sezione I civile; sentenza 14 marzo 1985, n. 1981; Pres. Santosuosso, Est. Lipari, P. M. Dettori(concl. conf.); Demaria (Avv. Dodero) c. Fall. soc. industria laterizi Vauda (Avv. Contaldi, Parisi).Conferma App. Torino 23 gennaio 1982Source: Il Foro Italiano, Vol. 109, No. 1 (GENNAIO 1986), pp. 187/188-191/192Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23180136 .
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PARTE PRIMA
l'effetto naturale della dichiarazione improcedibilità. E questa corte ha negato l'applicabilità dell'art. 348 c.p.c. al giudizio di
rinvio (Cass. 2 maggio 1957, n. 1482, Foro it., Rep. 1957, voce
Rinvio civile, n. 26; 3 ottobre 1969, n. 3168, id., Rep. 1969, voce
cit., n. 30).
Si deve aderire alla concezione che distingue tra norme rivolte a disciplinare specificamente il processo innanzi al giudice di rinvio individuato dalla sentenza di cassazione, e norme rivolte a
disciplinare il giudizio di appello in quanto tale; le prime sono da osservarsi perché proprie dell'organo investito dal giudizio di
rinvio, le seconde, solo in quanto compatibili con le caratteristi
che del giudizio di rinvio e specificamente, per quanto qui
interessa, in quanto non abbiano come loro presupposto la
sopravvivenza della pronuncia di primo grado. Ché in effetti, si tratta sempre di applicare una determinata
normativa ad un giudizio diverso da quello per il quale è stata
posta, e pertanto si deve tenere conto della compatibilità con le
specifiche caratteristiche del giudizio di rinvio.
Ne consegue, ad esempio, che in questo giudizio è inapplica bile l'art. 345 c.p.c. dovendosi applicare l'art. 394 c.p.c. e non
essendo ammissibili conclusioni diverse da quelle già prese, salvo
che la necessità di nuove conclusioni sorga dalla sentenza di
cassazione (Cass. n. 1761/75, id., Rep. 1975, voce cit., n. 18) e
ciò nel senso che questa sentenza abbia prodotto di per sé una
modificazione della materia del contendere (Cass. n. 561/75, ibid., n. 28); il riesame dei fatti è consentito soltanto in quanto la
cassazione sia avvenuta a seguito dell'accertamento di quei fatti
secondo una motivazione difettosa (Cass. n. 2232/75, ibid., n. 13); non sono più conoscibili d'ufficio le questioni non rilevate dalla
Corte di cassazione, giacché il loro riesame porrebbe nel nulla o
limiterebbe gli effetti della sentenza di cassazione (Cass. n.
1041/75, ibid., n. 11); è inibita alle parti ogni attività istruttoria
o assertiva di fatto, non spiegata già nel giudizio di appello o
non dipendente dalla sentenza di Cassazione (Cass. n. 1762/75,
ibid., n. 18); la competenza del giudice designato è incontestabile, ed è inammissibile il regolamento di competenza (Cass. n. 3795/81,
id., Rep. 1981, voce Competenza civile, n. 228; 6074/78, id., Rep.
1978, voce Rinvio civile, n. 5); la riassunzione si considera
rituale, e non si verifica l'estinzione del procedimento ex art. 393
c.p.c. anche se la citazione è notificata ad una sola delle parti
(Cass. 1216/80, id., 1980, I, 2547); le preclusioni derivanti dal 3°
comma dell'art. 394 c.p.c. operano anche quando oggetto del
giudizio di rinvio è una controversia di lavoro, non potendosi
invocare l'applicazione dell'art. 437, 2° comma, c.p.c. che è
dettato esclusivamente per l'appello (Cass. n. 4489/79, id., Rep.
