sezione I civile; sentenza 13 febbraio 2003, n. 2130; Pres. Delli Priscoli, Est. Morelli, P.M.Carestia (concl. conf.); Soc. Bettoni e C. (Avv. Scarnati) c. Min. giustizia (Avv. dello StatoPalatiello). Conferma App. Venezia, decr. 7 dicembre 2001Source: Il Foro Italiano, Vol. 126, No. 9 (SETTEMBRE 2003), pp. 2397/2398-2407/2408Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23198436 .
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
Ritenuto in fatto: 1) che il Tribunale di Urbino, con sentenza
del 6 febbraio 2000, confermando la decisione di primo grado, nella controversia insorta fra la cooperativa Tartufai del Candi
gliano a r.l. ed il proprio dipendente, sig. Maurizio Martinelli, inquadrato come operaio qualificato, ha ritenuto:
a) che al rapporto di lavoro fosse applicabile il c.c.n.l. per i
dipendenti dalle cooperative e consorzi agricoli;
b) che nel periodo in contestazione, 1993-1996, dall'istrutto
ria esperita innanzi al pretore era risultato che il sig. Martinelli
aveva svolto mansioni di taglio del bosco, di uso della motose
ga, di manutenzione degli attrezzi e di guida dei mezzi meccani
ci e che, eccezionalmente, aveva coordinato il lavoro degli altri
operai in assenza del caposquadra;
c) che alla stregua delle declaratorie contrattuali non poteva essere inquadrato come operaio specializzato;
d) che dalle testimonianze non era risultato che egli avesse
espletato un numero di giornate lavorative superiori a quelle in
dicate dall'azienda;
e) che non era risultato che egli avesse superato il numero di
otto ore di lavoro al giorno e che il tempo necessario per rag
giungere e lasciare il posto di lavoro non poteva esser conside
rato come attività lavorativa non essendo alla stessa connatura
to;
2) che il sig. Martinelli chiede la cassazione della sentenza
con ricorso sostenuto da tre motivi cui la cooperativa resiste con
controricorso.
Ritenuto in diritto: 1) che con il primo motivo il ricorrente
denuncia violazione dell'art. 112 c.p.c. ed addebita al tribunale
di non aver deciso in ordine al capo di domanda concernente lo
straordinario per i circa 15 minuti di lavoro in più prestato ogni
giorno atteso che ha affermato che era risultato che esso ricor
rente non superava il normale orario giornaliero di lavoro —
che era pari ad 8 ore, mentre egli a fronte di un orario lavorativo
di 39 ore settimanali ne aveva effettuate 40; né in ordine a
quello relativo alle differenze retributive anche per l'ipotesi che
fosse inquadrato come operaio qualificato ed avesse espletato il
minor numero di giornate lavorative dedotte dalla cooperativa;
2) che la censura è fondata, nei limiti appresso indicati atteso
che l'affermazione del tribunale secondo cui l'orario di lavoro
del ricorrente non superava quello giornaliero e, comunque le
otto ore, ha eluso, in mancanza dell'indicazione di altri elementi
(orario contrattuale, numero di giornate lavorative per settima
na), il punto relativo alla pretesa di compenso per lavoro straor
dinario per le 40 ore settimanali effettivamente prestate a fronte
di un orario contrattuale di 39 ore; l'attribuzione di una maggio re retribuzione anche in relazione alla qualifica attribuitagli co
stituisce domanda nuova formulata per la prima volta in appello
risultando, dall'atto introduttivo del giudizio (in particolare dal
conteggio allegato), che le differenze retributive rivendicate
concernono esclusivamente la qualifica di operaio specializzato, sicché alcuna decisione doveva esser adottata su tale punto dal
giudice del gravame;
3) che con il secondo motivo denuncia violazione degli art.
1362, 1366, 1367 c.c. per erronea interpretazione dell'art. 19, area b) e c), c.c.n.l. dipendenti cooperative nonché difetti di mo
tivazione e si duole che il tribunale gli abbia negato la qualifica di operaio specializzato e sostiene che alla stregua del contratto
collettivo l'elemento di differenziazione fra questi e quello qua lificato è dato non dal tipo di attività ma dal grado di comples sità della stessa, sicché il tribunale doveva attribuire rilievo al
fatto che egli sostituiva sistematicamente il caposquadra che
guidava il pulmino per portare i componenti della squadra sui
posti di lavoro, trattandosi di elementi idonei a conferire alle
mansioni di esso ricorrente la predetta complessità;
4) che tale censura è inammissibile in quanto essa propone una valutazione dell'inquadramento diversa da quella operata dal tribunale, meramente contrappositiva ad essa, senza alcuna
denuncia di vizi logici o di motivazione o di violazione di cano ni ermeneutici;
5) che con il terzo motivo, denuncia violazione e falsa appli cazione degli art. 2108 c.c., 5 r.d. 1955/23, illogicità della moti vazione e censura l'asserzione del tribunale che ha negato che il
tempo necessario per raggiungere il luogo di lavoro sia compu tabile nella prestazione lavorativa, non dando rilievo ai fatti che
Il Foro Italiano — 2003.
il lavoro degli operai della cooperativa consisteva nella manu
tenzione di terreni lontani dalla sede della stessa dove venivano
accompagnati con un pulmino guidato da esso ricorrente: ciò
costituiva un servizio ulteriore rispetto alle mansioni tipiche del
ricorrente, era, a prescindere se connaturata al rapporto di lavo
ro, prestata in dipendenza del rapporto stesso ed era funzionale
e connessa a quella agricola — da effettuarsi in varie zone
montane — in quanto indispensabile alla prestazione principale; il tribunale aveva negato tale nesso senza alcuna motivazione;
6) che tale censura è fondata, atteso che, come affermato da
questa corte con la decisione 13804/99 (Foro it., Rep. 2000, vo
ce Lavoro (rapporto), n. 1082), il tempo impiegato per raggiun
gere il luogo di lavoro rientra nell'attività lavorativa vera e pro
pria — e va quindi sommata al normale orario di lavoro come
straordinario — allorché sia funzionale rispetto alla prestazione; in particolare sussiste il carattere di funzionalità nel caso in cui
il dipendente, obbligato a presentarsi presso la sede aziendale,
sia, come nel caso di specie, di volta in volta inviato in diverse
località per svolgere la sua prestazione lavorativa;
7) che la sentenza va quindi cassata in relazione alle censure
accolte e la causa rimessa ad altro giudice indicato come in di
spositivo, per il nuovo esame.
I
CORTE DI CASSAZIONE; sezione I civile; sentenza 13 feb braio 2003, n. 2130; Pres. Delli Priscoli, Est. Morelli, P.M.
