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sezione I civile; sentenza 16 luglio 2005, n. 15100; Pres. Cappuccio, Est. Del Core, P.M. Martone...

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sezione I civile; sentenza 16 luglio 2005, n. 15100; Pres. Cappuccio, Est. Del Core, P.M. Martone (concl. conf.); C. e altri (Avv. Stella Richter, Frattini) c. F. (Avv. Manzi, Riva, Quintavalle, Giuliani). Conferma App. Brescia 14 giugno 2004 Source: Il Foro Italiano, Vol. 129, No. 2 (FEBBRAIO 2006), pp. 475/476-481/482 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23200988 . Accessed: 25/06/2014 08:19 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 195.34.79.228 on Wed, 25 Jun 2014 08:19:35 AM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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sezione I civile; sentenza 16 luglio 2005, n. 15100; Pres. Cappuccio, Est. Del Core, P.M. Martone(concl. conf.); C. e altri (Avv. Stella Richter, Frattini) c. F. (Avv. Manzi, Riva, Quintavalle,Giuliani). Conferma App. Brescia 14 giugno 2004Source: Il Foro Italiano, Vol. 129, No. 2 (FEBBRAIO 2006), pp. 475/476-481/482Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23200988 .

Accessed: 25/06/2014 08:19

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PARTE PRIMA 476

Per cui dunque, nella specie, hanno esattamente escluso i giu dici del merito che la carica rivestita dal Nizzi, in società costi

tuita dal comune con sua partecipazione inferiore al cinquanta

per cento del capitale azionario, potesse integrare la causa di

ineleggibilità di cui all'art. 60, n. 10, Tuel invocata dalla ricor

rente.

Dal che, appunto, l'infondatezza del primo motivo del ricorso

principale. 5.2. - A sua volta infondato è anche il residuo secondo mezzo

dello stesso ricorso, con il quale la Palermo, come detto, sostie

ne che abbiano errato i giudici del merito nel dichiarare inam

missibile, per ritenuta sua novità e tardiva proposizione, la do

manda subordinata, da lei formulata, ai fini della declaratoria di

incompatibilità ex art. 63. n. 1, Tuel, e di decadenza, per tal

causa, del Nizzi dalla carica di sindaco.

E ben vero — anche a voler ritenere implicitamente censurata

dalla ricorrente la statuizione della corte d'appello in ordine alla

dichiarata «irricevibilità» della «tardiva e non autorizzata» me

moria difensiva recante la suddetta subordinata, così superando si l'avversa eccezione di inammissibilità dell'odierno motivo

per mancata impugnazione della seconda ratio decidendi posta a

base del denegato esame della domanda in questione — deve

comunque senz'altro escludersi, nel merito, che tra la declarato

ria di incompatibilità e quella di ineleggibilità di cui, rispetti vamente, agli art. 63, n. 1. e 60, n. 10, Tuel, sussista quella identità di petitum e causa petendi che avrebbe dovuto, secondo

la Palermo indurre la corte territoriale a ritenere anche la secon

da domanda (di «decadenza per incompatibilità»), solo tardiva

mente formulata, implicita in quella (di «decadenza per ineleg

gibilità») proposta con l'atto introduttivo del giudizio. Diversi sono, infatti, i presupposti fattuali, il petitum e la cau

sa petendi delle due azioni, accomunate dal solo profilo effet

tuale della decadenza dell'eletto.

Ciò in quanto, come a chiare lettere emerge dal raffronto

della due norme su citate, la causa di ineleggibilità (sub art. 60,

n. 10) presuppone, appunto, l'inserimento, in posizione apicale,

dell'eligendo in «società per azioni con capitale maggioritario del comune», e risponde alla ratio sua propria di assicurare la

par condicio nell'elettorato passivo; mentre la causa di incom

patibilità (sub art. 63, n. 1) è correlata ad un rapporto di «vigi lanza» o di «finanziamento», tra il comune ed enti od istituti di

cui l'eletto sia amministratore o dipendente, ed è volta ad evita

re situazioni di conflitto di interessi.

