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Sezione I civile; sentenza 16 dicembre 1982, n. 6942; Pres. Scanzano, Est. R. Sgroi, P. M. Zema...

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11
Sezione I civile; sentenza 16 dicembre 1982, n. 6942; Pres. Scanzano, Est. R. Sgroi, P. M. Zema (concl. diff.); Soc. Zanasi Nigris (Avv. Cavasola, Pugliesi, Fontaine, Giorgianni) c. Cerletti (Avv. Spaziani Testa, Bertazzoli). Cassa App. Bologna 20 maggio 1980 Source: Il Foro Italiano, Vol. 107, No. 4 (APRILE 1984), pp. 1067/1068-1085/1086 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23176013 . Accessed: 24/06/2014 22:35 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 185.2.32.134 on Tue, 24 Jun 2014 22:35:53 PM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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Page 1: Sezione I civile; sentenza 16 dicembre 1982, n. 6942; Pres. Scanzano, Est. R. Sgroi, P. M. Zema (concl. diff.); Soc. Zanasi Nigris (Avv. Cavasola, Pugliesi, Fontaine, Giorgianni) c.

Sezione I civile; sentenza 16 dicembre 1982, n. 6942; Pres. Scanzano, Est. R. Sgroi, P. M. Zema(concl. diff.); Soc. Zanasi Nigris (Avv. Cavasola, Pugliesi, Fontaine, Giorgianni) c. Cerletti (Avv.Spaziani Testa, Bertazzoli). Cassa App. Bologna 20 maggio 1980Source: Il Foro Italiano, Vol. 107, No. 4 (APRILE 1984), pp. 1067/1068-1085/1086Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23176013 .

Accessed: 24/06/2014 22:35

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1067 PARTE PRIMA 1068

può consentire al beneficiario-venditore l'utilizzazione del credito

aperto in suo favore.

Questi principi di diritto — relativi alla detta ipotesi negoziale —- vanno applicati nella fattispecie concreta in esame — quale ricostruita dalla corte di Milano — in cui la Banca d'America e

d'Italia aveva sostituito a sé nell'esecuzione del mandato conferi

tole dalla General Import Export, a norma dell'art. 1717 c.c., la

Chase Manhattan Bank. E dall'applicazione di questi principi di

diritto discende che — come ha esattamente osservato la corte di

Milano — la General Import Export legittimamente aveva revo

cato il mandato di apertura di credito documentario non confer

mato, per l'inadempimento della venditrice-beneficiaria Over

seas (la quale le aveva spedito stracci anziché merletti), ed era

stato illegittimo il comportamento della Chase Manhattan Bank, la quale, dopo aver controllato la regolarità dei documenti

presentatile, aveva consentito alla Overseas di utilizzare il credito,

aperto in suo favore, prima della scadenza del termine di

novanta giorni dalla data della polizza di carico, entro il quale termine la General Import Export aveva poi revocato il mandato.

La ricorrente Chase Manhattan Bank invoca (come già aveva

fatto nel giudizio di merito), a conforto del suo assunto, gli art.

3 e 8 delle « norme ed usi relativi ai crediti documentari », richiamati nel contratto di mandato di apertura di credito, i

quali, rispettivamente, stabiliscono (come riferisce la ricorrente): « Un ereditò irrevocabile costituisce un impegno inderogabile della banca emittente »; « Nelle operazioni di credito documenta

rio tutte le parti interessate si devono basare sui documenti,

indipendentemente dalle merci ». È da rilevare, anzitutto, che le

norme e gli usi uniformi relativi ai crediti documentari della

camera di commercio internazionale non sono usi giuridici o

normativi, ma costituiscono clausole d'uso, integrative dalla vo

lontà generale dei contraenti ai sensi dell'art. 1340 c.c. (Cass. 22

febbraio 1979, n. 1130, id., Rep. 1979, voce Contratto in genere, n. 115). Nella specie, richiamati gli usi uniformi nelle condizioni

generali sul retro delle due lettere di credito, compilate a stampa,

quelle due clausole d'uso avrebbero potuto integrare il precetto

negoziale se dal testo delle lettere di credito fosse risultato il

mandato irrevocabile, conferito alla Banca d'America e d'Italia, di

aprire, in favore della Overseas, per il tramite della Chase

Manhattan Bank, un credito confermato; che solo in tal caso di

sarebbe trattato di credito irrevocabile. E poiché è risultato,

invece, che si trattava di mandato irrevocabile di apertura di

credito non confermato utilizzabile dopo la scadenza del termine

di novanta giorni dalla data della polizza di carico, si da essere

collegato funzionalmente al contratto di compravendita delle

merci, quei due usi negoziali erano al di fuori dell'ambito della

concreta fattispecie; e, pertanto, la corte di Milano giustamente non ne ha tenuto conto.

Né rileva a favore dell'assunto della ricorrente la richiamata

clausola i) delle condizioni generali stampate sul retro delle due

lettere di credito, la quale stabilisce: « La nostra (del mandante)

obbligazione verso di voi (banca) si ritiene nata per il solo fatto

che voi avete provveduto al ritiro dei documenti ». Poiché tale

clausola (predisposta in un testo a stampa adattabile a varie

diverse ipotesi negoziali) va riferita ed interpretata in relazione

all'effettivo concreto precetto negoziale posto dalle parti contraen

ti, l'obbligazione della mandante verso la banca-mandataria, di

ripristinare la disponibilità, essendo riferita alla utilizzazione del

credito da parte della beneficiaria-venditrice, era necessaria

mente condizionata alla legittima utilizzazione di quel credito,

esigibile alla scadenza del termine di novanta giorni dalla data

della polizza di carico. (Omissis)

I

CORTE DI CASSAZIONE; Sezione i civile; sentenza 16 di

cembre 1982, n. 6942; Pres. Scanzano, Est. R. Sgroi, P. M.

Zema (conci, diff.); Soc. Zanasi Nigris i(Avv. Cavasola, Pu

gliesi, Fontaine, Giorgianni) c. Cerletti (Avv. Spaziani Te

sta, Bertazzoli). Cassa App. Bologna 20 maggio 1980.

Società — Società di capitali — Bilancio — Principio di chiarez

za — Violazione — Nullità della delibera assembleare di

approvazione — Condizioni (Cod. civ., art. 2379, 2423, 2424).

La violazione dei criteri posti dalla norma di cui all'art. 2424

c.c. che, in ossequio al principio di chiarezza, disciplina il

contenuto del bilancio, determina la nullità della delibera di

approvazione solo quando il difetto di distinzione e di analisi

dia luogo ad un'impossibilità effettiva (e non solo potenziale)

di conoscere con esattezza la reale situazione patrimoniale della

società. (1)

II

TRIBUNALE DI MILANO; sentenza 13 gennaio 1983; Pres.

Baldi, Est. Rodorf; Soc. Yacaré c. Banca d'America e d'Italia.

Società — Società di capitali — Bilancio — Impugnazione della

delibera di approvazione — Interesse dell'azionista — Estremi

(Cod. civ., art. 2377, 2379; cod. proc. civ., art. 100).

Società — Società di capitali — Deliberazioni assembleari —

Destinazione a riserva degli utili di esercizio — Mancata

distribuzione dei dividendi — Legittimità (Cod. civ., art. 2433,

2442).

Società — Società di capitali — Bilancio — Partecipazioni aziona

rie — Valutazioni — Costo storico — Legittimità — Condizioni

(Cod. civ., art. 2425).

Società — Società di capitali — Bilancio — Fondo rischi su

crediti — Legittimità — Condizioni (Cod. civ., art. 2424).

Società — Società di capitali — Bilancio — Fondo per oneri e

rischi vari — Legittimità — Condizioni (Cod. civ., art. 2424).

Società — Società di capitali — Bilancio — Buoni ordinari del

tesoro — Iscrizione al valore nominale — Legittimità (Cod.

civ., art. 2425).

Società — Società di capitali — Bilancio — Buoni del tesoro

poliennali — Cartelle fondiarie — Obbligazioni — Iscrizione al

costo storico — Legittimità — Condizioni (Cod. civ., art. 2425).

Società — Società di capitali — Bilancio — Ammortamenti —

Richiamo ai criteri fiscali — Legittimità — Condizioni (Cod.

civ., art. 2499 bis). Società — Società di capitali — Conto dei profitti e delle perdite

— Voce « altri » di rilevante importo — Illegittimità (Cod. civ.,

art. 2425).

L'azionista ha un interesse giuridicamente rilevante ad ottenere

una rappresentazione chiara e precisa della situazione patrimo

niale della società e dell'andamento economico dell'esercizio e

dunque a denunciare gli eventuali vizi di chiarezza e di

precisione da cui sia affetto il bilancio approvato dall'assem

(1) Con la decisione in epigrafe la Cassazione ribadisce i principi

già enunciati con sent. 9 febbraio 1979, n. 906, Foro it., 1980, I, 1121, con nota di G. Marziale; 23 gennaio 1978, n. 297, id., 1978, I, 583; 28 luglio 1977, n. 3373, ibid., 142, affermando che la violazione della norma contenuta nell'art. 2424 c.c. rende nulla la deliberazione

assembleare approvativa del bilancio solo in quanto pregiudichi l'inte

resse dei soci all'accertamento della reale consistenza patrimoniale della società.

In particolare, a giudizio della corte l'impossibilità di conoscere la

verità deve essere effettiva e non potenziale, come aveva invece

ritenuto il tribunale, dovendo risultare « compromessa l'esattezza del

l'informazione attraverso rappresentazioni incerte, erronee, incomprensi bili ed oscure », delle quali il giudice del merito deve fornire analitica

giustificazione. Viene in tal modo riaffermata la strumentalità del principio di

chiarezza a quello di verità e la subordinazione del primo al secondo

(cosi P. G. Jaeger, Crisi del principio di chiarezza e Corte di

cassazione, in Giur. comm., 1979, II, 357 ss.). Nello stesso senso cfr., tra i giudici di merito, Trib. Milano 14

settembre 1978, Foro it., 1980, I, 441; Trib. Milano 27 aprile 1978,

id., Rep. 1978, voce Società, n. 287; Trib. Milano 22 settembre 1977,

ibid., n. 272; App. Torino 13 giugno-10 luglio 1975, id., Rep. 1975, voce

cit., n. 373, e in Giur. comm., 1976, II, 193, con nota critica di G.

E. Colombo, Una giurisprudenza « torinese » sui bilanci?

Diversamente orientata è invece la più recente giurisprudenza « mi

lanese » in tema di bilancio, che afferma l'autonoma rilevanza, in

termini di nullità, della violazione del principio di chiarezza: cfr.

Trib. Milano 28 giugno 1982, Le società, 1982, 1430; Trib. Milano 8

aprile 1982, ibid., 1278, e in Giur. it., 1983, I, 2, 842; Trib. Milano 10

settembre 1981, Foro it., 1982, I, 2061, con nota di richiami, e

in Giur. comm., 1982, II, 176, con nota adesiva di S. 'Pansieri, Interesse ad agire, valutazione dei titoli e ammortamenti anticipati in un'importante sentenza del Tribunale di Milano.

In dottrina, sono favorevoli all'indirizzo segnato dalla Cassazione, G.

Ferri, Omissione di poste all'attivo e invalidità della deliberazione di

approvazione del bilancio, in Riv. dir. comm., 1978, II, 182 ss.; Id., Nuove posizioni in tema di irregolarità del bilancio, id., 1975, II, 296

ss.; Id., In tema di verità, di chiarezza e di precisione del bilancio di

esercizio, id., 1971, II, 247 ss.; Grande Stevens, Irregolarità del

bilancio e sanzioni civili, in Riv. società, 1973, 1171 ss.; Chiomenti,

Ripensamenti giurisprudenziali in tema di bilancio di esercizio, in Riv.

dir. comm., 1976, II, 231. Una posizione critica è invece assunta da P. G. Jaeger, op. cit.,

nonché II bilancio d'esercizio delle società per azioni. Problemi

giuridici, Milano, 1980, 28 ss.

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

blea, indipendentemente dai riflessi che ne possono derivare sul risultato economico dell'esercizio medesimo. (2)

È legittima la deliberazione assembleare con cui si stabilisca di accantonare a riserve l'utile di esercizio senza distribuire divi dendi. (3)

È legittima l'iscrizione in bilancio al valore di costo di partecipa zioni costituenti immobilizzazioni finanziarie, ove ciò non sia

manifestamente irragionevole e ferma restando l'esigenza che

gli amministratori forniscano adeguata motivazione della con

formità di tale scelta al criterio del prudente apprezzamento richiesto dalla legge. (4)

La misura dello stanziamento del fondo rischi su crediti è affidata alla discrezionalità dei competenti organi della società e non è

quindi suscettibile di censura da parte del tribunale, salva l'ipo tesi di assoluta arbitrarietà o di insufficiente spiegazione delle ragioni che hanno determinato la costituzione del fon do. (5)

(2, 14) Le sentenze si conformano all'indirizzo ormai consolidato nella giurisprudenza del Tribunale di Milano, secondo cui l'interesse ad impugnare il bilancio non chiaro e preciso è in re ipsa connesso allo status di socio — il quale si risolve di per sé in una situazione legittimante — e ciò al fine sia di salvaguardare la funzione informa tiva del bilancio (cfr. Trib. Milano 5 gennaio 1981, Foro it., Rep. 1981, voce Società, n. 274 e, per esteso, in Giur. comm., 1981, II, 458, con nota di Pansieri, Interesse ad agire, funzione informativa del bilancio e principio di chiarezza), sia per non evitare di considerare la falsità di alcune appostazioni soltanto perché da essa non deriva una diminuzione dell'utile di bilancio (cfr. Trib. Milano 24 marzo 1983, Foro it., 1983, I, 2280 e Trib. Milano 10 settembre 1981, cit.). Concetti analoghi sono espressi anche in Trib. Milano 28 giugno 1982, cit. e Trib. Milano 8 aprile 1982, cit.

