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sezione I civile; sentenza 14 marzo 1985, n. 1981; Pres. Santosuosso, Est. Lipari, P. M. Dettori...

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sezione I civile; sentenza 14 marzo 1985, n. 1981; Pres. Santosuosso, Est. Lipari, P. M. Dettori (concl. conf.); Demaria (Avv. Dodero) c. Fall. soc. industria laterizi Vauda (Avv. Contaldi, Parisi). Conferma App. Torino 23 gennaio 1982 Source: Il Foro Italiano, Vol. 109, No. 1 (GENNAIO 1986), pp. 187/188-191/192 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23180136 . Accessed: 24/06/2014 23:33 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 185.2.32.121 on Tue, 24 Jun 2014 23:33:08 PM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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sezione I civile; sentenza 14 marzo 1985, n. 1981; Pres. Santosuosso, Est. Lipari, P. M. Dettori(concl. conf.); Demaria (Avv. Dodero) c. Fall. soc. industria laterizi Vauda (Avv. Contaldi, Parisi).Conferma App. Torino 23 gennaio 1982Source: Il Foro Italiano, Vol. 109, No. 1 (GENNAIO 1986), pp. 187/188-191/192Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23180136 .

Accessed: 24/06/2014 23:33

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PARTE PRIMA

l'effetto naturale della dichiarazione improcedibilità. E questa corte ha negato l'applicabilità dell'art. 348 c.p.c. al giudizio di

rinvio (Cass. 2 maggio 1957, n. 1482, Foro it., Rep. 1957, voce

Rinvio civile, n. 26; 3 ottobre 1969, n. 3168, id., Rep. 1969, voce

cit., n. 30).

Si deve aderire alla concezione che distingue tra norme rivolte a disciplinare specificamente il processo innanzi al giudice di rinvio individuato dalla sentenza di cassazione, e norme rivolte a

disciplinare il giudizio di appello in quanto tale; le prime sono da osservarsi perché proprie dell'organo investito dal giudizio di

rinvio, le seconde, solo in quanto compatibili con le caratteristi

che del giudizio di rinvio e specificamente, per quanto qui

interessa, in quanto non abbiano come loro presupposto la

sopravvivenza della pronuncia di primo grado. Ché in effetti, si tratta sempre di applicare una determinata

normativa ad un giudizio diverso da quello per il quale è stata

posta, e pertanto si deve tenere conto della compatibilità con le

specifiche caratteristiche del giudizio di rinvio.

Ne consegue, ad esempio, che in questo giudizio è inapplica bile l'art. 345 c.p.c. dovendosi applicare l'art. 394 c.p.c. e non

essendo ammissibili conclusioni diverse da quelle già prese, salvo

che la necessità di nuove conclusioni sorga dalla sentenza di

cassazione (Cass. n. 1761/75, id., Rep. 1975, voce cit., n. 18) e

ciò nel senso che questa sentenza abbia prodotto di per sé una

modificazione della materia del contendere (Cass. n. 561/75, ibid., n. 28); il riesame dei fatti è consentito soltanto in quanto la

cassazione sia avvenuta a seguito dell'accertamento di quei fatti

secondo una motivazione difettosa (Cass. n. 2232/75, ibid., n. 13); non sono più conoscibili d'ufficio le questioni non rilevate dalla

Corte di cassazione, giacché il loro riesame porrebbe nel nulla o

limiterebbe gli effetti della sentenza di cassazione (Cass. n.

1041/75, ibid., n. 11); è inibita alle parti ogni attività istruttoria

o assertiva di fatto, non spiegata già nel giudizio di appello o

non dipendente dalla sentenza di Cassazione (Cass. n. 1762/75,

ibid., n. 18); la competenza del giudice designato è incontestabile, ed è inammissibile il regolamento di competenza (Cass. n. 3795/81,

id., Rep. 1981, voce Competenza civile, n. 228; 6074/78, id., Rep.

