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Sezione I civile; sentenza 14 luglio 1983, n. 4838; Pres. Bologna, Est. Corda, P. M. Sgroi V....

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Sezione I civile; sentenza 14 luglio 1983, n. 4838; Pres. Bologna, Est. Corda, P. M. Sgroi V. (concl. conf.); Istituto autonomo per le case popolari di Torino (Avv. Carusi, Griffa) c. Musso (Avv. Blangetti). Cassa App. Torino 15 settembre 1980 Source: Il Foro Italiano, Vol. 106, No. 10 (OTTOBRE 1983), pp. 2417/2418-2421/2422 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23175214 . Accessed: 28/06/2014 09:27 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 91.213.220.163 on Sat, 28 Jun 2014 09:27:54 AM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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Sezione I civile; sentenza 14 luglio 1983, n. 4838; Pres. Bologna, Est. Corda, P. M. Sgroi V.(concl. conf.); Istituto autonomo per le case popolari di Torino (Avv. Carusi, Griffa) c. Musso(Avv. Blangetti). Cassa App. Torino 15 settembre 1980Source: Il Foro Italiano, Vol. 106, No. 10 (OTTOBRE 1983), pp. 2417/2418-2421/2422Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23175214 .

Accessed: 28/06/2014 09:27

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

Ritiene il giudicante — dopo attento e meditato esame delle

argomentazioni svolte dalla Suprema corte — che le conclusioni a cui essa perviene non possano essere condivise.

Premesso infatti che se sono pienamente condivisibili le moti

vazioni giuridiche addotte per delineare la funzione e la portata delle disposizioni contenute nell'art. 336 c.p.c., non appaiono tuttavia accettabili quelle poste a base per ritenere l'idoneità

dell'attività esecutiva compiuta a sorreggere l'ulteriore prosecu zione del rapporto giuridico.

La corte argomenta — cosi riportandosi alle sentenze del 1980 — che bisogna distinguere il momento del ripristino della fattua

lità del rapporto col suo ulteriore svolgimento; onde devesi

distinguere tra l'attività di esecuzione del provvedimento giudizia le reintegratorio ed il complesso delle successive prestazioni costituenti effetto del rapporto cosi concretamente ripristinato. E

poiché, nella fattispecie in esame, il momento esecutivo si costi

tuisce uno putido temporis con il compimento delle operazioni materiali e giuridiche a mezzo delle quali il lavoratore viene

nuovamente inserito nell'organizzazione dell'impresa e messo nel

la condizione di adempiere alle sue obbligazioni, il rapporto di

lavoro resta ormai ripristinato de iure e de facto e tutti i

successivi adempimenti costituiscono il nonnaie svolgimento del

rapporto ripristinato e trovano in esso la loro fonte giuridica; con l'ulteriore conseguenza che l'efficacia espansiva della riforma

della sentenza pretorile non può operare su questa fattispecie sostanziale, ai sensi dell'art. 336, cpv., c.p.c.

Siffatto assunto non può essere condiviso, perché muove — a

parere del giudicante — dall'erroneo presupposto che i successivi

adempimenti (tanto del datore di lavoro quanto del lavoratore)

conseguenti al ripristino del rapporto costituiscono il normale

svolgimento del rapporto giuridico medesimo e trovano in esso la

loro fonte giuridica. Infatti, è noto che il rapporto giuridico è

una relazione di vita riconosciuta dall'ordinamento giuridico, con

l'attribuzione di un diritto ad un soggetto, a cui corrisponde la

subordinazione di uno o più altri soggetti. Pertanto, diritto ed

obbligo sono gli elementi costitutivi del rapporto giuridico: come

due lati — è stato detto — di una stessa medaglia. Deriva

ulteriormente che i successivi adempimenti predetti, se apparen temente costituiscono il normale svolgimento del rapporto ripri

stinato, in realtà costituiscono il contenuto, l'essenza del rapporto medesimo. Quindi, essi non trovano la loro fonte giuridica nel

rapporto con cui s'identificano, bensì nel contratto (di lavoro), da

cui nasce il rapporto od i rapporti giuridici. Ed invero, l'inseri

mento del lavoratore nell'impresa (in forza del contratto) deter

mina una molteplice varietà di rapporti giuridici, se si tien conto

dei rapporti con gli altri componenti dell'unità di lavoro, con le

r.a.s., con l'intera comunità dell'ambiente di lavoro.