L'interesse ad impugnare precedenti bilanci deve essere invece un interesse specifico « che non può né presumersi, né considerarsi insito nella mera qualità di socio » (cfr. Trib. Milano 22 ottobre 1981, Le società, 1982, 428, cui adde P. Ferro-Luzzi, Vizi del bilancio e vizi della delibera di approvazione, in Giur. comm., 1982, I, 816).

Sul punto cfr. anche Trib. Milano 5 maggio 1980, Foro it., Rep. 1981, voce cit., n. 178 e in Giur. comm., 1980, II, 938, con nota adesiva di S. Pansieri, Interesse ad impugnare il bilancio e diritto di informazio ne: una nuova prospettiva?

Nella seconda ipotesi è dunque richiesto all'attore non già di qualificare l'interesse sostanziale, bensì' la sua « attualità » in relazione all'interesse concreto alla pronuncia giudiziale (cosi V. Salafia, L'inte resse alla dichiarazione giudiziale di nullità delle delibere approvative dei bilanci di esercizio, in Le società, 1982, 1415, il quale osserva: « che l'interesse all'informazione sussista in rapporto a ciascun bilancio è incontrovertibile, ma che sia anche attuale, nel senso che non possa essere superato da ulteriore e più recente informazione, può anche mettersi in dubbio »).

Nel caso di specie, il tribunale, dopo aver osservato che la suddetta interpretazione non contrasta con il c.d. principio della continuità dei bilanci « perché l'esame dello stesso viene in considerazione appunto nel valutare l'esistenza dell'interesse attuale e concreto all'impugnazio ne », non ha ravvisato un tale interesse nella dichiarata intenzione dell'attore di cedere le quote in suo possesso, ritenendo questa esigenza sicuramente soddisfatta dalla chiarezza e precisione dell'ultimo bilancio.

Sul punto della « specificità » dell'interesse richiesto, cfr. Fer ro-Luzzi, op. loc. cit. Sul problema dell'esistenza o meno nel nostro ordinamento del c.d. principio di continuità dei' bilanci, cfr. E. Simonetto, 1 bilanci, Padova, 1967, 364 e G. Rossi, Bilanci dinamici e rivalutazione per conguaglio monetario, in Riv. società, 1975, 433, che propendono per la negativa nonché Al. Arrigoni, La continuità dei bilanci ed il superamento del principio di autonomia dei bilanci, in Riv. dott. comm., 1974, 733, che ne riconosce l'esistenza, quantomeno agli effetti tributari.

Sul rilievo dato al suddetto principio dalla IV direttiva CEE n. 78/660 del 25 luglio 1978, v. Jaeger, Il bilancio d'esercizio, cit., 50 ss.

I precedenti orientamenti giurisprudenziali in tema di interesse all'impugnativa erano basati sul rivestire o meno la qualità di socio all'epoca della deliberazione impugnata (cfr. per tutti Trib. Milano 26 febbraio 1976, Foro it., 1976, I, 1366) e sulla concezione strettamente patrimonialistica di tale interesse (cfr. Trib. Milano 27 aprile 1978, id., Rep. 1978, voce cit., n. 298, e in Giur. comm., 1978, II, 692 con nota di Arrigoni).

Per una valutazione critica di tale ultimo indirizzo, cfr. E. Bocchini, Il bilancio delle imprese. Problemi di diritto e di politica del diritto, Napoli, 1979, 53 ss. e B. Libonati, Osservazioni in tema di bilanci irregolari e di interesse a farne dichiarare l'irregolarità, in Riv. dir. comm., 1975, II, 155 ss.

(3) Principio consolidato in giurisprudenza. Cfr. per tutti Cass. 28 gennaio 1960, n. 98, Foro it., 1960, I, 604, con nota di richiami, cui ad

de, in nota alla stessa sentenza, G. E. Colombo, in Riv. dir. comm., 1961, II, 176 e, tra i giudici di merito, Trib. Milano 24 marzo 1983, cit.; Trib. Milano 11 ottobre 1973, Foro it., Rep. 1974, voce Società, n.

372; Trib. Milano 14 maggio 1973, ibid., n. 371; App. Milano 12 dicembre 1972, id., Rep. 1973, voce cit., n. 304.

Sul punto cfr., per tutti, G. Ferri, Diritto agli utili e diritto al dividendo, in Riv. dir. comm., 1963, I, 405.

In senso contrario all'orientamento dei giudici v. invece Pettiti,

È legittima l'iscrizione in bilancio di un fondo per oneri e rischi vari qualora dalle spiegazioni degli amministratori, contenute nella relazione allegata al bilancio, si evinca la non arbitrarietà del fondo stesso. (6)

È legittima l'iscrizione in bilancio a valore nominale dei buoni ordinari del tesoro. (7)

È legittima l'iscrizione in bilancio al costo storico dei buoni del tesoro poliennali, degli altri titoli di Stato, delle cartelle fondia rie e delle obbligazioni purché ciò non sia del tutto irragione vole e a condizione di fornire un'adeguata e chiara spiegazio ne della scelta cosi operata. (8)

Qualora si richiamino in bilancio i criteri di ammortamento previsti dalla legge fiscale occorre fornire nel contempo adegua ti chiarimenti in ordine al rapporto esistente tra detti criteri e la misura del deperimento e del consumo effettivamente corri spondente all'esercizio di cui trattasi. (9)

È illegittima l'iscrizione nel conto profitti e perdite di una voce « altri » di rilevante importo, assolutamente priva di decifrabili riferimenti a determinate categorie di operazioni compiute nel corso dell'esercizio. (10)

III

TRIBUNALE DI MILANO; sentenza 2 dicembre 1982; Pres. ed est. Baldi; Ciardo (Avv. ColoImbo) e. Soc. Casa di cura S. Carlo (Avv. Trivoli).

Contributo allo studio del diritto dell'azionista al dividendo, Milano, 1957, 22 ss.

A giudizio del tribunale, una conferma dell'esattezza di tale conso lidato orientamento è venuta dallo stesso legislatore che, introducendo con la 1. n. 216/74 la nuova categoria delle azioni di risparmio, le ha caratterizzate, tra l'altro, rispetto a quelle ordinarie, mediante l'attribu zione di un diritto soggettivo individuale alla distribuzione di una determinata percentuale di utili. Sul punto cfr. Cottino, Diritto commerciale, Padova, 1976, I, 587 ss.

(4) Nello stesso senso cfr. Trib. Milano 24 marzo 1983, cit.; Trib. Milano 10 febbraio 1977, Foro it., Rep. 1977, voce Società, n. 337 e Trib. Milano 30 maggio 1977, ibid., n. 349.

Sul limite del « prezzo di costo » e sulla sua validità (se giustificata) in relazione alle immobilizzazioni finanziarie (di cui si fa espressa menzione nella IV direttiva comunitaria, art. 33, lett. c, e nella proposta di direttiva CEE per gli enti creditizi del 19 marzo 1981) cfr. Jaeger, Il bilancio d'esercizio, cit., 58 ss. e 82 ss. nonché Al. Arrigoni, Delle immobilizzazioni finanziarie, in Giur. comm., 1983, II, 477.

(5-6) In senso conforme cfr. Trib. Milano 10 settembre 1981, cit. e Trib. Milano 22 settembre 1977, Foro it., Rep. 1978, voce Società, n. 291 e in Giur. comm., 1978, II, 688.

Va in proposito rilevato, essendo nella specie la società convenuta una banca, che la proposta di direttiva CEE del 19 marzo 1981 prevede, oltre all'accantonamento per fondo rischi, una ulteriore svalu tazione dei crediti fino al 5 % del loro valore nominale, e questo in considerazione dell'alea che grava sui crediti delle banche nei confronti della clientela. Cfr. sul punto Tancredi Bianchi, I processi di valutazione del bilancio bancario, in Atti del Convegno su i bilanci delle banche e la IV direttiva comunitaria, Venezia 5-6 marzo 1982, 19 ss.

(7-8) Dopo aver confermato l'indirizzo giurisprudenziale secondo cui per i titoli a reddito fisso vale il criterio di valutazione previsto dall'art. 2425, n. 4 (cfr. per tutti Trib. Milano 10 settembre 1981, cit.), il tribunale mentre ha giustificato l'iscrizione dei Bot al valore nominale perché « trattasi di titoli a scadenza ravvicinata per i quali pertanto il valore di mercato non è di regola mai troppo divergente dal nominale », ha ritenuto illegittima l'iscrizione degli altri titoli al valore di costo in quanto « il loro essere titoli destinati in prevalenza all'investimento obbligatorio » non è circostanza idonea a giustificare una deroga al principio di cui all'articolo citato.

Considerano lecita la valutazione al costo storico dei titoli a reddito fisso Trib. Milano 22 settembre 1977, Foro it., Rep. 1978, voce Società, n. 279, e in Giur. comm., 1978, II, 690 e Trib. Milano 27 aprile 1978, cit. (nella specie si trattava di titoli vincolati alla conservazione in portafoglio da parte di una banca e il divario dalle quotazioni in borsa risultava modesto). Sul punto cfr. Jaeger, Il bilancio d'eser cizio, cit. 84.

(9) Conf. Trib. Milano 5 gennaio 1981, Foro it., Rep. 1981, voce Società, nn. 249-251, e in Giur. comm., 1981, II, 458. Sul punto cfr. G. Falsitta, Ancora alcune osservazioni intorno all'ammortamento antici pato e alle plusvalenze accantonate e reinvestite, in Giur. comm., 1981, I, 149.

(10) Nulla in termini. Cfr. tuttavia Trib. Milano 30 maggio 1977, Foro it., Rep. 1977, voce Società, n. 348, secondo cui il conto dei profitti e delle perdite deve consentire la ricostruzione dei costi e dei ricavi in modo analitico e, nello stesso senso, le decisioni riportate nella rassegna di Colombo, Società-Bilancio, cit., 314 ss. Sulla redazione del conto profitti e perdite di società finanziaria e sulla problematica ad esse relative cfr., in dottrina, R. Adami, Note in tema di redazione del conto economico di società finanziaria ammessa d'ufficio alle quotazioni di borsa, in Giur. it., 1983, I, 2, 844.

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1071 PARTE

Società — Società di capitali — Conto dei profitti e delle perdite —

Indicazione in un'unica posta dei ricavi delle vendite e delle

prestazioni — Delibera assembleare di approvazione — Nullità

(Cod. civ., art. 2423, 2425 bis). Società — Società di capitali — Conto dei profitti e delle perdile —

Genericità della voce spese generali — Specificazioni conte

nute nell'allegato al bilancio — Legittimità (Cod. civ., art. 2423, 2425 bis).

Consulente tecnico — Società di capitali — Bilancio — Consulenza

tecnica « de futuro » — Inammissibilità (Cod. proc. civ., art.

61, 62, 198). Società — Società di capitali — Bilancio relativo ad esercizio

sociale non più attuale — Impugnazione della delibera di ap

provazione — Interesse dell'azionista — Estremi (Cod. civ.,

art. 2377, 2379; cod. proc. civ., art. 100).

L'indicazione in unica posta del conto profitti e perdite dei ricavi

delle vendite e delle prestazioni comporta la nullità della

delibera assembleare approvativa per difetto di chiarezza. ("11) È legittima l'iscrizione nel conto dei profitti e delle perdite di

una generica voce « spese generali » quando al socio sia con

segnato l'allegato del bilancio contenente la specificazione delle

singole componenti dell'importo. (12) È inammissibile una consulenza tecnica al fine di fissare i criteri

valutativi che gli amministratori devono tener presenti nella

redazione di un nuovo bilancio, a seguito della dichiarata

nullità dello stesso. (13) Per poter esperire l'azione di nullità delle delibere di approvazio

ne di bilanci relativi ad esercizi sociali non più attuali occorre

dimostrare la sussistenza di un interesse particolare, che non

può né presumersi né considerarsi insito nella mera qualità di

socio. (14)

I

Motivi della decisione. — Con l'unico mezzo la soc. Zanasi

Nigris deduce la violazione e falsa applicazione degli art. 2423 e

2424 c.c. e 100 c.p.c., ai sensi dell'art. 360, n. 3, c.p.c., nonché

omesso, o quanto meno, insufficiente esame di punti decisivi della

controversia prospettati (ai sensi dell'art. 360, n. 5, c.p.c.), insi

stendo nella tesi che la pretesa nullità del bilancio per difetto dei

requisiti di chiarezza e precisione non poteva essere dichiarata

per due motivi: a) il Cerletti aveva avuto a disposizione tutta la

contabilità aziendale per il tempo previsto dalla legge e durante

le assemblee ed aveva avuto sempre i chiarimenti richiesti, per

(11-12) Le massime riaffrontano il tema del requisito di «chiarezza»

(v. supra la nota 1) seguendo l'orientamento (cfr. Cass. 9 febbraio

1979, n. 906, cit.) che considera tale principio rispettato quando sia

possibile al socio acquisire le necessarie informazioni attraverso le

relazioni, gli allegati e i verbali. Sul valore integrativo di tali documenti cfr. Trib. Milano 24 marzo 1983, cit.; Trib. Milano 10 settembre 1981, cit.; Trib. Roma 25 giugno 1979, Foro it., 1980, I, 813. In particolare, sull'efficacia chiarificatrice degli allegati, cfr. in motivazione Trib. Milano 6 febbraio 1975, Giur. comm., 1975, II, 787, cui adde Jaeger, Il bilancio d'esercizio, cit., 41 ss. (ivi la distinzione tra allegati obbligatori e allegati facoltativi e l'attribuzione a entrambi della medesima efficacia integrativa dei dati di bilancio). Contra Trib. Milano 25 ottobre 1971, Foro it., Rep. 1972, voce Società, n. 286 e in Casi e materiali di dir. comm., I, Società per azioni, Milano, 1974, 1466.