Per cui esattamente, alla luce di tali premesse, la corte di me

rito ha rilevato che, nella specie, l'attrice aveva dedotto, con il

proprio ricorso, unicamente circostanze in fatto rilevanti agli ef

fetti della ineleggibilità, e solo appunto in relazione a tale causa

aveva chiesto dichiararsi deceduto il Nizzi dalla carica elettiva.

D'altra parte, ove il giudice adito potesse — come pretende la

ricorrente — qualificare, all'atto della decisione, in termini di

incompatibilità la situazione dedotta dal ricorrente a fini di de

claratoria di ineleggibilità, priverebbe così l'eletto della facoltà

di rimuovere — entro dieci giorni dalla notifica dell'azione per declaratoria di incompatibilità

— la causa della stessa, come da

Corte cost. n. 160 del 1997, id., 1997, I, 2380, e successivi in

terventi legislativi. 6. - Entrambi i ricorsi vanno, quindi, respinti.

Il Foro Italiano — 2006.

CORTE DI CASSAZIONE; sezione i civile; sentenza 16 lu

glio 2005, n. 15100; Pres. Cappuccio, Est. Del Core, P.M.

Martone (conci, conf.); C. e altri (Avv. Stella Richter,

Frattini) c. F. (Avv. Manzi, Riva, Quintavalle, Giuliani).

Conferma App. Brescia 14 giugno 2004.

Filiazione — Dichiarazione giudiziale di paternità o mater

nità naturale — Rito camerale — Mezzi di prova — As

sunzione — Delegabilità ad un componente del collegio

(Cod. civ., art. 269; cod. proc. civ., art. 280). Filiazione — Dichiarazione giudiziale di paternità o mater

nità naturale — Filiazione naturale — Obbligo di mante

nimento — Decorrenza — Nascita del figlio — Altro geni tore — Regresso

— Domanda — Necessità (Cod. civ., art.

269, 277).

Nel giudizio camerale di dichiarazione della paternità naturale

il collegio può delegare la sola assunzione dei mezzi di prova a un suo componente. (1)

Pur se la sentenza di accertamento della filiazione naturale po

(1) I. - La Cassazione, con la sentenza in rassegna, si occupa di un

rilevante problema del procedimento camerale di dichiarazione giudi ziale di paternità, instaurato successivamente alla fase di ammissibilità

(su cui si è particolarmente incentrata l'attenzione della giurispruden za), quello della delegabilità dell'assunzione dei mezzi istruttori, dispo sti dal collegio (che li valuterà poi in sede di decisione) ad un magi strato componente del collegio stesso.

La risposta è positiva, anche per il dichiarato intento di assicurare

snellezza e rapidità ad un procedimento cui sono sottesi gli interessi dei

minori. Cass. 15100/05 fonda la propria decisione sull'applicabilità, al rito

camerale contenzioso (applicato a diritti soggettivi), per quanto non

espressamente previsto per quest'ultimo (e ben poco è disposto dalle scarne norme in materia), della disciplina del processo ordinario di co

gnizione, quale rito «archetipale». Il procedimento camerale, in realtà, non conosce il dualismo giudice

istruttore-collegio, proprio del giudizio ordinario a decisione collegiale, in quanto la figura del giudice istruttore non è prevista: ogni potere, istruttorio come decisorio, fa capo al collegio, sicché neanche è pro priamente configurabile una lacuna della disciplina pertinente. La dele

gabilità dell'assunzione delle prove al giudice relatore è invece prevista dall'art. 16, 4° comma, d.leg. 5/03.

La sentenza in rassegna, al contrario (e sia pure ellitticamente, attra verso il richiamo alla dottrina) sembra fondare la delegabilità dell'as sunzione delle prove sull'art. 280, 3° comma, c.p.c. (e, a contrario, sull'art. 350 c.p.c., sulla trattazione collegiale in appello); viene ri chiamata poi espressamente Cass., sez. un., 19 giugno 1996, n. 5629, Foro it., 1996, 1, 3070, con nota di Civinini ove (ma come obiter dic

tum) si ammette, in mancanza di disposizioni contrarie, la delegabilità dell'assunzione dei mezzi istruttori nei procedimenti camerali applicati a diritti soggettivi.

