scampo che quello di scegliere, contro la sua volontà, la celebrazione del matrimonio.
Soltanto la dottrina e la giurisprudenza hanno configurato un
particolare tipo di timore, quello cosiddetto « reverenziale », che
chiarisce la fonte del timore, e lo qualifica per il rapporto di
soggezione esistente fra colui che incute il timore ed il soggetto che lo subisce; rapporto che per varie circostanze, tra cui quella della durata, implica già in sé elementi di gravità. Ma detto
orientamento dottrinale e giurisprudenziale precisa che « sola
reverenda non est gravis sed levis, etiamsi timetur parentum aut
superiorum indignatio », e che tale indignazione assume carattere di gravità « si grave damnum afferre potest filiis, e.g. si inferatur minis gravibus (eiectionis a domo paterna, amissionis hereditatis
etc.), verberationibus, sevitiis corporalibus, gravibus iugiis, preci bus istantibus et diuturnibus » e tale da snervare la volontà dei
figli e piegare la loro forza di resistenza.
Sussistendo queste circostanze, la giurisprudenza ecclesiastica riscontra i caratteri della gravità, estrinsecità e decisività previsti della norma canonica per la rilevanza invalidante del timore.
Si può pertanto ritenere che il cosiddetto metus reverentialis,
quale causa di nullità del matrimonio applicabile da parte dei tribunali ecclesiastici, è rilevante, secondo quella dottrina e giu risprudenza, non quando consiste nella sola reverentia dovuta a
persona cui uno degli sposi sia legato da un particolare rapporto, ma unicamente nel caso in cui a questa situazione, già elemento
negativo, si aggiungano circostanze tali da integrare gli estremi della gravità, della estrinsecità e della decisività, previsti dalla norma canonica.
Le differenze, quindi, in tema di rilevanza del timore quale vizio della volontà matrimoniale, fra l'ordinamento canonico e
quello statuale, non costituiscono ostacolo di ordine pubblico all'efficacia in Italia delle sentenze ecclesiastiche di nullità del matrimonio concordatario, in quanto non superano quel limite di cui ai principi sopra cennati. (Omissis)
V
Svolgimento del processo. — Il Tribunale ecclesiastico di
Modena, con sentenza 29 giugno 1981 ratificata dal Tribunale ecclesiastico di Bologna con decreto 11 febbraio 1982, dichiarò nullo per difetto di consenso il matrimonio religioso celebrato il 25 maggio 1974 in Piacenza tra Enrico Barboni e Giuseppina Scarabelli Opizzi. Il difetto di consenso fu indicato da quei giudici nella esclusione da parte della moglie del bonum prolis.
Essendo stati trasmessi alla Corte d'appello di Bologna quei provvedimenti, con decreto 22 aprile 1982 del Supremo tribunale della Segnatura apostolica, la corte suddetta, con ordinanza 14
luglio 1982, negò la dichiarazione di esecutività della sentenza ecclesiastica suindicata. Ritenne la corte che, essendo stata la esclusione del bonum prolis voluta dalla moglie al momento della celebrazione del matrimonio senza che lo sposo ne fosse a
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
conoscenza, si trattava soltanto di un internus difformis animi consensus della sposa del tutto ignorato dall'altro coniuge. Pertan
to, secondo la corte bolognese, quel segreto intendimento, pur se riconosciuto rilevante dal giudice ecclesiastico, non poteva avere valore per quello italiano in quanto in contrasto con i
principi di riconoscibilità, affidamento e responsabilità posti alla
base del vivere civile secondo il nostro ordinamento, e quindi con
principi di ordine pubblico. Il Carboni ha proposto ricorso per cassazione con due motivi,
illustrati anche con memoria, notificandolo alla Scarabelli, la
quale non ha svolto alcuna attività difensiva.
Motivi della decisione. — Il ricorrente Carboni, con il motivo
primo (secondo l'ordine dei titoli e quello logico), ha censurato
l'ordinanza impugnata per violazione dell'art. 17 1. 27 maggio 1929 n. 847, nonché dell'art. 7 Cost, e dell'art. 82 c.p.c., per avere la corte di merito omesso di considerare che — poiché è
unico limite alla dichiarazione di esecutività delle sentenze eccle
siastiche dichiarative della nullità del matrimonio religioso per esclusione del bonum prolis l'esigenza di tutelare la buona fede
dell'altro coniuge che non abbia dato luogo a quel motivo di
nullità — nella specie era illogico, invece, negare sulla base di
quel principio l'esecutività della sentenza contro la volontà del
coniuge il quale aveva promosso il giudizio di nullità in sede
ecclesiastica deducendo il suddetto vizio e aveva chiesto il
riconoscimento della pronunzia a lui favorevole.