Per il significato che l'espressione « allegato » assume nella IV direttiva CEE (ai sensi della quale lo stato patrimoniale, il conto dei

profitti e delle perdite e l'allegato « formano un tutto inscindibile ») cfr. Jaeger, op. ult. cit., 48 ss.

(13) Il tribunale ha confutato la richiesta istruttoria dell'attore richiamando il consolidato principio secondo cui a seguito della dichiarata nullità del bilancio gli amministratori (pur se gravati dall'obbligo di redigere e sottoporre all'approvazione dell'assemblea un

nuovo bilancio: cfr. Trib. Milano 10 settembre 1981, cit.; App. Milano 4 ottobre 1974, Foro it., Rep. 1974, voce Società, n. 308 e in Riv. dir. comm., 1975, II, 155, con nota di Libonati) riprendono la loro libertà di azione nei limiti fissati dalla legge e « non possono preventivamente essere condizionati da specifiche valutazioni preordina te dal tribunale, il quale non ha alcun potere di intromettersi nella scelta e nella determinazione dei criteri di redazione del bilancio ».

Nello stesso senso cfr. per tutti App. Milano 7 maggio 1976, Foro

it., Rep. 1976, voce cit., n. 300, cui adde Jaeger, op. ult. cit., 27 ss. e G. E. Colombo, Il bilancio d'esercizio delle società per azioni, Padova, 1965, 388.

L'unico precedente in senso contrario è Trib. Milano 30 maggio 1977, cit. e in Giur. comm., 1977, II, 676, con nota critica di A. Arrigoni, Nullità del bilancio e poteri del giudice, in cui alla dichiarazione di nullità si è fatto seguire l'ordine alla società di modificare il bilancio, specificando le variazioni da apportare al fine di non incorrere in una nuova sanzione. Contra, in nota alla stessa

sentenza, G. Ferri, Arriveremo al bilancio giudiziale? in Riv. dir.

comm., 1977, II, 410 ss.

PRIMA 1072

cui dal preteso difetto di chiarezza, per mancanza di analiticità,

non si poteva automaticamente ricavare la nullità della delibera

di approvazione, perché soltanto l'assoluta impossibilità di rag

giungere, attraverso la documentazione esibita e la discussione in

assemblea, la conoscenza analitica delle voci raggruppate e

di controllare il rispetto del principio di verità, poteva condurre all'invalidità della delibera; b) nessun interesse pratico aveva il Cerletti all'impugnazione in quanto non aveva dimostrato

che al raggruppamento delle voci corrispondeva un qualche

pregiudizio concreto ed effettivo e cioè la lesione di una situazio

ne giuridica autonoma, quale il diritto ad una parte proporzionale

degli utili, ecc.

La ricorrente osserva che — secondo la recente giurisprudenza del Supremo collegio — l'indicazione in bilancio di tutte le

componenti attive del reddito, mediante conglobamento in un'uni

ca voce, per la loro omogeneità, non comporta nullità della

delibera approvativa, quando sia possibile acquisire l'analitica

conoscenza delle voci raggruppate e controllare il rispetto del

principio della verità del bilancio attraverso le relazioni degli amministratori e le risultanze dell'assemblea. La violazione del

principio di chiarezza e precisione non importa nullità della

delibera nei casi in cui non venga alterata la reale situazione

patrimoniale della società.

Secondo la ricorrente, la corte d'appello ha disatteso tali rilievi, violando il principio che il difetto di analiticità può comportare la nullità del bilancio solo se sia impossibile raggiungere la

conoscenza analitica delle voci raggruppate e controllare in con

creto il rispetto del principio della verità; e violando altresì'

l'altro principio che i criteri di chiarezza e precisione hanno

carattere strumentale, per cui la nullità del bilancio può dichia

rarsi solo se vi è un concreto pregiudizio per gli interessi tutelati

dei soci e dei terzi, indotti in errore dall'inesatta informazione

per violazione del principio di verità.

Il ricorso è fondato, perché gli accertamenti compiuti dalla

corte d'appello non giustificano la dichiarazione di nullità per illiceità della delibera (impugnata anche con azione di annulla

mento ex art. 2377-2378 c.c.). Invero, il Cerletti aveva chiesto la

nullità sia perché il bilancio non rispecchiava la vera situazione

patrimoniale della società, per l'occultamento di riserve costituite

con utili conseguiti nei precedenti esercizi; sia perché esso non

era stato redatto a norma degli art. 2423 e 2424 c.c., in quanto le

voci dell'attivo e del passivo del conto patrimoniale non erano

distinte nelle varie diverse componenti, ma sommariamente rag

gruppate in poche categorie; ed in quanto nel conto dei profitti e

delle perdite non risultavano con chiarezza e precisione gli utili

conseguiti e le perdite sofferte, data la estrema sinteticità con cui

le risultanze dell'esercizio erano esposte in due sole voci « globa li » (utile lordo all'attivo e spese generali al passivo).

La corte d'appello ha affermato di non doversi occupare della

prima domanda, in quanto assorbita dalla seconda, di carattere

pregiudiziale e più generale; ed ha accolto la seconda non

facendo un preciso riferimento ai singoli rilievi messi in citazione

dall'attore, ma genericamente all'estrema sommarietà delle indica

zoni, al cumulo delle poste ed altre omissioni (non indicate) che, in concreto, avrebbero determinato un bilancio apparente perché inidoneo a consentire la conoscenza, il controllo e l'esame delle condizioni patrimoniali, economiche e contabili della società.

L'espressione « bilancio apparente » non si deve però intendere

come equivalente a bilancio non vero (o non corrispondente alla

verità effettiva), perché più oltre la corte ha avuto cura di chiarire

che, a prescindere dalla veridicità, vi è l'esigenza di conoscere la

situazione patrimoniale; esigenza non soddisfatta dal difetto di

analiticità che comporta — come nella specie — l'impossibilità di tale conoscenza ed il potenziale pregiudizio per l'interesse

generale della verità del bilancio.

Tale pronuncia (che costituisce la vera ratio decidendi della

sentenza impugnata) si ispira a principi giuridici non conformi

alla più recente giurisprudenza di questa corte; ed inoltre esprime in forma puramente assertiva ed immotivata l'impossibilità della

conoscenza della vera situazione patrimoniale a causa del difetto

di analiticità, non spiegando in effetti perché tale conoscenza sia

stata resa impossibile in concreto.

Questa corte osserva che, mentre l'art. 2217, contenente norme

generali sulle scritture contabili dell'imprenditore, dispone che il conto dei profitti e delle perdite deve dimostrare « con evidenza e verità » gli utili conseguiti e le perdite subite, l'art. 2423 c.c.

dispone che « dal bilancio e dal conto dei profitti e delle perdite devono risultare con chiarezza e precisione la situazione patri moniale della società e gli utili conseguiti o le perdite sofferte ».

È evidente, peraltro, che il principio di verità è contenuto nell'art. 2423 ed è tutelato dalle specificazioni che, rispettivamente, l'art. 2424 dà del principio della chiarezza e l'art. 2425 di quello della

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Page 5: Sezione I civile; sentenza 16 dicembre 1982, n. 6942; Pres. Scanzano, Est. R. Sgroi, P. M. Zema (concl. diff.); Soc. Zanasi Nigris (Avv. Cavasola, Pugliesi, Fontaine, Giorgianni) c.

GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

precisione; l'art. 2425 bis ha esteso il criterio dell'analiticità o

distinzione al conto dei profitti e delle perdite. Sebbene tale

norma (aggiunta dalla 1. 7 giugno 1974 n. 216) non fosse

testualmente applicabile al bilancio del 1969 di cui è causa, tuttavia quel criterio era già affermato dalla dottrina e dalla

giurisprudenza anche in tempo anteriore alla legge citata.

« Chiarezza » significa perspicuità, evidenza manifesta, immedia

ta comprensibilità, e riguarda l'espressione linguistica rappresenta tiva della realtà che si vuol conoscere. Quel che interessa è la

verità, fedeltà e pienezza della conoscenza della realtà da rappre sentare. La legge ritiene che tale risultato si possa raggiungere mediante la « distinzione » delle voci, e cioè mediante l'analisi

della realtà complessivamente formata dal cumulo di quelle voci;

ed anzi la dottrina prevalente ha posto in rilievo che l'art. 2424

pone i requisiti « minimi » per realizzare la chiarezza, perché in

alcuni casi e per talune imprese societarie questa potrebbe essere

osservata solo con indicazioni ancora più analitiche. In ogni caso,

peraltro, i criteri suddetti sono di carattere strumentale rispetto alla conoscenza completa ed esatta della realtà, e cioè strumenti

per raggiungere in modo immediato ed evidente la conoscenza

fedele della situazione della società. Se il bilancio non è redatto

in maniera analitica, e cioè tramite la « distinzione » delle voci,

ne soffre l'evidenza e l'immediata comprensibilità; ma non neces

sariamente può ritenersi vulnerato il principio della verità. Inve

ro, la stessa « chiarezza » non si identifica con la « distinzione »,

ma è raggiunta più facilmente con la distinzione analitica delle

voci. Solo quando il difetto di distinzione e di analisi si traduce

in oscurità, la realtà da rappresentare diventa incomprensibile e

cioè ignota, il che equivale ad impossibilità di conoscere la

verità. Tale impossibilità deve essere però effettiva e non poten

ziale, come inesattamente ha ritenuto la sentenza impugnata.

Invero, la violazione della norma dell'art. 2424 c.c. che, in

ossequio al principio della chiarezza, disciplina il contenuto del

bilancio, può determinare la nullità della deliberazione assemblea

re di approvazione soltanto quando dall'iscrizione di dati contabi

li non rispondenti al vero e dall'omissione di poste derivi, sul

piano sostanziale, un concreto pregiudizio per gli interessi tutelati

dei soci e dei terzi, indotti in errore dall'inesatta informazione

sulla consistenza patrimoniale e sull'efficienza economica della

società (Cass. 9 febbraio 1979, n. 906, Foro it., 1980, I, 1121, ove

è contenuta un'esposizione dell'evoluzione giurisprudenziale).

Deve essere compromessa l'esattezza della informazione, attra

verso rappresentazioni incerte, ed erronee ed incomprensibili ed

oscure. Di tutti tali elementi il giudice del merito deve dare

giustificazione, non limitandosi ad affermazioni apodittiche (come

sostanzialmente ha fatto il giudice d'appello in questa causa) che

per la loro stessa genericità ed applicabilità ad ogni possibile

fattispecie perdono ogni significato, ma indicando quali sono le

poste omesse, quali quelle non corrispondenti alla realtà quali —

e che per ragione — di significato equivoco, ambivalente od

approssimativo, onde permettere il controllo della motivazione in

sede di legittimità che nella specie è impossibile

Per quel che riguarda il principio della precisione, questa corte

non se ne deve occupare, perché al n. 3 della citazione introdut

tiva non si afferma neppure che siano stati violati i criteri posti

dall'art. 2425 c.c. sui criteri di valutazione. Soltanto nella com

parsa conclusionale di primo grado (dopo avere ribadito l'addebi

to del « raggruppamento di voci eterogenee » nella rappresenta zione dell'attivo e del passivo della situazione patrimoniale e del

conto economico), il Cerletti aveva affermato che la mancanza di

chiarezza e di precisione favoriva l'occultamento di sottovalu

tazione di alcune categorie di beni (merci in magazzino) che,

superando il limite di ogni ragionevolezza, comportano anche la

falsità del bilancio. Tale assunto non è stato esaminato dalla

corte d'appello, perché ritenuto assorbito, e quindi non può

essere oggetto di riesame in questa sede, ma resta riservato ex

novo al giudice di rinvio. Invero, la mancanza della precisione era riferita alle riserve occulte che inficiavano di falsità i bilanci

dal 1962 al 1967, come accertato da altra sentenza di pari data

(confermata da questa corte a questa stessa udienza); né si può

dire — come ha sostenuto la difesa del Cerletti — che tale

giudicato è sufficiente per dimostrare la falsità del bilancio del

1969 perché occorre esperire un'indagine di fatto sul pun

to se l'occultamento sia stato successivamente eliminato, con le

opportune variazioni contabili.