Non è perciò esatto quanto ritenuto dalla Suprema corte; in

realtà, le successive prestazioni del datore di lavoro — in quanto contenuto del rapporto giuridico intercorrente tra datore di lavo

ro e lavoratore — non possono essere distinte dall'effettiva

prestazione del lavoratore.

La quale anch'essa trova la sua fonte nel contratto di lavoro

ripristinato dalla sentenza pretorile di primo grado. Ed in effetti,

il comando di reintegra contenuto in quella sentenza non è altro

che la conseguenza dell'accertamento dell'attuale ed ininterrotta

persistenza del contratto di lavoro, da cui — giova ribadirlo —

scaturiscono le reciproche prestazioni dei soggetti interessati e,

quindi, il relativo rapporto giuridico. Ed in forza di tale contratto, quindi, il datore di lavoro

reintegra e conserva il posto di lavoro al lavoratore, ed adempie alle successive prestazioni; cosi come il lavoratore presta la sua

attività lavorativa in favore del datore di lavoro.

Le suesposte argomentazioni comportano che il rapporto giuri dico in esame deve essere necessariamente considerato nella sua

interezza e nel suo svolgersi giornaliero, senza che sia possibile scindere tra loro e temporizzare il nuovo inserimento nel posto

di lavoro, la conservazione del posto medesimo, la corresponsione delle retribuzioni e la prestazione dell'attività lavorativa da parte

del lavoratore.

Eppertanto, quando la successiva sentenza riformatrice di quel

la di primo grado accerta che il contratto di lavoro si è risolto,

conseguenzialmente deve risolversi il rapporto giuridico, che da

esso scaturisce e che per esso si protrae. A nulla rilevando che

questa sentenza sia priva di vis executiva (nel senso inteso dalla

corte), proprio perché essa accerta — contrariamente a quanto accertato in primo grado — che il contratto di lavoro si è risolto

e che, conseguenzialmente, è venuto meno il suo effetto, cioè il

rapporto giuridico. Non è, quindi, nella disposizione dell'art. 336, cpv., c.p.c. che

deve trovare la sua disciplina la fattispecie in esame, bensì in

quella di cui all'art. 337, 1° comma, c.p.c.

Né può essere condivisa l'argomentazione della corte, secondo

cui la conservazione degli effetti esecutivi della sentenza (provvi soriamente esecutiva) di primo grado possono essere travolti solo dal passaggio in giudicato della sentenza riformatrice, anche per « evitare che l'assetto degli interessi coinvolti nella lite possa modificarsi in dipendenza delle eventuali contrastanti pronunce susseguentisi nel corso della stessa procedura, sicché proprio questa divenga fonte d'incertezza e disordine sostanziali; e ciò in relazione a situazioni ed interessi, che, per apprezzamento norma tivo o per la valutazione fattane dal giudice, sono meritevoli d'immediata tutela, con l'eccezionale anticipazione della qualità esecutiva della sentenza, e rispetto ai quali, quindi, appare razionale la prevalenza accordata all'esigenza della stabilità di fronte a rischi derivanti dal temporaneo protrarsi di una decisio ne la cui ingiustizia è ancora dubbia ... ».

A prescindere dalla considerazione che fra tali righe sembra

leggersi una distinzione tra organi giudicanti più o meno qua lificati, a siffatte argomentazioni è agevole obiettare — alla luce dei principi dispositivi e sostitutivi dell'impugnazione — che la sentenza del giudice di secondo grado si sostituisce in toto a

quella del giudice di primo grado e che quindi — attesa la natura stessa della funzione giurisdizionale — non è dato ad un

organo giudicante aprioristicamente presumere un'ingiustizia della decisione di secondo grado, fintanto che essa non viene mutata da altra decisione contraria; ed inoltre, che intanto determinate situazioni ed interessi sono ritenuti meritevoli di immediata

tutela, in quanto il giudice di primo grado riconosce la loro

sussistenza, mentre, per contro, quando il giudice di secondo

grado ritiene la loro insussistenza, viene meno la ragion d'essere della tutela anticipata.