II. - In termini, cfr. anche Cass. 17 giugno 2004, n. 11351, id.. Rep. 2004, voce Camera di consiglio, n. 6, secondo cui nel procedimento camerale attinente la dichiarazione giudiziale di paternità di minore non è ravvisabile, nell'attività svolta dal giudice delegato dal collegio, al cuna espropriazione dei poteri riservati a quest'ultimo, né alcuna com

promissione del diritto di difesa e del contraddittorio «allorché i difen sori delle parti non siano stati sentiti direttamente dal collegio, quando essi abbiano avuto la possibilità di depositare memorie scritte, atteso che il principio del contraddittorio non implica necessariamente oralità, ma può esplicarsi con pienezza anche attraverso la forma scritta». Più in generale, Cass. 28 luglio 2004, n. 14200, id.. 2005, I, 111, segnala che il procedimento camerale in parola (anche allorché, in quanto ri

guardante minori, è di competenza del tribunale per i minorenni) deve

svolgersi nel rispetto del principio del contraddittorio, «stante la natura contenziosa del procedimento, e nella sostanziale equiparazione del l'attività istruttoria a quella propria dell'ordinario giudizio di cognizio ne, restando fermo, anche in tale ambito, il normale esercizio della fa coltà di prova e l'onere di allegazioni e deduzioni, secondo il principio dispositivo». Ne consegue che «sebbene l'art. 738, ultimo comma,

c.p.c. consenta di assumere informazioni d'ufficio e, quindi, di decidere senza necessità di ricorrere ad altre fonti di prova, ove il giudice riten

ga, nel suo prudente apprezzamento, insufficienti, ai fini probatori, le informazioni assunte, e necessario ricorrere alle fonti di prova discipli nate dal codice di rito, egli non può sostituirsi alla parte nell'esercizio dei poteri di allegazione, di deduzione ed eccezione ad essa spettanti». Di grande interesse, pur se riferita alla fase di ammissibilità, è Cass. 21

giugno 2002, n. 9084, id., Rep. 2002, voce cit., n. 13, che richiama

l'applicabilità dei principi enunciati dall'art. Ill Cost, nuovo testo, 2°, 3°, 4° comma, anche ai procedimenti camerali civili, compreso appunto quello ex art. 274 c.p.c., «con particolare riguardo alla regola secondo

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

ne a carico del genitore anche l'obbligazione di manteni

mento, decorrente dalla nascita del figlio, con conseguente

obbligo di rimborsare pro quota l'altro genitore che abbia

provveduto integralmente al mantenimento del figlio medesi

mo, la condanna al rimborso di detta quota presuppone la

domanda di parte, attenendo alla definizione di rapporti pre

gressi tra debitori solidali (la Suprema corte ha ritenuto im

mune da vizi logici e giuridici, confermandola, la decisione

del giudice di appello che aveva escluso la determinazione

d'ufficio, a carico dei convenuti, eredi del padre defunto, del

pagamento di una somma una tantum, quale contributo alle

spese per il mantenimento del figlio sostenute dalla madre

anteriormente all'accertamento giudiziale, in mancanza di

domanda della parte, neanche proponibile perché la madre

aveva agito non in proprio, ma solo in nome e per conto del

figlio minorenne). (2)

cui le parti hanno facoltà di interrogare o di far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a loro carico».