Inoltre nella comparsa conclusionale in appello (e quindi tardi

vamente) il Cerletti aveva sostenuto che la mancanza di chiarezza

del bilancio, oltre a far presumere la sua non corrispondenza alla

verità era rilevante anche perché impediva di verificare il rispetto

del principio della precisione, con riguardo alla valutazione degli

immobili, dei mobili d'arredamento, dei macchinari, delle materie

prime, dei semilavorati e delle merci pronte per la vendita,

ponendosi un interrogativo sui criteri di tali valutazioni. È vero

che il superamento dei limiti di discrezionalità dei criteri legali di

valutazione può comportare — in caso di irragionevole od

arbitraria valutazione — la falsità del bilancio e la conseguente nullità per illiceità dell'oggetto della delibera di approvazione (Cass. 28 luglio 1977, n. 3373, id., 1978, I, 142), nullità che può essere dichiarata d'ufficio; ma occorre che in proposito il motivo

della nullità sia acquisito ritualmente agli atti del processo, tramite un'attività assertiva e probatoria tempestivamente esercita

ta, non limitata quindi ad un tardivo dubbio ipotetico ed alla

sollecitazione di una consulenza che — in correlazione con tale

dubbio — avrebbe carattere meramente esplorativo e sarebbe

quindi inammissibile.

La corte di rinvio dovrà riesaminare la delibera de qua alla

luce dei principi già enunciati in tema di violazione del criterio

della chiarezza, anche sotto il profilo dell'azione di annullamento

esperita e in ogni caso tenendo conto delle relazioni degli amministratori e dei sindaci allegate al bilancio, nonché delle

risultanze del verbale di assemblea, per apprezzare gli eventuali

chiarimenti ivi contenuti. 11 motivo del ricorso non investe

espressamente la mancata ammissione della prova orale (per

interrogatorio e per testi) che del resto sarebbe irrilevante perché

riguardante la conoscenza di dati esterni rispetto al bilancio (la

contabilità) ed inammissibile perché comportante un giudizio circa la sufficiente analiticità dei dati.

Il giudice di rinvio, che si designa in altra sezione della Corte

d'appello di Bologna, provvederà anche sulle spese del giudizio di

Cassazione.

II

Premessa. — 1. - Nell'approvare il bilancio dell'esercizio 1980,

recante un utile di lire 25.364.565.005, e nel destinare tale utile a

riserva ordinaria (per lire 800.000.000) ed a riserva straordinaria

(per lire 24.564.565.005) l'assemblea dei soci della Banca d'Ameri

ca e d'Italia ha evidentemente assunto due deliberazioni, concet

tualmente distinte, e tuttavia obiettivamente connesse. Se infatti è

vero che la delibera concernente la destinazione dell'utile ha una

sua autonomia logica, rispetto a quella con la quale viene

approvato il bilancio, è certo altrettanto vero che, proprio sul

piano logico, l'atto di disposizione che l'assemblea compie riguar

do all'utile non può prescindere dalla verifica e dalla dimostrazio

ne contabile dell'esistenza e della misura di quel medesimo utile,

alla cui finalità è anche (benché non soltanto) preordinato il

bilancio.

Da ciò consegue che l'eventuale invalidità della delibera di

approvazione del bilancio di esercizio, nel comportare la necessità

di rinnovazione della redazione del bilancio medesimo per render

lo conforme al dettato legislativo, non può non riflettersi anche

sulla validità della delibera assunta in ordine all'utile risultante

dal bilancio invalido (ed invalidamente approvato), e non può

quindi non implicare la necessità di rinnovare anche tale ultima

delibera in rapporto alle risultanze di un bilancio che sia

conforme alla legge. Siffatta premessa spiega per qual motivo pare opportuno trattare

preliminarmente la questione dell'interesse ad agire del socio

impugnante, con riferimento ad entrambe le due deliberazioni

sopra menzionate, e quindi procedere all'esame prima dei problemi che riguardano la legittimità della delibera avente ad oggetto la

destinazione dell'utile, in sé sola considerata, e poi di quelli che

direttamente investono la validità del bilancio, ma si riflettono, per le ragioni sopra ricordate, anche sulla delibera concernenete la

destinazione dell'utile.

Interesse ad agire ed abuso del diritto. — 2. - È ben noto

che l'interesse ad agire di cui si occupa l'art. 100 c.p.c., secondo

l'interpretazione pressoché unanime della dottrina e della giuris

prudenza, deve essere verificato dal giudice in base alla semplice deduzione che la parte faccia di un suo sostanziale interesse

all'accoglimento della domanda proposta in causa, indipendente

mente dall'esito dell'accertamento della sua concreta esistenza, cioè

della fondatezza nel merito di quella domanda (cfr., tra le tante,

Cass. 28 giugno 1980, n. 4089, Foro it., Rep. 1980, voce Procedi

mento civile, n. 56). Se si tiene ferma tale premessa, è difficile negare che la società

Yacarè abbia interesse all'accoglimento delle domande volte a far

dichiarare invalide le deliberazioni assunte il 23 aprile 1981

dall'assemblea della società convenuta, cosi come tali domande

sono state prospettate in giudizio. L'attrice infatti, come s'è detto,

assume di essere titolare di un diritto — derivante sia dalla legge,

sia dallo statuto della società — alla assegnazione di una quota

dell'utile maturato al termine dell'esercizio e risultante dal bilan

cio. Se egli abbia, o meno, tale diritto è quel che si accerterà

esaminando il merito della controversia; ma è innegabile che se

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1075 PARTE PRIMA 1076

l'interpretazione delle norme di legge e dello statuto prospettata dall'attrice fosse corretta, essendo dimostrata la qualità di socio

della Yacarè, questa conseguirebbe un vantaggio, anche economico,

dall'accoglimento della domanda che imporrebbe alla società

convenuta di distribuire una quota di utile ai soci: e ciò basta

per affermare la sussistenza dell'interesse ad agire, inteso come condizione preliminare dell'azione.

La stretta connessione, già posta in evidenza, tra la domanda

concernente la destinazione dell'utile di esercizio e quella volta a far dichiarare l'invalidità della delibera di approvazione del

bilancio, potrebbe essere di per sé sufficiente a dimostrare l'esi stenza del requisito dell'interesse, anche in relazione a tale ultima

domanda, poiché le censure mosse al bilancio dal socio impugnan te sono, per la quasi totalità, dirette a mettere in luce pretese sottovalutazioni di poste attive o sopravvalutazioni di poste passi ve, e mirano perciò a determinare un potenziale incremento dell'utile che si vorrebbe far distribuire ai soci.

Non è forse superfluo aggiungere, peraltro, che al socio non può essere negato un interesse giuridicamente rilevante ad ottenere una

rappresentazione chiara e precisa della situazione patrimoniale della società e dell'andamento economico dell'esercizio — e dun

que a denunciare gli eventuali vizi di chiarezza o precisione da cui sia affetto il bilancio approvato dall'assemblea — anche

indipendentemente dai riflessi che ne possano derivare sul risultato dell'esercizio medesimo (sia consentito richiamare sinteticamente sul punto le argomentazioni svolte già in ripetute altre occasioni da questo tribunale, anche per quel concerne gli effetti che la violazione dei precetti di chiarezza e precisione del bilancio

producono sulla validità della delibera assembleare di approvazio ne del bilancio stesso: cfr. Trib. Milano 8 aprile 1982, Inzana c. Immobiliare s.p.a., Trib. Milano 10 settembre 1981, De Laurentis c. Creditwest s.p.a., id., 1982, I, 2061, e gli ulteriori precedenti giurisprudenziali ivi citati).

La questione dell'interesse ad agire si collega in qualche modo a quella dell'abuso del diritto, specificamente sollevata dalla difesa della società convenuta. Secondo tale difesa, l'azione giudiziale promossa dalla Yacarè configurerebbe un vero e proprio atto

emulativo, o comunque una chiara ipotesi di esercizio del diritto

per finalità distorte rispetto a quelle in vista delle quali quel medesimo diritto è riconosciuto dall'ordinamento; il che preclude rebbe ogni possibilità di invocare la tutela giurisdizionale dell'inte resse che sottosta ad un tal genere di azione.

Senonché le osservazioni che svolge in argomento la difesa della banca convenuta, quantunque per molti aspetti suggestive ed idonee a mettere a fuoco un fenomeno, innegabilmente sussistente nella realtà non possono essere fino in fondo condivise, quanto meno con riguardo alla concreta fattispecie e nei limiti in cui gli atti ed i documenti del processo consentono di decifrarla.

Il tribunale non ignora davvero che le impugnazioni delle delibere assembleari delle società di capitali, soprattutto quelle aventi ad oggetto l'approvazione di bilanci, possono talvolta essere mosse da intenti assai meno limpidi di quelli esteriormente

dichiarati, cosi da dare vita a discutibili speculazioni, attraverso

comportamenti « ricattatori » attuati da piccoli azionisti. Il rischio che il diritto di impugnazione dell'azionista venga nella realtà

adoperato per finalità distorte non può però, evidentemente, condurre a negare sic et simpliciter la tutela che a quel diritto

compete. Quand'anche si ammetta la confìgurabilità dell'abuso del

diritto (o, se si preferisce, della exceptio doli), come categoria

giuridica generale del nostro ordinamento (il che, com'è noto, non

è per nulla pacifico) e quand'anche si riesca ad identificare con

sufficiente chiarezza gli elementi oggettivi di una tale figura

giuridica, distinguendoli da quegli aspetti di soggettività che pure sembrano essere insiti in essa, non v'è dubbio che chi tale

categoria giuridica invochi debba fornire in giudizio la prova

piena e convincente della distorsione cui, nel caso concreto, l'uso

del diritto sia stato assoggettato da parte del suo titolare.

Ma una simile prova — è quasi superfluo dirlo — non può unicamente basarsi sulla considerazione che altri ha talvolta

abusato di quello stesso diritto in analoga situazione; giacché ciò

equivarrebbe evidentemente a sancire una volta per tutte che quel diritto in simili situazioni non esiste più. Ma cosi si andrebbe ben

oltre i limiti connaturati alla figura del diritto, che non sembra

poter mai prescindere dal carattere specifico e concreto del fatto

abusivo.

Non può perciò essere seguita la tesi prospettata dalla difesa

della società convenuta, laddove essa vorrebbe dedurre l'abuso del

diritto, che imputa all'attrice, dalla sola esiguità del pacchetto azionario di cui questa è titolare e dunque

' dalla notevole

sproporzione esistente tra gli interessi in conflitto.

Seguendo questa strada si perverrebbe fatalmente a negare al

piccolo azionista, sol perché tale, il diritto di impugnare in

giudizio le deliberazioni della società della quale egli è socio. Non è però chi non veda come una tale conclusione sia inaccettabile

perché contrasta insanabilmente con il disposto degli art. 2348, 1°

comma, e 2377, 2° comma, c.c. (anche a tacere dell'art. 24 Cost.). Se di quanto s'è detto occorresse una conferma, questa potrebbe

d'altronde trovarsi precisamente in quella disposizione dell'art. 6

d.p.r. 31 marzo 1975 n. 136, che la stessa convenuta ha

richiamato nelle proprie argomentazioni difensive. Il 1° comma di

tale articolo, come è noto, limita la legittimazione all'impugnazio ne delle delibere assembleari di approvazione del bilancio, attri

buendola solo ai soci che rappresentino almeno un ventesimo del

capitale sociale, oppure che siano titolari di azioni del valore nominale di almeno lire 100 milioni, qualora il capitale della società superi i 2 miliardi di lire. L'esistenza di siffatta esplicita limitazione per le sole società con azioni quotate in borsa,

assoggettate alla certificazione del bilancio, a norma del precendete art. 4, conferma però l'assenza di analoghe limitazioni per le altre

società, alle quali dette norme di carattere speciale non sono, ovviamente, applicabili. E questo appare perfettamente logico, perché solo nel caso delle società con azioni quotate in borsa la

limitazione del diritto dei soci di impugnare le delibere assemblea ri trova il suo naturale contrappeso nel regime di particolare

vigilanza e controllo cui dette società sono sottoposte ad opera della CONSOB (Commissione nazionale per le società e la borsa) e, soprattutto, nella relativa presunzione di legittimità dei bilanci

assoggettati a revisione e certificazione. Ove tale contrappeso e tali pubbliche garanzie manchino, come è appunto il caso della

società convenuta, le cui azioni non sono quotate in borsa, non è

pensabile che si neghi all'azionista, per quanto piccolo sia il suo

investimento di capitale, la possibilità di invocare la tutela

giurisdizionale di diritti inerenti alla qualità di socio, che pur

sempre gli compete.

Né infine può tacersi — se è lecito concludere il discorso

sull'argonto con una considerazione di carattere più generale —

che per le società il vero modo di prevenire e scoraggiare eventuali iniziative speculative di piccoli azionisti (o, magari, anche di azionisti che piccoli non sono) consiste nel redigere ed

approvare bilanci che siano pienamente conformi ai precetti di

chiarezza e di precisione dettati dal legislatore, ormai da anni

elaborati, anche in dettaglio, da parte di dottrina e giurisprudenza.

Mancata distribuzione dell'utile agli azionisti. — 3. - S'è già riferito che il cospicuo utile risultante dal bilancio della società

convenuta, a chiusura dell'esercizio 1980, è stato in piccola parte destinato alla riserva ordinaria e, per il resto, alla riserva

straordinaria, senza attribuzione di alcun dividendo agli azionisti. In ciò la società attrice ravvisa una violazione di legge, in

conseguenza della lesione del diritto soggettivo alla assegnazione di una quota di utile, che competerebbe al socio, nonché un vizio di eccesso di potere, frutto del perseguimento da parte della

maggioranza assembleare di un proprio interesse, estraneo allo

scopo sociale e prevaricante rispetto a quello della minoranza azionaria.