Il motivo è fondato per la necessaria tutela del coniuge in
buona fede che non abbia dato luogo al motivo di nullità del
matrimonio, senza alcun contrasto con il principio fondamental
mente affermato dalla Corte costituzionale.
Quest'ultima, invero, con la decisione 2 febbraio 1982, n. 18
(Foro it., 1982, I, 934), ha dichiarato costituzionalmente illegitti mo l'art. 1 1. 27 maggio 1929 n. 810, relativa alla esecuzione del
concordato tra l'Italia e la Santa Sede, limitatamente alla esecu
zione dell'art. 34, 6° comma, del medesimo e dell'art. 17, 2°
comma, 1. 27 maggio 1929 n. 847, nella parte in cui le norme
suddette non prevedono che alla corte d'appello, all'atto di
rendere esecutiva la sentenza del tribunale ecclesiastico dichiara
tivo della nullità del matrimonio, spetta accertare, oltre che il
rispetto, nel relativo procedimento, del diritto di agire e resistere
di ognuna delle parti, la non contrarietà delle disposizioni della
sentenza emessa da quel giudice all'ordine pubblico italiano.
Giova, fin da ora osservare che nella citata decisione non vi è
alcuna statuizione circa la provenienza della domanda di dichia
razione di nullità o di quella di esecutività della sentenza ec
clesiastica.
In applicazione di quel principio questa Suprema corte ha già
precisato che, in linea generale, la riserva mentale di una delle
parti in materia negoziale, come si evince da numerose disposi zioni del codice civile, essendo un fenomeno psichico prima ancora che giuridico, di per sé non riconoscibile, è assolutamente irrilevante ai fini del diritto, in vista della tutela della buona fede
e dell'affidamento incolpevole di coloro che siano venuti in
contatto con l'autore della riserva stessa. Tale imperativo, ispirato a somme ragioni di civilità nei confronti anche degli stranieri, è
ostativo, per quel suo carattere, alla ricezione nell'ordinamento nazionale di sentenze rese da organi giurisdizionali di altri
ordinamenti, ai sensi dell'art. 31 disp. c.c. e dell'art. 797, n. 7,
c.p.c., per l'essenzialità dei valori in gioco e della loro inerenza alle basi stesse della civile convivenza.
Il divieto, per le stesse ragioni, ha valore anche per quelle pronunziate in materia matrimoniale dai tribunali eccelsiastici, nonostante la maggiore disponibilità dell'ordinamento italiano nei confronti di quello canonico.
Peraltro, mentre, in linea generale, il principio della tutela della buona fede e dell'affidamento incolpevole, quale regola fondamen tale del nostro ordinamento, impedisce il riconoscimento della
esecutività delle sentenze ecclesiastiche che abbiano dichiarato la nullità del matrimonio per una riserva mentale sul bonum prolis o altro bonum previsto dalla legislazione canonica, d'altra parte,
pur sempre in applicazione di quel principio, è stato recentemen
te affermato da questa Suprema corte che non vi è violazione di
quel principio né dell'ordine pubblico italiano, nel riconoscimento
di quelle sentenze quando l'esclusione del bonum sia stata
previamente manifestata all'altro coniuge, tanto se costui si sia
limitato a prenderne atto, quanto se vi sia stato precedente consenso a tale difformità tra volontà e dichiarazione (sez. un. 1°
ottobre 1982, n. 5026, id., 1982, I, 2722; tale principio è stato
riaffermato da questa Suprema corte con le successive sentenze 24 dicembre 1982, n. 7128, id., 1983, I, 36; 28 gennaio 1983, n.
770, id., Rep. 1983, voce Matrimonio, n. 318). Al riguardo è da rilevare che la corte regolatrice ha affermato
quel principio, con rigorosa tutela del coniuge incolpevole, con
riferimento a domande di dichiarazione di nullità in sede eccle
siastica e di conseguente pronunzia di esecutività da parte del
giudice italiano proposte dallo stesso coniuge autore della riserva
contro un bonutn del matrimonio. Si è considerato, infatti, in
quei casi il presunto ingiusto pregiudizio del coniuge incolpevole
dipendente non soltanto dalla nullità del matrimonio, ma concre tamente dalla eseguibilità, nel campo civile, della sua declaratoria.