1978, voce Rinvio civile, n. 5); la riassunzione si considera

rituale, e non si verifica l'estinzione del procedimento ex art. 393

c.p.c. anche se la citazione è notificata ad una sola delle parti

(Cass. 1216/80, id., 1980, I, 2547); le preclusioni derivanti dal 3°

comma dell'art. 394 c.p.c. operano anche quando oggetto del

giudizio di rinvio è una controversia di lavoro, non potendosi

invocare l'applicazione dell'art. 437, 2° comma, c.p.c. che è

dettato esclusivamente per l'appello (Cass. n. 4489/79, id., Rep.

1979, voce Lavoro e previdenza (controversie), n. 488); il giudizio

di rinvio è la continuazione del giudizio iniziato davanti la

Cassazione, in quanto ne rappresenta la fase rescissoria, e l'atto

costitutivo di tale fase non è la riassunzione ma la stessa sentenza

di cassazione (Cass. n. 66/46, id., 1946, I, 182), l'atto riassuntivo, a

differenza dell'atto introduttivo del giudizio, dell'atto di appello e

del ricorso per cassazione, è un mero atto di impulso processuale. Ben vero che le conclusioni debbano essere riprodotte ex novo

e che quelle non riproposte si debbano intendere abbandonate

(Cass. sent. n. 2620/61, id., Rep. 1961, voce Rinvio civile., n. 41);

ma ancorché la riassunzione debba essere fatta con citazione

notificata personalmente, se sia avvenuta da una parte limitamen

te alla richiesta di restituzione o di riduzione in pristino di cui

all'art. 389 c.p.c., la controparte può chiedere la discussione delle

questioni di merito mediante il mero deposito della comparsa di

risposta, senza necessità di notificare personalmente la comparsa stessa (Cass. n. 3294/62, id., Rep. 1962, voce cit., n. 28).

Ne discende, con sufficiente sicurezza, che l'applicabilità al

giudizio di rinvio del 3° comma dell'art. 436 c.p.c. dovrà affer

marsi solo ove si tratti di norma compatibile con il giudizio di

rinvio, e che risulti dettata non in funzione della regolamentazio ne dell'appello in quanto tale. Diversamente la norma deve

ritenersi inapplicabile, per l'effetto, la sentenza impugnata erro

neamente ha omesso l'esame dell'appello incidentale della ricor

rente principale.

Innanzi tutto la incompatibilità è esplicitamente denunciata

dall'inciso « se propone appello », che sta ad indicare come tutte

le regole che seguono riguardano la proposizione del gravame, nel

caso del giudizio di rinvio, invece, lo si è visto, il gravame è

stato già proposto a suo tempo, tanto che un appello incidentale

ex novo sarebbe ben difficilmente concepibile. Ed anzi, per

questa ragione, viene meno anche la necessità della specificità di

quei motivi, atteso che essi, essendo già specifici e non da

formulare per la prima volta, consentono l'esercizio della difesa

anche se sommariamente richiamati. Ma oltre a ciò si deve

Il Foro Italiano — 1986.

considerare come l'art. 436 c.p.c., ancorché dettato nell'ambito del

c.d. rito del lavoro, risponde ad esigenze attinenti specificamente alla dinamica delle impugnazioni, rivolto come è ad assicurare una

efficace e tempestiva conoscenza del thema decidendum, rispetto alle quali esigenze la specificità del processo c.d. del lavoro, almeno

nelle intenzioni del legislatore, era quella di assicurare anche una

sollecita trattazione. La inapplicabilità della norma anzidetta di

scende ineluttabilmente dalla affermazione che il giudizio di

rinvio non è un giudizio di appello ma la fase rescissoria che

presuppone l'avvenuta impugnazione, e, inoltre, che la notifica

zione della memoria di costituzione risponde ad esigenze proprie della tempestiva conoscibilità del gravame incidentale, laddove la

specificità della disciplina in funzione laburistica non può nem

meno dirsi prevalente. Ne consegue l'accoglimento dell'appello principale. Quanto ai motivi del ricorso incidentale, essi — sia per quanto

concerne i criteri di determinazione della importanza della inven

zione, sia per quanto ottiene i fattori da esaminare per de

terminare il vantaggio trattone dalla ricorrente principale, sia

per la censura in ordine al governo delle spese, sia infine

per la omessa rivalutazione monetaria — attengono a tutte que stioni che sorgono in relazione alla denunciata insufficiente mo

tivazione, ma che, riguardando il merito ed essendo in ogni caso logicamente subordinate all'esito della eccezione di prescri zione spiegata dalla società ricorrente, potranno essere riproposte innanzi al giudice di rinvio. (Omissis)

