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sezione I civile; sentenza 16 luglio 1997, n. 6515; Pres. Corda, Est. Verucci, P.M. Giacalone(concl. diff.); Comune di Andria (Avv. Pezzano, Sperone) c. Spagnoletti Zeuli e altri (Avv.Cataudella, Basso); Istituto autonomo case popolari di Bari (Avv. Spinelli) c. Comune di Andria;Spagnoletti Zeuli c. Istituto autonomo case popolari di Bari. Conferma App. Bari 22 settembre1994Source: Il Foro Italiano, Vol. 120, No. 12 (DICEMBRE 1997), pp. 3591/3592-3601/3602Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23191780 .
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3591 PARTE PRIMA 3592
bene e della riscossione di tutti i canoni pattuiti), soprattutto
quando il bene conservi un rilevante valore economico alla sca
denza del rapporto ed il prezzo di riscatto risulti notevolmente
inferiore al suo valore effettivo.
La circostanza che il regolamento d'interessi sia rappresenta
to, in entrambe le forme di leasing, dalla possibilità per l'utiliz
zatore di ottenere l'immediata disponibilità di un bene (stru
mentale) di rilevante valore grazie all'anticipazione del suo prezzo da parte del concedente, che ne ottiene poi il rimborso in ma
niera frazionata, con l'aggiunta delle spese e di un compenso
per l'attività di finanziamento svolta, non toglie che, allorché
il fine perseguito dalle parti sia anche quello di trasferire il bene
al termine del rapporto, pur non mutando la fondamentale fun
zione economico-sociale del leasing, si renda analogicamente ap
plicabile una norma (l'art. 1526 c.c.) che meglio si confà alle
finalità perseguite dalle parti, senza che per ciò stesso il leasing traslativo possa essere qualificato come semplice vendita con
riserva di proprietà. 3.3. - Va immediatamente osservato che se la corte territoria
le avesse inquadrato — come la ricorrente alternativamente pro
spetta — la fattipsecie di cui è causa nell'ambito della vendita
con riserva di proprietà, l'art. 1526 c.c. sarebbe stato diretta
mente, anziché solo analogicamente, applicabile. Il carattere so
stanzialmente subordinato della prospettazione della Spei lea
sing induce tuttavia a ravvisare la sussistenza del suo interesse
a ricorrere, che sarebbe altrimenti difettato.
Ciò posto, la censura è infondata. Questa corte ha anche re
centemente chiarito (cfr. in particolare, per la dovizia delle ar
gomentazioni, Cass. 22 febbraio 1994, n. 1731, cit.) che il lea
sing traslativo, pur nella identità letterale delle standardizzate
clausole negoziali, è caratterizzato da elementi oggettivi e sog
gettivi tali da eliminare la libertà di scelta finale per l'imprendi tore circa l'acquisto del bene al prezzo di opzione, nel senso
di rendere tale soluzione come l'unica economicamente ragione vole per l'utilizzatore sin dalla conclusione del contratto, «per dare corrispettività alla quota di prezzo già corrisposta senza
riceverne corrispondenti utilità». Ed ha indicato tali elementi
(a) nella natura del bene oggetto del contratto, tale da consenti
re ab origine la previsione della persistenza della capacità di
fornire utilità, e comunque un valore di mercato, apprezzabil mente superiori al marginale prezzo di opzione al termine del
rapporto e (b) nella durata del contratto, sensibilmente inferio
re alla prevedibile durata della consumazione economica del be
ne. In presenza di entrambe tali situazioni i canoni rateali non
rappresentano più il mero corrispettivo dell'utilizzazione del be ne (pur tenendo conto dell'incidenza degli interessi finanziari e degli utili per la società di leasing) ma, «per la mancata coin cidenza tra entità del canone ed entità di consumazione econo mica del bene nel periodo», necessariamente incorporano parte del prezzo del bene stesso.
Da tale impostazione, pur consapevole delle argomentate cen sure di autorevoli commentatori, riecheggianti nei motivi di cen
sura, questa corte non ravvisa ragioni per discostarsi. Ne consegue che la gravata sentenza si sottrae a censura per
aver ritenuto analogicamente applicabile l'art. 1526 c.c. al lea
sing traslativo.
4.1. - Col secondo mezzo di annullamento viene dedotta vio lazione degli art. 1322, 1323 e 1526 c.c., in riferimento all'art.
360, nn. 3 e 5, c.p.c., per aver la corte di merito ritenuto che il valore del bene oggetto della locazione sia rimasto invariato
per la durata del contratto, sino al momento della risoluzione, senza tener conto della sua natura e del decremento di valore indotto dall'utilizzazione; e per aver inoltre ritenuto sufficiente la somma di lire 443.627.000 per indennizzare la società di lea
sing dei danni subiti, omettendo di considerare sia i costi af frontati dalla società per smobilizzare il capitale investito nel
bene, sia la difficoltà di rivendita. 4.2. - La censura, che nonostante la contestualmente denun
ciata violazione di legge in realtà esclusivamente prospetta un vizio della motivazione, è priva di fondamento.
La premessa (di fatto e dunque incensurabile in questa sede se sorretta da adeguata motivazione) da cui muove la corte di merito è costituita dal rilievo che, nel periodo compreso tra il novembre del 1980 e l'aprile del 1983, i beni oggetto del leasing, rappresentati da «fabbricati ad uso ufficio e da padiglioni indu striali» avrebbero goduto di una certa rivalutazione in relazione al (notorio) andamento del mercato immobiliare in quell'epoca,
Il Foro Italiano — 1997. '
ma che tuttavia tale incremento poteva considerarsi compensato dal deterioramento derivato dall'uso.
Alla conclusione relativa alla identità del valore bei beni nei
due diversi momenti i giudici del merito sono dunque giunti tenendo conto di tutti i fattori necessari, quali la loro natura, il loro apprezzamento nel tempo in relazione all'andamento del
mercato immobiliare nel periodo considerato, il decremento de
rivato dall'uso.
Quanto alla omessa considerazione dei costi affrontati dalla
Spei leasing per smobilizzare il capitale investito nel bene, va
rilevato che essi sono evidentemente compresi nei canoni conve
nuti, della cui remuneratività complessiva la corte d'appello ha
tenuto puntuale conto per determinare la presumibile entità del
danno subito dalla società concedente in conseguenza della riso
luzione del contratto. Né, del resto, la ricorrente afferma di
aver prospettato ai giudici del merito particolari, determinanti
aspetti dell'economia complessiva del contratto dei quali essi
non abbiano tenuto conto, sì da rendere fondatamente prospet tabile un vizio di motivazione su un punto decisivo della con
troversia, che lo scrutinio della sentenza in sè non manifesta.
(Omissis)
CORTE DI CASSAZIONE; sezione I civile; sentenza 16 luglio 1997, n. 6515; Pres. Corda, Est. Verucci, P.M. Giacalone
(conci, diff.); Comune di Andria (Avv. Pezzano, Sperone) c. Spagnoletti Zeuli e altri (Avv. Cataudella, Basso); Istitu
to autonomo case popolari di Bari (Avv. Spinelli) c. Comu ne di Andria; Spagnoletti Zeuli c. Istituto autonomo case po
polari di Bari. Conferma App. Bari 22 settembre 1994.
Impugnazioni civili in genere — Impugnazione incidentale tar
diva — Sentenza non definitiva — Ammissibilità — Condi
zioni (Cod. proc. civ., art. 334).
Espropriazione per pubblico interesse — Dichiarazione di pub blica utilità — Annullamento in sede giurisdizionale — Azio ne risarcitoria — Prescrizione — Decorrenza (Cod. civ., art.