La Suprema corte ha anche affermato che l'adozione del rito ordina

rio, in luogo di quello camerale, per il giudizio di dichiarazione di pa ternità naturale di un minore non è causa di nullità: v. Cass. 20 marzo

1999, n. 2572, id.. Rep. 1999, voce Filiazione, n. 81, e già 22 ottobre

1997, n. 10377, id., 1999,1, 2045. Di contro, Cass. 20 ottobre 2000, n. 13892, id., Rep. 2001, voce cit.,

n. 54, reputa che — proposto ricorso per la declaratoria di ammissibi

lità dell'azione per la dichiarazione giudiziale di paternità o maternità

naturale e fissata dal presidente del tribunale l'udienza per la compari zione delle parti con assegnazione di un termine per la notifica del ri

corso alla controparte — non è causa di estinzione del giudizio, ex art.

307 c.p.c. (con conseguente nullità di tutti gli atti del procedimento) la

circostanza che avvenuta la notifica del ricorso-decreto oltre il termine

assegnato, il giudice abbia fissato un nuovo termine e prima della sca

denza di quest'ultimo il ricorso sia stato ritualmente notificato.

Sui profili probatori attinenti all'azione in oggetto, v. Cass. 22 luglio 2004, n. 13665, id., 2005, I, 432; per ulteriori profili procedurali, v.

Cass. 9 giugno 2005, n. 12167, id., Mass., 738.

III. - La Suprema corte ha avuto anche occasione di precisare che nel

procedimento camerale di ammissibilità dell'azione per la dichiarazio

ne giudiziale di paternità o maternità naturale è invece rimessa alla di

screzionalità del giudice l'assunzione di sommarie informazioni, sicché

è esclusa l'applicabilità delle norme processuali sulla prova testimo

niale dettate per il giudizio ordinario di cognizione: v. Cass. 9 giugno 2005, n. 12173, ibid., 739; in termini, v. Cass. 8 ottobre 2004, n. 20087,

id., Rep. 2004, voce cit., n. 51 (secondo cui il giudizio preliminare de

lineato dall'art. 274 c.c., caratterizzato dalla sommarietà della cogni zione e dalla semplicità delle forme, esclude la piena applicazione delle

norme che regolano il processo ordinario e, in particolare, l'applicabi lità dei termini di comparizione fissati dall'art. 163 c.p.c.). V. anche

Cass. 16 giugno 2000, n. 8227, id.. Rep. 2001, voce cit., n. 52 (secondo cui il tribunale, in deroga al principio della corrispondenza della deci

sione agli alligata et probata di parte, può acquisire, attraverso gli strumenti di indagine che ritiene più idonei all'esercizio del suo potere discrezionale, gli elementi dai quali ricavare, in via integrativa o anche

esclusiva, le fonti del proprio convincimento in ordine alle questioni

pregiudiziali o che attengono alla proponibilità della domanda, all'esi

stenza delle condizioni di ammissibilità dell'azione, alla sussistenza

dell'interesse del minore). Sulla natura contenziosa anche della fase di

ammissibilità, v. Cass. 21 gennaio 2005, n. 1345, id., Mass., 830.

IV. - In dottrina, agli autori indicati in nota a Cass. 14200/04, cit., adde F. Danovi, Le azioni in materia di filiazione e i principi generali del processo, in Dir. famiglia, 2004, 153; F. Uccella, Identificazione e

operatività dei principi fondamentali e dei principi generali in tema di

accertamento della filiazione: spunti per una riflessione, in Giusi, civ.,

2003, II, 225; M.C. Gatto, La dichiarazione giudiziale della paternità o della maternità naturale, in Famiglia e dir., 2001. 450.

(2) La sentenza in rassegna è conforme alla giurisprudenza consoli

data (espressamente richiamata) con riferimento ai principi espressi dalla massima 2, secondo cui, accertata la paternità naturale, il genitore è tenuto al mantenimento del figlio dalla nascita, con conseguente di

ritto dell'altro, che abbia provveduto integralmente al mantenimento,

fino a quel momento, al rimborso pro quota a titolo di regresso; a tal

fine vi è però necessità di espressa domanda della parte legittimata. Cfr., in termini, Cass. 4 maggio 2000, n. 5586, Foro it.. Rep. 2000,

voce Filiazione, n. 104, e, per esteso, Famiglia e dir., 2000, 549 (nella

specie, la Suprema corte ha cassato la decisione di merito che, in assen

za di domanda dell'altro genitore, aveva fissato la decorrenza dell'as

segno di mantenimento dalla data della sentenza di primo grado e, de

cidendo nel merito, ha dichiarato l'obbligo di corrispondere il mante

nimento dalla data del ricorso introduttivo del giudizio). Cfr. anche Cass. 28 giugno 1994, n. 6217, Foro it., 1996, I. 251, cui