1979, voce Lavoro e previdenza (controversie), n. 488); il giudizio
di rinvio è la continuazione del giudizio iniziato davanti la
Cassazione, in quanto ne rappresenta la fase rescissoria, e l'atto
costitutivo di tale fase non è la riassunzione ma la stessa sentenza
di cassazione (Cass. n. 66/46, id., 1946, I, 182), l'atto riassuntivo, a
differenza dell'atto introduttivo del giudizio, dell'atto di appello e
del ricorso per cassazione, è un mero atto di impulso processuale. Ben vero che le conclusioni debbano essere riprodotte ex novo
e che quelle non riproposte si debbano intendere abbandonate
(Cass. sent. n. 2620/61, id., Rep. 1961, voce Rinvio civile., n. 41);
ma ancorché la riassunzione debba essere fatta con citazione
notificata personalmente, se sia avvenuta da una parte limitamen
te alla richiesta di restituzione o di riduzione in pristino di cui
all'art. 389 c.p.c., la controparte può chiedere la discussione delle
questioni di merito mediante il mero deposito della comparsa di
risposta, senza necessità di notificare personalmente la comparsa stessa (Cass. n. 3294/62, id., Rep. 1962, voce cit., n. 28).
Ne discende, con sufficiente sicurezza, che l'applicabilità al
giudizio di rinvio del 3° comma dell'art. 436 c.p.c. dovrà affer
marsi solo ove si tratti di norma compatibile con il giudizio di
rinvio, e che risulti dettata non in funzione della regolamentazio ne dell'appello in quanto tale. Diversamente la norma deve
ritenersi inapplicabile, per l'effetto, la sentenza impugnata erro
neamente ha omesso l'esame dell'appello incidentale della ricor
rente principale.
Innanzi tutto la incompatibilità è esplicitamente denunciata
dall'inciso « se propone appello », che sta ad indicare come tutte
le regole che seguono riguardano la proposizione del gravame, nel
caso del giudizio di rinvio, invece, lo si è visto, il gravame è
stato già proposto a suo tempo, tanto che un appello incidentale
ex novo sarebbe ben difficilmente concepibile. Ed anzi, per
questa ragione, viene meno anche la necessità della specificità di
quei motivi, atteso che essi, essendo già specifici e non da
formulare per la prima volta, consentono l'esercizio della difesa
anche se sommariamente richiamati. Ma oltre a ciò si deve
Il Foro Italiano — 1986.
considerare come l'art. 436 c.p.c., ancorché dettato nell'ambito del
c.d. rito del lavoro, risponde ad esigenze attinenti specificamente alla dinamica delle impugnazioni, rivolto come è ad assicurare una
efficace e tempestiva conoscenza del thema decidendum, rispetto alle quali esigenze la specificità del processo c.d. del lavoro, almeno
nelle intenzioni del legislatore, era quella di assicurare anche una
sollecita trattazione. La inapplicabilità della norma anzidetta di
scende ineluttabilmente dalla affermazione che il giudizio di
rinvio non è un giudizio di appello ma la fase rescissoria che
presuppone l'avvenuta impugnazione, e, inoltre, che la notifica
zione della memoria di costituzione risponde ad esigenze proprie della tempestiva conoscibilità del gravame incidentale, laddove la
specificità della disciplina in funzione laburistica non può nem
meno dirsi prevalente. Ne consegue l'accoglimento dell'appello principale. Quanto ai motivi del ricorso incidentale, essi — sia per quanto
concerne i criteri di determinazione della importanza della inven
zione, sia per quanto ottiene i fattori da esaminare per de
terminare il vantaggio trattone dalla ricorrente principale, sia
per la censura in ordine al governo delle spese, sia infine
per la omessa rivalutazione monetaria — attengono a tutte que stioni che sorgono in relazione alla denunciata insufficiente mo
tivazione, ma che, riguardando il merito ed essendo in ogni caso logicamente subordinate all'esito della eccezione di prescri zione spiegata dalla società ricorrente, potranno essere riproposte innanzi al giudice di rinvio. (Omissis)
CORTE DI CASSAZIONE; sezione I civile; sentenza 14
marzo 1985, n. 1981; Pres. Santosuosso, Est. Lipari, P. M.