CORTE DI CASSAZIONE; sezione I civile; sentenza 14

marzo 1985, n. 1981; Pres. Santosuosso, Est. Lipari, P. M.

Dettori (conci, conf.); Demaria (Avv. Dodero) c. Fall. soc.

industria laterizi Vauda {Avv. Contaldi, Parisi). Conferma

App. Torino 23 gennaio 1982.

Società — Società di capitali — Sindaci — Responsabilità —

Amministratori unici soci — Irrilevanza (Cod. civ., art.

2407). Società — Società di capitali — Sindaci — Responsabilità —

Risarcimento del danno — Debito di valore (Cod. civ., art.

1277, 2407).

I sindaci di una società per azioni sono tenuti all'adempimento dei loro doveri, anche quando si tratti di società nella quale gli amministratori sono gli unici soci.(l)

(1) È per la prima volta, a quanto consta che la Cassazione si

pronunzia sull'argomento. Se ne sono occupati, decidendo in senso

conforme, App. Torino 9 luglio 1975, Foro it., Rep. 1976, voce Società, n. 196; Trib. Milano 19 gennaio 1974, id., Rep. 1975, voce

cit., n. 249. La fattispecie del piccolo imprenditore, che ordina l'impresa in forma

di società di capitali e che si rivolge all'amico professionista perché ricopra la carica di presidente del collegio sindacale, è ricordata da

Chiaraviglio, Compiti e responsabilità dei sindaci di società di

capitali e dei revisori dei conti, in Riv. società, 1979, 548. Puntualmente, afferma la necessità di maggiore attenzione da parte dei

sindaci in situazioni potenzialmente pericolose, quale è quella in cui vi sia coincidenza tra soci ed amministratori, Ferro Luzzi, La funzione dei sindaci nel codice civile, ecc., in Banca, borsa, ecc., 1985, I, 38.

Sulla inadeguatezza del meccanismo di nomina dei sindaci, che avvie ne ad opera della stessa assemblea che nomina gli amministratori, cfr.

Cavalli, Le società per azioni, Torino, 1983, II, 496, il quale rileva come la esistenza di una matrice comune tra controllati e controllori, entrambi espressione di una medesima maggioranza e, per ciò stesso, di coincidenti interessi, incida sulla concreta funzionalità dell'istituto.

Quanto all'interesse tutelato dei sindaci nell'esercizio delle loro

funzioni, una corrente di opinione ritiene che il controllo sindacale debba essere svolto, oltre che nell'interesse della società e delle minoranze, anche in quello, di volta in volta concorrente od esclusivo

(ed in certi casi addirittura contrastante con quello dei soci), dei terzi creditori: Di Sabato, Manuale delle società, 1984, 415; Frè, Società per azioni, in Commentario, a cura di Scialoja e Branca, 1951, 430; Martorano, Inattività e decadenza del collegio sindacale, in Foro it., 1954, I, 816. Altra corrente, invece, opina che l'interesse dei terzi venga tutelato solo mediatamente attraverso il pratico risultato di una corretta gestione sociale, garantita dai sindaci nell'interesse diretto ed esclusivo della società: Ferri, Manuale dir. comm., 1980, 399.