2935). Espropriazione per pubblico interesse — Occupazione d'urgen
za — Radicale trasformazione del suolo — Dichiarazione di
pubblica utilità — Annullamento in sede giurisdizionale —
Nuovo criterio risarcitorio — Inapplicabilità (L. 23 dicembre 1996 n. 662, misure di razionalizzazione della finanza pubbli ca, art. 3, comma 65).
La legittimazione all'impugnazione incidentale tardiva ex art. 334 c.p.c. sussiste non solo relativamente ai capi, autonomi o non rispetto a quelli oggetto dell'impugnazione principale, della medesima sentenza da quest'ultima investita, ma anche relativamente alla sentenza non definitiva, alla duplice e con
giunta condizione che il soccombente sia autore della riserva di gravame differito e che, essendo risultato parzialmente vit torioso per effetto della sentenza definitiva, veda le statuizio ni di questa, a lui favorevoli, impugnate in via principale dal la controparte. (1)
(1) Sostanzialmente negli stessi termini, Cass. 12 febbraio 1991, n. 1452 (Foro it., Rep. 1992, voce Impugnazioni civili, n. 62, e Giur. it., 1992, I, 1, 9300, con nota di Recchioni, Sulla rilevanza della riserva di gravame per l'impugnazione incidentale tardiva di sentenza non defi nitiva). La sentenza in epigrafe, per giungere a tale risultato interpreta tivo, prende le mosse dall'ormai riconosciuta proponibilità dell'impu gnazione incidentale tardiva contro qualsiasi capo della sentenza che abbia deciso la controversia, anche se autonomo rispetto a quello og getto del gravame principale (la soluzione, dopo Cass., sez. un., 7 no vembre 1989, n. 4640, Foro it., 1989, I, 3405, con ampia nota di richia mi, è ormai pacificamente accolta dalla giurisprudenza di legittimità:
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
I! termine di prescrizione dell'azione risarcitoria derivante da
occupazione appropriativa, decorre dal passaggio in giudica to della sentenza del giudice amministrativo che abbia annul
lato l'approvazione del piano per l'edilizia economica e po
polare nella quale è insita la dichiarazione di pubblica utilità. (2)
Lo ius superveniens costituito dall'art. 3, comma 65, l. n. 662
del 1996, che ha aggiunto il comma 7 bis all'art. 5 bis d.l.
n. 333 del 1992, convertito in l. n. 359 del 1992, si applica alle sole occupazioni illegittime di suoli «per causa di pubbli ca utilità», talché, nei casi in cui non è configurabile l'occu
pazione appropriativa, per mancanza di valida dichiarazione
di pubblica utilità, il privato ha diritto al risarcimento com
misurato al valore venale del bene. (3)
tra le più recenti pronunce si vedano Cass. 3 dicembre 1996, n. 10768,
id., Rep. 1996, voce Impugnazioni civili, n. 83; 16 settembre 1995, n.
9787, id., Rep. 1995, voce cit., n. 128). Tuttavia, l'autonomia dell'im
pugnazione avverso la sentenza non definitiva rispetto a quella propo nibile contro la decisione definitiva (per il principio, oltre a Cass. 17
gennaio 1996, n. 331, id., 1996, I, 3823, citata in motivazione, si veda
no Cass. 13 giugno 1990, n. 5737, Rep. 1990, voce Appello civile, n.
8; 5 gennaio 1985, n. 20, id., Rep. 1985, voce cit., n. 12) impone, alla parte soccombente per effetto del primo provvedimento, l'onere
di proporre tempestiva riserva di gravame, senza alcuna possibilità di
avvalersi dello strumento dell'impugnazione incidentale tardiva per ri
mettere in discussione tali statuizioni nei confronti sia dell'appellante
principale, parimenti soccombente, sia della parte vittoriosa. La prima sezione ha, inoltre, aggiunto, con riferimento ai limiti soggettivi del
l'impugnazione incidentale tardiva (sui quali si vedano Cass. 27 ottobre
1995, n. 11190, e 9 febbraio 1995, n. 1466, id., 1996, I, 919, con nota
di B. Gambineri, Orientamenti e disorientamenti giurisprudenziali in
tema di limitazioni soggettive alla impugnazione incidentale tardiva) che
l'appello principale dell'altro soccombente, ancorché diretto a far esclu
dere la propria responsabilità in ragione della dedotta responsabilità dell'altro convenuto, non si riflette sul distinto e scindibile rapporto tra quest'ultimo e l'attore, destinato ad essere coperto dal giudicato, se l'attore stesso non impugni la decisione di primo grado sul punto
(si veda, al riguardo, Cass. 8 giugno 1995, n. 6479, id., Rep. 1995, voce Impugnazioni civili, n. 9).
(2-3) La seconda massima ribadisce l'essenzialità, ai fini del perfezio namento della fattispecie estintivo-acquisitiva, della sussistenza della di
chiarazione di p.u. Il principio, già affermato da Cass. 10 giugno 1988, n. 3940 (Foro it., 1988, I, 2262), è ormai un dato acquisito nell'elabo
razione pretoria dell'istituto (di recente, si veda, infatti, Cass. 15 di
cembre 1995, n. 12841, id., 1996, I, 2158, con osservazioni di S. Beni
ni) e recepito, come rileva la stessa pronuncia in epigrafe, anche dalla
sentenza 2 novembre 1996, n. 369 della Corte costituzionale (ibid., 3257, con osservazioni di S. Benini e I, 3585, con nota di De Marzo) che,
anzi, ha giustificato, con il formale apprezzamento dell'interesse pub blico perseguito attraverso la realizzazione dell'opera, quell'intervento
«ragionevolmente riduttivo della misura della riparazione dovuta dalla
pubblica amministrazione», immediatamente realizzato dal legislatore con l'art. 3, comma 65, 1. 662/96 (sulla vicenda degli «ammiccamenti» della Consulta al parlamento, cfr. V. Carbone, Occupazione acquisiti va: la Consulta boccia l'equiparazione indennità e/o risarcimento, in
Corriere giur., 1996, 1342). Nella motivazione della sentenza odierna, si legge inoltre che l'acqui
sto a titolo originario della pubblica amministrazione riposa sulla con formità della costruzione ad una valida e perdurante dichiarazione di
p.u. e che alla mancanza di tale provvedimento deve essere equiparata una dichiarazione successivamente ritenuta illegittima.
Al riguardo, sulla necessità che l'opera realizzata sia corrispondente a quella formalmente individuata dalla pubblica amministrazione come
corrispondente al pubblico interesse, si vedano, oltre alla citata Cass.
12841/95, Cass. 27 luglio 1992, n. 9006 (id., Rep. 1993, voce Espro
priazione per p.i., n. 396) e già 8 novembre 1989, n. 4701 (id., Rep. 1990, voce cit., n. 385); in dottrina, nel medesimo senso, si veda, A.
Oricchio, Aspetti e problematiche dell'occupazione acquisitiva secon
do i più recenti orientamenti giurisprudenziali, in Giust. civ., 1993, I, 35.
L'aspetto più denso di implicazioni problematiche, nella decisione in
rassegna, è rappresentato dall'ammissione che, in assenza della dichia
razione di p.u., la condotta posta in essere dall'espropriante integra un'attività materiale lesiva del diritto dominicale, che si connota in ter
mini di illecito permanente. Su tale premessa la corte fonda la possibili tà per il privato, in alternativa alla richiesta di restitutio in integrum, di dismettere il diritto di proprietà, esercitando la pretesa risarcitoria.