Dettori (conci, conf.); Demaria (Avv. Dodero) c. Fall. soc.
industria laterizi Vauda {Avv. Contaldi, Parisi). Conferma
App. Torino 23 gennaio 1982.
Società — Società di capitali — Sindaci — Responsabilità —
Amministratori unici soci — Irrilevanza (Cod. civ., art.
2407). Società — Società di capitali — Sindaci — Responsabilità —
Risarcimento del danno — Debito di valore (Cod. civ., art.
1277, 2407).
I sindaci di una società per azioni sono tenuti all'adempimento dei loro doveri, anche quando si tratti di società nella quale gli amministratori sono gli unici soci.(l)
(1) È per la prima volta, a quanto consta che la Cassazione si
pronunzia sull'argomento. Se ne sono occupati, decidendo in senso
conforme, App. Torino 9 luglio 1975, Foro it., Rep. 1976, voce Società, n. 196; Trib. Milano 19 gennaio 1974, id., Rep. 1975, voce
cit., n. 249. La fattispecie del piccolo imprenditore, che ordina l'impresa in forma
di società di capitali e che si rivolge all'amico professionista perché ricopra la carica di presidente del collegio sindacale, è ricordata da
Chiaraviglio, Compiti e responsabilità dei sindaci di società di
capitali e dei revisori dei conti, in Riv. società, 1979, 548. Puntualmente, afferma la necessità di maggiore attenzione da parte dei
sindaci in situazioni potenzialmente pericolose, quale è quella in cui vi sia coincidenza tra soci ed amministratori, Ferro Luzzi, La funzione dei sindaci nel codice civile, ecc., in Banca, borsa, ecc., 1985, I, 38.
Sulla inadeguatezza del meccanismo di nomina dei sindaci, che avvie ne ad opera della stessa assemblea che nomina gli amministratori, cfr.
Cavalli, Le società per azioni, Torino, 1983, II, 496, il quale rileva come la esistenza di una matrice comune tra controllati e controllori, entrambi espressione di una medesima maggioranza e, per ciò stesso, di coincidenti interessi, incida sulla concreta funzionalità dell'istituto.
Quanto all'interesse tutelato dei sindaci nell'esercizio delle loro
funzioni, una corrente di opinione ritiene che il controllo sindacale debba essere svolto, oltre che nell'interesse della società e delle minoranze, anche in quello, di volta in volta concorrente od esclusivo
(ed in certi casi addirittura contrastante con quello dei soci), dei terzi creditori: Di Sabato, Manuale delle società, 1984, 415; Frè, Società per azioni, in Commentario, a cura di Scialoja e Branca, 1951, 430; Martorano, Inattività e decadenza del collegio sindacale, in Foro it., 1954, I, 816. Altra corrente, invece, opina che l'interesse dei terzi venga tutelato solo mediatamente attraverso il pratico risultato di una corretta gestione sociale, garantita dai sindaci nell'interesse diretto ed esclusivo della società: Ferri, Manuale dir. comm., 1980, 399.
Per completezza di informazione, si ricorda la proposta di quinta direttiva CEE {in Giur. comm., 1983, I, 960), concernente la struttura della società per azioni nonché d poteri e gli obblighi dei suoi organi sociali. Trattasi di proposta modellata sulla realtà delle grandi imprese, talché l'attuazione della direttiva, se adottata nella forma suggerita o in altra che partecipi degli stessi principi, renderebbe in Italia
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
La responsabilità dei sindaci di una società per azioni, per danno
cagionato dal mancato adempimento dei loro doveri, dà luogo a un debito di valore. (2)
Motivi della decisione. — 1. - I giudici di merito hanno ritenuto in applicazione dell'art. 2407 c.c. il ricorrente, quale presidente del collegio sindacale della società fallita, responsabile in solido con gli amministratori verso il fallimento, avendolo riconosciuto, con motivazione articolata ed esauriente, inadem
piente ai doveri della carica, ravvisando la sussistenza del nesso di causalità fra l'omessa vigilanza e la produzione del danno verificatosi per effetto del comportamento degli amministratori, in puntuale applicazione dell'indirizzo giurisprudenziale di questa corte (consacrato nelle sentenze n. 4891/80, Foro it., 1981, I, 440; 1281/77, id., 1977, I, 1421; e 790/74, id., 1975, I, 429).