Invece, nella specie, sia il giudizio ecclesiastico, con specifico riferimento alla esclusione del bonum prolis, sia quello innanzi
alla corte d'appello sono stati promossi dal marito, e cioè dal
coniuge diverso da quello autore della riserva che, secondo la
corte bolognese, non era stata comunicata all'altro (la quale affermazione ha formato oggetto del secondo motivo del ricorso).
Ciò premesso, è facile osservare che, indipendentemente dalla contestazione su tale comunicazione, che logicamente e giuridica mente è subordinata e successiva a quella sulla tutela del coniuge incolpevole, non possono ravvisarsi in linea assoluta, per ogni caso, un pregiudizio per quest'ultimo dalla pronunzia di nullità del matrimonio, né un'indisponibilità nella tutela, da parte del
medesimo, del proprio precedente affidamento.
Indubbiamente, è ben frequente che la esecutività della senten za dichiarativa della nullità del matrimonio rechi danni, patrimo niali o no, al coniuge che non abbia conosciuto quella contraria
riserva. Tuttavia, non può negarsi che la molteplicità delle condizioni personali, patrimoniali, ambientali e morali può dar
luogo ad ipotesi nelle quali il venir meno dell'efficacia di quel matrimonio, nullo nel campo religioso, rechi a quest'ultimo co
niuge vantaggi o, almeno, elimini quei pregiudizi e turbative, anche di ordine morale, che possono derivare dalla nullità di
quel vincolo, accertata dal giudice ecclesiastico. Infatti, è facile rilevare che l'esecutività di quel provvedimento consente al sud detto coniuge possibilità di un matrimonio più conveniente o,
comunque, più corrispondente, proprio in materia di esclusione di un bonum, ai suoi sentimenti ed alle sue opinioni religiose e morali. In particolare, la volontà di uno dei coniugi contraria al bonum prolis lede aspettative di carattere anche assistenziale, e non soltanto morali, generalmente inerenti al matrimonio, e che, pur senza espresso richiamo, sono riconosciute implicitamente dallo stesso art. 29 Cost, con il riferimento alla « società naturale fondata sul matrimonio », che non può intendersi, con quell'ag
gettivo, come estesa anche ai figli.
Ne consegue che la tutela di quell'affidamento riconosciuto dalle citate sentenze attraverso il diniego della esecutività della
pronuncia ecclesiastica a favore del coniuge non partecipe delle considerate ragioni di nullità del matrimonio religioso trova una
giustificazione, come recentemente affermato da questa Suprema corte (sent. 17 febbraio 1983, n. 1225, id., 1983, I, 644), solo
quando quel coniuge invochi la suddetta tutela in relazione alla
propria situazione soggettiva. Altrettanto non può dirsi, secondo la suddetta sentenza, nel caso inverso nel quale, invece, sia stato
proprio quel coniuge a dedurre la nullità del matrimonio o a chiedere l'esecutività della relativa decisione ecclesiastica. Non
può, in tal caso, farsi rientrare nei rigorosi limiti dell'ordine
pubblico anche la tutela della buona fede del coniuge che
respinge quella tutela e, addirittura, la invoca in senso contrario senza che sussista alcuna ragione di indisponibilità di quel diritto.
Né si potrebbe, eventualmente, dedurre un interesse opposto dell'altro coniuge, e cioè di quello autore della riserva, perché costui non può chiedere la tutela di una buona fede propria, per l'inesistenza di questa da parte sua, né di quello incolpevole per la disponibilità di ogni difesa al riguardo da parte di quest'ulti mo.
Non è, infine, da trascurare che l'art. 129 bis c.c., introdotto dall'art. 21 1. 19 maggio 1975 n. 151, nel prevedere un'indennità a carico del coniuge al quale è imputabile la nullità del matrimonio e a favore di quello in buona fede « anche in mancanza di prova del danno sofferto », manifesta di voler tutelare costui con
particolare rigore. Sarebbe, perciò, in contrasto con il principio ispiratore di tale norma escludere quello in buona fede dalla
possibilità di far valere in proprio favore la nullità alla quale non ha dato causa.
Conseguentemente, deve accogliersi il ricorso per questa parte, rimanendo assorbite le doglianze relative al dedotto vizio di motivazione dell'ordinanza impugnata sulla esclusione di una conoscenza da parte del ricorrente della riserva mentale della
moglie, per la irrilevanza di tale accertamento in seguito all'ac
coglimento del ricorso per l'altro motivo.