A giudizio del tribunale, nessuna delle doglianze prospettate al

riguardo dalla Yacarè appare però fondata. Che all'azionista

competa un diritto soggettivo alla percezione di un dividendo,

indipendentemente da una delibera assembleare che glielo attri

buisca, è stato da tempo escluso dalla prevalente dottrina e dalla

giurisprudenza, che hanno giustamente rilevato come l'art. 2350

c.c. attribuisca al socio il diritto ad una parte proporzionale degli utili della società, ma non anche il diritto a percepire periodica mente siffatti utili, sotto forma di dividendi di fine esercizio; laddove invece una tale eventualità è esplicitamente subordinata, dal successivo art. 2433, all'espressa delibera dell'assemblea che

approva il bilancio di esercizio. Una decisiva conferma della

esattezza di questo orientamento è poi venuta dallo stesso legisla

tore, che introducendo con la 1. n. 216/74 la nuova categoria delle azioni di risparmio, le ha caratterizzate, rispetto a quelle

ordinarie, tra l'altro, proprio mediante l'attribuzione di un diritto

soggettivo individuale alla distribuzione di una determinata percen tuale di utili (art. 15, 1° comma, legge citata).

Il diritto dell'attrice alla distribuzione di un dividendo di fine

esercizio, come non può fondarsi sulle norme del codice, cosi' non

trova fondamento neppure nelle disposizioni dello statuto della

Banca d'America e d'Italia. La prescrizione in proposito invocata

è quella contenuta nell'art. 42 dello statuto della società convenu

ta, il quale, nel testo vigente all'epoca della delibera impugnata, stabiliva che « l'ammontare dell'utile netto, dedotta la quota di

assegnarsi alla riserva per disposizione di legge, ovvero destinata

per deliberazione dell'assemblea a costituire altri particolari fondi

o riserve, viene attribuita alle azioni ».

Sembra al tribunale che la citata clausola statutaria, lungi dal

configurare un diritto del singolo azionista alla percezione del

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

dividendo, espressamente subordini tale eventualità, non solo alla

deduzione di una quota di utile da assegnarsi alla riserva legale, ma anche alla mancata deliberazione da parte dell'assemblea di

destinare l'utile ad « altri particolari fondi o riserve ». Né giova obiettare che la legittimità di una siffatta delibera postulerebbe,

appunto, l'assegnazione di fondi o riserve « particolari », laddove

nella specie l'utile di esercizio è stato per la maggior parte

assegnato ad una generica riserva straordinaria. È infatti evidente

che l'aggettivo « particolari » è stato adoperato nella clausola

statutaria in esame in contrapposizione alla nozione di « riserva

per disposizione di legge », menzionata in un rigo precedente della

stessa clausola. I fondi e le riserve in questione sono dunque « particolari », solo in quanto non già contemplati, in linea

generale, dalla legge (fondi di ammortamento, fondi di indennità

di anzianità o di quiescenza, riserva legale, ecc.); ma nulla

autorizza a ritenere che con tale clausola la società si sia inibita

la possibilità di costituire, mediante destinazione degli utili di

esercizio, altre riserve statutarie e facoltative, secondo la previsione dell'art. 2424, 2° comma, n. 3, c.c., oppure che abbia condizionato

esplicitamente siffatta possibilità alla individuazione di una ben

definita destinazione del fondo o della riserva. Tanto più che, anche

sotto il profilo strettamente letterale, l'aggettivo « particolari » non

è riferito all'eventuale destinazione che a quei fondi o riserve

debba essere data, bensì appunto al modo in cui essi sono

costituiti per deliberazione dell'assemblea. La delibera di cui si

discute non appare viziata neppure sotto il diverso profilo dell'ec

cesso di potere. Nulla invero, consente di ravvisare in essa un intento sopraffat

torio della maggioranza, finalizzato al perseguimento di un interes

se extrasociale. È certamente naturale, e per certi aspetti fisiologi

co, che possano manifestarsi all'interno di una compagine sociale

orientamenti difformi circa il criterio di destinazione dell'utile,

apparendo a taluni preferibile un'immediata remunerazione del

capitale investito ed altri, invece, propendendo piuttosto per l'autofinanziamento dell'impresa. Evidentemente la scelta tra queste due soluzioni, che si contendono potenzialmente il campo in

qualunque assemblea societaria che approvi un bilancio d'esercizio

in attivo, non può che spettare alla maggioranza, secondo il

principio generale che vige in materia di deliberazioni degli organi

collegiali delle società.

È possibile anche ipotizzare in teoria che una tale delibera

possa essere fuorviata, rispetto al suo naturale obiettivo, consisten

te nella realizzazione dell'interesse della società, da un eccesso di

potere da parte della maggioranza (non è qui il caso di soffermar

si sulla configurabilità in generale dell'eccesso di potere come

vizio delle delibere societarie, tradizionalmente ammesso da dottri

na e giurisprudenza); ma nel caso di specie ciò costituisce una

mera illazione, alla quale fa difetto qualunque concreto elemento

di riscontro. Né può l'asserito eccesso di potere desumersi sempli cemente dal fatto che pure in anni precedenti la società non ha

distribuito dividendi agli azionisti, o che le sue riserve appaiono

già sufficientemente cospicue, poiché questo è indice di una

prudenza nella gestione del patrimonio sociale portata, se si vuole,

sino al limite estremo, ma non implica di per sé alcuna deviazio

ne della delibera dalla propria finalità tipica, né alcuno scopo vessatorio nei confronti della minoranza azionaria (e ciò anche a

prescindere dalla considerazione che, in un periodo notoriamente

caratterizzato da una crisi economica generale, siffatta estrema

prudenza non appare priva di giustificazioni logiche). Per nessuno degli aspetti fin qui considerati la mancata distri

buzione di utili agli azionisti della Banca d'America e d'Italia

risulta dunque illegittima. I denunciati vizi del bilancio. — 4. - Occorre ora occuparsi

della deliberazione assembleare con la quale è stato approvato il

bilancio d'esercizio della società convenuta, relativo all'anno 1980,

ed è superfluo ripetere che gli eventuali vizi di tale bilancio sono

destinati a ripercuotersi non solo sulla validità dell'anzidetta

delibera di approvazione, ma anche su quella conseguente di

destinazione dell'utile accertato in base al bilancio cosi approvato.

Gioverà esaminare separatamente le diverse censure che l'attrice

ha mosso alle seguenti poste del menzionato bilancio.

A) Partecipazioni — L'attrice si duole, in linea generale, del

fatto che le partecipazioni della convenuta nella Interbanca e

nella società lussemburghese FINBAI siano state iscritte in bilan

cio secondo il criterio del costo storico, in violazione del precetto

dettato dall'art. 2425, n. 4, c.c., ed in particolare lamenta che

l'adozione di tale illegittimo criterio abbia implicato una grave ed

assolutamente irragionevole sottovalutazione delle due menzionate

partecipazioni. Sembra al tribunale che il ragionamento sviluppato a questo

riguardo dall'attrice, pur partendo da un presupposto del tutto

condivisibile in linea teorica, pervenga nella concreta fattispecie a

conclusioni non accettabili. È certamente da condividersi l'osserva

zione secondo la quale il criterio indicato dal legislatore per la

valutazione delle partecipazioni nel citato art. 2425, n. 4, è

diverso, e per alcuni aspetti financo opposto, rispetto al criterio del costo storico, che lo stesso legislatore ha invece prescritto per l'appostazione in bilancio delle cosi dette « immobilizzazioni tecni che » (art. 2425, n. 1). In quest'ultimo caso, infatti, il legislatore ha inteso ancorare la valutazione ad un parametro assolutamente

rigido, qual è appunto quello del costo, mentre nell'altro caso si è

rifatto ad un criterio di massima elasticità, richiamando il pruden te apprezzamento degli amministratori. Il fatto che le partecipa zioni, della cui iscrizione in bilancio si discute, rientrino nella

categoria delle cosi' dette « immobilizzazioni finanziarie » {cioè costituiscano non già un mero investimento patrimoniale della

società, bensì uno degli strumenti dei quali la società stessa

direttamente si avvale per il perseguimento dei propri fini statuta

ri) e siano perciò destinate a permanere nel patrimonio della

partecipante per una molteplicità di esercizi successivi, non sposta i termini teorici del problema, perché nessuna norma di legge sottrae siffatte partecipazioni alla disciplina generale del citato art.

2425, n. 4, e consente quindi agli amministratori di esimersi da

quell'obbligo di specifica motivazione, che costituisce il corollario

inscindibile della discrezionalità di valutazione loro accordata

dall'anzidetta norma (cfr. in proposito le precedenti sentenze

emesse da questo tribunale il 5 febbraio 1981 in causa Tecofil

s.a. contro Bustesa s.p.a., ed il 10 settembre 1981 in causa De

Laurentis contro Creditwest s.p.a., già prima citata). Ciò chiarito, è però necessario aggiungere che non v'è motivo di

ritenere sempre illegittima l'iscrizione in bilancio delle partecipa zioni al valore di costo, ove ciò non sia manifestamente irragiona

vole, ferma restando l'esigenza che gli amministratori forniscano

adeguata motivazione della conformità di tale scelta al criterio del

prudente apprezzamento richiesto dalla legge. Nulla vieta, in altri

termini, che, rispettando la prescrizione del più volte citato art.

2425, n. 4, gli amministratori esercitino il potere discrezionale loro

attribuito da detta norma stimando prudente l'iscrizione delle

partecipazioni in bilancio al valore di costo. Come sempre in caso

di valutazioni discrezionali, il limite da rispettare è duplice e

risiede, da un lato, nella non manifesta arbitrarietà della scelta

operata e, dall'altro lato, nella adeguata motivazione di essa (solo cosi' è infatti possibile conciliare la discrezionalità con la fonda

mentale esigenza di precisione e chiarezza del bilancio).

È in questa prospettiva che torna ad assumere rilievo la già ricordata caratterizzazione delle partecipazioni di cui trattasi come

« immobilizzazioni finanziarie ». Tale caratterizzazione — non con

testata dalla difesa dell'attrice — impedisce di ritenere manifesta

mente arbitraria, o assolutamente irrazionale, la scelta operata

dagli amministratori della società convenuta nell'iscrivere in bilan

cio siffatte partecipazioni al costo storico, cioè con un metro

omogeneo rispetto a quello adoperato per le altre « immobilizza

zioni » presenti nel patrimonio sociale. Che il criterio adottato nel

caso di specie non sia cosi abnorme da meritare censura, sotto il

profilo della legittimità, è sufficientemente dimostrato dal fatto che

esso è esplicitamente suggerito, appunto in tema di « immobilizza

zioni finanziarie », dalla più diffusa ed accreditata dottrina azien

dalistica ed è stato persino recepito, sia pure con possibilità di

introdurvi deroghe, nella quarta direttiva emanata dalla CEE (art.

35). Né qui può farsi questione di mancanza di « prudenza » nella

valutazione compiuta dagli amministratori — come potrebbe acca

dere nel caso in cui la situazione patrimoniale fosse cosi dissestata

da far apparire palesemente eccessiva la valutazione della parteci

pazione al costo storico — giacché, al contrario, la stessa difesa

dell'attrice lamenta che nella specie vi sia stata piuttosto una

sottovalutazione delle partecipazioni di cui trattasi e ciò trova

piena conferma negli allegati bilanci delle due società partecipate, Interbanca e FINBAI.

Quanto al requisito dell'adeguata motivazione e, più in generale,

all'esigenza di rispettare il principio di chiarezza del bilancio (che

potrebbe essere vulnerato da un'eccessiva sottovalutazione, insita

nel criterio seguito, ove ne dovesse scaturire una vera e propria

riserva occulta), sembra al tribunale che tanto l'uno, quanto l'altro siano stati in concreto salvaguardati. Emerge invero con

sufficiente nitidezza nella relazione degli amministratori al bilancio

che la ragione per la quale le anzidette partecipazioni sono state

valutate al costo è costituita, appunto, dal carattere strumentale

delle stesse (esse vengono definite, alla pag. 56 della citata

relazione, « strumenti che ampliano la sfera operativa offerta alla

clientela, sia in Italia che all'estero »), cioè appunto dalla loro

natura di « immobilizzazioni finanziarie ». Né potrebbe esser ravvi

sata una riserva occulta nel notevole divario esistente tra il valore

di mercato delle ricordate partecipazioni ed il valore di costo

indicato nel bilancio della società convenuta, perché tale divergen

za, desumibile con chiarezza già dalla lettura degli allegati bilanci

delle società controllate, è stata adeguatamente resa manifesta

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1079 PARTE PRIMA 1080

anche nel corso de] dibattito assembleare che ha preceduto

l'approvazione del bilancio della convenuta (vedi, in particolare, le

dichiarazioni rese in quella sede dal presidente del collegio

sindacale, riportate alla pag. 23 del verbale, ove si quantifica in

circa 20 miliardi di lire la plusvalenza delle partecipazioni F1NBAI ed Interbanca). Se dunque nell'iscrivere in bilancio al

valore di costo le anzidette partecipazioni poteva esservi il rischio

di dar vita ad una riserva occulta, occorre dire che tale rischio è

stato di fatto evitato, poiché l'insieme dei dati ricavabili dai

documenti contabili, dalle relazioni che li accompagnano e dalle

ulteriori informazioni rese in assemblea (dati senza dubbio destina

ti ad integrarsi a vicenda) forniscono un quadro sufficientemente

chiaro e completo dei diversi possibili valori di riferimento e

danno adeguata spiegazione del criterio non arbitrariamente pre scelto dagli amministratori.

B) Fondo rischi sui crediti. — Tale posta, figurante nel passivo della situazione patrimoniale della società convenuta, viene censu

rata dall'attrice società Yacarè, che ritiene manifestamente eccessi

va la misura dell'accantonamento effettuato.