Per completezza di informazione, si ricorda la proposta di quinta direttiva CEE {in Giur. comm., 1983, I, 960), concernente la struttura della società per azioni nonché d poteri e gli obblighi dei suoi organi sociali. Trattasi di proposta modellata sulla realtà delle grandi imprese, talché l'attuazione della direttiva, se adottata nella forma suggerita o in altra che partecipi degli stessi principi, renderebbe in Italia

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

La responsabilità dei sindaci di una società per azioni, per danno

cagionato dal mancato adempimento dei loro doveri, dà luogo a un debito di valore. (2)

Motivi della decisione. — 1. - I giudici di merito hanno ritenuto in applicazione dell'art. 2407 c.c. il ricorrente, quale presidente del collegio sindacale della società fallita, responsabile in solido con gli amministratori verso il fallimento, avendolo riconosciuto, con motivazione articolata ed esauriente, inadem

piente ai doveri della carica, ravvisando la sussistenza del nesso di causalità fra l'omessa vigilanza e la produzione del danno verificatosi per effetto del comportamento degli amministratori, in puntuale applicazione dell'indirizzo giurisprudenziale di questa corte (consacrato nelle sentenze n. 4891/80, Foro it., 1981, I, 440; 1281/77, id., 1977, I, 1421; e 790/74, id., 1975, I, 429).

È stato affermato nelle richiamate sentenze che la responsabili tà dei sindaci di una società, a norma dell'art. 2407, 2° comma, c.c., in solido con gli amministratori, per i fatti e le omissioni di costoro postula l'inosservanza, da parte dei sindaci medesimi, di doveri di vigilanza inerenti alla loro carica, nonché un rapporto di causalità fra tale inosservanza ed il danno, con la conseguenza, che, in ipotesi di fallimento della società e di correlativa

commisurazione del danno alla insufficienza dell'attivo fallimenta

re, la responsabilità sussiste e va qualificata nei limiti in cui la rilevata differenza negativa tra passivo ed attivo sia legata con

nesso di causalità all'indicato comportamento omissivo dei sindaci

(Cass. 4891/80, cit.) la cui rilevazione appartiene, secondo i

principi, ai giudici di merito, trattandosi di operare valutazioni di

fatto, non censurabili in sede di legittimità se congruamente e correttamente motivate (Cass. 790/74, cit.).

La responsabilità degli amministratori è ormai fuori discussio

ne; per taluni di essi essendo passata in giudicato la sentenza che li concerneva e per altro (il Dagnino) essendo intervenuta una transazione proparte.

La materia del contendere resta, pertanto, focalizzata su due

punti: la sussistenza della responsabilità del Demaria; la qua lificazione del debito da responsabilità ex art. 2407, 2° comma, risultante dalla condanna come debito di valore, e non di valuta, con le correlative conseguenze in ordine alla rivalutazione per equilibrare l'intervenuto svilimento della moneta derivante dal noto processo inflattivo in corso.

A sua volta, la censura riguardante la ritenuta responsabilità si articola in due mezzi, il primo dei quali, sotto la rubrica

«violazione degli art. 1218, 2403, 2407, 2408, 2394 c.c., 115, 360, nn. 3 e 5, c.p.c. », lamenta che la corte del merito abbia preteso « indebitamente » che il dott. Demaria e gli altri soci esercitassero

un impossibile rigoroso controllo su una contabilità che non

esisteva, dimenticando, in sostanza, che quando i sindaci non

vengono posti in grado di svolgere i compiti loro affidati, la legge offre ad essi una sola possibilità, quella di convocare l'assemblea,

rimedio, peraltro, non praticabile quando, come nella specie, gli amministratori sono portatori dell'intero capitale sociale; in tale

eventualità, ai sindaci non è data altra possibilità che quella di

dimettersi, il che appunto si è verificato nel caso concreto.

Nella memoria si precisa testualmente che « il primo fondamen

tale errore commesso dalla corte del merito consiste nell'avere

erroneamente dedotto dal fatto che la gestione degli affari della

fornace di Volpiano avvenne senza il rispetto delle norme previ ste dalla legge per le società anonime, la indebita conseguenza che gli amministratori debbano essere condannati a pagare danni

inevitabile, per le strutture a carattere familiare come quella di cui alla sentenza, la scelta di forme societarie diverse da quella della società per azioni.