L'ordinanza suddetta va cassata con rinvio ad altra sezione della stessa Corte d'appello di Bologna, la quale dovrà attenersi al principio per il quale non vi è contrasto con l'ordine pubblico italiano da parte di una sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio per esclusione del bonum prolis attraverso
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1519 PARTE PRIMA 1520
riserva mentale di uno dei coniugi, non conosciuta dall'altro,
quando sia il coniuge che non ha dato luogo alla nullità stessa a
richiedere la esecutività della suddetta pronunzia, o aderisca alla
relativa richiesta. (Omissis)
VI
Motivi della decisione. — I tribunali ecclesiastici hanno dichia
rato la nullità del matrimonio concordatario, a suo tempo con
tratto tra Orlando Giuseppe e Fato Silvia, ob exclusionem
perpetuitatis vinculi in actrice, cioè per la mancanza di una delle
proprietà essenziali dell'istituto matrimoniale canonico, il bonum
sacramenti attinente all'indissolubilità del vincolo coniugale, e
sclusione in questo caso non apposta come condizione al negozio matrimoniale ovvero altrimenti concordata fra i nubendi, perché non manifestata prima del matrimonio dalla Fato al futuro
consorte, il quale celebrò le nozze ignaro del proponimento della
donna (propositum in mente retentum). Trattandosi appunto di una riserva mentale, che ha posto in
essere una divergenza intenzionale fra dichiarazione e volontà,
ignara l'altra parte, e perciò in contrasto con i principi della
responsabilità e dell'affidamento e della buona fede del coniuge
incolpevole, il p.g. ha ritenuto che ricorra una ipotesi ostativa, ai
sensi dell'art. 31 disp. prel. c.c. e dell'art. 797, n. 7, c.c., per motivi attinenti all'ordine pubblico, alla ricezione, nell'ordinamen
to nazionale, della citata sentenza, resa da organo giurisdizionale di altro ordinamento.
Questi ultimi principi trovano riscontro nella sentenza n. 18 del
22 gennaio 1982 (Foro it., 1982, I, 934) della Corte costituzionale
che dichiarò, fra l'altro, l'illegittimità costituzionale dell'art. 1 1.
27 maggio 1929 n. 810, limitatamente alla esecuzione data all'art.
34, 6° comma, del Concordato fra Stato e Chiesa, e dell'art. 17, 2°
comma, 1. 27 maggio 1929 n. 847 « nella parte in cui le norme
suddette non prevedono che alla corte d'appello, all'atto di
rendere esecutiva la sentenza del tribunale ecclesiastico, che
pronuncia la nullità del matrimonio, spetta accertare che nel
procedimento innanzi ai tribunali ecclesiastici sia stato assicurato
alle parti il diritto di agire e resistere in giudizio a difesa dei
propri diritti e che la sentenza medesima non contenga disposizio ni contrarie all'ordine pubblico italiano ».
Sul punto specifico concernente la tutela dell'ordine pubblico, onde impedire l'attuazione nel nostro ordinamento di disposizioni contenute nelle medesime sentenze che siano ad esso contrarie, lo
stesso giudice costituzionale ha enunciato che il citato ordine
pubblico consiste nel complesso « delle regole fondamentali poste dalla Costituzione e dalle leggi a base degli istituti giuridici in
cui si articola l'ordinamento positivo nel suo perenne adeguarsi all'evoluzione della società » ed ha pure sancito l'inderogabilità di
siffatta tutela, in quanto « imposta soprattutto a presidio della
sovranità dello Stato, quale affermata nel comma 2° dell'art. 1 e
ribadita nel comma 1° dell'art. 7 Cost. », aggiungendo che « en
trambi questi principi vanno ascritti nel novero dei principi
supremi dell'ordinamento costituzionale, e pertanto ad essi non
possono opporre resistenza le denunciate norme (concordatarie),
pur assistite dalla copertura costituzionale, nella parte in cui si
pongono in contrasto con i principi medesimi ».
Alla citata sentenza della Corte costituzionale ha fatto seguito l'altra delle sezioni inite della Cassazione n. 5026 del 1° ottobre 1982 (id., 1982, I, 2799) che ha ribadito il principio che « la
dichiarazione di esecutività può essere negata soltanto in presenza di una contrarietà ai canoni essenziali a cui si ispira in un
determinato momento storico il diritto dello Stato ed alle regole fondamentali che definiscono la struttura dell'istituto matrimonia
le, cosi accentuata da superare il margine di maggiore disponibili tà che l'ordinamento statuale si è imposto rispetto all'ordinamento
canonico, sicché, ai fini della dichiarazione di esecutività, non ha
portata impeditiva una pur rilevante differenza di disciplina fra le
cause di nullità del matrimonio considerato nei due ordinamenti
che non superi quel livello di maggiore disponibilità tipico dei
rapporti fra Stato e Chiesa cattolica».