La critica cosi formulata, per quanto attiene alla legittimità del

bilancio, non appare però affatto persuasiva. La liceità della

costituzione di un fondo del genere di quello in esame, natural

mente, è fuori discussione. Neppure può dubitarsi che la misura

di esso resti affidata alla discrezionalità dei competenti organi della società e non sia quindi suscettibile di censura da parte del

tribunale, salva l'ipotesi di assoluta arbitrarietà o di insufficiente

spiegazione delle ragioni che hanno determinato la costituzione di

quel fondo.

Nel caso di specie non sembra invero al collegio che la misura

del fondo di cui trattasi sia tale da varcare i limiti della

ragionevolezza, posto che la sua entità complessiva non supera il

5 per cento dei crediti verso la clientela, iscritti all'attivo della

situazione patrimoniale. D'altro canto, le considerazioni di caratte

re generale esposte nella parte introduttiva della relazione al

bilancio degli amministratori, circa l'insicurezza delle prospettive

economiche, accentuata da elementi di tensione e di squilibrio

specificamente presenti nel campo monetario e quindi nel settore

bancario, bastano a fornire una spiegazione più che adeguata del

perché sia stato accresciuto il fondo rischi su crediti sino alla

percentuale anzidetta.

C) Fondo per oneri e rischi vari — Le doglianze che l'attrice

formula con riferimento a questa posta, anch'essa compresa nel

passivo del bilancio della convenuta, sono sostanzialmente analo

ghe a quelle espresse a proposito del fondo rischi su crediti.

Sembra al tribunale che anche tali doglianze siano infondate,

per ragioni simili a quelle esposte trattando della posta preceden te. Giova solo aggiungere che la motivazione addotta dagli ammi

nistratori circa la costituzione del fondo « a fronte di eventi

futuri », non può essere disgiunta dalle ulteriori considerazioni

fatte dagli stessi amministratori circa le incertezze delle prospettive e del settore monetario, già prima ricordate. È perciò alla luce

dell'insieme di queste spiegazioni, contenute nella relazione allega ta al bilancio, che va affermata la non arbitrarietà del fondo

stesso, evidentemente destinato a prudenziale garanzia della solidi

tà del patrimonio sociale, in previsione di un accentuarsi dei

descritti e temuti fattori di instabilità e di squilibrio nel settore in

cui la banca opera, ancorché non specificamente riferibili alla

riscossione dei crediti.

Ciò posto, appare evidente che non può reputarsi sotto nessun

aspetto eccessiva neppure la misura del fondo di cui trattasi,

ammontante a 3 miliardi di lire, se solo lo si raffronta, ad

esempio, con l'importo complessivo dei fondi liquidi iscritti nell'at

tivo della situazione patrimoniale (« cassa », « fondi presso l'istituto

di emissione » e « fondi presso banche e corrispondenti ») per un

importo complessivo di oltre 528 miliardi di lire.

D) Titoli di proprietà. — Per questa voce che è adoperata

nella relazione degli amministratori al bilancio della società con

venuta per sintetizzare la posizione nell'attivo patrimoniale di

diverse specie di titoli (buoni ordinari e poliennali del tesoro, altri

titoli di Stato in genere, obbligazioni, cartelle fondiarie, azioni

proprie ed altre azioni), si possono fare considerazioni in gran

parte coincidenti con quelle esposte a proposito delle partecipazio

ni, anche se diverse sono le conclusioni cui si dovrà pervenire. Anche a questo riguardo, infatti, le censure dell'attrice fanno

perno sul disposto del già citato art. 2425, n. 4, che sarebbe stato

violato con l'iscrizione in bilancio al valore nominale dei buoni

ordinari ed al costo storico dei buoni poliennali e degli altri titoli,

senza tener conto del valore di mercato di detti titoli né delle

quotazioni di borsa.

Ritiene il collegio che tale critica colga solo in parte nel segno.

Quanto ai buoni ordinari del tesoro, che nella relazione degli

amministratori si afferma essere stati iscritti in bilancio « alla

pari », con il risconto degli interessi a maturare dopo di 31

dicembre 1980, non può dirsi che il criterio seguito, esposto con

sufficiente chiarezza, sia irragionevole. Esso è palesemente suggeri to dalla circostanza che trattasi di titoli a scadenza estremamente

ravvicinata, rispetto ai quali, quindi, il valore di mercato non è di

regola mai troppo divergente dal nominale; il che rende plausibile il ricorso a quest'ultimo valore come parametro unitario per

l'appostazione in bilancio di tutti i titoli di tal genere. Non

appare altrettanto convincente, invece, il criterio seguito per l'iscrizione in bilancio dei buoni del tesoro poliennali degli altri

titoli di Stato, delle cartelle fondiarie e delle obbligazioni, per le

quali — come già detto — si è fatto ricorso ancora una volta al

parametro del costo storico. È inutile ripetere qui le considerazio

ni in precedenza svolte circa la disomogeneità di un criterio

naturalmente rigido, quale quello del costo, rispetto all'elasticità

del prudente apprezzamento che l'art. 2425, n. 4, richiede ai

compilatori del bilancio in materia di titoli ed azioni, con

l'ulteriore riferimento, per i titoli quotati in borsa, all'andamento

delle quotazioni. È anche inutile ripetere che la dichiarata

diversità dei criteri anzidetti non esclude che, proprio nell'ambito

del loro prudente apprezzamento, gli amministratori possano legit timamente optare per una valutazione dei titoli coincidente con il

costo storico degli stessi, purché ciò non sia del tutto irragionevo

le, ed a condizione di fornire una adeguatamente chiara spiegazio ne della scelta cosi operata.

Sembra però al tribunale che, nel caso in esame, proprio questa condizione non si sia realizzata.

L'unica spiegazione contenuta nella relazione degli amministrato

ri in ordine al criterio seguito è riferita alla circostanza che

« trattasi di titoli destinati in prevalenza all'investimento obbligato rio ». Ma è questa una spiegazione che non appaga perché —

come già in altre occasioni s'è avuto modo di rilevare (cfr. Trib.

Milano 22 settembre 1977, Procchio c. Banca commerciale italia

na e Trib. Milano 10 settembre 1981, Laurentis contro Creditwest

s.p.a., già citata) — l'obbligo di conservare alcuni titoli in porta

foglio sino alla scadenza non basta di per sé a sottrarre siffatti ti

toli alle regole dettate dal menzionato art. 2425, n. 4, e, in particola

re, non vale a giustificare il riferimento a valori che potrebbero di

scostarsi in modo anche rilevante da quelli realmente esistenti nel

patrimonio della società nell'esercizio cui il bilancio attiene.

Occorre poi anche aggiungere che il vincolo di conservazione in

portafoglio riguarda solo una parte dei titoli di cui nella fattispe cie si discute e non può dunque essere addotto come idonea

spiegazione per la valutazione al costo di tutta una composita serie di titoli, nel cui ambito sono comprese persino azioni ed

obbligazioni, senza che neppure sia desumbile dal bilancio e dai

suoi allegati in quale percentuale tali diverse categorie di titoli

siano rappresentate. Né può tacersi che l'operata valutazione sembra ignorare del

tutto l'andamento delle quotazioni di borsa (quantunque i titoli a

reddito fisso siano appunto quotati in borsa), nonostante l'espresso

obbligo in tal senso contenuto nel menzionato art. 2425, n. 4.

È ben vero che la legge non impone di iscrivere i titoli in

bilancio al valore di borsa, ma da essa non ci si può discostare

senza che di ciò venga data una qualche attendibile motivazione,

o addirittura — come nella specie — senza neppure farvi

menzione.

Le rilevate oscurità della posta di bilancio di cui si discute non

paiono nemmeno eliminate dagli ulteriori chiarimenti forniti al

riguardo in sede assembleare. Qui, infatti, ci si è limitati a

segnalare le differenze globali tra valore storico, valore nominale e

valore di mercato dei titoli appartenenti alla società, ma tali

indicazioni, non consentendo di distinguere a quale delle diverse

ed eterogenee categorie di titoli esse si riferiscano, ben poco

aggiungono alla chiarezza complessiva delle informazioni desumi

bili al riguardo. 11 dato fornito, anzi, testimonia della divergenza nient'affatto trascurabile che esiste tra il valore di mercato ed il

valore storico dei titoli iscritti in bilancio (vedi il verbale di

assemblea a pag. 26, laddove si dichiara che « la minusvalenza tra

valore storico e valore di mercato dei titoli stessi ammonta a circa

lire 16 miliardi »), trattandosi di una divergenza alquanto rilevan

te, sia in assoluto, sia se raffrontata alla misura del capitale sociale (lire 7 miliardi e 200 milioni) o a quella degli utili

conseguiti nell'esercizio (circa lire 25 miliardi) e perciò tale da

far reputare violato il criterio di prudente apprezzamento sancito

dal legislatore. E) Ammortamenti. — Tale posta viene fatta oggetto di critica

da parte dell'attrice, che lamenta la mancata o insufficiente

indicazione dei criteri seguiti dagli amministratori al riguardo, e

quindi la violazione della prescrizione contenuta nell'art. 2429 bis, n. 2, c.c.

In effetti la relazione degli amministratori e quella dei sindaci,

allegate al bilancio della società convenuta, si limitano ad indicare

che gli ammortamenti sono stati calcolati « secondo le aliquote

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

ammesse dalle norme fiscali e nel rispetto delle norme civilisti

che » e forniscono la misura percentuale degli ammortamenti

complessivi di ciascuna categoria di beni alla data del 31

dicembre 1980, senza precisare la quota di ammortamento riferita

specificamente all'esercizio.

Reputa il tribunale che siffatte assai scarne informazioni non

siano idonee a consentire il rispetto dei principi di chiarezza e

precisione cui deve uniformarsi il bilancio (inteso qui, naturalmen

te, come l'insieme del documento contabile e delle relazioni

esplicative). La determinazione della misura degli ammortamenti è

senza dubbio uno dei punti più importanti e delicati nella

redazione dei bilanci e perciò l'ampio margine di discrezionalità, che innegabilmente va riconosciuto in merito agli amministratori,

non può assolutamente prescindere dalla rigorosa osservanza di

quell'obbligo di chiara ed adeguata motivazione, già insito nel

disposto del 2° comma dell'art. 2423 c.c., ed ora esplicitamente ribadito nel menzionato art. 2429 bis, n. 2.

Nel bilancio nella Banca d'America e d'Italia tale obbligo di

fornire dati chiari circa gli ammortamenti eseguiti nell'esercizio e

di offrirne adeguata motivazione è stato del tutto trascurato. È

infatti appena il caso di osservare che a questo fine nessun

rilievo può essere attribuito alla apodittica affermazione di con

formità dei criteri adottati alle « norme civilistiche », o di rispetto delle aliquote fiscalmente ammesse. 11 semplice rinvio a criteri

fiscali, in tema di ammortamenti, non può in alcun modo conside

rarsi sufficiente, perché il codice civile richiede in materia una

elasticità di valutazioni che tenga concretamente conto in ciascun

esercizio dei fattori di deperimento e consumo, indipendentemente dalla maggior rigidezza dei criteri previsti in astratto dalla

normativa fiscale. Se proprio, dunque, si vogliono richiamare nel

bilancio i criteri di ammortamento prescritti dalla legge fiscale, occorre almeno, per non violare i ricordati principi civilistici, fornire nel contempo adeguati chiarimenti in ordine al rapporto esistente tra detti criteri e la misura del deperimento e del

consumo dei beni, effettivamente corrispondente all'esercizio di cui

trattasi (cfr. Trib. Milano 5 gennaio 1981, Landini contro Società

FIT); chiarimenti che nel bilancio della società convenuta manca

no invece completamente.

F) Costi e spese diverse dell'azienda bancaria. — Trattasi di

una posta inserita nel conto dei profitti e delle perdite, suddivisa

in una serie di sottovoci, secondo uno schema grosso modo

corrispondente a quello specificamente previsto per le aziende di

credito dal d.ni. 19 novembre 1975.

Le obiezioni sollevate in argomento dall'attrice inducono a

soffermarsi, in particolare, su due delle citate sottovoci e, innan

zitutto, su quella « costi di riparazione, manutenzione, ammoder

namento e trasformazione immobili, impianti e mobili ». Tali costi

(che, per la verità, non figurano elencati nello schema di conto

economico delineato nel citato d.m. 19 novembre 1975) inglobe rebbero in sé, secondo la difesa dell'attrice, anche delle vere e

proprie spese incrementative, che avrebbero dovuto perciò trovare

corrispondenza nella parte attiva della situazione patrimoniale e

che erroneamente sarebbero state fatte gravare invece per intero

sull'esercizio in cui i relativi esborsi sono avvenuti, trattandosi di

spese destinate a proiettare la loro efficacia anche in esercizi

successivi.

Il rilievo è fondato. La dizione adoperata nel bilancio dalla

società convenuta laddove fa riferimento a costi di « ammoderna mento e trasformazione » di beni aziendali, ha un significato sufficientemente univoco ed implica alla stregua della corrente

interpretazione che a quelle parole si usa dare, che le spese in

argomento hanno investito la struttura stessa dei beni ai quali esse

si sono riferite, cosi da renderli appunto più moderni, o diversi da

quanto fossero in precedenza. È perciò quanto meno logico presumere, in difetto di elementi

di segno contrario, che dette spese abbiano avuto un riflesso sul

valore patrimoniale degli impianti, degli immobili e dei mobili che

ne sono stati interessati, ed è comunque certo, per la loro stessa

dichiarata natura, che esse sono state sostenute per eseguire

interventi su quei beni in vista di un risultato destinato a

ripercuotersi anche su un certo numero di esercizi successivi.