La prospettiva valorizza, implicitamente, ma inequivocamente, il mec
canismo abdicatorio individuato da Cass. 18 aprile 1987, n. 3872 (id., 1987, I, 1727) e di recente tornato in auge grazie a Cass., sez. un., 4 marzo 1997, n. 1907 (id., 1997, I, 721; nonché in Corriere giur., 1997, 413, con nota di V. Carbone, e Urb. appalti, 1997, 525, con
nota di De Marzo). Per un'indicazione in tal senso della dottrina, pro
li. Foro Italiano — 1997.
Motivi della decisione. — Preliminarmente, il ricorso princi
pale ed i ricorsi incidentali vanno riuniti, ai sensi dell'art. 335
c.p.c. Riveste carattere pregiudiziale, inoltre, la questione posta dal
l'unico motivo del ricorso incidentale degli Spagnoletti Zeuli e
con il quale, denunziando violazione dell'art. 83 c.p.c., lamen
tano che la corte territoriale non abbia dichiarato d'ufficio l'i
nammissibilità degli appelli principale ed incidentale tardivo pro
posti dall'Iacp, per difetto di legittimazione passiva, derivante
dal fatto che l'autorizzazione a stare in giudizio era limitata
al primo grado. Al riguardo, la difesa dell'istituto ha messo
a disposizione di questa corte, tra le altre, anche la delibera
del consiglio d'amministrazione in data 23 marzo 1992, relativa
al giudizio di appello: gli stessi ricorrenti non hanno mostrato
prio con riguardo all'ipotesi dell'assenza della dichiarazione di p.u., si veda Benini, nelle osservazioni citate a Cass. 12841/95: a questo pro
posito, è interessante rilevare che la decisione della prima sezione indica
Cass. 12841/95 come un proprio precedente sul punto, anche se tale
ultima sentenza tace del tutto in ordine alla possibilità di dismettere
la proprietà, nei casi in cui la radicale trasformazione del suolo avvenga al di fuori dei confini segnati dalla giurisprudenza in tema di occupa zione appropriati va. Ancora meno adeguato appare il richiamo a Cons.
Stato, sez. V, 12 luglio 1996, n. 874 (id., 1996, III, 485, con osservazio ni di F. Pietrosanti), che ha radicalmente contestato l'elaborazione
pretoria in tema di acquisto a titolo originario della pubblica ammini
strazione, per effetto dell'irreversibile destinazione del fondo al soddi sfacimento dell'interesse pubblico.
Ad ogni modo, tra le conseguenze che la presente sentenza trae dal l'esistenza di quel meccanismo e quelle individuate dalle sezioni unite, con la citata sentenza 1907/97, rimane un divario difficilmente colmabile.
Secondo la prima pronuncia, dal passaggio in giudicato della senten
za del giudice amministrativo che ha annullato la dichiarazione di p.u.
prende a decorrere il termine di prescrizione quinquennale, mentre, se condo la decisione delle sezioni unite, il carattere permanente dell'illeci
to, in quanto correlato alla trasgressione del dovere, da parte del suo
autore, di por fine alla creata situazione di antigiuridicità, comporta la conseguenza che il termine di prescrizione non inizia a decorrere sino a che non cessa la situazione di permanenza ovvero sino a che il pro
prietario, agendo in giudizio per il risarcimento del danno corrispon dente al controvalore del bene, non pone in essere l'atto abdicativo
implicito del quale s'è detto. Le sentenze citate dalla decisione in epigrafe, a sostegno dell'indivi
duazione del dies a quo del termine quinquennale, si muovono, invero, nell'alveo dell'occupazione appropriativa: Cass. 2 gennaio 1995, n. 6
(id., Rep. 1996, voce cit., n. 262) concerne l'ipotesi dell'annullamento
giurisdizionale del decreto d'esproprio, mentre Cass. 9 settembre 1993, n. 9448 (id., Rep. 1993, voce cit., n. 446) e 15 novembre 1990, n. 11041
(id., Rep. 1990, voce cit., n 419) riguardano l'annullamento dei provve dimenti che rendevano legittima l'occupazione del suolo. D'altra parte, Cass., sez. un., 22 aprile 1992, n. 4784 (id., Rep. 1992, voce cit., n.
338) afferma che, nonostante l'annullamento del p.e.e.p., l'azione resti
tutoria può essere preclusa dalla realizzazione dell'opera, in tal modo
ponendosi in un'ottica differente rispetto a quella che, in tal caso, rav visa un illecito permanente. Sempre nella prospettiva dell'occupazione appropriativa si muove, infine, Cass. 30 giugno 1989, n. 3170 (id., Rep. 1990, voce cit., n. 416), nonostante che, nel caso da essa deciso, l'an
nullamento del decreto d'esproprio fosse dipeso dall'inefficacia della
dichiarazione di p.u. per mancata indicazione dei termini di cui all'art. 13 1. 2359/1865.
Per quanto concerne la terza massima, la soluzione interpretativa del
Supremo collegio, ribadita in seguito da Cass. 26 agosto 1997, n. 7998
(id., Mass., 799, e di prossima pubblicazione su Urb. appalti, con nota di De Marzo), trova conferma nella genesi della norma e nella sua
formulazione letterale (sul punto, v. G. De Marzo, La nuova disciplina del danno da occupazione appropriativa, id., 1997, 145).
A proposito delle prime applicazioni del nuovo criterio risarcitorio, su cui vedi Cass. 26 maggio 1997, n. 4676, Foro it., 1997, I, 3253, con nota di richiami, è interessante rammentare che, con le recenti sen
tenze 9 agosto 1997, n. 7440 e 5 agosto 1997, n. 7202 (id., Mass., 734
e 702) il Supremo collegio si è espresso nel senso della sua applicabilità anche alle occupazioni illegittime finalizzate alla realizzazione di opere di edilizia residenziale pubblica e agevolata. Cass. 24 luglio 1997, n.
6912 (ibid., 663) ha decisamente concluso per l'applicabilità dell'art.
5 bis, comma 7 bis, 1. 359/92, alle aree agricole, nonostante la prima sezione, con l'ordinanza 21 marzo 1997, n. 234 (in Urb. appalti, 1997,
1003), avesse già sollecitato il primo presidente a rimettere la questione all'esame delle sezioni unite.
Da ultimo va segnalato che Cass. 12 agosto 1997, n. 7531 (Foro it.,
Mass., 745) ha ritenuto la manifesta infondatezza della questione di
legittimità costituzionale della disposizione in esame, considerata nella
sua applicabilità alle occupazioni intervenute anteriormente al 30 set
tembre 1996. [G. De Marzo]
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3595 PARTE PRIMA 3596
insistenza nella censura, che va, quindi, disattesa.
In ordine logico e processuale, va data priorità all'esame del
primo e terzo motivo del ricorso incidentale proposto dall'Iacp, che investono le questioni di legittimazione passiva e di titolari
tà dell'obbligazione risarcitoria dal lato passivo, ritenute impro
ponibili dalla corte di merito, per non aver l'istituto immediata
mente impugnato, né fatto riserva di impugnare, la sentenza
non definitiva del Tribunale di Trani in data 6 ottobre 1988.
Con il primo motivo, infatti, l'Iacp, denunziando violazione
e falsa applicazione, tra l'altro, degli art. 112, 334, 340, 345
e 346 c.p.c., nonché omessa ed insufficiente motivazione (art.