Nel risolvere poi il rapporto fra le figure di nullità del
matrimonio ecclesiastico per riserva mentale ovvero per accordo
simulatorio, in rapporto all'ordine pubblico italiano, nell'intento
di salvaguardare il principio della tutela della buona fede e
dell'affidamento incolpevole — imperativo ispirato a somme ra
gioni di civiltà — le sezioni unite hanno ritenuto, nella citata
sentenza, che la lesione di detto principio, riscontrabile nella dichiarazione di nullità per riserva mentale, sia «di tale gravità da superare anche il margine di maggiore disponibilità che l'ordi
namento italiano si è imposto nei confronti dell'ordinamento
canonico », per cui il principio della tutela della buona fede e
dell'affidamento incolpevole deve essere considerato come una
delle regole fondamentali, poste dalla Costituzione e dalle leggi a
base degli istituti giuridici apprestati dall'ordinamento positivo nel
suo perenne adeguarsi all'evoluzione della società, in cui si
sostanzia l'ordine pubblico italiano relativamente alle vicende dei
matrimoni concordatari.
In tal caso le sezioni unite hanno escluso l'esecutività della
pronuncia ecclesiastica nell'ordinamento dello Stato, perché con
traria all'ordine pubblico italiano, ai sensi dell'art. 1 1. n. 810 del
1929 e dell'art. 17 1. n. 847 del 1929, nel testo risultante dalla
dichiarazione di illegittimità costituzionale operata dalla sentenza
della Corte costituzionale n. 18 del 1982 innanzi citata, a meno
che la esclusione del bonum sacramenti sia in qualche modo
uscita dalla sfera psichica del soggetto e sia stata esternata
all'altra parte, tanto nella ipotesi che quest'ultima abbia solo
preso atto della esclusione, quanto nel caso che sia addirittura
intervenuto fra le parti un consenso per la celebrazione del
matrimonio nonostante la riserva di uno degli sposi sulla natura
sacramentale del vincolo, per cui, in tale ipotesi, non opera più il
limite costituito dalla esigenza di tutelare la buona fede e
l'affidamento incolpevole dell'altro coniuge. Non perfettamente in sintonia con la suesposta sentenza delle
sezioni unite, che ha attribuito rilevanza dirimente all'esigenza di
tutela della buona fede e dell'affidamento nel caso di nullità
ecclesiastica per riserva mentale unilaterale circa il bonum sa
cramenti o gli altri bona matrimoni (prolis, fidei), è la successiva
sentenza della Cassazione n. 1225 del 17 febbraio 1983 (id., 1983,
I, 644), con la quale il Supremo collegio, dopo aver riconfermato
alcuni principi di fondo in ordine all'accettazione nel nostro
ordinamento di una pluralità di sistemi in materia matrimoniale, e riconosciuto, in particolare, attraverso il Concordato, l'accetta
zione di quello canonico con la relativa giurisdizione (definita, in
sentenza della Corte cost. n. 18/82, « uno dei cardini del vigente sistema concordatario matrimoniale »), ha osservato che l'istituto
matrimoniale, nel vigente ordinamento dello Stato, si è evoluto
nel senso di confermare la stabilità del vincolo, purché fondato
su un libero e valido consenso, sia nel sorgere che nella perma nenza della comunione materiale e spirituale dei coniugi (v., fra
l'altro, legge sul divorzio e nuova formulazione dell'art. 123 c.c.
introdotta con la riforma del 1975).
Ha però osservato il Supremo collegio che « la tutela del
l'affidamento incolpevole, riferita dalla nostra legge agli istituti
attinenti ai rapporti patrimoniali, non può rientrare in questo tipo di ordine pubblico, riguardante l'istituto matrimoniale concordata
rio, anche perché dovrebbe conseguenzialmente estendersi a tutte
le cause di nullità in cui possa essere invocabile l'affidamento
incolpevole di una delle parti: il che risulta implicitamente, ma
positivamente, escluso dal nostro ordinamento (art. 129 bis ex.),
che, in tema di nullità del matrimonio civile, dalla buona fede di
uno dei coniugi fa derivare effetti patrimoniali, non il manteni
mento del rapporto ».
Da quanto innanzi premesso sorge il quesito, fatto proprio dalla Cassazione in quest'ultima sentenza, se in concreto debba
ricevere tutela (come dire di ufficio e pertanto imposta) l'affida
mento di chi detta tutela non invochi.