È stato affermato nelle richiamate sentenze che la responsabili tà dei sindaci di una società, a norma dell'art. 2407, 2° comma, c.c., in solido con gli amministratori, per i fatti e le omissioni di costoro postula l'inosservanza, da parte dei sindaci medesimi, di doveri di vigilanza inerenti alla loro carica, nonché un rapporto di causalità fra tale inosservanza ed il danno, con la conseguenza, che, in ipotesi di fallimento della società e di correlativa
commisurazione del danno alla insufficienza dell'attivo fallimenta
re, la responsabilità sussiste e va qualificata nei limiti in cui la rilevata differenza negativa tra passivo ed attivo sia legata con
nesso di causalità all'indicato comportamento omissivo dei sindaci
(Cass. 4891/80, cit.) la cui rilevazione appartiene, secondo i
principi, ai giudici di merito, trattandosi di operare valutazioni di
fatto, non censurabili in sede di legittimità se congruamente e correttamente motivate (Cass. 790/74, cit.).
La responsabilità degli amministratori è ormai fuori discussio
ne; per taluni di essi essendo passata in giudicato la sentenza che li concerneva e per altro (il Dagnino) essendo intervenuta una transazione proparte.
La materia del contendere resta, pertanto, focalizzata su due
punti: la sussistenza della responsabilità del Demaria; la qua lificazione del debito da responsabilità ex art. 2407, 2° comma, risultante dalla condanna come debito di valore, e non di valuta, con le correlative conseguenze in ordine alla rivalutazione per equilibrare l'intervenuto svilimento della moneta derivante dal noto processo inflattivo in corso.
A sua volta, la censura riguardante la ritenuta responsabilità si articola in due mezzi, il primo dei quali, sotto la rubrica
«violazione degli art. 1218, 2403, 2407, 2408, 2394 c.c., 115, 360, nn. 3 e 5, c.p.c. », lamenta che la corte del merito abbia preteso « indebitamente » che il dott. Demaria e gli altri soci esercitassero
un impossibile rigoroso controllo su una contabilità che non
esisteva, dimenticando, in sostanza, che quando i sindaci non
vengono posti in grado di svolgere i compiti loro affidati, la legge offre ad essi una sola possibilità, quella di convocare l'assemblea,
rimedio, peraltro, non praticabile quando, come nella specie, gli amministratori sono portatori dell'intero capitale sociale; in tale
eventualità, ai sindaci non è data altra possibilità che quella di
dimettersi, il che appunto si è verificato nel caso concreto.
Nella memoria si precisa testualmente che « il primo fondamen
tale errore commesso dalla corte del merito consiste nell'avere
erroneamente dedotto dal fatto che la gestione degli affari della
fornace di Volpiano avvenne senza il rispetto delle norme previ ste dalla legge per le società anonime, la indebita conseguenza che gli amministratori debbano essere condannati a pagare danni
inevitabile, per le strutture a carattere familiare come quella di cui alla sentenza, la scelta di forme societarie diverse da quella della società per azioni.
Secondo quanto riferito da Marziale, La proposta di quinta direttiva
CEE, in Le società, 1985, 168, le società azionarie in Italia alla data del 31 dicembre 1983 operanti erano 55.256 e di esse ben 43.931 avevano un capitale inferiore a un miliardo e solo 1.685 un capitale superiore a cinque miliardi. La proposta ha formato argomento di una tavola
rotonda, con interventi di vari autori e che sono, riportati in Le
società, 1985, 125 ss. Sull'argomento, v. anche Ricolfi e Montalenti, La proposta modificata di quinta direttiva comunitaria sulle società
per azioni, in Giur. comm., 1985, I, 256, e ora Zanarone, L'invalidità
delle delibere assembleari negli art. 42-46 della proposta modificata di
quinta direttiva, ibid., 765.