360, nn. 3 e 5, c.p.c.), censura la sentenza impugnata in punto di ritenuta improponibilità di dette questioni rilevando come
il giudice di appello, pur affermando esattamente che esso isti
tuto aveva proposto impugnazione soltanto contro la sentenza
definitiva del tribunale e non aveva formulato riserva di grava me avverso quella non definitiva, tuttavia abbia erroneamente
ritenuto che, con l'appello incidentale proposto nel giudizio in
staurato dal comune di Andria con l'appello principale, fossero
stati dedotti gli stessi motivi enunciati nell'appello principale
(dello stesso Iacp) contro la sentenza definitiva: secondo il ri
corrente, la corte barese non si è accorta che, nella comparsa di risposta avverso l'impugnazione del comune, era stato pro
posto appello incidentale anche contro la sentenza definitiva,
omettendo, quindi, di pronunciare su tale impugnazione. Con il terzo mezzo, poi, si denunzia violazione e falsa appli
cazione degli art. 11 preleggi, 99 e 100 c.p.c., 697 c.c. e della
normativa sulla successione nei rapporti facenti capo alla Ge
scal, nonché vizio di motivazione (art. 360, nn. 3, 4 e 5, c.p.c.): in relazione all'eccepito difetto di legittimazione passiva, spet tante alla Gescal quale ente beneficiario dei decreti di occupa zione d'urgenza e di esproprio, la corte di merito ha erronea
mente affermato che esso istituto era subentrato alla Gescal in
tutti i rapporti, attivi e passivi, inerenti ad immobili.
Entrambe le suesposte censure sono inammissibili, mirando
a riproporre questioni già ritenute non esaminabili dal giudice di merito per intervenuto giudicato.
Contrariamente all'assunto dell'odierno ricorrente, la corte
territoriale non è incorsa in alcuna svista in ordine alla natura
ed estensione dell'impugnazione incidentale tardivamente pro
posta dall'Iacp, avendo espressamente affermato che, al fine
di rimettere in discussone le questioni relative alla legittimazio ne passiva ed all'effettiva e solidale responsabilità rispetto all'a
zione risarcitoria, l'istituto non poteva pretendere di valorizzare
l'appello incidentale avverso il gravame con il quale il comune
aveva investito tali questioni, atteso che «la riserva è necessaria
non solo quando la parte intenda riservarsi la possibilità di im
pugnare congiuntamente anche la sentenza definitiva, ma pure
quando essa stessa o altra parte impugni successivamente altra
sentenza dello stesso processo»: da ciò ha logicamente tratto
la conseguenza che l'Iacp non poteva comunque proporre gra vame avverso le statuizioni della sentenza non definitiva.
Si tratta, allora, di verificare la correttezza di tale afferma
zione, con riferimento all'ambito di applicazione dell'art. 334
c.p.c. in tema di impugnazione incidentale tardiva e, in partico lare, alla funzione che detta norma può assolvere nel rapporto tra sentenza non definitiva e sentenza definitiva.
Al riguardo, occorre precisare, in ordine ad una pur esatta osservazione della difesa dell'Iacp in sede di discussione, che la giurisprudenza di questa corte, soprattutto in epoca più re
cente, ha sì valorizzato l'istituto dell'impugnazione incidentale
tardiva, affermandone la proponibilità contro qualsiasi capo della
sentenza che abbia deciso la controversia, anche se autonomo, ma fondando sempre tale indirizzo (tra i cui effetti è certamente
da ricomprendere quello di limitare la prolificazione delle impu gnazioni) sul principio di unicità del processo di gravame con
tro una stessa sentenza (cfr. sez. un. 2331/91, Foro it., Rep. 1991, voce Impugnazioni civili, n. 68), onde l'unico limite og
gettivo è rappresentato dall'unicità formale della sentenza im
pugnata. In altri termini, l'ambito di applicazione dell'istituto non può
estendersi oltre tale limite e non si può farvi rientrare, avuto
riguardo anche al profilo soggettivo, le ipotesi in cui, come nel caso di specie, vi sia stata una sentenza non definitiva avverso la quale la riserva d'impugnazione sia stata fatta soltanto dalla
parte che, successivamente, ha impugnato in via principale sia
quella che la sentenza definitiva, e non anche dalla parte che,
Il Foro Italiano — 1997.
pur rimasta soccombente in esito alla sentenza non definitiva, si sia limitata ad impugnare quella definitiva (per l'autonomia
dei due gravami e per la riconferma della necessità di tempesti va riserva d'impugnazione avverso la sentenza non definitiva,
cfr., da ultimo, sez. un. 17 gennaio 1996, n. 331, id., 1996,
I, 3823). Ove si ritenesse che la parte, la quale ha impugnato esclusiva
mente la sentenza definitiva senza far riserva di appello contro
quella non definitiva, possa utilizzare lo strumento dell'impu
gnazione incidentale tardiva per rimettere in discussione, nei con
fronti sia dell'appellante principale parimenti soccombente che
della parte vittoriosa, le questioni decise con la sentenza non
definitiva, si finirebbe per snaturare lo stesso istituto dell'impu
gnazione incidentale tardiva, attribuendogli una funzione im
propria. Si deve ritenere, quindi, che la legittimazione all'impugnazio
ne incidentale tardiva ex art. 334 c.p.c. sussista non solo relati
vamente ai capi, autonomi o non rispetto a quelli oggetto del
l'impugnazione principale, della medesima sentenza da quest'ul tima investita, ma anche relativamente alla sentenza non
definitiva, oggetto di riserva di gravame differito: tuttavia, alla
duplice e congiunta condizione che il soccombente sia autore
della riserva e che, essendo risultato parzialmente vittorioso per effetto della sentenza definitiva, veda le statuizioni di questa, a lui favorevoli, impugnate in via principale dalla controparte
(cfr. Cass. 1452/91, id., Rep. 1992, voce cit., n. 62): condizio
ni, queste, pacificamente insussistenti nel caso di specie, con
riferimento all'appello incidentale tardivo proposto avverso la
sentenza non definitiva dall'Iacp in sede di costituzione nel giu dizio introdotto dall'appello principale del comune. Quanto al
limite soggettivo dell'impugnazione incidentale tardiva (e, in par
ticolare, al rapporto con gli Spagnoletti Zeuli), va ribadito il
principio affermato, in fattispecie analoga a quella in esame, dalla sentenza 6479/95 (id., Rep. 1995, voce cit., n. 9) di questa
corte, secondo cui l'appello principale del soccombente, ancor
ché diretto a far escludere la propria responsabilità in ragione della dedotta responsabilità dell'altro convenuto, non si riflette
sul distinto e scindibile rapporto tra tale convenuto e l'attore, che si chiude per effetto del giudicato, ove l'attore medesimo
non impugni, a sua volta, in parte qua, la decisione di primo
grado. Il secondo motivo del ricorso principale e del ricorso inciden
tale Iacp pongono, mediante la denunzia di violazione e falsa
applicazione delle norme e principi in tema di prescrizione e
di occupazione acquisitiva, nonché di vizi motivazionali, l'iden
tica questione della prescrizione quinquennale del diritto degli
Spagnoletti Zeuli al risarcimento del danno, il cui esame è logi camente preliminare rispetto alle altre doglianze. Ed invero, con
argomenti sostanzialmente uguali e, comunque, convergenti, sia il comune di Andria che l'Iacp della provincia di Bari censura
no la sentenza impugnata per aver disatteso l'eccezione di inter venuta prescrizione, ritenendo che i proprietari potessero eserci
tare il diritto al risarcimento del danno soltanto a decorrere
dal passaggio in giudicato delia sentenza del Consiglio di Stato in data 31 maggio 1983, con la quale era stato annullato il
p.e.e.p., quale atto dichiarativo della pubblica utilità dell'opera realizzata sul fondo.