A parte ogni questione in ordine all'estensione del concetto
dell'affidamento all'istituto matrimoniale, inteso come costituzione del vincolo, al quale non è affatto congeniale, attesa la ricono sciuta sacralità dell'unione, che non è meramente negoziale, riconosciuta dal Concordato, con le relative implicazioni di nulli tà per vizi di consenso, v'è da osservare che giustificata appare detta tutela solo quando il coniuge incolpevole la invochi facen dola propria e non quando, col solo riguardo ad un astratto e non ben definito concetto di ordine pubblico internazionale, non vi sia richiesta in tali sensi da parte del coniuge in buona fede.
Pertanto, se è valido il principio, senz'altro ispirato a civiltà
giuridica, dell'essenzialità della pienezza del consenso per la
validità del matrimonio, affermato dal Supremo collegio nella sentenza n. 1225 del 1983 citata, nel senso che « l'affidamento
incolpevole può trovare tutela solo ad istanza della parte che
eccepica il proprio affidamento quale risulta dalla sentenza cano nica da eseguire », può dirsi altresì valido il corollario, che
questa corte di merito ritiene di poter affermare, e cioè che, ove la esecutività, come nella specie in esame, venga chiesta dal
coniuge che abbia posto in essere la stessa causa di nullità, inconsapevole l'altro coniuge, se quest'ultimo non chieda la tutela del proprio affidamento, in base all'altro principio, non meno
fondamentale, della domanda (art. 99 c.p.c. con riguardo all'art. 24 Cost.), che rientra nel potere dispositivo della parte, che intenda far valere, ricorrendo un interesse, un proprio diritto, detta esecutività non possa essere negata.
La citata estensione del concetto di tutela, ancorata al principio della domanda, è conforme all'ordinamento interno e non appare
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
contraria ai richiamati principi essenziali dell'ordinamento costitu
zionale, che ha fatto proprio, in materia matrimoniale, l'ordina
mento canonico (art. 7 Cost.), che per decenni ha trovato
puntuale applicazione, ben inserito nell'altro principio della liber
tà religiosa, anch'esso garantito dalla Costituzione (art. 19), senza
alcun turbamento o violazione dell'ordine pubblico, tant'è vero
che sono state ritenute ammissibili, in detta materia, deroghe al
diritto statale, sia nella disciplina del negozio costitutivo del
matrimonio che nella giurisdizione, fatte rientrare anch'esse « nel
novero dei supremi principi di ordine costituzionale ».
Conformemente a detto indirizzo la legge civile (art. 128 c.c.), secondo una autorevole interpretazione della dottrina, ha ricono
sciuto gli effetti del matrimonio putativo al matrimonio concorda
tario, anche quando la causa di nullità ritenuta dalla sentenza
ecclesiastica sia prevista soltanto dall'ordinamento canonico.
11 tentativo della difesa della Fato di far rientrare, attraverso
l'esame della sentenza ecclesiastica, la nullità in una ipotesi di
vizio di consenso per violenza o timore di eccezionale gravità, con richiamo all'art. 122 c.c., non può avere successo in questa sede di delibazione, poiché nello speciale procedimento per la
dichiarazione di esecutività delle sentenze ecclesiastiche che pro nunciano la nullità del matrimonio, il riesame del merito non può aver luogo.
L'avvenuto rispetto dei diritti essenziali di difesa delle parti nel
processo ecclesiastico risulta dagli atti nonché dal decreto di
trasmissione della segnatura apostolica, ai sensi dell'art. 34 del
Concordato, in cui s'è dato atto dell'avvenuta osservanza delle
norme « stabilite dal diritto canonico e dal Concordato ».
In contrario non è stato dedotto alcunché, che abbia determi
nato un vizio nel processo, controllabile in questa sede.
La « definitività » della sentenza da delibare è confermata, in
fine, dallo stesso decreto della segnatura apostolica. Può pertanto darsi luogo, su istanza della ricorrente Fato
Silvia, alla dichiarazione di esecutività della decisione ecclesiastica
dichiarativa della nullità del matrimonio in questione, sulla quale domanda non v'è opposizione di Orlando Giuseppe.
CORTE DI CASSAZIONE; Sezione lavoro; sentenza 28 aprile 1984, n. 2674; Pres. Afeltra, Est. Tondo, P. M. Paolucci
(conci, parz. diff.); I.n.p.s. (Avv. Bartoli, Maresca, Verran
do) c. Goffi (Avv. Mina). Cassa Trib. Brescia 27 agosto 1980.