Carestia (conci, conf.); Soc. Bettòni e C. (Avv. Scarnati) c.
Min. giustizia (Avv. dello Stato Palatiello). Conferma App.
Venezia, decr. 7 dicembre 2001.
Diritti politici e civili — Diritto alla ragionevole durata del processo
— Equa riparazione — Danno — Onere della
prova (L. 4 agosto 1955 n. 848, ratifica ed esecuzione della
convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 e
del protocollo addizionale alla convenzione stessa, firmato a
Parigi il 20 marzo 1952: convenzione, art. 6; 1. 24 marzo 2001
n. 89, previsione di equa riparazione in caso di violazione del
termine ragionevole del processo e modifica dell'art. 375
c.p.c., art. 2).
La domanda di equa riparazione per irragionevole durata del
processo necessita della prova del danno conseguente all'ec
cessiva durata, non potendo lo stesso considerarsi assorbito
nella violazione del termine di ragionevole durata. (1)
(1, 6-7) Sull'equa riparazione del danno non patrimoniale, cfr. Cass. 10 aprile 2003, n. 5663, 3 aprile 2003, n. 5129, e 18 marzo 2003, n.
3973, Foro it., Mass., fase. 5, addenda, V, III e I; 19 febbraio 2003, n.
2478, ibid., Mass., 223; 14 gennaio 2003, n. 358, ibid., 41; 3 gennaio 2003, n. 4, ibid., 1; con particolare riferimento alla valutazione equita tiva, cfr. Cass. 14 gennaio 2003, n. 362, ibid., 42, secondo cui l'inden
nizzo deve «rispettare l'esigenza di una ragionevole correlazione tra
gravità effettiva del danno ed ammontare dell'indennizzo, cosicché que sto non si riduca a mera espressione simbolica»; 19 dicembre 2002, n.
18130, id., Mass., 1342; 28 novembre 2002, n. 16878, ibid., 1252; con
riferimento ai limiti di ammissibilità del danno non patrimoniale delle
persone giuridiche, cfr. Cass. 2 agosto 2002, n. 11600, id., 2003,1, 838.
Su questo versante si dovrà tuttavia tener conto dei recenti arresti
della Corte europea dei diritti dell'uomo, in questo fascicolo, IV, 361, con nota di richiami.
In dottrina, nel senso accolto dalla giurisprudenza della Cassazione,
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2399 PARTE PRIMA 2400
II
CORTE DI CASSAZIONE; sezione I civile; ordinanza 4 feb braio 2003, n. 1653; Pres. Delli Priscoli, Rei. Panebianco,
P.M. Raimondi (conci, conf.); Libertucci (Avv. Romano) c.
Pres. cons, ministri. Regolamento di competenza avverso App.
Bari, decr. 20 dicembre 2001.
Diritti politici e civili — Diritto alla ragionevole durata del processo
— Equa riparazione — Processi dinanzi al Con
siglio di Stato — Competenza per territorio — Foro dello
Stato (Cod. civ., art. 1182; cod. proc. civ„ art. 20, 21, 25; cod. proc. pen., art. 11; 1. 4 agosto 1955 n. 848: convenzione,
art. 6; 1. 13 aprile 1988 n. 117, risarcimento dei danni cagio nati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati, art. 4; 1. 24 marzo 2001 n. 89, art. 3).
L'art. 11 c.p.p. è inapplicabile al giudizio di equa riparazione
per irragionevole durata di un processo amministrativo pen dente dinanzi il Consiglio di Stato e la relativa competenza
per territorio spetta alla Corte d'appello di Roma, quale lo
cus commissi delicti ai sensi del combinato disposto degli art.
20 e 25 c.p.c. (2)
III
CORTE DI CASSAZIONE; sezione I civile; sentenza 3 gen naio 2003, n. 8; Pres. Saggio, Est. Rordorf, P.M. Russo
(conci, conf.); Pres. cons, ministri (Avv. dello Stato Tortora) c. Vitale. Conferma App. Catanzaro, decr. 7 dicembre 2001.
Diritti politici e civili — Diritto alla ragionevole durata del processo — Equa riparazione — Pendenza del giudizio —
Ammissibilità (L. 24 marzo 2001 n. 89, art. 4). Diritti politici e civili — Diritto alla ragionevole durata del
processo — Equa riparazione — Preventiva proposizione della domanda alla Corte europea dei diritti dell'uomo —
Ricevibilità della domanda — Prova (L. 24 marzo 2001 n.
89, art. 6). Diritti politici e civili — Diritto alla ragionevole durata del
processo — Equa riparazione — Colpa dell'amministra
zione convenuta — Necessità — Esclusione (D.l. 15 no
vembre 1993 n. 453, disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti; 1. 14 gennaio 1994 n. 19, con
versione in legge, con modificazioni, del d.l. 15 novembre
1993 n. 453; 1. 24 marzo 2001 n. 89, art. 2). Diritti politici e civili — Diritto alla ragionevole durata del
processo —
Equa riparazione — Danno non patrimoniale — Presunzioni (Cod. civ., art. 1226, 2056; 1. 24 marzo 2001
n. 89, art. 2). Diritti politici e civili — Diritto alla ragionevole durata del
processo — Equa riparazione — Decreto della corte
d'appello — Motivazione (Cod. civ., art. 1226, 2056; 1. 24 marzo 2001 n. 89, art. 2).
La domanda di equa riparazione per irragionevole durata del
processo può essere proposta anche prima della definizione della fase di giudizio di cui si lamenta l'eccessiva durata. (3)
cfr. Sorrentino, così corretta l'indicazione redazionale id., 2003, I, 840; in genere, cfr. Scarselli, La ragionevole durata del processo ci
vile, ibid., V, 126.
(2) Negli stessi termini, cfr. App. Caltanissetta, ord. 30 maggio 2002, Foro it., 2003, I, 840, con nota di richiami. Di recente, in tema di foro dello Stato, cfr. Trib. Roma 11 dicembre 2002, ibid., 2173, con nota di richiami. Con riferimento alla valutazione del comportamento della
parte nel processo amministrativo ed alla rilevanza che assume, in par ticolare, la mancata presentazione della c.d. istanza di prelievo, cfr. Cass. 6 marzo 2003, n. 3347, id., Mass., 293.
(3) Negli stessi termini della decisione, cfr. Cass. 22 gennaio 2003, n. 920, Foro it., Mass., 100; 14 gennaio 2003, n. 362, ibid., 42, che esclude ogni dubbio di legittimità costituzionale della relativa normati va per violazione dei principi di precostituzione del giudice naturale e di imparzialità; 7 novembre 2002, n. 15611, id., Mass., 1158; App. An cona 11 luglio 2001, id., Rep. 2001, voce Diritti politici e civili, n. 109, e Guida al dir., 2001, fase. 46, 23, secondo cui «non essendo possibile conoscere l'esito definitivo della controversia, l'equa riparazione di cui
Il Foro Italiano — 2003.