Infine, anche motivi di giustizia sostanziale suffragano l'assunto di questo pretore: la disattesa decisione della Suprema corte

svuota, nella fattispecie, la natura e la funzione del giudizio d'impugnazione, che è un rimedio contro la (ritenuta dalle parti) ingiustizia della sentenza di primo grado.

Attendere il passaggio in giudicato della sentenza riformatrice, significa vanificare la tutela giurisdizionale riconosciuta dallo stesso legislatore alla parte soccombente in primo grado, la quale, suo malgrado e nonostante il giudice di secondo grado abbia riconosciuto la fondatezza delle sue doglianze, dovrà continuare ad obbedire ad una statuizione riconosciuta ingiusta. In partico lar modo, se si tien conto — come afferma la stessa corte — che «... un diritto del datore alla restituzione delle retribuzioni

corrisposte in tale periodo non sussiste neppure dopo il passaggio in giudicato della riforma, perché allora opera in via analogica l'art. 2126 c.c. ».

Appare evidente, infatti, che tale assunto — logico corollario di quelli precedenti — pone il datore di lavoro in condizione d'inferiorità rispetto al lavoratore, il quale continuerà comunque a trarre vantaggio da una decisione giurisdizionale inizialmente a lui favorevole, ma ormai caducata, se pure non definitivamente.

Con conseguente sospetto di legittimazione costituzionale — co me già posto in rilievo dalla dottrina — del principio giuridico enunciato dalla corte, in riferimento agli art. 3 e 24 Cost.

Pertanto, ritiene il giudicante — sulla base delle argomentazio ni svolle — che legittimamente la società resistente ha conferma to il licenziamento al ricorrente, in forza della sentenza del Tribunale di Torino in data 21 marzo 1982, che, in riforma della sentenza del Pretore di Ciriè, aveva riconosciuto la legittimità del licenziamento intimato con lettera 23 aprile 1980.

CORTE DI CASSAZIONE; Sezione I civile; sentenza 14 lu

glio 1983, n. 4838; Pres. Bologna, Est. Corda, P. M. Sgroi V.

(conci, conf.); Istituto autonomo per le case popolari di To

rino (Aw. Carusi, Griffa) c. Musso (Avv. Blangetti). Cassa

App. Torino 15 settembre 1980.

Edilizia popolare ed economica — Alloggi dell'edilizia residen

ziale pubblica — Trasferimento in proprietà — Domanda di

riscatto accettata dall'ente — Conseguenze (L. 8 agosto 1977 n.

513, provvedimenti urgenti per l'accelerazione dei programmi in

corso, finanziamento di un programma straordinario e canone mi

nimo dell'edilizia residenziale pubblica, art. 27; 1. 5 agosto 1978

n. 457, norme per l'edilizia residenziale, art. 52).

L'accettazione della domanda di riscatto avanzata dall'assegnata rio di un alloggio dell'edilizia economica e popolare, con la

contestuale comunicazione del prezzo di acquisto da parte dell'ente non è di per sé idonea a creare il vincolo contrattuale

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2419 PARTE PRIMA 2420

né di conseguenza a determinare il trasferimento della proprie tà qualora non intervenga l'effettiva stipulazione del contrat

to. (1)

Motivi della decisione. — Col primo motivo il ricorren

te I.a.c.p. (denunciando, ai sensi dell'art. 360, n. 3, c.p.c., la

violazione e falsa applicazione dell'art. 27, 2° comma, 1. 8 agosto 1977 n. 513, modificato dall'art. 52, 1° comma, 1. 20 marzo 1865

n. 2248, ali. E, censura la sentenza nel punto in cui ha

dichiarato « stipulato e concluso il contratto di compravendita » e

« trasferito in proprietà alla data del 26 febbraio 1973 » l'alloggio

già assegnato in locazione (dall'I.n.c.i.s.) all'odierno resistente.