La tesi su cui entrambe le censure si basano può essere rias
sunta nei seguenti termini. La fattispecie va ricondotta al feno
meno della c.d. accessione invertita, in quanto il decreto di espro
prio era inutiliter datum, essendo intervenuto dopo la realizza
zione dell'opera pubblica e la scadenza del termine biennale di
occupazione legittima: la pronuncia del Consiglio di Stato, quin
di, non poteva spiegare alcun effetto sulla legittimità di detto
decreto, di per sé privo di efficacia, e tale situazione aveva già determinato l'insorgenza del diritto dei proprietari al risarcimento
del danno, quantomeno a decorrere dalla scadenza dell'occupa zione d'urgenza. L'esito del giudizio amministrativo poteva de
terminare la legittimità o meno del p.e.e.p., e degli altri atti
impugnati (tra i quali, il decreto prefettizio di occupazione), ma non incidere in alcun modo sull'illiceità dell'ablazione del
bene, in conseguenza dell'irreversibile trasformazione non se
guita da tempestivo provvedimento ablatorio. La sentenza delle sezioni unite n. 4784 del 1992 (id., Rep. 1992, voce Espropria zione per p.i., n. 338), addotta dalla corte territoriale a fonda
mento della statuizione relativa al momento di decorrenza del termine di prescrizione, non è stata resa con riferimento ad ipo
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
tesi di acquisizione della proprietà, da parte dell'ente esproprian
te, indipendentemente e prima dell'annullamento del p.e.e.p. Il principio contra non valentem agere non currit praescriptio non può trovare applicazione nel caso di specie, perché esso
si riferisce a diritti che sorgono in virtù di un fatto materiale
o giuridico prima inesistente, ovvero di pronuncia giurisdizio nale costitutiva di una determinata situazione giuridica, ma non
a decisioni che riconoscano, con efficacia ex tunc, l'esistenza
di un diritto già sorto in capo al soggetto, dovendosi ulterior
mente considerare che la pendenza del giudizio si configura co
me impedimento di mero fatto e che tale è anche l'eventuale
ignoranza dell'illegittimità del provvedimento, peraltro da esclu
dersi nella specie, avendone gli stessi proprietari contestato la
legittimità mediante il ricorso al giudice amministrativo.
Come si vede, il ragionamento è fondato sulla premessa che
il caso di specie si inquadra nella c.d. occupazione appropriati va ed i ricorrenti si richiamano espressamente all'elaborazione
giurisprudenziale di questa corte al riguardo, anche in tema di
decorrenza del termine di prescrizione quinquennale per l'eser
cizio del diritto al risarcimento del danno conseguente alla defi
nitiva perdita del bene. Tuttavia, è proprio tale premessa che
non può essere condivisa.
Il presupposto indefettibile della fattispecie appropriativa, in
fatti, è l'esistenza di una valida dichiarazione di pubblica utili
tà, quale atto che, accertando e valutando l'interesse pubblico
perseguito con la procedura espropriativa, configura il compor tamento dell'ente espropriante come esplicazione di potestà am
ministrativa e conferisce all'opera effettiva natura pubblica. In
difetto di tale presupposto, viene a mancare qualsiasi collega mento tra un interesse pubblico (non accertato e valutato) e
l'opera realizzata, che non può definirsi pubblica, se non nel
più ristretto significato che è riconducibile all'attività posta in
essere da un soggetto non privato, il quale, tuttavia, non attua
alcuna pubblica potestà: ne deriva che la sua condotta si tradu
ce in un'attività meramente materiale e lesiva del diritto domi
nicale, con i connotati dell'illecito permanente. Pur dopo la rea
lizzazione dell'opera, quindi, il privato resta proprietario del
suolo e non si pone un problema di rapporto tra procedura
espropriativa ed emissione tempestiva del provvedimento abla
torio, nel senso che questo debba ritenersi inutiliter datum ove
intervenga successivamente alla costruzione dell'opera ed oltre
il termine di occupazione temporanea: viene meno alla radice,
infatti, qualsiasi potere di incidere, nell'esercizio di una potestà
pubblica, nel diritto di proprietà, perché soltanto la conformità
della costruzione ad una valida e perdurante dichiarazione di
pubblica utilità dà luogo a quell'acquisto a titolo originario che
integra la fattispecie appropriativa, in virtù della quale il suolo
diventa parte integrante ed irreversibile del bene realizzato. È
poi, evidente che, quanto agli effetti sul diritto dominicale del
privato, alla mancanza della dichiarazione di pubblica utilità
non può non essere equiparata una dichiarazione successivamente
ritenuta illegittima ed annullata, come è avvenuto nel caso di
specie, in cui l'annullamento del p.e.e.p., in attuazione del qua le era stata iniziata la procedura espropriativa ed emesso il de
creto di occupazione d'urgenza (e, ancor dopo, quello di espro
prio), ha comportato il venir meno di ogni atto conseguente,
privando il bene della stessa qualità di bene espropriabile.
Questa corte ha costantemente affermato il principio secondo
cui,- in mancanza di una valida dichiarazione di pubblica utilità,
l'occupazione del bene è sine titulo, sicché la successiva costru
zione di un'opera non vale ad imprimere alla precedente occu
pazione stessa carattere di esercizio di potestà amministrativa,
ai fini dell'operatività dell'istituto dell'espropriazione sostanzia
le (ex plurimis, la fondamentale sez un. 1464/83, id., 1983, I,
626; 7210/90, id., 1990, I, 2789; 4477/92, id., Rep. 1993, voce cit., n. 370, e 12546/92, id., 1993,1, 87, e, più di recente, Cass. 12841/95, id., 1996, I, 2158) ribadendolo anche in tema di co stituzione coattiva di servitù di elettrodotto e ponendo in rilievo
come l'effettiva ed irreversibile utilizzazione senza titolo del fondo
altrui, da parte dell'Enel, può comportare compressione delle
facoltà di godimento del proprietario, con costituzione di detta
servitù e secondo il principio dell'occupazione acquisita, solo
in presenza di una valida dichiarazione di pubblica utilità, espres
sa dall'autorizzazione alla costruzione ed all'esercizio della li
nea (sez. un. 3963/89, id., Rep, 1989, voce Elettrodotto, n. 7,
e Cass. 6954/88, ibid., voce Espropriazione per p.i., n. 345:
per identica affermazione in tema di azione possessoria nei con
II Foro Italiano — 1997.
fronti della pubblica amministrazione, cfr. Cass. 1867/91, id.,
Rep. 1991, voce Possesso, n. 26). Il principio ha trovato l'autorevole avallo del giudice delle
leggi, in particolare nella sentenza n. 486 del 1991 (id., 1992,
I, 1073) e, più di recente, nella sentenza n. 369 del 1996 (id.,
1996, I, 3257), con la quale, come è noto, ha dichiarato l'illegit timità costituzionale del 6° comma dell'art. 5 bis d.l. 333/92
(convertito in 1. 359/92), come sostituito dall'art. 1, comma 65, 1. 28 dicembre 1995 n. 549. Nel valutare, infatti, l'ammissibilità
delle questioni sollevate con talune ordinanze, ai fini della rile
vanza nei relativi giudizi di merito, la Corte costituzionale ha
affermato che mancava la motivazione sulla rilevanza dell'im
pugnativa, essendo stato pretermesso «ogni accertamento in fatto
sull'esistenza o meno di una pregressa dichiarazione di pubblica utilità e cioè — secondo la consolidata giurisprudenza della Corte
di cassazione, pienamente recepita da questa corte: sent. n. 486
del 1991, par. 3 — sul presupposto stesso della fattispecie ap
propriativa». È ben vero che, in relazione ad altra ordinanza
di rimessione, la corte, rilevando che in essa si dava atto dell'e
sistenza di una dichiarazione di pubblica utilità, ancorché di
chiarata poi illegittima, ha affermato che «la valutazione —
non implausibile — che il giudice a quo fa per implicito della
sufficienza di un siffatto accertamento iniziale di utilità dell'o
pera ai fini dell'identificazione di una fattispecie acquisitiva, as
solve l'onere della motivazione in punto di rilevanza»: tuttavia,
proprio l'esplicito riferimento a tale onere, al mero fine della
rilevanza della questione rimessa al suo vaglio, rende evidente
che l'affermazione della «non implausibilità» della valutazione
di sufficienza dell'iniziale accertamento di utilità non esprime l'adesione della corte medesima a tale valutazione, ma assume
il chiaro e limitato significato di lasciare al giudice rimettente
l'interpretazione della legge, inserendosi, in tal modo, nel solco
della giurisprudenza della stessa corte, secondo cui, per la rile
vanza, non occorre che l'interpretazione data dal giudice sia
la più corretta, essendo sufficiente, appunto, che essa appaia non implausibile. Diversamente opinando, si dovrebbe ravvisa
re un netto contrasto con la precisa ed inequivocabile afferma
zione poco prima fatta in ordine alla necessità del presupposto della dichiarazione di pubblica utilità per integrare la fattispecie
appropriativa: antinomia che, al contrario, non è consentito ri
scontrare, alla luce del chiaro significato della decisione in pun to di rilevanza.