Il Foro Italiano — 2006.

Svolgimento del processo. — Con sentenza n. 17 del 2003, il

Tribunale per i minorenni di Brescia, pronunziando sulla do

manda di riconoscimento giudiziale di paternità proposta da

M.C.F., quale esercente la potestà sul figlio A., nato il 13 luglio 1991, dichiarò quest'ultimo figlio di G.C., deceduto nell'agosto del 1999, condannandone gli eredi G.C., M.L.C., M.C. e L.V. al

pagamento della somma mensile di euro cinquecento per il

mantenimento del minore e dell'importo di euro venticinque

mila, determinato in via equitativa, a titolo di rimborso delle

spese sostenute dalla madre per la cura e l'allevamento del

bambino.

L'impugnazione proposta dagli eredi venne parzialmente ac

colta dalla Corte d'appello di Brescia, sezione per i minorenni,

la quale, disattesa l'eccezione di nullità della sentenza sollevata

per il fatto che le prove erano state assunte da un giudice dele

gato anziché dal collegio, osservò, nel merito, che erano fondate

le censure dirette contro la condanna degli appellanti al paga mento di una somma una tantum per il periodo dalla nascita del

bambino alla domanda giudiziale — in difetto di corrispondente

domanda, oltretutto non proponibile dalla F., avendo agito uni

camente quale legale rappresentante del figlio minore — e alla

corresponsione di un assegno mensile di mantenimento del mi

nore, gravando sugli eredi l'obbligo di mantenimento e/o ali

mentare solo a favore dei figli naturali non riconoscibili, ai sensi

del combinato disposto degli art. 580 e 594 c.c.; era fondato an

che il motivo di appello concernente la condanna alle spese che

ritenne di compensare per entrambi i gradi in considerazione del

leale comportamento processuale dei convenuti.

Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso per cassazione

G.C., M.L.C.. M.C. e L.V., deducendo un unico motivo, poi il

lustrato con memoria.

M.C.F. ha resistito con controricorso e, a sua volta, ha propo sto ricorso incidentale sulla base di un unico articolato motivo,

depositando, quindi, memoria illustrativa.

Motivi della decisione. — Con l'unico motivo del loro ricor

so, i C. e la V., denunziando violazione degli art. 274 c.p.c., 38

disp. att. c.c., 738 e 350 c.p.c., nonché omessa o insufficiente

motivazione circa un punto decisivo della controversia, insisto

no sull'eccezione di nullità del giudizio di primo grado in

quanto la prova orale è stata raccolta da un componente del

collegio su delega di quest'ultimo, in violazione della regola

generale della collegialità nel rito camerale; contestano che

dalla normativa esistente, e ancor meno dall'art. 274 c.c. relati

vo al peculiare giudizio di ammissibilità dell'azione per l'af

fermazione della paternità o maternità naturale, possa ricavarsi

un principio generale secondo cui un giudice può essere dele

gato dal collegio alla raccolta di elementi probatori da sottopor re successivamente alla piena valutazione dell'organo collegia

le; di contro, le norme del procedimento ordinario prevedono che in ordine alle prove si pronunci l'istruttore ovverosia un

giudice non esistente nel rito camerale, sicché deve concludersi

che nei procedimenti assoggettati a detto rito le prove sono as

sunte dal collegio. Il motivo è destituito di fondamento.