Secondo il ricorrente, l'art. 27 1. 8 agosto 1977 n. 513, dopo avere (col 1° comma) disposto l'abrogazione delle norme discipli nanti il trasferimento in proprietà agli assegnatari di alloggi di

edilizia residenziale pubblica già assegnati in locazione semplice, detta (col 2° comma) le seguenti disposizioni transitorie: « le

domande per le quali non sia stato stipulato il relativo contratto

di cessione in proprietà, devono essere, a cura degli assegnatari, confermate entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della

presente legge. La mancata conferma fa decadere l'interessato da

ogni diritto. Alle domande confermate si applicano le norme

stabilite dal successivo art. 28 ».

L'art. 52 1. 5 agosto 1978 n. 457 aggiunge (1° comma), alla

riferita disposizione, il seguente periodo: « si considera stipulato e concluso il contratto di compravendita qualora l'ente proprieta rio o gestore abbia accettato la domanda di riscatto e comunicato

all'assegnatario il relativo prezzo di cessione qualora non previsto dalla legge ».

Ora, il ricorrente sostiene che la corte d'appello male avrebbe

interpretato le predette disposizioni, allorché ha dichiarato — in

relazione al caso concreto (caratterizzato dal fatto che l'ente

proprietario aveva, dopo ricevuta la domanda di cessione, comu nicato il prezzo al richiedente) — che doveva ritenersi già avvenuto il trasferimento della proprietà; e, riproponendo la tesi

sempre sostenuta nelle fasi di merito, assume che « le parole infelici della legge » starebbero « a significare che, quando vi è

stata la comunicazione dell'accettazione della domanda e della

misura del prezzo, l'assegnatario non ha più l'onere della con

ferma e il prezzo non deve più essere determinato nei nuovi

modi previsti dall'art. 28 ». Sostiene, cioè, che allorché si ritenga verificata la situazione di fatto descritta dal citato art. 52 1. del

1978, quest'ultima norma non tanto disporrebbe l'automatico tra

sferimento della proprietà ma semplicemente prevederebbe l'eso

nero dalla riconferma della domanda (per l'assegnatario ricorren

te) e dalla determinazione del prezzo secondo i criteri dettati

dall'art. 28 1. del 1977 (per l'ente cedente).

Dopo avere indicato gli inconvenienti che deriverebbero dall'in

terpretazione data dai giudici d'appello (« gli I.a.c.p. non sarebbe ro più tenuti, né legittimati a fare un atto di compravendita, né

potrebbero più disporre, sia pur a favore dell'assegnatario, di un

bene che è ormai divenuto di proprietà di quest'ultimo; il titolo

per ottenere la trascrizione diverrebbe la comunicazione stessa;

l'I.a.c.p. non potrebbe ritenersi subentrato nel rapporto qualora la

comunicazione e il conseguente trasferimento fossero avvenuti ad

opera di uno degli enti pubblici edilizi soppressi dall'art. 13

d.p.r. 30 dicembre 1972 n. 1036 »), il ricorrente sostiene che alla tesi da esso proposta si dovrebbe accedere già semplicemente adottando il criterio dell'interpretazione letterale, essendo si

gnificativo, al riguardo, che il legislatore, dopo avere dispensato dall'onere della rinnovazione della domanda coloro che già ave vano stipulato il contratto, abbia, poi, adoperato l'espressione « si considera stipulato e concluso il contratto » (non « è stipulato »); la norma dell'art. 52, cioè, dovrebbe essere correlata solo ed

esclusivamente all'esonero disposto dall'art. 27.

Sostiene, da ultimo, che la contraria interpretazione data dalla

corte d'appello sarebbe carente anche sul piano della logica, in

quanto finirebbe per configurare, nell'atto di comunicazione del

prezzo (fatta dall'ente cedente), una accettazione della « proposta contrattuale » fatta dall'assegnatario con la domanda di cessione. Ma ciò sarebbe errato, in quanto: 1) l'assegnatario che, avvalen dosi delle facoltà previste dal d.p.r. 17 gennaio 1959 n. 2,

(1) L'odierna decisione va ad aggiungersi all'ormai uniforme giuris prudenza della Cassazione formatasi sull'interpretazione dell'art. 52 1.