La prova dell'elemento negativo di una preventiva decisione
sulla ricevibilità del ricorso da parte della Corte europea dei
diritti dell'uomo è a carico dell'amministrazione resistente e
non del ricorrente che lamenti l'eccessiva durata del proces
so, bastando al fine del trasferimento della domanda alla
corte d'appello l'indicazione della data di presentazione del
ricorso alla predetta corte europea. (4) Il diritto ali 'equa riparazione per eccessiva durata del processo
prescinde dal fatto che ciò sia dipeso dal comportamento col
poso di singoli operatori del processo o da fattori organizza tivi di ordine generale riconducibili all'attività o all'inerzia
dei pubblici poteri deputati a rendere efficiente l'esercizio
della funzione giurisdizionale o dalla tardiva introduzione di
modifiche legislative idonee a rimuovere le disfunzioni degli
uffici giudiziari (nella specie, la riforma dell'organizzazione della Corte dei conti). (5)
Il danno non patrimoniale può essere accertato anche in via
presuntiva attraverso il riferimento alle circostanze di fatto inerenti alla durata ed alla natura del giudizio in questione, nonché avvalendosi di nozioni di comune esperienza quanto
agli effetti psicologici dell'indebita durata del processo. (6) Il decreto con cui la corte d'appello decide sulla domanda di
equa riparazione per irragionevole durata del processo può essere motivato con caratteri di sommarietà purché si riesca
no ad individuare, anche per grandi linee nonché dall'insie
me delle indicazioni espresse nel provvedimento, i fonda mentali elementi di giudizio sui quali la decisione è basa
ta. (7)
I
Fatto e diritto. — La s.p.a. Bettoni e C. ha impugnato per cassazione il decreto in data 7 dicembre 2001 della Corte d'ap
pello di Venezia che ha respinto la domanda di equa riparazione da essa proposta nei confronti del ministro della giustizia, ai
sensi dell'art. 2 1. n. 89 del 2001, in relazione ad un processo ci
vile, nel quale essa era stata parte, protrattosi oltre il termine di
ragionevole durata di cui all'art. 6, n. 1 (per l'effetto così vio
lato), della convenzione europea dei diritti dell'uomo.
Con l'unico complesso motivo dell'odierno ricorso — cui re
siste il ministero della giustizia — la Bettoni censura, sotto il
duplice profilo della violazione del citato art. 2 1. 89/01 e del vi
zio di motivazione, la decisione del collegio a quo di respingere la domanda, pur in presenza di un'accertata eccessiva protrazio ne del giudizio, per la ragione (erroneamente ritenuta assorben
te) della mancata dimostrazione del danno che alla parte ne sa
rebbe conseguito. Sostiene, in contrario, che — anche alla luce
della giurisprudenza della corte di Strasburgo relativa all'art. 6, n. 1, della convenzione, al cui mancato rispetto il legislatore italiano del 2001 avrebbe appunto ricollegato la misura riparato ria in questione
— non occorrerebbe la prova in concreto del
danno (da ritenere in re ipsa), conseguendo invece, automati
camente, quella riparazione all'accertamento (come nella specie
pur operato) della violazione del diritto della parte ad una durata
ragionevole del processo. Deduce, in subordine, che ai sensi del 3° comma, lett. b), del
predetto art. 2 1. 89/01 (che denuncia pure per tal profilo viola
to), anche in difetto di prova del danno e di diniego della chiesta
riparazione, a fronte della rilevata durata eccessiva del processo, la domanda avrebbe dovuto, comunque, essere accolta, ancorché
all'art. 2 1. n. 89 del 2001 deve determinarsi in via equitativa, ai sensi dell'art. 1226 c.c.».
(4) Sulla disciplina transitoria dell'art. 6 1. 89/01, cfr. Cass. 3 gen naio 2003, n. 3, Foro it., Mass., 1, che annulla un decreto della corte
d'appello che aveva omesso di verificare d'ufficio la condizione di
proponibilità della preventiva e tempestiva proposizione della domanda dinanzi alla Corte europea dei diritti dell'uomo in argomento, cfr. Corte eur. diritti dell'uomo, 27 marzo 2003, Scordino, e 6 settembre
2001, Brusco, in questo fascicolo, IV, 361.
(5) L'irrilevanza dell'elemento soggettivo di un'imputazione quan tomeno (e sia pure lato sensu) colposa del ritardo processuale all'am ministrazione è un dato ormai acquisito: con riferimento ai processi di esecuzione forzata per rilascio di immobile, cfr. Cass. 22 ottobre 2002, n. 14885, Foro it., 2003,1, 837; nonché, in motivazione, Cass. 8 agosto 2002, n. 11987, ibid., 838; 2 agosto 2002, n. 11600, cit.
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
nella forma ridotta della «condanna del ministero a dare ade
guata pubblicità all'avvenuta violazione», con «condanna dello
stesso alle spese del giudizio» (spese a torto poste, invece, dalla
corte territoriale a carico di essa ricorrente).
L'impugnazione è in ogni sua parte destituita di giuridico fondamento.
Non sussiste in primo luogo, infatti, il preteso automatismo
della misura riparatoria in presenza di una accertata violazione
del termine di ragionevole durata del processo. Ciò in quanto —
come da questa corte già precisato con le sentenze 11046/02
CForo it., Mass. 2003, 85), 11987/02 (id., 2003,1, 838), alle cui più diffuse argomentazioni si rinvia — il diritto all'equa ripara zione ex art. 2 1. n. 89 cit. non è collegato direttamente al fatto
in sé di una durata non ragionevole del processo, in contrasto
con la prescrizione dell'art. 6, n. 1, della convenzione, ma è ri
conosciuto, viceversa, solo a chi «per effetto» e in conseguenza dell'eccessiva protrazione della procedura abbia «subito un
danno».
Danno, patrimoniale o non patrimoniale, che non è dunque in
re ipsa e del quale correttamente, quindi, la corte di merito ha
presupposto la necessità di prova, facendo carico alla parte del
mancato assolvimento del correlativo onere.
Anche in considerazione del fatto che il danno «non patrimo niale» (come nella specie) lamentato da persona giuridica non
potrebbe essere ricollegato a situazioni di ansia, stress, patema d'animo —- esclusivamente proprie della persona fisica — su
scettibili di essere dimostrate in via presuntiva sulla base di
elementari e diffuse cognizioni di psicologia (cfr. Cass.