Ciò comporta, a giudizio del tribunale, la illegittimità del

criterio seguito dai compilatori del bilancio della società convenu

ta, nell'iscrivere siffatte spese unicamente tra le perdite del conto

economico, senza alcuna contropartita nell'attivo e senza, comun

que, attuare alcun meccanismo contabile idoneo a ripartire quei

conti tra i diversi esercizi ad essi interessati. Attiene infatti

all'osservanza dei precetti di chiarezza e precisione del bilancio la

necessità di non scaricare i costi incrementativi di lunga durata

completamente nell'esecizio in cui vengono sostenuti, perché ciò

porterebbe ad un occultamento dei maggiori valori conseguiti dai

beni relativamente ai quali vi sono stati quei costi, con conseguen

te alterazione sia dei risultati di esercizio, sia della situazione

patrimoniale, che inevitabilmente ne restano influenzati (cfr. Trib.

Milano 3 dicembre 1981). La seconda sottovoce che non può reputarsi conforme agli

inderogabili precetti di chiarezza e precisione del bilancio è quella

riportata nel conto dei profitti e delle perdite della società

convenuta con la sintetica dizione « altri ».

Si può senza dubbio convenire che il bilancio è un documento

di sintesi, dal quale non è lecito aspettarsi una illustrazione

minuta ed analitica di tutte le partite del conto economico. £

perciò anche possibile che cifre di minimo valore riferite ad

operazioni non agevolmente sussumibili nelle diverse voci in cui il

conto si articola, possano talvolta confluire in partite residuali con

caratteri di atipicità. Quel che però appare sicuramente oltre il

confine della legittimità è l'inserzione nel conto dei profitti e delle

perdite di una voce assolutamente priva di ogni decifrabile

riferimento a determinate categorie di operazioni economiche

compiute nel corso dell'esercizio, per un ammontare di più di 15

miliardi di lire, cioè per un importo già da solo idoneo a

modificare radicalmente la fisionomia del conto economico e ad

incidere in modo rilevante sul risultato dell'esercizio. Per valutare

appieno il peso della voce « altri », iscritta nel bilancio della

Banca d'America e d'Italia per l'anno 1980, basta invero notare

che il suo importo è superiore ai tre quarti del capitale della

società, è maggiore di oltre il doppio della riserva legale, è pari all'incirca ai quattro quinti dell'utile netto di esercizio. Eppure non una sola parola è spesa nelle ben 125 pagine, in cui si

articola l'insieme del bilancio d'esercizio 1980 della società conve

nuta, delle relazioni e dei prospetti allegati e del verbale dell'as

semblea che quel bilancio ha approvato, per chiarire l'origine, la

composizione ed il significato di un'appostazione di tale portata economica.

È poi appena il caso di aggiungere che l'inserzione della voce

« altri » nello schema di conto economico di cui al già citato d.m.

19 novembre 1975 non implica certo che sia legittimo iscrivere nel

conto una posta cosi' genericamente concepita, ma significa solo

che quello schema può essere integrato con altre specifiche voci in

esso non previste. (Omissis)

III

Motivi della decisione. — Il collegio rileva che, pur limitando

l'esame dei motivi di invalidità prospettati dall'attore a quelli

dettagliatamente esposti nella comparsa conclusionale, dovendosi

considerare gli altri abbandonati, a seguito anche dei chiarimenti

intervenuti in corso di causa, la domanda, per quel concerne il

bilancio approvato dall'assemblea del 10 luglio 1981, relativo

all'anno chiusosi il 31 dicembre 1980 appare fondata.

In primo luogo, seguendo l'ordine delle contestazioni proposto dal Ciardo — la cui qualità di socio della s.r.l. Casa di cura S.

Carlo giustifica senza bisogno di ulteriori specificazioni, il suo

interesse alla impugnazione dei risultati dell'ultimo bilancio ap

provato (vedasi da ultimo la sentenza di questo tribunale del 22

ottobre 1981, attore Stefanotti Cocconcelli) — il disposto dell'art.

2425 bis, 1° comma, n. 1, c.c., (per il quale, nel conto economico,

vanno indicati, fra i profitti, i « ricavi delle vendite e delle

prestazioni raggruppate per categorie omogenee ») dà ragione del

fondamento della domanda di invalidità del bilancio per difetto di

chiarezza di tale voce, esposta dagli amministratori ^ella s.r.l. in

questione con un'unica appostazione (« ricavi lire 2.225.872.527 »).

È sufficiente osservare al riguardo che la norma citata ha chiara

mente lo scopo di precisare, in termini minimali, inderogabili (« il

conto profitti e delle perdite deve esporre ... »), il contenuto, per

quel che concerne detti conti, degli obblighi imposti dall'art. 2423,

2° comma, c.c. (« dal bilancio e dal conto dei profitti e delle

perdite devono risultare con chiarezza e precisione la situazione

patrimoniale della società e gli utili conseguiti o le perdite

sofferte »), e che la stessa inequivocabilmente prevede il raggrup

pamento per categorie omogenee sia per le vendite che per le

prestazioni, ipotizzando quindi situazioni di impresa aventi ad

oggetto attività differenziate, anche se pur sempre volte al rag

giungimento di un unitario scopo sociale che concorrano, con

caratteristiche organizzative e risultati economici ontologicamente

diversi, alla formazione dei ricavi.

Nella specie non sembra sufficiente quindi, per giustificare

l'inicità dell'appostazione, il richiamarsi, come fa la difesa della

convenuta, al fatto che trattasi di ricavi corrispondenti al totale

delle fatture delle prestazioni sanitarie agli enti mutualistici ed ai

privati, relative a servizi sanitari inscindibili. Infatti, come non ha

mancato di rilevare il procuratore dell'attore, la complessa orga

nizzazione di una clinica comporta che i ricavi siano il frutto di

prestazioni differenziate, nel senso sopra accennato, alcune di tipo

alberghiero, altre di tipo paramedico, altre derivanti dall'esistenza

Il Foro Italiano — 1984 — Parte I-70.

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1083 PARTE PRIMA 1084

e gestione di particolari strutture organizzative (radiologia e

laboratorio), fra l'altro utilizzabili anche da chi non fruisca, quale ricoverato, del complesso dei servizi della clinica.

Né la distinzione che tenga doverosamente conto di tale diversa

origine dei ricavi e della diversa natura delle prestazioni ha un

fine meramente descrittivo e statistico, che dovrebbe comunque

reputarsi positivamente apprezzato dal citato art. 2425 bis c.c., essendo ovviamente interesse dei soci, della stessa società — e

indirettamente dei terzi — avere una visione chiara della funziona

lità e redditività dei singoli servizi nei quali si articolano le presta zioni lato sensu sanitarie od a queste accessorie.

Anche la voce spese generali del conto economico (lire

756.396.116) appare generica ma è certo che, in sede di assemblea, è stato consegnato al Ciardo l'allegato del bilancio contenente la

specificazione delle singole componenti del menzionato importo

(doc. 6 nel fascicolo dell'attore), che, nonostante le critiche rivolte

dall'attore stesso, appare (a parte la diversa questione relativa alle

spese relative alla « manutenzione impianti », di cui si dirà in

prosieguo) sufficientemente dettagliata, tenuto conto della natura

riassuntiva ed entro certi limiti sintetica del bilancio (in tale

prospettiva, non appare necessario, come sostenuto invece dal

difensore del Ciardo, distinguere, al fine di una sufficiente in

formazione, per le spese di un determinato servizio, quale quello

radiologico o quello del laboratorio, fra acquisti di materie prime e prestazioni del personale subordinato e non, globalmente consi

derate queste ultime in altre voci del conto economico). Se è vero d'altro canto che il predetto allegato non fa parte,

come riconosce anche il procuratore della convenuta, del bilancio

depositato e pubblicato, è vero altresì però che il socio cui le

informazioni siano fornite non ha un personale ed attuale interes

se a far valere la nullità in questione {il che vale anche per l'ulteriore specifico interesse allegato dall'attore, cioè la sua inten

zione di vendere le quote a lui appartenenti, perché le notizie

ricavabili dagli allegati al bilancio in suo possesso possono essere

comunicate a chi entri in trattative con il potenziale venditore.

Né si tratta di quote incorporate in azioni liberamente offribili al

pubblico sul mercato).

L'appostazione di lire 104.133.080 (« Manutenzione locali

imp. »), figurante nell'allegato di cui sopra, alla quale si è già fatto cenno, non appare invece corretta e rispondente al criterio

di competenza, la cui mancata applicazione incide sulla determi

nazione dei profitti relativi all'anno in considerazione.

La convenuta ha in realtà sostenuto che non trattasi di oneri

aventi utilità pluriennale, ma ha poi affermato che le spese in

questione, qualificate dalla stessa tuttavia di « ordinaria ammini

strazione », rientrano fra quelle di « impianto e di ampliamento »,

contemplate dall'art. 2426 c.c., che hanno sicuramente effetti

pluriennali. Va osservato al riguardo che non si versa in realtà nell'ipotesi

di cui alla citata norma, la quale ha tratto alle spese di impianto e di ampliamento della struttura sociale o ad attività immateriali

per le quali è apparso opportuno al legislatore fissare un criterio

in ultima analisi limitativo della possibilità di ripartizione per più esercizi, ad evitare abusi, data la possibilità di ricomprendere, fra

dette spese, costi fittizi o in effetti ad esse non riferibili. Nel caso che qui interessa si tratta invece di spese di manuten

zione, ristrutturazione e, lato sensu, di ampliamento di beni in

godimento alla società e normalmente impiegati nell'attività pro duttiva, per le quali vale il principio di competenza sopra accennato, che si realizza attraverso il sistema c.d. di capitalizza zione dei costi.

Né rileva la considerazione che le spese concernono dei beni non di proprietà della società (che ne è soltanto conduttrice),

perché la circostanza influisce soltanto sul meccanismo contabile di capitalizzazione e cioè sulle voci cui riferire l'appostazione attiva.

Identici criteri valgono naturalmente per l'ammontare dell'i.v.a. non recuperabile, afferente alle spese in questione.

Mentre non appare che sia accoglibile la censura relativa alla

voce imposte e tasse, cosi come risultante dall'allegato bilancio

(per il quale valgono le considerazioni già svolte in tema di spese generali), dato che, a parte la correttezza meramente contabile delle scritture, sta di fatto che l'imputazione delle imposte affe

renti all'esercizio 1979 (lire 9.901.000) appare chiaramente dalla

dizione di cui al menzionato allegato, « imposta i.l.o.r.-i.r.p.e.g dichiarazione '80 », e che quindi sostanzialmente è stato rispettato il disposto dell'art. 2425 bis, 2° comma, n. 5, sia pure soltanto nei

confronti dell'odierno attore (ed a parte quanto già rilevato in tema di i.v.a.), fondate sono sicuramente, invece, le censure

relative alle appostazioni concernenti gli ammortamenti. iL'art. 2425, n. 1, c.c. concepisce infatti gli ammortamenti come

correttivi del valore dei beni acquistati in ragione del loro

deperimento e consumo ed il piano di ammortamento concernente

le varie categorie di beni della Casa di cura S. Carlo, e quindi le

quote addebitate all'esercizio in esame, nulla dice, cosi come nulla dicono la relazione degli amministratori, quella dei sindaci e il verbale assembleare, sui criteri adottati dagli amministratori della società per determinare i fondi di ammortamento, che

comunque sicuramente non tengono alcun conto delle date di

acquisto dei singoli beni e che giungono a risultati prima facie contrastanti con il criterio di cui all'articolo citato, come ha

giustamente posto in rilievo il procuratore dell'attore (del resto lo stesso procuratore della convenuta finisce per ammettere, in

comparsa conclusionale, che esistè una « sopravalutazione del fondo di ammortamento » sia pure definendola « modesta »).

D'altro canto se è vero che il concetto di « deperimento » può, almeno con criterio approssimativo, allargarsi alla obsolescenza e se è possibile e corretto creare particolari fondi (qualificabili, se si vuole, sia pure incorrendo in una imprecisazione terminologica, come di ammortamento) che abbiano per scopo di accumulare il valore corrispondente alla sostituzione dei beni, il cui costo aumenti nel tempo, costituendo cosi, in sostanza, delle riserve in vista dei futuri necessari acquisti (art. 2425 bis, n. 13), è tuttavia necessario che la natura, le finalità e le modalità di costituzione di tali fondi, al di là delle espressioni usate per qualificarli, appaiano con chiarezza e precisione.

Nella specie, invece, come si è accennato, tale imprenscindibile esigenza non è stata in alcun modo soddisfatta, nemmeno con i chiarimenti (oltre a tutto tardivi) forniti in causa, e resta quindi il fatto che si è in presenza di fondi di ammortamento di ammontare sicuramente sproporzionato alle finalità di cui al più volte citato art. 2425 c.c., che costituiscono vere e proprie riserve occulte e « amorfe », con conseguente incidenza sul quadro della redditività dell'impresa e sulla determinazione degli utili di eser cizio (vedasi al riguardo, la sent. Trib. di Milano 10 settembre

1981, in causa De Laurentis/Credit West). Osservato inoltre che sicuramente le relazioni allegate al bilan

cio, come denunciato dall'attore, sono di assoluta genericità ma

che, in ogni caso, la loro insufficienza va valutata, per quel che

qui interessa, in relazione alle finalità cui le stesse debbono assolvere (e che in ipotesi potrebbero apparire soddisfatte da dati e documenti comunque resi noti ai soci ed ai terzi) e che

pertanto non sembra, nella specie, che la rilevata genericità ed insufficienza costituisca un motivo di nullità a sé stan

te, diverso ed autonomo rispetto a quelli già esaminati, il

collegio non può non farsi carico di confutare le richieste istruttorie dell'attore, il quale in sostanza vorrebbe che, attraverso una consulenza tecnica, si fissassero, ora per allora, i criteri valutativi che gli amministratori dovrebbero tenere presenti nella redazione del nuovo bilancio relativo all'anno 1980, in adempi mento dell'obbligo scaturente dalla dichiarata nullità dello stesso.