Le sezioni unite di questa corte (sent. 5629/96, Foro it., 1996,

I, 3070), in via di obiter dictum ma offrendo un'autorevole indi

cazione per la risoluzione di altro (apparente) conflitto insorto

nella prima sezione, hanno affermato che il principio generale secondo cui un giudice può essere delegato dal collegio alla rac

colta di elementi probatori da sottoporre, successivamente alla

piena valutazione dell'organo collegiale, in difetto di esplicite norme contrarie, trova applicazione anche nelle ipotesi di pro cedimento camerale applicato a diritti soggettivi quale quello

per la dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale

di minori per quelle ragioni di celerità e sommarietà delle inda

gini, cui tale particolare tipo di procedimento è ispirato, tenuto

adde Cass. 24 marzo 1994. n. 2907, id.. Rep. 1995, voce cit., n. 84, che

precisa che l'altro genitore possa agire in regresso anche «quando que sti abbia svolto attività lavorativa per riceverne quale corrispettivo 'in

natura' l'ospitalità e l'assistenza del figlio». Per la determinazione del contributo al mantenimento del minore fi

glio naturale per il periodo successivo alla proposizione dell'azione

stessa, v. Cass. 17 luglio 2004, n. 13296, id.. Rep. 2004, voce cit., n.

56; per profili di competenza, v. Cass. 7 maggio 2004, n. 8760, ibid., voce Competenza civile, n. 23. [G. Casaburi]

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479 PARTE PRIMA 480

anche conto del fatto che la delega comunque non concerne

l'ammissione delle prove, demandata al giudice collegiale, il

quale soltanto può valutarne l'ammissibilità e la rilevanza, bensì

la loro mera assunzione attribuita dallo stesso collegio a uno dei

suoi componenti. Il principio affermato dalle sezioni unite della Corte di cassa

zione merita di essere condiviso. Va osservato, anzitutto, che il

giudizio di dichiarazione della filiazione naturale, devoluto, ove

riguardi minori, all'omonimo tribunale, ai sensi dell'art. 38

disp. att. c.c. — come modificato dall'art. 68 1. 4 maggio 1983

n. 184 — è soggetto al rito camerale e non a quello del lavoro, sicché, la natura contenziosa del procedimento comporta una

sostanziale equiparazione delle indagini istruttorie a quelle pro

prie degli ordinari giudizi di cognizione. In altri termini, va rile

vato che il processo ordinario di cognizione costituisce il para

digma procedimentale del nostro ordinamento per cui, salvo di

versa disposizione di legge, il rito da seguire è quello ordinario, da cui è possibile distaccarsi solo in caso di previsione espressa e che nei procedimenti speciali vige da sempre il principio per il

quale essi si differenziano da quello ordinario soltanto nei limiti

espressamente previsti dalla legge. La soluzione del problema va quindi individuata alla luce del diritto positivo e del principio

per il quale le lacune dei procedimenti speciali vanno colmate

con le norme dettate per il procedimento ordinario.

Peraltro, la delegabilità dell'assunzione delle prove è stata so

stenuta dalla più accreditata dottrina processualcivilistica, spe cie con riferimento a procedimenti camerali di competenza del

giudice minorile, in cui la delega dell'istruttoria al giudice sin

golo persegue soprattutto l'esigenza pratica di attenuare con

snellezza e al di fuori di pastoie «burocratiche» l'interesse del

minore. Gli autori che, a seguito della pronuncia delle sezioni

unite, sono diffusamente tornati sul tema, pervengono tra loro a

uguali conclusioni: premesso che le lacune della disciplina di un

procedimento speciale non possono essere colmate col ricorso alla disciplina di un altro procedimento speciale ma solo col ri

corso alla disciplina del processo ordinario di cognizione, af

fermano che in primo grado l'assunzione delle prove deve esse re affidata a un componente del collegio a ciò delegato in appli cazione analogica dell'art. 280, 3° comma, c.p.c. e che solo in

sede di gravame le prove devono essere assunte dal collegio (in

analogia con l'appello ordinario a trattazione collegiale). Né giova ai ricorrenti il richiamo alla sentenza 7629/94 di