11987/02, cit.), ma esige di essere più specificatamente e rigo rosamente provato con riferimento all'effettiva lesione di diritti
fondamentali (come quelli all'immagine, al prestigio) per loro
natura riferibili anche al soggetto privo di fisicità (cfr. Cass.
11573/02, non massimata). Né è sostenibile che all'accertata violazione del termine di
ragionevole durata del processo, anche in difetto di prova di un
danno conseguitone alla parte, debba comunque conseguire la
condanna del ministero convenuto «a dare pubblicità alla viola
zione», con il corollario della sua soccombenza agli effetti del
regolamento delle spese. L'art. 2 1. 89/01, all'uopo invocato,
prevede bensì, infatti il possibile ricorso ad «adeguate forme di
pubblicità della violazione» ma solo come forma sussidiaria di
riparazione del danno non patrimoniale, e quindi sempre in pre senza, e non prescindendo, come si pretende, dall'esistenza di
un siffatto danno.
Il ricorso va pertanto integralmente respinto.
II
Rilevato che con ricorso proposto avanti alla Corte d'appello di Bari nei confronti della presidenza del consiglio dei ministri
Maria Assunta Libertucci chiedeva che le venisse riconosciuto il
diritto ad un'equa riparazione ai sensi della 1. 89/01 in relazione
al procedimento da lei promosso avanti al Tar Molise con ricor
so notificato in data 16 ottobre 1993 ed attualmente pendente in
grado d'appello dinanzi al Consiglio di Stato; — costituendosi, l'amministrazione eccepiva, fra l'altro, l'in
competenza territoriale della corte pugliese, ritenendo compe tente quella di Perugia;
— con decreto dell'11-25 dicembre 2001 pronunciato in ca
mera di consiglio la corte d'appello adita declinava la propria
competenza e riteneva competente la Corte d'appello di Perugia sul rilievo che, riguardando la doglianza fatta valere circa l'ec
cessiva durata del processo l'intero procedimento (al Tar ed al
Consiglio di Stato), avendo il Consiglio di Stato sede in Roma e
non potendo la norma in esame riferirsi ai soli giudizi promossi avanti al giudice ordinario, la competenza doveva considerarsi
radicata ai sensi dell'art. 3 1. 89/01 presso la corte d'appello più vicina che è appunto quella umbra;
— con ricorso depositato in data 18 febbraio 2002 la Liber
tucci presentava istanza di regolamento necessario di competen
za, sostenendo che la previsione di cui al richiamato art. 3, in
cui si fa tra l'altro riferimento «ai gradi di merito», sembra con
siderare unicamente i procedimenti avanti ai giudici ordinari e
Il Foro Italiano — 2003.
non anche i giudizi amministrativi per i quali però, svolgendosi la fase di appello sempre avanti al Consiglio di Stato e venendo
la domanda di riconoscimento dell'equa riparazione ad essere
attribuita in tal modo sempre alla Corte d'appello di Perugia, doveva trovare applicazione analogica il collegamento previsto dall'art. 3 per i gradi di merito del giudizio ordinario e conside
rarsi quindi competente l'adita Corte d'appello di Lecce in rap
porto al distretto di provenienza del processo; — il procuratore generale presso questa corte ha chiesto che
venisse dichiarata la competenza della Corte d'appello di Roma
in quanto, dovendo i criteri fissati dalla norma trovare applica zione unicamente per i giudizi ordinari e non potendo essere
estesi ad uffici giudiziari che operano in un ambito che eccede
(o comunque prescinde) da quello distrettuale proprio delle corti
d'appello, nemmeno estensivamente od analogicamente, in
quanto trattasi di norma che fa eccezione alle previsioni ordina
rie sulla competenza, questa deve essere determinata con riferi
mento all'art. 25 c.p.c. che disciplina il foro della pubblica am
ministrazione, con la conseguente necessità di far riferimento
alla Corte d'appello di Roma nel cui territorio si svolge il giudi zio cui si riferiscono i ritardi lamentati ed è sorta o deve ese
guirsi l'obbligazione e dove ha sede il corrispondente ufficio
dell'avvocatura dello Stato.
Osserva. — La 1. 24 marzo 2001 n. 89 — che ha introdotto
nel nostro ordinamento l'istituto dell'equa riparazione del dan
no patrimoniale o non patrimoniale conseguente al mancato ri
spetto della durata ragionevole del processo di cui all'art. 6, par. 1, della convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e
delle libertà fondamentali firmata in Roma il 4 novembre 1950, resa esecutiva con 1. 4 agosto 1955 n. 848 ed entrata in vigore
per l'Italia il 26 ottobre 1955 — fissa all'art. 3 i criteri per la determinazione della competenza territoriale, prevedendo che la
relativa domanda deve essere presentata «dinanzi alla corte
d'appello del distretto in cui ha sede il giudice competente ai
sensi dell'art. 11 c.p.p. a giudicare nei procedimenti riguardanti i magistrati nel cui distretto è concluso o estinto relativamente
ai gradi di merito ovvero pende il procedimento nel cui ambito
la violazione si assume verificata».
Orbene l'espresso riferimento al distretto, sia per indicarne
l'appartenenza del giudice che si è occupato o si occupa del
procedimento della cui equa riparazione si discute e sia per in
dividuare il giudice competente, comporta necessariamente
l'applicazione della richiamata previsione ai soli giudici ordina ri, i cui uffici, ad eccezione della Corte di cassazione, sono ap
punto ripartiti in distretti.
I giudici amministrativi infatti, sia che si tratti del Tar che del
Consiglio di Stato, non appartengono ad alcun distretto di corte
d'appello, sussistendo solamente una vicinanza territoriale che
non può giustificare il previsto spostamento, nemmeno tenendo
presente la ratio legis in quanto il sospetto sull'autonomia e
sulla serenità del giudice chiamato a decidere non potrebbe pre scindere da un collegamento funzionale fra i due uffici. Ciò pe raltro è tanto più evidente per i procedimenti, come quello in
esame, pendenti avanti al Consiglio di Stato, in quanto, operan do tale organo a livello nazionale, non possono considerarsi an
che per tale motivo «conclusi» o «pendenti» nell'ambito di un
distretto.
Né la normativa in esame potrebbe essere richiamata in via
analogica od estensiva in quanto, derogando ai principi generali sulla competenza, non potrebbe trovare applicazione oltre i casi
espressamente previsti. Le esposte considerazioni sono in linea del resto con l'orien
tamento di questa corte (Cass. 3243/96, Foro it., Rep. 1996, vo
ce Astensione, ricusazione, n. 158) in materia di competenza territoriale nei procedimenti promossi ai sensi della 1. 13 aprile 1988 n. 117 sulla responsabilità civile dei magistrati, relativa mente ai giudizi avanti alla Corte di cassazione.