Secondo quanto riferito da Marziale, La proposta di quinta direttiva

CEE, in Le società, 1985, 168, le società azionarie in Italia alla data del 31 dicembre 1983 operanti erano 55.256 e di esse ben 43.931 avevano un capitale inferiore a un miliardo e solo 1.685 un capitale superiore a cinque miliardi. La proposta ha formato argomento di una tavola

rotonda, con interventi di vari autori e che sono, riportati in Le

società, 1985, 125 ss. Sull'argomento, v. anche Ricolfi e Montalenti, La proposta modificata di quinta direttiva comunitaria sulle società

per azioni, in Giur. comm., 1985, I, 256, e ora Zanarone, L'invalidità

delle delibere assembleari negli art. 42-46 della proposta modificata di

quinta direttiva, ibid., 765.

(2) Sulla seconda massima si veda, in senso conforme, App. Milano

22 gennaio 1974, Foro it., Rep. 1974, voce Società, n. 218; Cass. 21

agosto 1950, n. 2513, id., 1951, I, 437, con osservazioni di A. Scialoja. Per i limiti entro i quali i sindaci rispondono del danno, Cass. 30 luglio 1980, n. 4891, id., 1981, I, 440, con osservazioni di Martinelli ed ivi

richiami, cui adde Adiutori, La responsabilità solidale dei sindaci, in

Fallimento, 1982, 1128.

Il Foro Italiano — 1986.

che non si sono verificati in conseguenza di tali violazioni;

peggio ancora che i sindaci debbano rispondere in solido con essi

di tutte le passività sorte in qualsiasi epoca e per qualsiasi

ragione ». Tale notazione si ricollega al secondo motivo del ricorso

con il quale si lamenta che sia stato riconosciuto un nesso di

causalità fra le omissioni addebitate al Demaria ed il danno in

concreto verificatosi, dovendosi ascrivere il dissesto della società

non alle azioni degli amministratori, ma alla situazione del settore

dell'industria dei laterizi, che subì nel 1964 un improvviso crollo

a seguito del quale il prodotto venne svenduto per far fronte alla

esecuzione esattoriale.

Ai fini della puntualizzazione dell'oggetto del ricorso questa deduzione va confrontata con il primo mezzo di impugnazione il

quale risulta tutto teso a dimostrare che il collegio sindacale è

stato strutturato dal legislatore con riguardo allo schema della

società per azioni, per garantire i soci contro l'operato degli amministratori in una situazione di grande complessità organizza tiva che comporta alla base un grande numero di soci, facenti

capo all'assemblea come tale ben distinta dagli amministratori

incaricati del governo della società. Quando invece i soci si

identificano con gli amministratori, portatori dell'intero (e ben

limitato) capitale sociale, tale complesso meccanismo di controllo

non soltanto non ha astratta ragione di essere ma non può funzionare in concreto, venendosi a sovrapporre i ruoli di

amministratore e socio e non essendovi più ragione di ipo tizzare il collegio sindacale quale organo di controllo inter

mediato fra assemblea di soci e di amministratori, rispondendo

gli amministratori quali soci possessori dell'intero pacchetto azio

nario a se stessi.

Solo una società per azioni di notevoli proporzioni economiche

secondo il ricorrente è in grado di impiantare, e tenere aggiorna

ti, i libri contabili, altrimenti deve affidare la gestione contabile a

professionisti esterni i quali si limitano ad operare sulla base dei

dati ad essi forniti. In una situazione siffatta il compito dei

sindaci è formale, corrispondendovi un compenso irrisorio.

Quando i sindaci non vengono posti in grado di esercitare i

controlli loro affidati non possono essere ritenuti responsabili per il dissesto che gli amministratori soci possessori dell'intero capita le sociale hanno provocato.

2. - Si è dato ampio spazio all'esposizione della censura per

coglierne l'inattendibilità sul piano delle implicazioni giuridiche ai

fini della decisione del ricorso. È di tutta evidenza che se nel

nostro ordinamento le società, costituite secondo lo schema della

società per azioni, devono essere strutturate in un certo modo i

giudici non possono che applicare quei meccanismi normativi di

cui del resto non si revoca in dubbio la legittimità costituzionale, nemmeno sotto l'aspetto della ragionevolezza.