Se, quindi, la condotta posta in essere dall'ente espropriante
concretizza, in difetto di una valida e perdurante dichiarazione
di pubblica utilità, un'attività materiale lesiva del diritto domi
nicale, con i connotati dell'illecito permanente; se il privato,
pur dopo la costruzione dell'opera, resta proprietario del suolo
ed ha diritto alla restitutio in integrum, ben potendo, comun
que, dismettere il diritto di proprietà, esercitando quello risarci
torio per equivalente (v., tra le altre, Cass. 12841/95 e 6954/88,
cit., nonché Cons. Stato n. 874/96, id., 1996, III, 48, quest'ul tima anche per la riaffermazione del principio secondo cui, in
caso di annullamento della dichiarazione di p.u., la pubblica amministrazione non acquista la proprietà del fondo privato,
pur dopo la realizzazione dell'opera), è evidente che, contraria
mente all'assunto degli odierni ricorrenti, nella specie la pro nuncia del giudice amministrativo ha avuto l'effetto, per un verso, di rivelare la natura illecita della condotta e, per altro verso, di rimuovere, per l'esercizio del diritto al risarcimento del dan
no, l'ostacolo costituito dalla dichiarazione di p.u. insita nel
p.e.e.p., e dal decreto di occupazione d'urgenza. Soltanto dal passaggio in giudicato di quella pronuncia, quin
di, gli Spagnoletti Zeuli potevano esercitare il diritto ad ottene
re il risarcimento del danno e soltanto da quel momento è, con
seguentemente, iniziato a decorrere il termine quinquennale di
prescrizione, a mente dell'art. 2935 c.c. e come ripetutamente affermato da questa corte (sent. 6/95, id., Rep. 1996, voce cit.,
n. 262; 9448/93, id., Rep. 1993, voce cit., n. 446; 11041/90, id., Rep. 1990, voce cit., n. 419; 3170/89, ibid., n. 416, nonché
sez. un. 4784/92, id., Rep. 1992, voce cit., n. 338). Per quanto riguarda la critica mossa dai ricorrenti comune
e Iacp al richiamo fatto dal giudice di merito a quest'ultima decisione e, più in generale, sull'inapplicabilità del principio con tra non valentem agere non currit praescriptio, va osservato che
le sezioni unite, con la menzionata sentenza, hanno riaffermato
l'applicabilità di detto principio proprio in riferimento ad una
specifica censura, con la quale si deduceva che, «se il decreto
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3599 PARTE PRIMA 3600
di espropriazione era, come da essa ritenuto [la corte di merito:
n.d.r.], assolutamente irrilevante, il giudizio per l'annullamento
dello stesso non poteva condizionare l'azione risarcitoria». Non
può essere condivisa, inoltre, la tesi dei ricorrenti, secondo cui
la decisione del giudice amministrativo non poteva in alcun mo
do incidere sull'illiceità dell'ablazione del bene, che si era già verificata con l'irreversibile trasformazione non eseguita da tem
pestivo provvedimento ablatorio: essa, infatti, poggia sul pre
supposto che nella specie sia configurabile un'occupazione ap
propriativa, mentre si è visto che così non è e che il carattere
illecito della condotta posta in essere dal comune e dall'Iacp si è rivelato soltanto a seguito e per effetto della decisione del
Consiglio di Stato.
In altri termini, l'illiceità dell'ablazione del bene non è deri
vata dalla circostanza che il decreto di esproprio sia intervenuto
dopo la realizzazione dell'opera e la scadenza del termine di
occupazione temporanea, secondo una sequenza riconducibile
inizialmente ad una procedura espropriativa e poi all'istituto
dell'occupazione appropriativa, sibbene dalla pronuncia del giu dice amministrativo che, definitivamente accertando l'illegitti mità della dichiarazione di p.u., ha posto nel nulla la potestà estintiva del diritto dominicale, tipica del fenomeno dell'espro
priazione sostanziale: con l'ulteriore conseguenza dell'inutilità, nel caso di specie, del richiamo al principio secondo cui né l'e
ventuale ignoranza dell'esistenza di un diritto, né la pendenza di un giudizio possono costituire impedimenti giuridici all'eser
cizio di quel diritto. Le censure esaminate sono, quindi, infondate.
Anche con riferimento alla natura delle doglianze contenute
nel terzo motivo del ricorso principale e nel quinto motivo del
ricorso incidentale Iacp, si pone, a questo punto, la questione dell'eventuale incidenza nel giudizio dello ius superveniens, rap
presentato dall'art. 3, comma 65, 1. 23 dicembre 1996 n. 662
(«misure di razionalizzazione della finanza pubblica»), che ha
aggiunto un comma 7 bis all'art. 5 bis d.l. 333/92, convertito
in 1. 359/92, del seguente tenore:
«In caso di occupazioni illegittime di suoli per causa di pub blica utilità, intervenute anteriormente al 30 settembre 1996, si
applicano, per la liquidazione del danno, i criteri di determina
zione dell'indennità di cui al 1° comma, con esclusione della
riduzione del 40 per cento. In tal caso l'importo del risarcimen
to è altresì aumentato del 10 per cento. Le disposizioni di cui
al presente comma si applicano anche ai procedimenti in corso
non definiti con sentenza passata in giudicato». In realtà, la
questione si sarebbe posta anche nella vigenza dell'art. 1, com
ma 65, 1. n. 549 del 1995, poi dichiarato costituzionalmente
illegittimo. Al quesito si deve dare risposta negativa, in base a considera
zioni d'ordine testuale e sistematico.
Sotto il primo profilo, non par dubbio che l'espresso riferi
mento a «causa di pubblica utilità» intenda esprimere, confor
memente al significato letterale dall'espressione, un collegamen to teleologico con le finalità perseguite a mezzo della procedura
espropriativa: in difetto di una valida dichiarazione di p.u., os
sia di una «causa» astrattamente legittimante l'occupazione, non
si realizza il fenomeno della c.d. accessione invertita, ma sol
tanto un fatto illecito, generatore di danno. Non può sostenersi
che il termine «causa» indichi una mera occasione o, ancor più, l'intenzione della pubblica amministrazione, essendo evidente
la forzatura non solo letterale, ma anche logica di una siffatta
interpretazione, ove si consideri che la norma è stata inserita
nel corpo dell'art. 5 bis, ossia in un contesto inequivocabilmen te riferito ai criteri di determinazione dell'indennità di espro
priazione, per l'appunto dichiarati applicabili alle occupazioni
illegittime. È, questo, un argomento sistematico di sicuro rilie
vo per ritenere che il legislatore, nel dettare la norma in esame, si sia voluto riferire esclusivamente al concetto dell'occupazione
appropriativa (o accessione invertita o espropriazione sostanzia
le), che, come si è detto, non può prescindere da una valida
dichiarazione di p.u.: basti considerare che i criteri stabiliti dal
1° comma dell'art. 5 bis riguardano le espropriazioni preordi nate alla realizzazione di opere o interventi da parte o per conto
di enti pubblici, anche non territoriali, o che siano, in ogni ca
so, «preordinate alla realizzazione di opere o interventi dichia
rati di pubblica utilità», con ciò delineandosi l'ambito di appli cazione della norma nel suo complesso (di cui il comma 7 bis, ora introdotto, è parte integrante) alle ipotesi di espropriazioni
Il Foro Italiano — 1997.
in senso stretto od a quelle che, in relazione ad opere od inter
venti comunque assistiti da un valido accertamento della rispon denza al pubblico interesse, siano riconducibili al fenomeno della
c.d. accessione invertita.