457/78 e si segnala soltanto per l'ampia motivazione con la quale giunge a ribadire l'insufficienza dell'accettazione della domanda di riscatto, con contestuale comunicazione del prezzo, ai fini del trasferi mento della proprietà dell'alloggio assegnato. Cfr. la recentissima Cass. 22 gennaio 1983, n. 615 (e le conformi pari data nn. 611 614), Foro it., 1983, I, 1266, con ampia nota di richiami, nonché Cass. 11 febbraio 1982, n. 835, ibid., 7.

presentava domanda di « riscatto », dava semplicemente impulso al procedimento di determinazione del prezzo: la sua, cioè, non

era una « proposta contrattuale di acquisto ex art. 1326 c.c., dal

momento che mancava di un elemento costitutivo del negozio di

compravendita, il prezzo, ex art. 1470 c.c. »; 2) l'ente proprieta rio o gestore che comunicava il prezzo, non tanto manifestava

« accettazione » ma esso stesso formulava una « proposta », come

risulterebbe chiaro dal fatto che il richiedente « poteva recedere

dalla richiesta perdendo il deposito di lire 5.000 (art. 10, 3°

comma, cit. d.p.r. n. 2 del 1959), oppure ricorrere contro la

misura del prezzo (art. 7), oppure stipulare l'atto di trasferi

mento (art. 10, 5° comma) ».

Il motivo di ricorso è sostanzialmente fondato.

Appare chiaro, anzitutto che, raffrontando la tesi propugnata dal ricorrente a quella esposta dai giudici di appello, risulta

evidente che, sul piano della semplice interpretazione letterale

della norma, entrambe le costruzioni appaiono possibili, al co

spetto di una espressione che ben a ragione è stata definita « poco felice ».

Infatti, se il « periodo » aggiunto viene correlato alle parole (contenute nel precedente periodo) « per le quali (domande) non sia stato stipulato il relativo contratto », si perviene alla conclu

sione cui sono giunti i giudici di merito, dovendo, in tal caso, la

disposizione essere letta come se dicesse: le precedenti domande

devono essere confermate entro sei mesi, nel caso in cui il

contratto non fosse stato già stipulato, considerandosi « già sti

pulato » anche il contratto risultante dal semplice incontro delle

due volontà di ottenere la cessione (domanda) e di attuarla a

una certa condizione (determinazione del prezzo).

Se invece, il detto « periodo » viene correlato a tutto il

contesto del periodo precedente, si perviene alla conclusione che

il legislatore, col predetto « periodo » aggiunto, ha semplicemente voluto chiarire che per prodursi l'effetto della cessione in pro

prietà non è sufficiente la « conferma » della domanda, poiché

occorre, ancora, che l'ente proprietario o gestore l'abbia accettata

e abbia, quindi, determinato il prezzo secondo i « nuovi » criteri

(quelli, cioè, dell'art. 28 1. del 1977), facendone debita comunica

zione al richiedente.

È chiaro, quindi, che la soluzione del problema non può essere

affidata al solo criterio di interpretazione letterale della legge,

come del resto avviene in tutti i casi in cui siano adoperate

parole o espressioni di dubbio significato. Occorre, perciò, fare

ricorso al criterio logico di interpretazione, cioè al criterio

dell'individuazione della ratio legis, ossia dell'individuazione della

ragione d'essere della norma, della finalità sociale cui la stessa è

diretta.

Ora, che la ratio della 1. del 1977 fosse quella di abolire la cessio

ne in proprietà degli alloggi, è cosa che non può essere messa in

dubbio. L'art. 27 in esame, infatti, esordisce stabilendo (1°

comma) che « sono abrogate, con effetto dalla data di entrata in

vigore della presente legge, le disposizioni contenute dal d.p.r. 17 gennaio 1959 n. 2 e nella 1. 14 febbraio 1963 n. 60 e

successive modificazioni e integrazioni, nonché in altre leggi che

comunque disciplinano il trasferimento in proprietà agli assegna tari di alloggi di edilizia residenziale pubblica già assegnati in

locazione semplice ». Ed è chiaro che se la legge intendeva

abolire le cessioni in proprietà e intendeva, però, far salve le

situazioni pregresse, con l'imposizione di un onere di « conferma

re » delle domande già presentate, urterebbe contro lo spirito della norma interpretare la disposizione in esame come se avesse

voluto non solo esonerare dall'onere predetto, ma addirittura

considerare già concluso il contratto, nel caso in cui alla « vec chia » domanda dell'ente proprietario o gestore avesse dato ri

sposta mediante comunicazione di un prezzo stabilito in base a

una normativa che si intendeva abrogare nella sua interezza.