In relazione a tali procedimenti —
per i quali l'art. 4, 1°
comma, di detta 1. 117/88 prevede la competenza del tribunale
della sede della corte d'appello più vicina a quella nel cui di
stretto è compreso l'ufficio giudiziario di appartenenza del ma
gistrato della cui responsabilità si discute — è stata esclusa in
fatti per i giudici della Cassazione l'applicabilità del criterio di
regolamentazione della competenza previsto da detta norma sul
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2403 PARTE PRIMA 2404
rilievo che la Suprema corte non può considerarsi inclusa in al
cun distretto.
Né problemi d'interpretazione potrebbero sorgere per il fatto
che la valutazione in ordine alla ragionevole durata del processo civile coinvolge nel caso in esame entrambi i gradi del giudizio amministrativo. A parte la considerazione che ad analoghe con
clusioni si perverrebbe anche in presenza di un procedimento avanti al Tar, sia per i motivi sopra esposti che per quanto si di
rà nell'individuazione del giudice competente, si rileva che ai
fini in esame il procedimento deve essere considerato un uni
cum, tenuto conto della previsione normativa che fa riferimento,
per lo spostamento, al luogo in cui si è concluso, si è estinto od
è ancora pendente il procedimento, evidentemente considerato
nella sua unità indipendentemente dai gradi in cui si è articolato.
Consegue che la competenza territoriale per la trattazione dei
ricorsi riguardanti ritardi verificatisi nel corso di giudizi svoltisi dinanzi a giudici diversi da quello ordinario deve essere indivi duata secondo i principi generali con riferimento all'art. 25
c.p.c. il quale, nel disciplinare il foro della pubblica amministra
zione, prevede, quando essa è convenuta, la competenza del
giudice del luogo in cui è sorta o deve eseguirsi l'obbligazione od in cui si trova la cosa mobile od immobile oggetto della do
manda, in applicazione quindi dei criteri previsti dagli art. 20 e 21 c.p.c., sia pure con l'ulteriore specifico riferimento al luogo dove ha sede l'ufficio dell'avvocatura dello Stato.
Pendendo avanti al Consiglio di Stato il procedimento della
cui non ragionevole durata si discute, deve ritenersi, in applica zione degli esposti principi, che in Roma si è realizzata la fatti
specie considerata dalla 1. 89/01 ai fini della richiesta d'inden nizzo e cioè è sorta l'obbligazione, così come in Roma deve ri
tenersi che debba essere eseguita l'obbligazione medesima ai
sensi dell'art. 1182, ultimo comma, c.c. in quanto, riguardando una somma di denaro non determinata, essa è esigibile al domi
cilio del debitore. Deve dichiararsi quindi la competenza della Corte d'appello
di Roma, concorrendo a tale soluzione entrambi i criteri previsti dall'art. 25 c.p.c.
Ili
Svolgimento del processo. — La sig.ra Caterina Vitale, pre messo che il proprio coniuge sig. Giovanni Fiore, poi deceduto, aveva intrapreso dinanzi alla Corte dei conti, sin dal 24 marzo
1969, un giudizio per vedersi riconoscere il diritto al tratta
mento pensionistico, e che tale giudizio, riassunto dalla mede
sima sig.ra Vitale dopo la morte del coniuge, era tuttora pen dente, si è rivolta alla Corte d'appello di Catanzaro chiedendo
di essere indennizzata dei danni patrimoniali e non patrimoniali causati dalla irragionevole durata di detto giudizio.
La presidenza del consiglio dei ministri, rappresentata e dife
sa dalla locale avvocatura dello Stato, ha resistito al ricorso.
La corte d'appello, con decreto emesso il 7 dicembre 2001, ha accolto la domanda della sig.ra Vitale limitatamente al solo
danno non patrimoniale, che ha equitativamente liquidato in lire
tre milioni, compensando tra le parti le spese di causa.
La corte ha infatti considerato incontestabile l'irragionevole durata del giudizio, non particolarmente complesso e tuttavia
non ancora definito a distanza di oltre trentadue anni dal suo
inizio. Ed ha sottolineato come le disfunzioni organizzative, che
in quello specifico settore hanno determinato nel tempo l'accu
mulo di un enorme arretrato di controversie ancora pendenti, non valgono certo ad esimere l'amministrazione dalla responsa bilità per violazione del diritto alla ragionevole durata del pro cesso sancito dalla convenzione europea per la salvaguardia dei
diritti dell'uomo. Ha però precisato come, nella specie, si do
vesse prendere in considerazione solo il periodo processuale anteriore alla data della morte del diretto interessato, intervenuta
I'll maggio 1986, avendo l'attuale ricorrente dichiarato di esser
venuta a conoscenza del giudizio solo in occasione dell'interru
zione di esso, verificatasi il 23 ottobre 2000. Esclusa la prova di
un qualsivoglia danno patrimoniale, la corte ha perciò liquidato il solo danno non patrimoniale, nella misura sopra indicata, in
considerazione dei patemi d'animo e dei tormenti di ordine psi II Foro Italiano — 2003.
cologico connessi al protrarsi dell'attesa di giustizia, per il sig.
Fiore, oltre il termine entro cui ragionevolmente il processo avrebbe potuto esser definito.
Per la cassazione di tale decreto ricorre la presidenza del con
siglio, per il tramite dell'avvocatura generale dello Stato, for
mulando due motivi di doglianza. L'intimato non si è costituito.
Motivi della decisione. — 1. - Dei due motivi in cui si arti
cola il ricorso proposto dalla presidenza del consiglio il secondo
presenta una struttura più complessa e riveste, almeno per certi
aspetti, carattere logicamente preliminare. È opportuno, perciò, esaminarlo con priorità rispetto all'altro.
2. - Detto motivo di ricorso, volto a denunciare vizi di omessa
motivazione, nonché violazioni e falsa applicazione di norme di
legge, esprime una pluralità di profili di censura diversi. Conviene prenderli in esame separatamente. 2.1. - Anzitutto si assume che la domanda di equa riparazione
avanzata dalla sig.ra Vitale, come già inutilmente eccepito dal
l'amministrazione resistente dinanzi alla corte d'appello, avreb
be dovuto esser dichiarata inammissibile, siccome proposta
prima della definizione del grado di giudizio in cui si sarebbe manifestato l'irragionevole ritardo processuale lamentato dal
l'attrice. Ove la proposizione di una simile domanda fosse rite
nuta ammissibile in tale fase — argomenta la ricorrente — si ri
schierebbe di compromettere i principi costituzionali della pre costituzione del giudice naturale e dell'imparzialità del giudi
cante, giacché si porrebbero le premesse per impedire al giudice dinanzi al quale ancora la causa pende di portare serenamente a
compimento il proprio compito. La tesi è infondata, posto che l'art. 4 1. n. 89 del 2001 inequi
vocabilmente ammette la possibilità di proporre ricorso per equa
riparazione in pendenza del processo nel cui ambito si assume
essersi verificata la violazione del diritto della parte alla ragio nevole durata del medesimo processo.