Di tale interpretazione non sembra possibile dubitare, ove si
consideri ulteriormente che in dottrina e nella giurisprudenza è stato unanime il convincimento che a detto fenomeno si rife
risse (nella parte in cui disponeva che i criteri dell'art. 5 bis
si applicavano anche in tutti i casi nei quali non fosse stata
determinata definitivamente l'entità del «risarcimento del dan
no») l'art. 1, comma 65, 1. n. 549 del 1995; che così questa norma è stata interpretata dai vari giudici che hanno investito
la Corte costituzionale delle questioni di legittimità; che, so
prattutto, in tal modo è stata chiaramente interpretata dallo
stesso giudice delle leggi. Non v'è, pertanto, alcun motivo logi
co o sistematico per ritenere che il legislatore, nell'aggiungere all'art. 5 bis il comma 7 bis a seguito della dichiarata illegittimi tà costituzionale del 6° comma (come sostituito dall'art. 1, com
ma 65, 1. 549/96), abbia inteso discostarsi da quell'ambito, sì
da ricomprendervi anche ipotesi precedentemente non considerate.
Si deve concludere, sul punto, che lo ius superveniens costi
tuito dall'art. 3, comma 65, 1. 662/96, che ha aggiunto il com
ma 7 bis all'art. 5 bis d.l. 333/92 (convertito, con modificazio
ni, nella 1. n. 359 del 1992), si applica a quelle occupazioni
illegittime di suoli che sono riconducibili all'istituto dell'occu
pazione appropriativa e che, quindi, non può trovare applica zione nei casi in cui tale fattispecie non è configurabile, per difetto di una valida dichiarazione di pubblica utilità.
Il primo motivo del ricorso principale ed il quarto motivo
del ricorso incidentale Iacp propongono censure alla sentenza
impugnata che possono essere esaminate congiuntamente, per chè in parte connesse. Il comune di Andria, denunziando viola
zione e falsa applicazione degli art. 934, 1173, 2043, 2055 c.c.,
116 c.p.c. e dei principi in tema di accessione invertita, nonché
insufficiente e contraddittoria motivazione, lamenta che la cor
te di merito non abbia considerato che la responsabilità dell'il
lecito andava addebitata al solo Iacp, esecutore e fruitore del
l'opera pubblica e che non aveva esitato a procedere nell'occu
pazione del terreno e nella costruzione, pur essendo a conoscenza
delle contestazioni mosse dagli Spagnoletti Zeuli alla legittimità del p.e.e.p., mentre esso comune nessuna iniziativa aveva adot
tato né per l'occupazione, né per la realizzazione dell'opera. In ogni caso, la sua colpa non poteva essere messa sullo stesso
piano di quella dell'Iacp, essendosi limitato ad approvare il
p.e.e.p.: il giudice di merito, quindi, avrebbe dovuto graduare le rispettive responsabilità.
Dal canto suo, l'Iacp, denunziando violazione degli art. 99
e 100 c.p.c., 2043 e 2055 c.c. ed omessa o insufficiente motiva
zione, rileva, per un verso, come la causa efficiente nella pro duzione dell'evento dannoso sia stata l'approvazione del p.e.e.p. da parte del comune e, per altro verso, che la responsabilità di quest'ultimo avrebbe dovuto, comunque, essere ritenuta pre
ponderante. Premesso che, per le ragioni già esposte, non può essere pre
so in considerazione il primo profilo della censura dell'istituto, va rilevato, quanto alla doglianza del comune, che essa muove
dichiaratamente dalla premessa che la responsabilità debba es
sere valutata secondo i principi in tema di occupazione appro
priativa, in ordine ai quali è comunque opportuno precisare che
le sezioni unite di questa corte, con la sentenza n. 10922 del
1996 (id., 1996, I, 141) hanno escluso che il criterio possa essere
quello dell'individuazione del soggetto beneficiario dell'opera
pubblica. Del tutto esattamente, invece, il giudice di appello ha applicato i principi vigenti in tema di responsabilità aquilia na nel cui ambito rientra (per quanto già detto) il caso di spe
cie, addebitando al comune di aver adottato, con l'approvazio ne del p.e.e.p., un'invalida dichiarazione di p.u. e di aver, quindi,
posto in essere un comportamento certamente concorrente nella
produzione dell'evento: né vale sostenere che l'Iacp aveva pro ceduto all'occupazione del fondo ed alla realizzazione dell'ope ra pur essendo a conoscenza del fatto che i proprietari avevano
contestato, dinanzi al giudice amministrativo, la legittimità del
p.e.e.p., e degli atti derivati, perché rimaneva comunque in ca
po al comune il potere-dovere di controllo, per legge spettante
gli sulla legittimità e regolarità della procedura.
Quanto alla doglianza, congiuntamente proposta dal comune
e dall'Iacp, in ordine alla necessità di una graduazione della
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
colpa (peraltro, confusa con quella della diversa efficienza cau
sale delle rispettive condotte), è sufficiente rilevare la genericità della critica mossa alla sentenza impugnata, che ha fatto corret
ta applicazione del principio di responsabilità solidale ex art.
2055 c.c., ponendo in rilievo non soltanto che entrambi, quali
soggetti pubblici, erano tenuti al rispetto della legge in pari mi
sura, ma anche che nessuna graduazione era possibile in una
situazione in cui, alla responsabilità del comune per l'adozione
del p.e.e.p., corrispondeva un comportamento dell'Iacp altret
tanto colposo, per aver comunque proceduto, sebbene fossero
controversi i presupposti della vicenda espropriativa. Le censure, pertanto, sono infondate.
Analoghe sono anche le doglianze prospettate, rispettivamen
te, con il terzo motivo del ricorso principale e con il quinto motivo del ricorso incidentale Iacp: denunziando violazione dei
principi in tema di quantificazione del danno e vizio di motiva
zione, si rileva come, a fronte delle critiche mosse all'operato del consulente tecnico d'ufficio nominato in prime cure, la cor
te di merito non abbia fornito adeguata motivazione in ordine
alla natura edificatoria del suolo occupato e come, in ogni ca
so, lo stesso c.t.u. fosse ricorso in un errore evidente sull'indivi
duazione della zona di programma comunale di edificazione in
cui ricadeva l'area in questione. Anche tali censure sono prive di fondamento.