Danni in materia civile — Controversie previdenziali — Ratei
arretrati di pensione d'invalidità — Svalutazione monetaria — Rilevanza non automatica — Criteri di determinazione —
Fattispecie (Cod. civ., art. 1224).
In caso di tardivo adempimento da parie dell'ente previdenziale della prestazione pensionistica, la svalutazione monetaria pro dottasi durante la inora non giustifica un risarcimento automa
tico nella misura della svalutazione stessa, bensì un risarcimen
to commisurato alla prova dell'effettivo pregiudizio patrimoniale subito dal creditore. (1)
(1) Con la sentenza in epigrafe, la Cassazione, sulla scia di altri giudicati di poco precedenti (Cass. 25 ottobre 1983, nn. 6309, 6310, 6311, 6312, Foro it., Rep. 1983, voce Danni civili, nn. 183-185), getta l'ul tima manciata di terra sulle residue speranze — poche, invero — di ve der risolto, con un orientamento meno formalistico che per l'addietro, il
problema della rivalutazione dei crediti previdenziali. Nella specie, la
corte, ribadendo che in caso di ingiustificato ritardo nella corresponsione della prestazione previdenziale non risulta applicabile « lo speciale meccanismo di salvaguardia apprestato, per i soli crediti di lavoro, dall'art. 429, 3° comma, c.p.c. », ai fini della rivalutazione della
prestazione stessa, ha ritenuto ancora una volta di poter risolvere la spi nosa questione facendo ricorso all'art. 1224, 2° comma, c.c., con il conse
guente onere probatorio ivi prescritto: ultimo relitto, cui i giudici romani
disperatamente si appigliano, del naufragio occorso alla giurisprudenza nella creazione di quello che è stato definito « il diritto dell'inflazio ne » (Tucci, Crediti previdenziali e risarcimento del danno da svaluta
zione monetaria, in Riv. giur. lav., 1981, III, 274). Tale orientamento,
cui, salve sporadiche eccezioni (v., con ampie motivazioni, Pret. Milano 17 ottobre 1979, Foro it., Rep. 1980, voce Lavoro e previdenza (controversie), n. 279), aderisce la magistratura di legittimità e di merito
(oltre le già citate 6309, 6310, 6311 e 6312/83, v., in tal senso, Cass. 29 ottobre 1983, n. 6468, Foro it., Rep. 1983, voce Danni civili, n. 187, nonché la nota di richiami di C. Guarnieri, id., 1983, I, 82), tro va il suo caposaldo in Corte cost. 29 dicembre 1977, n. 162, id., 1978, I, 7, dove era affermata l'inapplicabilità del meccanismo rivalutativo di cui all'art. 429, 3° comma, ai crediti previdenziali. La
Cassazione, nell'occasione odierna, senza neanche tentare un riesame delle motivazioni che escluderebbero i crediti in parola dall'ambito di
Il Foro Italiano — 1984 — Parte I-98.
Svolgimento del processo. — Con sentenza del 27 agosto 1980, il Tribunale di Brescia, pronunciando sull'appello proposto dal
l'I.n.p.s., nei confronti di Francesco Goffi, avverso la sentenza del
Pretore di Brescia dell'8 febbraio 1980, in parziale riforma di tale
decisione, dichiarava l'I.n.p.s. tenuto a pagare a titolo di maggior danno ex art. 1224 c.c. la rivalutazione dei ratei arretrati della
pensione di invalidità, nella misura determinata dagli indici
1STAT.
Richiamati i principi enunciati dalle sezioni unite di questa corte con sent. n. 3776 del 4 luglio 1979 (Foro it., 1979, I, 1668), il tribunale riteneva che, avendo il Goffi dedotto di essere piccolo coltivatore diretto di un fondo di circa 6 piò a prato, granturco e
frumento e di aver dovuto limitare, a causa dell'invalidità so
operatività del rimedio rivalutativo processualistico e limitandosi, anzi, a considerarle sottintese, ha vestito per l'ennesima volta i panni dello strenuo difensore di una tradizione che, in verità, appare ormai logora e non rispondente a quei criteri di tutela dei crediti di lavoro (e non, si badi bene, della più ristretta categoria dei crediti del lavoratore) cui certamente si è ispirato il legislatore nel formulare il testo del novellato art. 429, 3° comma (cfr. Cass. 9 febbraio 1983, n. 1061, id., 1984, I, 1358, con nota di richiami).