È esatto che la società per azioni postula una consistenza

economica piuttosto rilevante: probabilmente risultando già ina

deguata sotto la spinta inflazionistica la misura di duecento

milioni di capitale, fissata dalla 1. n. 904 del 1977. Ma piuttosto il

discorso impostato in questa ottica riesce ben difficilmente « giu

stificabile » e non si presta ad essere calato in censure di

violazione di legge quando, come nella specie, le norme di legge

sono state esattamente applicate dai giudici e ci si duole essen

zialmente dell'« inopportunità » della normativa vigente, impo

stando un discorso che impinge esclusivamente nel campo della

discrezionalità del legislatore.

Di questa presa di posizione sul versante dell'opportunità della

legge applicata al giudice in sede di legittimità importa sottoli

neare il solo possibile riflesso che si presenta con i connotati

della legittimità, laddove si sostiene che l'identificazione degli amministratori con i portatori dell'intero pacchetto azionario

escluderebbe in radice la stessa ragion d'essere del collegio

sindacale, non sorgendo la necessità di tutelare i soci dell'operato

degli amministratori data la identità in fatto delle due categorie.

Per la verità di questa identificazione fra soci ed amministrato

ri non è stata data nel corso del giudizio di merito dimostrazione

veruna; e non risulta che il Demaria abbia effettuato deduzioni

in tal senso. È agevole, peraltro, obiettare che la società di

capitali gode di personalità giuridica e in questa contrapposizione fra società e soci sta la ragion d'essere della previsione dell'azio

ne di responsabilità contro gli amministratori, la cui fondatezza

nel presente giudizio è un dato imprescindibile, coperto da

giudicato interno in presenza del quale non si potrebbe, in

nessun caso, in punto di diritto ipotizzare l'esclusione della

responsabilità dei sindaci venuti meno ad una funzione di con

trollo che non avrebbe avuto modo di svolgersi utilmente, sicché

il discorso ricade negli schemi delle valutazioni di merito per

quanto attiene al nesso di causalità ed alla consistenza del danno.

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PARTE PRIMA

Ma su questo versante del nesso di causalità il ricorrente non

può essere seguito una volta messo in chiaro dai giudici del merito che il controllo che gli era stato richiesto, in conformità alla funzione istituzionale dell'organo, era un controllo astratta mente e concretamente possibile. Sono state minuziosamente evi denziate le inadempienze addebitate al Demaria per sottrarsi alle cui conseguenze non avrebbe avuto senso richiamarsi a dimissioni

minacciate ma non effettive, come era risultato dalle sottoscrizioni da lui apposte nella qualità di presidente del collegio sindacale.

In definitiva, per evitare la condanna, il Demaria, nonostante la sua qualità di commercialista, sarebbe disposto a passare per uno sprovveduto travolto da una situazione incontrollabile e che

perciò nulla fece per controllare. Ma è tesi di cui i giudici di merito si sono dati diligentemente dato carico, disattendendolo con motivazione, giova ribadirlo, particolarmente minuziosa e

diligente.

In conclusione la società industrie laterizi Vauda era una società per azioni, come tale sottoposta alla disciplina dettata dal codice civile che prevede fra gli organi sociali il collegio dei sindaci con funzioni di controllo non svolte anche da parte del

presidente Demaria, cui è stata addebitata dai giudici di merito tutta una serie di comportamenti dotati di efficacia causale pregiudizievoli per la società, non avendo posto egli tempestiva mente riparo alla mala gestio degli amministratori. Tali compor tamenti non sono, né lo potrebbero, essere revocati in dubbio dal ricorrente il quale attacca, senza successo, le notazioni riguardanti il nesso di causalità, incontrando la preclusione dell'insindacabili tà degli apprezzamenti fattuali sorretti da congrua motivazione, mentre vanamente cerca di sottrarsi alla responsabilità del manca to controllo adducendo di non avere disposto dei necessari

strumenti, con ciò aggravando la sua posizione, risultandone enfatizzata la colpevole inerzia per il mancato ricorso agli istituti