Sta di fatto che tale obbligo non costituisce — il che sarebbe concettualmente aberrante — esecuzione della sentenza che di chiari la nullità della delibera di approvazione del bilancio, ma mera conseguenza del fatto che, a seguito della dichiarata nullità, quel bilancio non può considerarsi esistente nel mondo del diritto.

A seguito della dichiarata nullità gli amministratori quindi riprendono la loro libertà di azione, nei limiti fissati dalla legge, e non possono preventivamente essere condizionati da precise e

specifiche valutazioni, sia pure oscillanti fra criteri di minima e di massima, preordinate dal tribunale, che come è ovvio e come afferma lo stesso procuratore dell'attore, non ha alcun potere di intromettersi nella scelta e nella determinazione dei criteri di redazione del bilancio, se non allorché sia chiamato a decidere sulla validità delle delibere che abbiano per oggetto l'approva zione di un bilancio già redatto.

Né va trascurato di precisare che oggetto dei giudizi in

questione è appunto la validità o meno delle menzionate delibere, in relazione alla liceità del loro oggetto, e non direttamente, come si usa normalmente dire, la validità del bilancio, per cui sfugge, e deve sfuggire, all'esame del tribunale qualsiasi determinazione

specifica circa la liceità del futuro oggetto di una futura delibera. Il che naturalmente non significa che la rinnovata violazione

dei principi enunciati dal giudice in sede di giudizio di nullità di una delibera del genere di quelle suaccennate resti senza conse

guenze, ben potendo ipotizzarsi in tale caso il ricorso agli strumenti che servono, in sede contenziosa o volontaria, a sanzio nare il comportamento degli amministratori.

Il Ciardo ha impugnato anche la delibera di approvazione del bilancio chiuso al 31 dicembre 1979, sia pure, sia consentita

l'espressione, « a rimorchio » della impugnazione della successiva delibera che ha approvato il bilancio chiuso al 31 dicembre 1980.

Non può al riguardo non ricordarsi preliminarmente, che recen temente questo stesso tribunale ha avuto occasione di affermare (citata sent, del 22 ottobre 1981) che per poter esperire l'azione di nullità delle delibere di approvazione di bilanci relativi ad

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

esercizi sociali non più attuali occorre dimostrare la sussistenza di un interesse che non può né presumersi né considerarsi insito nella mera qualità di socio, interesse la cui sussistenza, quale condizione dell'azione, va verificata anche d'ufficio. Il collegio

reputa di dover ribadire tale indirizzo, osservando inoltre che tale

interpretazione non contrasta, come è stato affermato in dottrina, con il c.d. principio della continuità dei bilanci, perché l'esame

dello stesso viene in considerazione appunto nel valutare l'esi

stenza dell'interesse attuale e concreto all'impugnazione. Il Ciardo non ha indicato in cosa consista il suo particolare

interesse alla impugnazione della delibera in questione, interesse

che non è ravvisabile nella sua, dichiarata, intenzione di cedere

le quote che gli appartengono, esigenza questa sicuramente sod

disfatta dalla chiarezza e precisione dell'ultimo bilancio, l'unico « attuale » al fine della eventuale valutazione della convenienza ad acquistare e della determinazione del prezzo delle predette

quote. Né un particolare interesse potrebbe ravvisarsi nel fatto che

una visione a ritroso dei criteri di impostazione dei singoli bilanci gioverebbe alla ristrutturazione del piano degli ammorta

menti perché, a tale fine, il solo bilancio del 1979 significhereb be ben poco e perché nulla vieta che, nel nuovo bilancio relativo

all'anno 1980, siano previste opportune scritture rettifìcative dei

criteri seguiti ab initio per gli ammortamenti. (Omissis)

CORTE D'APPELLO DI ROMA; sentenza 28 novembre 1983; Pres. Manniti, Est. Sommella; Gini e Nori (Avv. Uva, Mor

gia) c. Credito italiano (Avv. Montesano).

CORTE D'APPELLO DI ROMA;

Famiglia (regime patrimoniale della) — Fondo patrimoniale —

Trascrizione dell'atto costitutivo — Annotazione a margine dell'atto di matrimonio — Omissione — Inopponibilità ai terzi

(Cod. civ., art. 162, 167, 2647).

Perché una convenzione matrimoniale, avente ad oggetto beni

immobili (nella specie, costituzione del fondo patrimoniale) sia

opponibile ai terzi, occorre l'annotazione a margine dell'atto di

matrimonio e la trascrizione nei registri immobiliari. (1)

Motivi della decisione. — (Omissis). Sostengono i coniugi Gini-Nori che il tribunale, erroneamente interpretando le disposi zioni di cui agli art. 162 e 2647 c.c., ha affermato che l'atto di

costituzione del fondo patrimoniale, da essi stipulato il 4 aprile 1978 e trascritto presso la conservatoria dei registri immobiliari di

Roma, è inopponibile al Credito italiano, perché non annotato a

margine del loro atto di matrimonio.

Ad avviso degli appellanti i primi giudici, cost ragionando, hanno conferito alla detta annotazione un'importanza prevalente sulla trascrizione, in quanto hanno degradato la funzione di questa da mezzo di opponibilità degli effetti dell'atto ai terzi a strumento

di mera pubblicità-notizia, e non si sono poi avveduti che per

(1) Nello stesso senso la sentenza di primo grado Trib. Roma 12 giu

gno-6 novembre 1980, Foro it., 1981, 1, 1436, con nota di richiami, non

ché, in dottrina Cian e Casarotto, Fondo patrimoniale della famiglia, voce del Novissimo digesto, appendice, Torino, 1982, III, 832 e

Gabrielli, Patrimonio familiare e fondo patrimoniale, voce cicli 'Enci

clopedia del diritto, Milano, 1982, XXXII, 314-15; vedi anche la nota

di Figliolia a Trib. Roma cit., in Giur. it., 1982, I, 2, 278. Contra De Rubertis, La trascrizione del vincolo derivante dal

fondo patrimoniale (nota a Trib. Roma cit.), in Dir. famiglia,

1981, 1074, a cui dire oggetto dell'annotazione in margine all'atto

di matrimonio non è il vincolo, perché altrimenti « il legislatore non avrebbe certo omesso di prescrivere l'annotazione anche del

vincolo derivante dal fondo patrimoniale costituito per testamento o

dalla surrogazione reale di un bene già vincolato »; con la conseguen za che « il vincolo derivante dal fondo patrimoniale nasce e diventa

opponibile ai terzi solo con la trascrizione di cui all'art. 2647 c.c. e

che, a riguardo, la caduta del 4° comma del vecchio testo non ha

prodotto trasformazioni radicali » (cfr., sul punto, anche Sacco, in

Commentario alla riforma del diritto di famiglia, a cura di Carraro, Oppo e Trabucchi, Padova, 1977, I, 1, 333; Forchielli, ibid., 913;

Fragali, La comunione, appendice di aggiornamento, in Trattato

diretto a Cicu e Messineo, Milano, 1977, 94). Particolare la posizione di Bianca, Diritto civile, 2, La famiglia, Le successioni, Milano, 1981,

61-62, a cui dire, « poiché l'annotazione costituisce un mezzo di

pubblicità notificativa, deve ritenersi che in mancanza di essa gli effetti

scaturenti dalla convenzione possono essere fatti valere nei confronti del

terzo che si dimostri essere stato a conoscenza della convenzione stessa

al momento dell'acquisto del suo diritto»; sicché «l'annotazione

consente di opporre ai terzi la convenzione annotata, ma non gli atti

singolarmente assoggettati al regime della trascrizione. Tali atti possono

essere opposti ai terzi solo in quanto trascritti».

realizzare lo scopo precipuo già assolto dalla trascrizione risultava

incongruo anche l'adempimento della annotazione, bastando al più l'alternativa delle due forme di pubblicità.

La censura è infondata. Al riguardo va tenuto presente che

l'art. 162 c.c. (nel testo sostituito dalla 1. 19 maggio 1975 n. 151)

regola la pubblicità delle convenzioni matrimoniali, disponendo che queste (da stipularsi in ogni caso per atto pubblico, eccetto

che per il regime di separazione, la cui scelta può anche essere

dichiarata nell'atto di celebrazione del matrimonio) « non possono essere opposte ai terzi quando a margine dell'atto di matrimonio

non risultano annotati la data del contratto, il notaio rogante e le

generalità dei contraenti ». Pertanto questa disposizione pone in

essere nuove formalità, le quali, come è stato ritenuto anche dalla

prevalente dottrina, coesistono con quelle precedenti, giacché l'art.

206 1. n. 171/75, modificando l'art. 2647 c.c., ha lasciato fermo

l'obbligo della trascrizione per gli atti di costituzione del fondo

patrimoniale aventi ad oggetto beni immobili, nonché per le

convenzioni matrimoniali che escludono tali beni dalla comunione

tra i coniugi e per gli atti di acquisto di beni personali che non

fanno parte della comunione.

Attualmente, quindi, per l'opponibilità ai terzi delle convenzioni

matrimoniali (aventi ad oggetto beni immobili), occorre sia l'anno

tazione a margine dell'atto di matrimonio, essendo chiarissimo il

tenore dell'art. 162 c.c., sia anche la trascrizione nei registri immobiliari, risultando, questa tuttora prescritta dalla citata norma

di cui all'art. 2647 ed individuando l'oggetto del vincolo di

indisponibilità. D'altronde che le due anzidette formalità debbano essere consi

derate coessenziali (in quanto la prima di esse viene ad essere

integrata dalla seconda) trova ulteriore e definitiva conferma

nell'art. 163 c.c., ai sensi del quale anche le modifiche delle

convenzioni matrimoniali hanno efletto rispetto ai terzi « solo se

ne è fatta annotazione in margine all'atto di matrimonio », la

quale « deve inoltre essere fatta a margine della trascrizione ove

questa sia richiesta a norma degli art. 2643 ss. ».

Correttamente, quindi, la sentenza impugnata ha escluso che la

convenzione matrimoniale, stipulata dai coniugi Nori-Gini, an

corché trascritta, fosse opponibile ai terzi in difetto di annota

zione a margine dell'atto di matrimonio. E tale pronuncia resiste

alle critiche degli appellanti.

Infatti, i primi giudici non hanno affatto fondato la loro

decisione sulla considerazione che la mancata ripetizione, nel

nuovo testo dell'art. 2647 c.c., del richiamo agli effetti giuridici della trascrizione, comporta il declassamento di tale forma di

pubblicità al rango di pubblicità-notizia. Al contrario essi, dopo avere posto in luce che il nuovo sistema prevede la coesistenza

delle due diverse e distinte misure di pubblicità, hanno osservato

che, contrariamente a quanto sostenuto dai convenuti, non può ritenersi l'inutilità dell'annotazione in presenza della trascrizione,

perché l'annotazione stessa è espressamente contemplata dalla

legge come condizione di opponibilità ai terzi delle « convenzio

ni » e delle loro « modifiche », sicché realizza la funzione tipica della pubblicità legale e con effetti che non trovano uguale ed

esplicita disciplina nel nuovo testo dell'art. 2647.

In definitiva il tribunale ha voluto soltanto chiarire il significa to dell'annotazione e le ragioni per le quali, questa, realizzando in

modo esclusivo e generale il collegamento delle convenzioni con il

matrimonio, non può essere considerata come mezzo di pubblicità alternativo a quello della trascrizione di beni immobili.

Ed invano gli appellanti hanno anche sostenuto che nonostante

la soppressione dell'ultimo comma dell'art. 2647 la trascrizione

dei vincoli di indisponibilità continua ad essere strumento di

opponibilità di questi nei confronti dei terzi creditori, essendo

rimasta ferma la norma di cui all'art. 2915 c.c.

Al riguardo è da osservare che il contenuto del predetto articolo

ben può essere ora interpretato come riferentesi a vincoli di

indisponibilità diversi da quelli della comunione e del fondo

patrimoniale, non essendo altrimenti concepibile che soltanto sulla

base di tale norma e dopo la scomparsa del 4° comma dell'art.

2647 rimanga contraddetta tutta la parte del nuovo sistema

pubblicitario. Del pari neppure ha pregio l'ulteriore argomentazione degli

appellanti secondo cui il tribunale, dopo avere riconosciuto alla

"(trascrizione un valore speciale di pubblicità rispetto a quello

generale dell'annoiamento, è poi pervenuto a conclusioni conflig

genti con il principio giuridico che riconosce la prevalenza della

norma speciale su quella generale.

In proposito va osservato, in aggiunta a quanto già si è detto, che il tribunale non si è espresso nei suddetti termini, bensì nel senso che la novità della riforma consiste nel prevedere per tutti i

tipi di convenzione un uguale mezzo per renderle opponibili ai

terzi, cioè la speciale annotazione dei loro estremi a margine

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