(2) Sulla seconda massima si veda, in senso conforme, App. Milano
22 gennaio 1974, Foro it., Rep. 1974, voce Società, n. 218; Cass. 21
agosto 1950, n. 2513, id., 1951, I, 437, con osservazioni di A. Scialoja. Per i limiti entro i quali i sindaci rispondono del danno, Cass. 30 luglio 1980, n. 4891, id., 1981, I, 440, con osservazioni di Martinelli ed ivi
richiami, cui adde Adiutori, La responsabilità solidale dei sindaci, in
Fallimento, 1982, 1128.
Il Foro Italiano — 1986.
che non si sono verificati in conseguenza di tali violazioni;
peggio ancora che i sindaci debbano rispondere in solido con essi
di tutte le passività sorte in qualsiasi epoca e per qualsiasi
ragione ». Tale notazione si ricollega al secondo motivo del ricorso
con il quale si lamenta che sia stato riconosciuto un nesso di
causalità fra le omissioni addebitate al Demaria ed il danno in
concreto verificatosi, dovendosi ascrivere il dissesto della società
non alle azioni degli amministratori, ma alla situazione del settore
dell'industria dei laterizi, che subì nel 1964 un improvviso crollo
a seguito del quale il prodotto venne svenduto per far fronte alla
esecuzione esattoriale.
Ai fini della puntualizzazione dell'oggetto del ricorso questa deduzione va confrontata con il primo mezzo di impugnazione il
quale risulta tutto teso a dimostrare che il collegio sindacale è
stato strutturato dal legislatore con riguardo allo schema della
società per azioni, per garantire i soci contro l'operato degli amministratori in una situazione di grande complessità organizza tiva che comporta alla base un grande numero di soci, facenti
capo all'assemblea come tale ben distinta dagli amministratori
incaricati del governo della società. Quando invece i soci si
identificano con gli amministratori, portatori dell'intero (e ben
limitato) capitale sociale, tale complesso meccanismo di controllo
non soltanto non ha astratta ragione di essere ma non può funzionare in concreto, venendosi a sovrapporre i ruoli di
amministratore e socio e non essendovi più ragione di ipo tizzare il collegio sindacale quale organo di controllo inter
mediato fra assemblea di soci e di amministratori, rispondendo
gli amministratori quali soci possessori dell'intero pacchetto azio
nario a se stessi.
Solo una società per azioni di notevoli proporzioni economiche
secondo il ricorrente è in grado di impiantare, e tenere aggiorna
ti, i libri contabili, altrimenti deve affidare la gestione contabile a
professionisti esterni i quali si limitano ad operare sulla base dei
dati ad essi forniti. In una situazione siffatta il compito dei
sindaci è formale, corrispondendovi un compenso irrisorio.
Quando i sindaci non vengono posti in grado di esercitare i
controlli loro affidati non possono essere ritenuti responsabili per il dissesto che gli amministratori soci possessori dell'intero capita le sociale hanno provocato.
2. - Si è dato ampio spazio all'esposizione della censura per
coglierne l'inattendibilità sul piano delle implicazioni giuridiche ai
fini della decisione del ricorso. È di tutta evidenza che se nel
nostro ordinamento le società, costituite secondo lo schema della
società per azioni, devono essere strutturate in un certo modo i
giudici non possono che applicare quei meccanismi normativi di
cui del resto non si revoca in dubbio la legittimità costituzionale, nemmeno sotto l'aspetto della ragionevolezza.