L'avvocatura ricorrente prospetta un'interpretazione limitati
va, volta a circoscrivere la proponibilità del ricorso, in pendenza di causa, alle sole ipotesi in cui si sia già esaurito almeno il gra do di giudizio della cui eccessiva durata la parte si lamenta. Ma
nulla, nel testo della citata disposizione, autorizza una siffatta
limitazione; né è dato dedurla dal rilievo che, in tal caso, il giu dice di quel procedimento dovrebbe astenersi dall'ulteriore
trattazione di esso per non vedere compromessa la propria im
parzialità. Rilievo, questo, non condivisibile, giacché il giudizio di equa riparazione non è destinato all'accertamento di una
qualche responsabilità del giudice nella conduzione del proces so, e non è quindi ravvisabile alcuna ragione per cui, in via ge nerale, egli sarebbe tenuto ad astenersi dall'ulteriore trattazione
di quel medesimo processo in pendenza della causa per l'equa
riparazione. 2.2. - Lamenta inoltre l'avvocatura che la corte territoriale
abbia omesso di pronunciarsi sulla circostanza che la parte attri
ce, la quale aveva già in data 22 marzo 2001 presentato un ana
logo ricorso alla Corte europea dei diritti dell'uomo, non aveva
fornito la prova della mancanza di una decisione di detta corte
sulla ricevibilità del ricorso.
Neanche tale doglianza appare fondata.
L'art. 6 citata 1. n. 89 contiene, al 1° comma, una disposizio ne transitoria riguardante coloro che abbiano già presentato ri
corso alla Corte europea di Strasburgo per violazione del diritto
alla ragionevole durata di un processo, e consente loro di pro
porre ugualmente analogo ricorso dinanzi al giudice nazionale, ai sensi dell'art. 3 medesima legge, entro il termine di sei mesi
dall'entrata in vigore di questa. I ricorrenti, entro l'indicato li
mite temporale, sono dunque posti in condizione di adire il giu dice italiano, anche con riferimento a situazioni esauritesi prima dell'entrata in vigore della legge che ha introdotto nell'ordina
mento nazionale il diritto all'equa riparazione per irragionevole durata del processo in ordine alle quali sarebbe per loro spirato il termine di decadenza fissato in via generale dall'art. 4, purché
già in precedenza si fossero rivolti alla corte europea. Ed è chia
ro che sta a loro provare tale circostanza, sicché lo stesso 1°
comma del menzionato art. 6 precisa che, in tal caso, deve esse
re indicata nel ricorso la data di presentazione della precedente domanda in sede europea.
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
V'è però anche un'altra condizione, questa volta di segno ne
gativo: che la corte europea non si sia già in precedenza pro nunciata sulla ricevibilità del ricorso ad essa rivolto. Si tratta
allora di stabilire se anche la prova di tale circostanza negativa sia a carico di colui che agisce dinanzi al giudice italiano per
l'equa riparazione, o se competa all'amministrazione resistente
l'onere di eventualmente eccepirla e di dimostrarla.
Ritiene la corte che la seconda delle due prospettate soluzioni
sia senz'altro da preferire. La circostanza in questione appare infatti concepita non tanto come parte integrante di una più arti
colata condizione di proponibilità della domanda, bensì come
fatto impeditivo della possibilità — altrimenti ammessa, nei li
miti di tempo sopra richiamati — di una sorta di trasferimento
dinanzi al giudice nazionale dell'azione già tempestivamente
intrapresa dall'interessato in sede europea. Da un lato vi è un
elemento di continuità tra la presentazione del ricorso dinanzi
alla corte europea e la sua riedizione in sede nazionale, che deve
essere provato dal ricorrente come condizione di proponibilità del ricorso medesimo; dall'altro v'è un fatto idoneo ad inter
rompere quel nesso di continuità (l'intervenuta decisione della
corte europea in tema di ricevibilità del ricorso), che si pone
dunque come fatto impeditivo e deve perciò essere dedotto e
dimostrato da chi al ricorso resiste.
Ne è conferma il fatto che, se il legislatore avesse inteso ac
collare al ricorrente l'onere di dimostrare anche detto elemento
negativo, non si sarebbe limitato a prevedere espressamente, nel
1° comma del citato art. 6, che «il ricorso alla corte d'appello deve contenere l'indicazione della data di presentazione del ri
corso alla predetta corte europea», ma avrebbe esplicitato anche
la necessità di indicare se e quando sia già eventualmente inter
venuta una pronuncia sulla ricevibilità del ricorso medesimo ad
opera di quella corte. Così non essendo, pare confermato che
compete all'amministrazione resistente eventualmente eccepire che, viceversa, una siffatta declaratoria di irricevibilità in sede
europea è già intervenuta, fornendone la relativa dimostrazione.
Ed anche la disposizione del 2° comma del medesimo art. 6, laddove impone alla cancelleria del giudice italiano di informare
senza indugio il ministero degli affari esteri di tutti i ricorsi pre sentati nel termine di cui al comma precedente, suggerisce come
sia appunto l'amministrazione a dover curare questa delicata fa
se di raccordo tra la giurisdizione europea e quella italiana.
2.3. - Assume ancora l'avvocatura ricorrente che, per poter riconoscere il diritto all'equa riparazione, previsto dalla più volte citata 1. n. 89 del 2001 in caso di irragionevole durata di
un processo, è indispensabile sia provato che tale eccessiva du
rata dipende da colpa dell'amministrazione convenuta. Ma una
tal colpa non potrebbe essere individuata nella tardiva introdu
zione di modifiche legislative idonee a rimuovere le cause di di
sfunzioni e ritardi manifestatisi nel funzionamento degli uffici
giudiziari (nella specie, l'emanazione della 1. n. 19 del 1994, che ha modificato l'organizzazione della Corte dei conti). La
valutazione della colpevolezza dei ritardi andrebbe invece sem
pre effettuata alla stregua della situazione normativa vigente al
momento in cui tali ritardi si sono verificati, e proprio il fatto
che solo in epoca successiva è stata realizzata la riforma orga nizzativa cui s'è accennato dimostrerebbe che, prima di quel momento, i magistrati della corte non avrebbero potuto definire
il processo in tempi inferiori a quelli che si sono registrati.
Neppure questo profilo di censura è fondato.