La corte territoriale si è richiamata a quanto, sulla natura
edificatoria del terreno, aveva accertato il giudice di primo gra
do, per il tramite non soltanto della consulenza tecnica d'uffi
cio, ma anche di altre precedenti sentenze tra le stesse parti: a tal proposito, è opportuno subito rilevare che questa corte
regolatrice, con la sentenza (massimata ed edita) n. 6388 del
1994, in causa Spagnoletti c. comune di Andria (id., Rep. 1994, voce cit., n. 248), ha affermato il principio secondo cui, «ai
fini dell'individuazione del controvalore del bene assoggettato alla c.d. occupazione espropriativa, la natura edificatoria del
suolo va desunta dalle caratteristiche obiettive del fondo, che
comprovino la concreta attitudine all'edificazione, quali l'ubi
cazione, l'accessibilità, lo sviluppo edilizio già in atto nella zo
na e in quelle immediatamente adiacenti, la presenza o l'utiliz
zabilità di collegamenti vari, infrastrutture, servizi pubblici ed
altre opere a rete, indipendentemente dalla destinazione concre
ta impressa dal proprietario e dalla inclusione o meno del fon
do medesimo in uno strumento urbanistico». È appena il caso
di osservare che, pur non rientrando la fattispecie nel fenomeno
della c.d. accessione invertita, tuttavia il criterio non può che
essere quello ora enunciato, dovendosi procedere alla liquida zione del danno conseguente alla perdita definitiva del bene.
Il giudice di merito si è pienamente attenuto a tale principio,
ponendo in rilievo l'accessibilità del fondo, la presenza di infra
strutture e di insediamenti edilizi risalenti nel tempo, e come
non potesse incidere negativamente l'utilizzazione agricola del
fondo medesimo; contrariamente all'assunto degli odierni ricor
renti, ha considerato che l'area era destinata, per soli mq. 700, a «verde pubblico», ma ne ha correttamente escluso l'incidenza
negativa, non potendosi tener conto di vincoli espropriativi (per il principio, poi, dell'ininfluenza dei vincoli del p.e.e.p., stante
il suo valore non conformativo della proprietà, cfr., da ultimo, Cass. 6479/95, id., Rep, 1995, voce cit., n. 257); ha espressa mente affermato che sul quantum non v'erano specifici rilievi
che inducessero a discostarsi dal criterio seguito dal c.t.u., con
riguardo ad atti pubblici per la vendita di terreni contigui, non
ché ai valori per essi accertati dall'ufficio del registro o con
questo definiti (onde appare infondato, in punto di fatto, il
rilievo dei ricorrenti in ordine alla mancata considerazione dei
valori definiti); infine, ha osservato che «il valore di lire 20.000
al mq. all'epoca non è, come tale, contestato».
Alla stregua di queste puntuali e logiche considerazioni della
sentenza impugnata, le censure degli odierni ricorrenti si risol
vono in una critica, inammissibile in sede di legittimità, alla valutazione effettuata dal c.t.u, proponendo una diversa ed a
loro più favorevole valutazione, a fronte di un'espressa affer
mazione del giudice di merito sulla non contestazione del valore
unitario dell'area illecitamente occupata: tanto più che lo stesso
giudice non è tenuto a confutare analiticamente tutte le questio ni prospettate dalle parti, anche sul piano tecnico, quando for
nisca congrua e logica motivazione delle ragioni che lo induco
no a tener ferma la valutazione operata dal consulente tecnico
d'ufficio. In conclusione, i ricorsi vanno complessivamente rigettati.
Il Foro Italiano — 1997.
CORTE DI CASSAZIONE; sezioni unite civili; sentenza 9 lu
glio 1997, n. 6228; Pres. La Torre, Est. Roselli, P.M. Delli
Priscoli (conci, parz. diff.); Saliola (Avv. De Notarfis) c.
Regione Molise. Regolamento di giurisdizione.
Giurisdizione civile — Richiesta di misura cautelare — Difetto
di giurisdizione — Dichiarazione — Regolamento preventivo — Ammissibilità — Fattispecie (Cod. proc. civ., art. 37, 41, 669 bis).
La dichiarazione di difetto di giurisdizione del giudice ordina
rio, resa dal pretore del lavoro sulla richiesta di misura caute
lare formulata dal lavoratore nell'atto introduttivo del giudi zio di merito dallo stesso promosso avanti il medesimo preto
re, non preclude la proposizione del regolamento pre ventivo. (1)
Svolgimento del processo. — Con ricorso del 15 dicembre
1995 al Pretore di Campobasso, Angela Saliola esponeva di es
sere stata assunta in data 1° febbraio 1986, con contratto for
malmente qualificato come di lavoro autonomo, dalla s.r.l. so
cietà Molise dati per la durata di tre mesi e con successivi rin
novi, nei quali si era precisato che l'attività lavorativa veniva
svolta nell'interesse della regione Molise. Dal 30 giugno 1989
analoghi contratti ella aveva stipulato con la s.r.l. Pubblisiste
mi. La ricorrente aggiungeva di avere di fatto lavorato, malgra do la diversa qualificazione formale, in posizione di subordina
zione per la regione, com'era dimostrato dalla sottoposizione ad un orario di lavoro e ad ordini di servizio disposti da organi della medesima, dalla fruizione delle ferie, dall'assenza di alcun
rapporto con le suddette società e dal fatto che i compensi veni
vano pagati con fondi dell'ente pubblico, il quale forniva anche
mezzi ed attrezzature necessarie allo svolgimento del lavoro.
Con delibera del 7 agosto 1992, n. 3729 ed in applicazione della sopravvenuta 1. reg. 12 settembre 1991 n. 15, la giunta le aveva conferito l'incarico di responsabile della segreteria par ticolare di uno degli assessori, fino alla cessazione del medesi
mo dalla carica, ai sensi dell'art. 8 1. cit.
L'incarico era stato più volte rinnovato, fino a due delibere, del 26 giugno 1995, n. 2481 e del 30 ottobre 1995, n. 4343, che contenevano termini finali del rapporto di lavoro non coin
cidenti con la cessazione dalla carica degli assessori.
Tanto esposto, la Saliola chiedeva che il pretore affermasse
la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo determinato con la regione Molise, iniziato fin dal 1 ° febbraio
1986 e condannasse la regione medesima a pagare le differenze
retributive, con rivalutazione ed interessi, ed a costituire la cor
rispondente posizione previdenziale. Nello stesso ricorso ella chiedeva in via urgente che il pretore
dichiarasse il diritto a restare in servizio almeno fino alla cessa
zione dell'assessore regionale all'agricoltura dalla propria cari
ca, affermando così la nullità dei termini anticipati di scadenza
del rapporto di lavoro, fissati nelle suddette delibere del 1995.
Costituitasi in giudizio la convenuta, il pretore, con un prov vedimento del 29 gennaio 1996 denominato «ordinanza», decli
nava la giurisdizione in ordine al provvedimento cautelare, rite
nendo doversi pronunciare il giudice amministrativo, e rinviava
per la trattazione nel merito.
La Saliola chiede a queste sezioni unite il regolamento pre ventivo di giurisdizione, affermando la natura privatistica del
rapporto di lavoro e perciò la giurisdizione del giudice ordina
rio. La regione Molise controricorre.
Motivi della decisione. — Secondo la più recente giurispru denza di queste sezioni unite (sent. 22 marzo 1996, n. 2465, Foro it., 1996, I, 1635) il ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione di cui all'art. 41 c.p.c. non è ammissibile se
proposto durante lo svolgimento di un processo cautelare sia
(1) Le sezioni unite, muovendosi nella linea della richiamata Cass.
22 marzo 1996, n. 2465, Foro it., 1996, I, 1635, con nota di F. Cipria
ni, cui adde, nello stesso senso, successivamente, sez. un. 1° luglio 1997, n. 5902, id., Mass., 582, formulano l'enunciazione riassunta in massi
ma, che costituisce ulteriore punto di riferimento ai fini della compren sione (della portata) del revirement operato dalla corte non solo con
la citata sent. n. 2465 del 1996, ma pure, e più in generale, con la
coeva n. 2466, anch'essa diffusamente esaminata nella menzionata nota
di Cipriani.
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