giuridici previsti dalla legge a tutela delle funzioni di controllo, senza che valgano ad esentarlo da responsabilità dimissioni non formalizzate e comunque smentite dal continuato svolgimento dei

compiti formali inerenti alla, carica. 4. - Il terzo motivo è privo di fondamento giuridico. Secondo il ricorrente l'obbligazione dei sindaci per inosservanza

dei doveri di controllo su di essi incombenti sarebbe obbligazione di somma di danaro in considerazione specialmente dei limitati

poteri che i sindaci hanno specie nelle piccole società, « tenuto anche conto che i compensi loro accordati all'atto della nomina sono irrisori », poiché « una certa corrispettività tra obblighi e

compensi deve pur esistere ».

Osserva il collegio che per la qualificazione di una obbligazio ne come obbligazione di valuta, ovvero di valore non rileva la circostanza che la relativa condanna sia stata espressa in moneta, occorrendo avere riguardo al « titolo » della condanna.

Obbligazioni pecuniarie soggette al principio nominalistico, a norma dell'art. 1277 c.c., sono quelle originariamente costituite in valuta e non quelle che si traducono in espressione monetaria per sopravvenute vicende del rapporto, ossia per modificazione del

l'oggetto originario della prestazione nel suo equivalente pecunia rio; in questa ipotesi il debito monetizzato rappresenta la commi surazione del valore dell'originaria prestazione e viene denomina to appunto debito di valore giacché si traduce nella quantità di moneta che nel momento della solutio rappresenta per il creditore

l'equivalente della prestazione. Vi sono prestazioni, cioè, che pur consistendo in versamento di somma hanno carattere valoristi co perché la monetizzazione si presenta come mero indice liqui datario di un valore che deve essere conseguito.

Ed è nozione di carattere istituzionale che l'obbligazione risar citoria per fatto illecito, anche nel caso in cui il danno consista nella perdita di una somma di danaro, mantiene la sua natura di debito di valore e, come tale, deve essere determinata tenendo conto della svalutazione monetaria intervenuta sino alla data della liquidazione con la sentenza (definitiva) di condanna che ne

segna la conversione in debito di valuta.

Pertanto non rileva che il danno nel caso di specie si sia manifestato in perdite pecuniarie della società essendo determi nante il titolo « risarcitorio » della condanna espressa in moneta e necessariamente adeguato alla svalutazione della moneta stessa

(Cass. 3542/78, id., Rep. 1978, voce Danni, n. 109).

Che poi il ricorrente riprenda il motivo dominante delle sue censure circa la « iniquità » del vigente sistema che colpisce i sindaci anche se mal pagati e non in grado di svolgere i compiti di controllo nelle piccole società dominate dagli amministratori

portatori dell'intero capitale sociale, è notazione priva di rilevan za giuridica; sia in se e per se (come si è osservato nel confutare il primo mezzo di ricorso), sia nella prospettiva della rivalutazio

II Foro Italiano — 1986.

ne, risultandone palese l'assoluta inconferenza al problema qua lifica torio.

Posto dunque che la responsabilità degli amministratori e dei

sindaci di una società nei riguardi degli azionisti e dei creditori

per danni cagionati dal non aver adempiuto ai doveri del loro

ufficio dà luogo ad un debito di valore (Cass. 2513/50, id., 1951,

I, 437; 3768/78, id., Rep. 1978, voce Società, n. 201) il cre

dito doveva essere rivalutato così come è avvenuto, restando

incensurabile, e non essendo stato in effetti censurato, il criterio

rivalutativo adottato dal giudice di merito che si è richiamato ai

coefficienti dell'istituto di statistica.

5. - In conclusione il ricorso deve essere rigettato. (Omissis)

I

CORTE DI CASSAZIONE; sezione III civile; sentenza 12

marzo 1985, n. 1942; Pres. Novelli, Est. Laudato, P. M.

Ferraiuolo (conci, conf.); Soc. coop, ortofrutticola Trapa nese (Avv. Orlando) c. Greco e altri (Aw. Cavaliere,

Catania). Conferma Trib. Trapani 12 maggio ,1981.