Già in altre occasioni questa corte ha chiarito che la pretesa
all'equa riparazione accordata dalla legge in esame è conse
guenza — come l'art. 2, 1° comma, stessa legge chiaramente
indica — della violazione di quella disposizione dell'art. 6 della convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle li bertà fondamentali (ratificata ai sensi della 1. 4 agosto 1955 n. 848) che attribuisce ad ogni cittadino di uno Stato firmatario di detta convenzione il diritto a che la sua causa sia esaminata
«equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole». È
questo uno dei «diritti di libertà» che gli Stati contraenti ricono scono a chiunque sia soggetto alla loro giurisdizione (art. 1 della
convenzione) ed il cui rispetto impegna quindi direttamente cia scuno Stato verso chi all'apparato giurisdizionale di quello Stato si rivolge per far valere in giudizio una propria pretesa o
Il Foro Italiano — 2003.
per resistere all'altrui. Non è dunque il comportamento dei sin
goli operatori del processo (giudici, ausiliari, parti), in quanto tali, a far sorgere il diritto all'equa riparazione, bensì la viola zione del fondamentale dovere dello Stato, nella sua veste di
erogatore del servizio giurisdizionale, di fornire a ciascuno tale servizio in un lasso di tempo ragionevole. La ragionevolezza di
questo termine non è un valore assoluto: dipende dalle circo
stanze di ciascun caso concreto ed è influenzata, in particolare, dalla complessità del singolo caso. E, infatti, è proprio alla
complessità del caso che l'art. 2, 2° comma, citata 1. n. 89 vuole
sia rapportata la considerazione dei comportamenti «delle parti e del giudice del procedimento, nonché quello di ogni altra au
torità chiamata a concorrervi o a comunque contribuire alla sua
definizione». Espressione, questa, che da un lato pone in risalto
come i medesimi comportamenti e la durata processuale che ne
consegue possano determinare o meno il superamento del mar
gine di ragionevolezza a seconda che ciò sia o no giustificato
dall'oggettiva complessità delle questioni in causa; dall'altro —
specie nell'ampiezza del riferimento ad «ogni altra autorità»
chiamata a concorrere o «a comunque contribuire» alla defini
zione del procedimento — evidenzia come il superamento della
ragionevole durata del giudizio da cui discende il diritto al
l'equa riparazione possa dipendere da molti e variabili fattori, tra i quali senza dubbio sono da ricomprendere anche le disfun
zioni di ordine generale riguardanti singole sedi giudiziarie o
l'intero apparato nazionale.
In altre parole, quel che genera il diritto all'equa riparazione è
il protrarsi della durata del processo oltre il termine che, in rap
porto alle caratteristiche specifiche del processo medesimo, ap
pare ragionevole, indipendentemente dal fatto che ciò sia dipeso da comportamenti colposi di singoli operatori del processo o da
fattori organizzativi di ordine generale riconducibili all'attività
0 all'inerzia dei pubblici poteri deputati a far funzionare il ser
vizio giurisdizionale. Se così non fosse, se cioè occorresse sem
pre individuare una colpa nel ritardo del giudicante o di un au
siliario di giustizia, si perverrebbe al singolare esito di escludere
il diritto all'equa riparazione tutte le volte che — come appunto è accaduto nel caso in esame — il grave ritardo nella definizio
ne dei processi sia causato da disfunzioni generalizzate, riferi
bili all'intero settore della giustizia o anche solo a singoli rami
di essa o a singoli uffici giurisdizionali, ma pur sempre tali da
sfuggire nell'immediato alla possibilità di intervento dei singoli operatori coinvolti loro malgrado in tali disfunzioni. Esito dav
vero paradossale, ove si rifletta alla notoria diffusione ed am
piezza di tali disfunzioni generalizzate e, soprattutto, al fatto che
proprio da esse è derivato quel macroscopico accentuarsi dei ri
corsi contro lo Stato italiano dinanzi alla Corte europea dei di
ritti dell'uomo per ovviare al quale, in ossequio al principio di
sussidiarietà, è stata emanata la 1. n. 89 del 2001 che dovrebbe
consentire la soddisfazione nel foro domestico delle pretese al
trimenti azionabili davanti alla corte europea. Stando così le cose, non può essere condiviso l'assunto della
presidenza del consiglio ricorrente, secondo cui avrebbe errato
la corte d'appello nel riconoscere il diritto all'equa riparazione senza considerare che la lunga durata del processo è dipesa da
una situazione di obiettiva impossibilità determinata dal con
vergere di un enorme carico di lavoro su una sola sezione giu risdizionale. Ciò può essere senz'altro vero, ma non ne deriva
affatto che la domanda di equa riparazione dovesse essere ri
gettata, perché, appunto, il suo fondamento non andava né va ri
cercato in una pretesa responsabilità colposa dei magistrati della
Corte dei conti chiamati a trattare il procedimento in questione, sibbene nel fatto stesso che l'amministrazione della giustizia non si è posta in grado di fornire risposta in tempo ragionevole al ricorso presentato.
Né vale obiettare che, così argomentando, il giudice dell'equa
riparazione finirebbe per censurare scelte di competenza esclu
siva del potere legislativo. Qui, evidentemente, non è questione di censurare indebitamente provvedimenti legislativi e, tanto
meno, di ipotizzarne la disapplicazione da parte del giudice, bensì di prendere atto delle disfunzioni, in sé considerate, da cui
1 ritardi di giustizia hanno tratto origine e che hanno generato la
violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, indi
pendentemente dai possibili rimedi legislativi, amministrativi o
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2407 PARTE PRIMA 2408
di altro tipo con i quali a quelle medesime disfunzioni si sarebbe
potuto ovviare (o si è successivamente ovviato).
2.4. - L'avvocatura si duole infine del fatto che la corte terri
toriale abbia liquidato in via equitativa il danno non patrimo niale di cui la ricorrente non aveva fornito alcuna prova, né in
termini di an né di quantum debeatur, in dispregio del principio
per cui actore non probante reus absolvitur.
Anche questa doglianza non è fondata.