Questa corte, d'altra parte, ha già avuto occasione di affrontare

e risolvere il problema nello stesso senso oggi sostanzialmente

propugnato dal ricorrente. Con la sentenza 22 gennaio 1983, n.

611 (Foro it., Mass., 117, cui il collegio intende adeguarsi, ritenen

dola perfettamente conforme allo spirito della legge), infatti, è

stato affermato che la disciplina transitoria fissata dall'art. 27 1. 8

agosto 1977 n. 510, come interpretato e integrato dall'art. 52 1. 5

agosto 1978 n. 457 (la quale regola compiutamente tutti i

rapporti ancora pendenti al momento della sua entrata in vigore), allorché dispone (in relazione alle domande per le quali fosse già stata fatta la comunicazione del prezzo) che « si considera stipu lato e concluso il contratto » non va intesa nel senso della costituzione ope legis del vincolo contrattuale e del conseguente trapasso di proprietà, bensì nel senso della semplice definitività e incontestabilità del diritto dell'assegnatario a conseguire la cessio ne mediante la stipulazione del contratto di compravendita (dirit

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

to che, peraltro, non è suscettibile di tutela con esecuzione in

forma specifica del correlativo obbligo dell'ente proprietario o

gestore dell'alloggio, a norma dell'art. 2932 c.c., in considerazione

dei connotati pubblicistici del relativo rapporto e della sua non

riconducibilità nell'ambito di un impegno a contrattare, assunto

con manifestazione di volontà negoziale, ma che può essere difeso con azione di accertamento, in caso di contestazione, e

con azione risarcitoria per la riparazione del danno derivante

della mancata stipulazione). E ciò perché la detta disposizione non ha, affatto, inteso innovare rispetto ai procedimenti e alle

forme di stipulazione dei contratti previsti dalle singole leggi che

già concedevano la (poi soppressa) facoltà di riscatto; conclusio

ne, questa, alla quale invece si perverrebbe se si attribuisse

all'espressione in esame (« si considera stipulato e concluso il

contratto di compravendita ») il significato semplicemente lettera

le, in contrasto, peraltro, con la disposizione contenuta nel 4°

comma dell'art. 28 1. 8 agosto 1977 n. 513, secondo cui «il

trasferimento della proprietà ha luogo all'atto della stipulazione del contratto » (laddove è chiaro che con l'espressione « stipula zione del contratto » la legge ha inteso fare preciso riferimento

all'atto pubblico formale, necessario anche per la trascrizione del

trapasso di proprietà). Di modo che è chiaro che la semplice ricorrenza delle circostanze indicate dalla disposizione in esame

(art. 52 cit.), cioè l'accettazione della domanda e la comunicazio

ne del prezzo, non è di per sé idonea a creare il vincolo contrattua

le, né, di conseguenza, a operare il trapasso della proprietà, se

non intervenga, poi, l'effettiva stipulazione del contratto.

È chiaro, cioè, che l'espressione in esame non può essere

interpretata nel senso letterale, di considerarsi già avvenuto il

trapasso della proprietà quando vi fosse stata (in relazione a una

domanda presentata nel rigore della normativa poi abrogata) la

« comunicazione del prezzo », poiché un tale effetto può conse

guire solo alla formale stipulazione del contratto. Di modo che,

tenuto conto della ratio legis e dei principi informatori della

materia, l'espressione in parola deve essere ridotta nella sua

portata, nel senso, appunto, di ritenere che l'art. 52 in esame

abbia inteso semplicemente porre una fictio iuris valida ai soli

fini di estendere la sfera delle posizioni salvaguardate dalla norma

abrogratrice, limitandosi, in definitiva, a far salvo il diritto alla

cessione in proprietà dell'alloggio, in favore di quell'assegnatario

che, all'entrata in vigore della norma abrogativa, si fosse trovato

in quelle condizioni.