Prescindendo, infatti, dalle pensioni c.d. « sociali », le quali nessuna attinenza hanno con la prestazione lavorativa, la pensione di invalidità, al pari di quella di vecchiaia, adempie alla stessa funzione di tutela della dignità e personalità del lavoratore assolta dalla retribuzione, che dalla pensione è appunto sostituita; onde, con tutta evidenza, le
motivazioni, pur sottintese dalla corte, dell'esclusione della prestazione previdenziale dalla rivalutazione ex art. 429, 3° comma, appaiono più il frutto di un'astratta petizione di principio che non il risultato, come
pure sarebbe stato ragionevole attendersi, di una meditata valutazione
giuridica. Dulcis in fundo, la riportata sentenza ha fatto un sol boccone di
quanto di positivo poteva forse ravvisarsi nell'ormai noto giudicato delle sezioni unite 3776/79, al quale, peraltro inspiegabilmente, si richiama. Quella sentenza, infatti, pur fondandosi sulla ritenu ta applicabilità dell'art. 1224, 2° comma, c.c., ai crediti di lavoro arretrati dei pubblici dipendenti, statuiva, al tempo stesso, che quando creditore fosse il « modesto consumatore », il giudice potesse riferirei — per trarre il proprio convincimento circa la sussistenza di « ulteriori danni » rispetto agli interessi legali — a presunzioni semplici, ed in
particolare « alle normali e personali necessità di impiegare il denaro
per gli ordinari bisogni della vita e quindi agli indici ufficiali dei
prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati ». Nel caso di
specie l'atfermazione dell'esatto contrario (altro che « presso che ormai univocamente recepiti principi », secondo quanto lasciava intendere
Cass., sez. un., 29 luglio 1983, n. 5218, id., 1983, I, 2390, ragguaglian do « in ipotesi » il maggior danno alla « intervenuta riduzione del
potere di acquisto della moneta ») riconduce, invece, e con sgomen to, ai non dimenticati anni in cui la corte aveva prestato orecchi da mercante alle pur legittime richieste di adeguamento monetario dei crediti verso lo Stato, disconoscendo invero l'intera problematica sulla base di capziose argomentazioni di stampo ottocentesco.
Escludere, come fa la riportata decisione, che per il fruitore di una
pensione di invalidità lo specifico pregiudizio possa consistere « nel minore potere di acquisto dei beni di consumo che la somma dovuta
possiede al momento del tardivo pagamento, perché ciò equivarrebbe a dare rilevanza alla svalutazione monetaria in sé considerata », con la
conseguenza che anche il pensionato « dovrà allegare un diverso
pregiudizio particolare », equivale ad addossare al pensionato stesso un onere probatorio non solo complicato ed inutile, ma anche oltraggio so, sol che si pensi agli stenti che notoriamente sopporta il destinatario di una prestazione previdenziale.
Ma vi è di più: anche a voler prescindere dall'espresso riconosci mento della funzione tipicamente alimentare dei crediti previdenziali operato nel passato dalla Corte costituzionale (9 marzo 1967, n. 22, id., 1967, I, 684; 20 febbraio 1969, n. 22, id., 1969, I, 807; 8 luglio 1969, n. 116, ibid., 2076), è appena il caso di rilevare come
l'applicazione del rigido principio nominalistico, cui la corte espressa mente dichiara di attenersi, ha condotto, nel caso de quo, all'aberrante e grottesca conclusione di non ritenere sufficienti le prove addotte dal
pensionato a dimostrazione dei danni subiti a causa del ritardato
adempimento, come se l'aver corrisposto un salario ad un terzo, che
eseguiva in sua vece la coltivazione di un campicello, non fosse di per sé la prova di un depauperamento tale da consentire l'adeguamento dell'importo dei ratei previdenziali arretrati al valore corrente della moneta. In altre parole, il ritardo nella fruizione della pensione ha
costretto il destinatario della stessa a reperire in altro modo le somme occorrenti per la coltivazione del proprio fondo: come, da dove e da chi tali somme provengano non assume alcuna rilevanza a fronte della situazione di fatto prodottasi medio tempore, e cioè la svalutazione, la quale non può, intuitivamente non aver danneggiato il pen sionato in questione. La sola notorietà del fatto che la svalutazione monetaria arreca i maggiori danni ai titolari di bassi redditi avrebbe,
dunque, dovuto condurre i giudici a tutt'altre conclusioni: al contrario, l'occasione è apparsa propizia per conferire, attraverso un singolare iter interpretativo, l'ennesima patente di legittimità all'operato di una burocrazia agonizzante che fa del rinvìo e della inefficienza la sua
prassi quotidiana.
S. Casamassima S. Casamassima
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