È esatto che la società per azioni postula una consistenza
economica piuttosto rilevante: probabilmente risultando già ina
deguata sotto la spinta inflazionistica la misura di duecento
milioni di capitale, fissata dalla 1. n. 904 del 1977. Ma piuttosto il
discorso impostato in questa ottica riesce ben difficilmente « giu
stificabile » e non si presta ad essere calato in censure di
violazione di legge quando, come nella specie, le norme di legge
sono state esattamente applicate dai giudici e ci si duole essen
zialmente dell'« inopportunità » della normativa vigente, impo
stando un discorso che impinge esclusivamente nel campo della
discrezionalità del legislatore.
Di questa presa di posizione sul versante dell'opportunità della
legge applicata al giudice in sede di legittimità importa sottoli
neare il solo possibile riflesso che si presenta con i connotati
della legittimità, laddove si sostiene che l'identificazione degli amministratori con i portatori dell'intero pacchetto azionario
escluderebbe in radice la stessa ragion d'essere del collegio
sindacale, non sorgendo la necessità di tutelare i soci dell'operato
degli amministratori data la identità in fatto delle due categorie.
Per la verità di questa identificazione fra soci ed amministrato
ri non è stata data nel corso del giudizio di merito dimostrazione
veruna; e non risulta che il Demaria abbia effettuato deduzioni
in tal senso. È agevole, peraltro, obiettare che la società di
capitali gode di personalità giuridica e in questa contrapposizione fra società e soci sta la ragion d'essere della previsione dell'azio
ne di responsabilità contro gli amministratori, la cui fondatezza
nel presente giudizio è un dato imprescindibile, coperto da
giudicato interno in presenza del quale non si potrebbe, in
nessun caso, in punto di diritto ipotizzare l'esclusione della
responsabilità dei sindaci venuti meno ad una funzione di con
trollo che non avrebbe avuto modo di svolgersi utilmente, sicché
il discorso ricade negli schemi delle valutazioni di merito per
quanto attiene al nesso di causalità ed alla consistenza del danno.
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PARTE PRIMA
Ma su questo versante del nesso di causalità il ricorrente non
può essere seguito una volta messo in chiaro dai giudici del merito che il controllo che gli era stato richiesto, in conformità alla funzione istituzionale dell'organo, era un controllo astratta mente e concretamente possibile. Sono state minuziosamente evi denziate le inadempienze addebitate al Demaria per sottrarsi alle cui conseguenze non avrebbe avuto senso richiamarsi a dimissioni
minacciate ma non effettive, come era risultato dalle sottoscrizioni da lui apposte nella qualità di presidente del collegio sindacale.
In definitiva, per evitare la condanna, il Demaria, nonostante la sua qualità di commercialista, sarebbe disposto a passare per uno sprovveduto travolto da una situazione incontrollabile e che
perciò nulla fece per controllare. Ma è tesi di cui i giudici di merito si sono dati diligentemente dato carico, disattendendolo con motivazione, giova ribadirlo, particolarmente minuziosa e
diligente.
In conclusione la società industrie laterizi Vauda era una società per azioni, come tale sottoposta alla disciplina dettata dal codice civile che prevede fra gli organi sociali il collegio dei sindaci con funzioni di controllo non svolte anche da parte del
presidente Demaria, cui è stata addebitata dai giudici di merito tutta una serie di comportamenti dotati di efficacia causale pregiudizievoli per la società, non avendo posto egli tempestiva mente riparo alla mala gestio degli amministratori. Tali compor tamenti non sono, né lo potrebbero, essere revocati in dubbio dal ricorrente il quale attacca, senza successo, le notazioni riguardanti il nesso di causalità, incontrando la preclusione dell'insindacabili tà degli apprezzamenti fattuali sorretti da congrua motivazione, mentre vanamente cerca di sottrarsi alla responsabilità del manca to controllo adducendo di non avere disposto dei necessari
strumenti, con ciò aggravando la sua posizione, risultandone enfatizzata la colpevole inerzia per il mancato ricorso agli istituti
giuridici previsti dalla legge a tutela delle funzioni di controllo, senza che valgano ad esentarlo da responsabilità dimissioni non formalizzate e comunque smentite dal continuato svolgimento dei
compiti formali inerenti alla, carica. 4. - Il terzo motivo è privo di fondamento giuridico. Secondo il ricorrente l'obbligazione dei sindaci per inosservanza
dei doveri di controllo su di essi incombenti sarebbe obbligazione di somma di danaro in considerazione specialmente dei limitati
poteri che i sindaci hanno specie nelle piccole società, « tenuto anche conto che i compensi loro accordati all'atto della nomina sono irrisori », poiché « una certa corrispettività tra obblighi e
compensi deve pur esistere ».