Accolto, quindi, nei sensi sopra indicati, il primo motivo di

ricorso, resta assorbito il secondo, relativo alle spese giustiziali. Per effetto di tale accoglimento, deve cassarsi la sentenza

impugnata, in quanto informata ad un principio giuridico oppo sto a quello qui enunciato. La causa deve, pertanto, essere

rinviata a un altro giudice (che si designa in un'altra sezione

della stessa Corte d'appello di Torino), il quale, nella definizione

della controversia, dovrà attenersi ai criteri innanzi enunciati.

(Omissis

CORTE DI CASSAZIONE; Sezione II civile; sentenza 13 lu

glio 1983, n. 4775; Pres. G. Caleca, Est. Lo Coco, P. M. Ce

cere (conci, diff.); Vadalà (An. G. Guerra, Liuzzo) c. Va

dalà (Avv. Gaito, Marchese). Cassa App. Torino 4 ottobre

1980.

Divisione — Immobile non comodamente divisibile — Attribuzio

ne in natura — Criteri — Poteri del giudice (Cod. civ., art. 720).

Nella scelta del condividente cui assegnare l'immobile non como

damente divisibile il giudice deve seguire il criterio della

maggiore quota indicato dall'art. 720 c.c., potendosene discosta

re soltanto per gravi motivi attinenti agli interessi comuni dei

condividenti (nella specie, è stata cassata la sentenza con cui il

giudice di merito aveva attribuito l'intero immobile al condivi

dente avente diritto alla quota di un terzo, anziché agli altri

due che congiuntamente ne chiedevano l'attribuzione e avevano

diritto agli altri due terzi, giustificando tale scelta con motivi

estranei all'interesse comune dei condividenti quali: a) la cir

costanza che il prescelto esercitava nell'immobile stesso un'atti

vità commerciale; b) la valutazione delle intenzioni degli altri

due condividenti circa l'uso cui adibire l'immobile). (1)

(1) La Cassazione ritorna sul problema dei poteri del giudice nella

scelta del condividente (o dei condividenti) cui attribuire per intero il

bene non comodamente divisibile, problema reso ostico dall'equivoco tenore dell'art. 720 c.c. che, nell'indicare un criterio da seguire

Svolgimento del processo. — Con atto pubblico di compraven dita del 18 giugno 1974 i fratelli Girolamo e Paolo Vadalà

acquistarono dal fratello Giuseppe Vadalà, proprietario dell'intero, la comproprietà indivisa, per la quota di 2/3, di un edificio in

Tortona, via Pelizza da Volpedo n. 36, in catasto a f. 41/1 n.

1872, destinato ad esposizione e vendita di mobili d'arredamento, con annessi laboratorio e magazzino.

Con citazione notificata il 27 giugno 1977 Girolamo e Paolo Vadalà convennero davanti al Tribunale di Tortona il fratello

Giuseppe chiedendo: che venisse ordinata la divisione del bene

comune, limitatamente alla quota di 1/3 di spettanza del conve

nuto, lasciando invece indivisa la restante quota di 2/3, di cui essi attori erano titolari; che Giuseppe Vadalà venisse dichiarato tenuto al pagamento, con decorrenza dal 1° aprile 1977, delle somme dovute per il godimento delle quote di pertinenza di essi Girolamo e Paolo Vadalà, con gli interessi legali.

Il convenuto, costituitosi, dichiarò di nulla opporre alle avver sarie domande.

Con ordinanza del 9 dicembre 1977, l'istruttore, sull'accordo delle parti, dispose il richiesto scioglimento parziale della comu nione e nominò un c.t. con l'incarico di redigere un progetto di

« preferibilmente », lascia presumere la Sussistenza di uno spazio più o meno ampio per il giudice il quale intenda discostarsene facendo prevalere, sulla titolarità della maggiore quota, circostanze ritenute, nel caso concreto, più significative.