Se è vero che il danno va di volta in volta accertato e non può considerarsi conseguenza automatica ed indefettibile dell'ecces
sivo protrarsi di una causa, è vero anche che, quando specifica mente si tratti di danno non patrimoniale (espressamente con
templato dall'art. 2 1. cit.), la sua stessa natura ne rende plausi bile sia l'accertamento mediante ricorso a presunzioni ed a fatti
notori sia la liquidazione con valutazione equitativa a norma
dell'art. 1226 c.c. (disposizione infatti richiamata dall'art. 2056 c.c., cui a propria volta fa riferimento l'art. 2, 3° comma, della
più volte menzionata 1. n. 89). Non coglie dunque nel segno l'amministrazione ricorrente
quando censura l'impugnato decreto per aver riconosciuto il
danno in difetto della relativa prova. Nel decreto, infatti, si fa
espresso riferimento ai «patemi d'animo e tormenti in conse
guenza della mancata risposta di giustizia in tempi ragionevoli», e si precisa anche che l'eccedenza di durata del procedimento a
tal fine considerata è di undici anni. Né si manca di distinguere la posizione del diretto interessato all'invocato trattamento pen sionistico da quella dell'erede, cui nessun risarcimento è stato
riconosciuto iure proprio (incidentalmente va detto che, non es
sendo stata prospettata, non è in questa sede esaminabile la que stione dell'azionabilità del diritto all'equa riparazione da parte dell'erede di persona deceduta prima dell'entrata in vigore della
1. n. 89 del 2001). Ne consegue che la corte territoriale, accertate le circostanze
di fatto inerenti alla durata ed alla natura del giudizio in que stione, ed avvalendosi di nozioni di comune esperienza quanto
agli effetti psicologici dell'indebita durata del processo, ha con
siderato provata in via di presunzione l'esistenza del danno non
patrimoniale; e lo ha correttamente liquidato con criteri equita tivi.
3. - Resta da esaminare il primo motivo di ricorso, con cui si
lamenta che la motivazione dell'impugnato decreto sia carente
su tre punti decisivi: sull'individuazione del periodo di tempo da considerare ragionevole per la definizione del processo, sulla
misura in cui la durata di detto processo avrebbe ecceduto il li
mite della ragionevolezza e sul criterio adoperato per quantifica re il danno non patrimoniale liquidato in favore del ricorrente.
Sotto nessuno di tali profili la doglianza appare però fondata.
Non certo con riferimento ai primi due, in ordine ai quali è
sufficiente la semplice lettura dell'impugnato decreto per rileva
re come la corte d'appello non abbia affatto mancato di soffer
marsi sulla natura del processo in questione, abbia considerato
quali indagini da esso erano richieste, ne abbia valutato la parti colare semplicità ed abbia concluso che esse avrebbero potuto essere espletate ragionevolmente in tre o quattro anni, laddove
detto processo è ancora pendente a ben trentadue anni dal suo
inizio. Considerazioni, queste, che pienamente assolvono l'one
re di motivazione gravante sul giudice di merito nel caso in
esame.
Neppure la doglianza è fondata sotto il terzo dei dedotti pro fili, in ordine al quale va ribadito che il danno non patrimoniale è, per sua stessa natura, insuscettibile di essere provato nel suo
preciso ammontare, sicché la liquidazione può sempre essere ef
fettuata dal giudice con ricorso al metodo equitativo; tanto più
quando — come nel caso della citata 1. 89/01 — è proprio il le
gislatore a suggerire il ricorso ad un simile criterio già nella
stessa definizione normativa di «equa riparazione». Certo, perché la valutazione discrezionale propria del metodo
equitativo non si risolva in una quantificazione arbitraria, è ne
cessario che il giudice di merito fornisca indicazioni sui criteri
che lo hanno guidato nel giudicare proporzionata una certa mi
sura del risarcimento (cfr. anche, in tal senso, Cass. n. 2037 del
2000, Foro it., Rep. 2000, voce Danni civili, n. 235); ma tale
motivazione può assumere in un decreto anche caratteri di
sommarietà, purché si riescano ad individuare, almeno per gran
ii. Foro Italiano — 2003.
di linee ed anche dall'insieme delle indicazioni espresse nel
provvedimento, i fondamentali elementi di giudizio sui quali la
decisione è basata. E, nella specie, ciò è certamente possibile,
giacché si è già rilevato come dalla motivazione del decreto im
pugnato si evinca che, nel quantificare il danno non patrimo niale, il giudice ha tenuto conto degli effetti psicologici dell'at
tesa di giustizia lungamente protrattasi, dell'oggetto del giudizio e dei limiti entro cui la durata di esso può essere considerata ir
ragionevole. 4. - In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.
CORTE DI CASSAZIONE; sezioni unite civili; ordinanza 24 gennaio 2003, n. 1124; Pres. Ianniruberto, Rei. Ravagnani, P.M. Martone (conci, diff.); Inps (Avv. Mercanti, Riccio) c.
Graziani (Avv. Salerno, Allocca). Regolamento di giurisdi zione.
Impiegato dello Stato e pubblico in genere — Domanda di riliquidazione della pensione da parte di ex dipendente dell'Inps — Questioni anteriori al 30 giugno 1998 — Do manda proposta dopo il 15 settembre 2000 — Giurisdizio ne esclusiva del giudice amministrativo (D.leg. 31 marzo
1998 n. 80, nuove disposizioni in materia di organizzazione e di rapporti di lavoro nelle amministrazioni pubbliche, di giu risdizione nelle controversie di lavoro e di giurisdizione am ministrativa, emanate in attuazione dell'art. 11, 4° comma, 1.
15 marzo 1997 n. 59, art. 45; d.leg. 30 marzo 2001 n. 165, norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, art. 69).
La domanda proposta, dopo il 15 settembre 2000, da ex dipen dente dell Inps per conseguire la riliquidazione della pensio ne integrativa è devoluta alla cognizione del giudice ammini
strativo, se attinente a questioni anteriori al 30 giugno 1998. (1)
(1) Sulla decadenza ex art. 69, 7° comma, d.leg. 165/01 (ovvero come consentire alla Corte costituzionale di dichiararne l'incosti
tuzionalità).
Sommario:
1. Ricognizione del dato normativo. 2. Pronunce della Corte costituzionale. 3. Ordinanza del Tribunale di Napoli 23 gennaio 2003 di rimessione
alla Corte costituzionale. 4. Orientamenti della Corte di cassazione e del Consiglio di Stato sul
rapporto tra l'art. 45, 17° comma, d.leg. 80/98 e l'art. 69, 7° com
ma, d.leg. 165/01. 5. Interpretazione da adottare come parametro ai fini del giudizio di
costituzionalità. 6. L'imposizione del termine di decadenza ex art. 69, 7° comma, d.leg.
165/01 e gli art. 3 e 24 Cost. ... 1.... e l'art. 76 Cost.
1. - In primo luogo, una ricognizione delle molteplici disposizioni normative.
L'art. 11 1. 15 marzo 1997 n. 59 delega il governo a «devolvere, en tro il 30 giugno 1998, ... al giudice ordinario tutte le controversie rela tive ai rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazio
ni, ancorché concernenti in via incidentale atti amministrativi presup posti, ai fini della disapplicazione, prevedendo: misure organizzative e
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