Osserva il collegio che per la qualificazione di una obbligazio ne come obbligazione di valuta, ovvero di valore non rileva la circostanza che la relativa condanna sia stata espressa in moneta, occorrendo avere riguardo al « titolo » della condanna.
Obbligazioni pecuniarie soggette al principio nominalistico, a norma dell'art. 1277 c.c., sono quelle originariamente costituite in valuta e non quelle che si traducono in espressione monetaria per sopravvenute vicende del rapporto, ossia per modificazione del
l'oggetto originario della prestazione nel suo equivalente pecunia rio; in questa ipotesi il debito monetizzato rappresenta la commi surazione del valore dell'originaria prestazione e viene denomina to appunto debito di valore giacché si traduce nella quantità di moneta che nel momento della solutio rappresenta per il creditore
l'equivalente della prestazione. Vi sono prestazioni, cioè, che pur consistendo in versamento di somma hanno carattere valoristi co perché la monetizzazione si presenta come mero indice liqui datario di un valore che deve essere conseguito.
Ed è nozione di carattere istituzionale che l'obbligazione risar citoria per fatto illecito, anche nel caso in cui il danno consista nella perdita di una somma di danaro, mantiene la sua natura di debito di valore e, come tale, deve essere determinata tenendo conto della svalutazione monetaria intervenuta sino alla data della liquidazione con la sentenza (definitiva) di condanna che ne
segna la conversione in debito di valuta.
Pertanto non rileva che il danno nel caso di specie si sia manifestato in perdite pecuniarie della società essendo determi nante il titolo « risarcitorio » della condanna espressa in moneta e necessariamente adeguato alla svalutazione della moneta stessa
(Cass. 3542/78, id., Rep. 1978, voce Danni, n. 109).
Che poi il ricorrente riprenda il motivo dominante delle sue censure circa la « iniquità » del vigente sistema che colpisce i sindaci anche se mal pagati e non in grado di svolgere i compiti di controllo nelle piccole società dominate dagli amministratori
portatori dell'intero capitale sociale, è notazione priva di rilevan za giuridica; sia in se e per se (come si è osservato nel confutare il primo mezzo di ricorso), sia nella prospettiva della rivalutazio
II Foro Italiano — 1986.
ne, risultandone palese l'assoluta inconferenza al problema qua lifica torio.
Posto dunque che la responsabilità degli amministratori e dei
sindaci di una società nei riguardi degli azionisti e dei creditori
per danni cagionati dal non aver adempiuto ai doveri del loro
ufficio dà luogo ad un debito di valore (Cass. 2513/50, id., 1951,
I, 437; 3768/78, id., Rep. 1978, voce Società, n. 201) il cre
dito doveva essere rivalutato così come è avvenuto, restando
incensurabile, e non essendo stato in effetti censurato, il criterio
rivalutativo adottato dal giudice di merito che si è richiamato ai
coefficienti dell'istituto di statistica.
5. - In conclusione il ricorso deve essere rigettato. (Omissis)
I
CORTE DI CASSAZIONE; sezione III civile; sentenza 12
marzo 1985, n. 1942; Pres. Novelli, Est. Laudato, P. M.
Ferraiuolo (conci, conf.); Soc. coop, ortofrutticola Trapa nese (Avv. Orlando) c. Greco e altri (Aw. Cavaliere,
Catania). Conferma Trib. Trapani 12 maggio ,1981.