La giurisprudenza ha sinora accordato al giudice di merito un ampio potere discrezionale circa il criterio da adottare in relazione alle particolarità delle fattispecie concrete, limitando — se cosi può dirsi — tale discrezionalità soltanto con l'obbligo di indicare i motivi determinanti l'attribuzione all'uno piuttosto che all'altro condividente (Cass. 18 agosto 1981, n. 4938, Foro it., Rep. 1981, voce Divisione, n. 17; 12 dicembre 1980, n. 6401, id., Rep. 1980, voce cit., n. 29; 26 giugno 1980, n. 4003, ibid., n. 30; 10 novembre 1980, n. 6035, ibid., n. 33; 5 dicembre 1977, n. 5271, id., 1978, I, 1733; 29 maggio 1976, n. 1947, id., Rep. 1976, voce cit., n. 16; 17 maggio 1973, n. 1407, id., Rep. 1973, voce cit., n. 15, annotata da Alvino, in Giust. civ., 1973, I, 1510 e da Vacirca, in Foro pad., 1973, I, 426; 9 marzo 1973, n. 657, Foro it., Rep. 1973, voce cit., n. 17; 8 marzo 1971, n. 626, id., Rep. 1971, voce cit., n. 16; per altri precedenti, tutti nello stesso senso, v. Schutzmann, La giurisprudenza della Cassazione italiana sull'« arbitrium iudicis » nel giudizio di divisione (lineamenti di una comparazione con il diritto francese), id., 1977, V, 133, spec. 144 147).

Con l'odierna pronuncia il collegio, volendo « rettificare » tale indi rizzo ormai consolidato, giunge a restringere entro confini di ben difficile identificazione i poteri del giudice nella scelta del condividen te, con la conseguenza, non proprio commendevole, di rendere ancor più sibillina la portata normativa dell'espressione adoperata dall'art. 720. La preoccupazione di un ampliamento eccessivo dei poteri del giudice, non consentito — a dire della corte — dal contesto legislativo in cui la disposizione dell'art. 720 è inserita, spinge dunque la corte a formulare un principio di diritto entro cui il giudice di merito non può non trovarsi a disagio; e ciò in considerazione soprattutto dei multiformi interessi dei singoli condividenti che potrebbero in concreto sconsigliare l'attribuzione del bene indivisibile al condividente, o ai condividenti riuniti, titolari della maggiore quota.

A fronte della scelta « discrezionalistica » adottata dalla giurispru denza e confermata, nella dichiarazione d'intenti, dalla decisione ripor tata (che ha inteso apportare un « chiarimento » all'orientamento della corte di legittimità), si pone la tesi maggioritaria della dottrina secondo la quale il giudice sarebbe tenuto senz'altro a favorire il maggior quotista. V., da ultimo, Burdese, La divisione ereditaria, in Trattato diretto da Vassalli, Torino, 1980, 158 s., a cui dire si tratta di « disposizioni legislative che devono essere seguite sotto pena di

impugnativa da parte anche di uno solo dei condividenti, senza che sia riconosciuta in proposito discrezionalità di valutazione all'autorità giudiziaria»; cosi per Forchielli, Della divisione, in Commentario, a cura di Scialoja e Branca, 1970, 103, « in nessun caso il giudice ha il potere discrezionale di assegnare il bene indivisibile a Tizio o a

Caio, ma deve invece attribuirlo al « maggiore » aspirante (individuale o collettivo) »; nello stesso senso si esprimono anche Comporti, L'art. 720 c.c. e la sua applicabilità alla divisione della comunione volonta

ria, in Foro it., 1960, I, 2044 e Vacirca, Spunti in tema di attribuzione di immobili indivisibili, in Foro pad., 1973, I, 427. In senso contrario alla tesi ora esposta, che vanta a suo favore il testo della Relazione della commissione parlamentare (su cui, v. Schu

tzmann, cit., nota 4), non è mancato chi ha interpretato la norma secondo l'orientamento prevalente in giurisprudenza: cfr. Giannatta

sio, Delle successioni, in Commentario Utet, 1980, 41, secondo il

quale la norma « ha lasciato al giudice di determinare, nell'ambito del suo potere discrezionale, il criterio da adottare in relazione alle

particolarità dei casi concreti, imprevedibili in astratto, sempre facendo riferimento all'interesse comune dei condividenti »; nonché Mengoni, Successione necessaria, in Trattato diretto da Cicu e Messineo, 1967, 313; v., anche, Alvino, L'art. 720 c.c. ed i criteri di scelta per l'attribuzione del bene non comodamente divisibile, in Giust. civ., 1973, I, 1515.

F. Macario

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