Locazione — Nuda area — Legge 392/78 — Inapplicabilità (L. 27 luglio 1978 n. 392, disciplina delle locazioni di

immobili urbani, art. 27).

Il contratto con il quale una parte concede il godimento di

un'area nuda con facoltà per l'altra parte di costruirvi opere murarie di carattere precario ai fini dell'esercizio di atti

vità commerciale, non è soggetto alle norme della l. n.

392/78. (1)

II

TRIBUNALE DI MILANO; sentenza 17 ottobre 1985; Pres.

Nitti, Est. Covelli; Fontanive (Avv Garisto) c. Soc.

Tandoj & C. (Avv. Samarelli, A. Nanni).

Locazione — Nuda area — Destinazione ad attività commer ciale — Legge 392/78 — Regime vincolistico — Applicabi lità (L. 28 luglio 1978 n. 392, art. 27, 67, 68).

Il contratto di locazione di un'area nuda adibita all'esercizio di attività commerciale (nella specie, ad uso di deposito) rientra tra quelli disciplinati dagli art. 27 ss. I. n. 392/78, ed era in

precedenza assoggettabile alle leggi di proroga delle locazioni di immobili urbani. (2)

<'1-2) Le pronunzie qui riprodotte sono indicative dello stato della giurisprudenza di legittimità e dell'elaborazione di quella di merito, e dei contrasti esistenti, in ordine alla individuazione della normativa applicabile alla locazione di area nuda.

Cass. n. 1942/85 si limita a ribadire il principio, già affermato in tema di competenza per materia ex art. 30 e 45 1. n. 392/78 da Cass. 3 settembre 1982, n. 4801, Foro it., Rep. 1983, voce Locazione, n. 199, e da Cass. 9 dicembre 1981, n. 6503, id., Rep. 1982, voce cit., n. 917 (e, con riferimento alla precedente legislazione vincolistica, da Cass. 15 dicembre 1984, n. 6598, id., Rep. 1984, voce cit., n. 126, e 24 settembre 1981, n. 5177, id., Rep. 1982, voce cit., n. 186, che hanno rilevato la inapplicabilità per analogia di tale normativa, atteso il suo carattere eccezionale), secondo cui la cessione del godimento di un'area inedificata con facoltà per il conduttore di costruirvi un manufatto non costituisce (indipendentemente dalla destinazione dell'area o della erigenda costruzione) un contratto di locazione, ma un contratto di natura mista, che è quindi sottratto alla disciplina delle locazioni di immobili urbani. Nello stesso senso v. Trib. Palermo 16 novembre 1983, id., Rep. 1984, voce cit., n. 156; e Pret. Verona 17 aprile 1985, Arch, locazioni, 1985, 317. Di opinione contraria è, invece, Cass. 21 giugno 1979, n. 3444, Foro it., Rep. 1980, voce cit., nn. 249, 250.

Il fattore atipico dato dalla facoltà edificatoria del conduttore ha, pe raltro, rilievo secondario, giacché la Cassazione nell'applicare le norme del regime vincolistico ha tradizionalmente escluso che questo riguar dasse le aree nude, in base ad una interpretazione della espressione « immobile urbano » restrittiva e tale da comprendere soltanto le costruzioni erette sul suolo per opera dell'uomo, osservando che negli altri casi mancava « quel superiore interesse collettivo che impronta e giustifica la tutela eccezionale » della legislazione in questione: v. Cass. 14 giugno 1982, n. 3628, id., Rep. 1982, voce cit., n. 253; 7 luglio 1981, n. 4437, id., Rep. 1981, voce cit., n. 445; 18 febbraio 1981, n. 976, ibid., n. 446; e la risalente Cass. 25 gennaio 1965, n. 131, id., 1965, I, 802, con nota di richiami; nonché, tra le pronunzie di meri to, Pret. Monza 21-28 marzo 1983, id., Rep. 1984, voce cit., n. 434, e id., Rep. 1983, voce cit., n. 530. Tale indirizzo è seguito, a proposito della

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