Locazione — Nuda area — Legge 392/78 — Inapplicabilità (L. 27 luglio 1978 n. 392, disciplina delle locazioni di
immobili urbani, art. 27).
Il contratto con il quale una parte concede il godimento di
un'area nuda con facoltà per l'altra parte di costruirvi opere murarie di carattere precario ai fini dell'esercizio di atti
vità commerciale, non è soggetto alle norme della l. n.
392/78. (1)
II
TRIBUNALE DI MILANO; sentenza 17 ottobre 1985; Pres.
Nitti, Est. Covelli; Fontanive (Avv Garisto) c. Soc.
Tandoj & C. (Avv. Samarelli, A. Nanni).
Locazione — Nuda area — Destinazione ad attività commer ciale — Legge 392/78 — Regime vincolistico — Applicabi lità (L. 28 luglio 1978 n. 392, art. 27, 67, 68).
Il contratto di locazione di un'area nuda adibita all'esercizio di attività commerciale (nella specie, ad uso di deposito) rientra tra quelli disciplinati dagli art. 27 ss. I. n. 392/78, ed era in
precedenza assoggettabile alle leggi di proroga delle locazioni di immobili urbani. (2)
<'1-2) Le pronunzie qui riprodotte sono indicative dello stato della giurisprudenza di legittimità e dell'elaborazione di quella di merito, e dei contrasti esistenti, in ordine alla individuazione della normativa applicabile alla locazione di area nuda.
Cass. n. 1942/85 si limita a ribadire il principio, già affermato in tema di competenza per materia ex art. 30 e 45 1. n. 392/78 da Cass. 3 settembre 1982, n. 4801, Foro it., Rep. 1983, voce Locazione, n. 199, e da Cass. 9 dicembre 1981, n. 6503, id., Rep. 1982, voce cit., n. 917 (e, con riferimento alla precedente legislazione vincolistica, da Cass. 15 dicembre 1984, n. 6598, id., Rep. 1984, voce cit., n. 126, e 24 settembre 1981, n. 5177, id., Rep. 1982, voce cit., n. 186, che hanno rilevato la inapplicabilità per analogia di tale normativa, atteso il suo carattere eccezionale), secondo cui la cessione del godimento di un'area inedificata con facoltà per il conduttore di costruirvi un manufatto non costituisce (indipendentemente dalla destinazione dell'area o della erigenda costruzione) un contratto di locazione, ma un contratto di natura mista, che è quindi sottratto alla disciplina delle locazioni di immobili urbani. Nello stesso senso v. Trib. Palermo 16 novembre 1983, id., Rep. 1984, voce cit., n. 156; e Pret. Verona 17 aprile 1985, Arch, locazioni, 1985, 317. Di opinione contraria è, invece, Cass. 21 giugno 1979, n. 3444, Foro it., Rep. 1980, voce cit., nn. 249, 250.
Il fattore atipico dato dalla facoltà edificatoria del conduttore ha, pe raltro, rilievo secondario, giacché la Cassazione nell'applicare le norme del regime vincolistico ha tradizionalmente escluso che questo riguar dasse le aree nude, in base ad una interpretazione della espressione « immobile urbano » restrittiva e tale da comprendere soltanto le costruzioni erette sul suolo per opera dell'uomo, osservando che negli altri casi mancava « quel superiore interesse collettivo che impronta e giustifica la tutela eccezionale » della legislazione in questione: v. Cass. 14 giugno 1982, n. 3628, id., Rep. 1982, voce cit., n. 253; 7 luglio 1981, n. 4437, id., Rep. 1981, voce cit., n. 445; 18 febbraio 1981, n. 976, ibid., n. 446; e la risalente Cass. 25 gennaio 1965, n. 131, id., 1965, I, 802, con nota di richiami; nonché, tra le pronunzie di meri to, Pret. Monza 21-28 marzo 1983, id., Rep. 1984, voce cit., n. 434, e id., Rep. 1983, voce cit., n. 530. Tale indirizzo è seguito, a proposito della
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