questa corte (id., 1995, I, 2199), la quale ha ribadito che al giu dizio contenzioso di dichiarazione giudiziale di paternità natu rale nei confronti di minori si applica il rito camerale e non

quello delle controversie di lavoro e che pertanto, in mancanza di disposizioni specifiche al riguardo, debbono applicarsi le norme del processo ordinario di cognizione, coordinate con

quelle che regolano il giudizio dinanzi al giudice speciale fun

zionalmente competente. Fermo restando tale principio, la corte ha soltanto ipotizzato l'estensibilità al rito camerale della solu

zione adottata per il processo del lavoro (inammissibilità della

delega e nullità della prova assunta da un componente del colle

gio), il quale, al pari del primo, è caratterizzato dalla mancata

previsione della figura dell'istruttore. Ne ha fatto conseguire, con argomentazione congetturale e chiaramente ad abundan

tiam, che, anche se in ipotesi volesse ritenersi estesa al giudizio di dichiarazione giudiziale di paternità nei confronti di minori la

disciplina speciale dettata per le controversie di lavoro, tanto

più che anche il rito camerale non conosce la figura dell'istrut

tore, dovrebbe escludersi che la nullità della prova (e non del

giudizio) assunta da un solo componente del collegio per delega del collegio giudicante possa essere dedotta per la prima volta nel giudizio di legittimità, quando sia mancata qualsiasi impu gnazione sul punto contro la sentenza del primo giudice, viziata dall'irrituale assunzione della prova testimoniale.

Va poi osservato che la regola (chiovendiana) dell'identità del giudice che decide la causa con quello che decide sulla pro va è stata dichiaratamente respinta dal nostro legislatore, il

quale, nel varare il codice di rito attualmente vigente, ha previ sto un processo ordinario nel quale l'ammissione e l'assunzione delle prove sono riservate, almeno in prima battuta, al giudice istruttore, un giudice che deve sì far parte del collegio, ma che non è il collegio. Nel nostro ordinamento, quindi, il principio non è che a giudicare debba essere lo stesso magistrato che ha assunto le prove, bensì, più modestamente, che il magistrato che assume le prove deve far parte del collegio giudicante.

li. Foro Italiano — 2006.

Controproducente alla tesi sostenuta dai ricorrenti è il richia

mo all'art. 350 c.p.c., nuovo testo, a mente del quale la tratta

zione dell'appello è collegiale e non è più prevista la figura del

consigliere istruttore. E infatti agevole replicare che l'espressa

previsione, per il giudizio di appello, della trattazione collegiale altro non può significare se non che con essa il legislatore ha

inteso introdurre un'eccezione (ubi voluit, dixit...) alla regola

generale, nel giudizio ordinario di cognizione, della delegabilità dell'assunzione della prova a un componente del collegio.

Va, infine, sottolineata la genericità della censura laddove

deduce la «nullità del giudizio di primo grado». La dedotta nul

lità non viene ancorata a un repère normativo e non si compren de, quindi, in base a quale disposizione di legge dovrebbe essere

sanzionata. In proposito, non può che richiamarsi il principio

vigente nell'ordinamento positivo della tassatività delle cause di

nullità secondo il quale un atto processuale può essere dichia

rato nullo solo in presenza di una specifica previsione di legge. Peraltro, sia detto per mero debito di ragione, l'assunzione

eventualmente indebita della prova ad opera del giudice relatore

all'uopo delegato dal collegio, ove pure dovesse integrare viola

zione di norma, non attiene alla costituzione del giudice, ma al

potere del collegio di incaricare un proprio componente dell'as

sunzione delle prove e non potrebbe dare luogo, quindi, alla

nullità di cui all'art. 158 c.p.c. In questi termini, del resto, si è pronunciata in passato questa

corte in tema di processo del lavoro a proposito dell'inosservan

za del divieto, ricavabile dall'art. 437, 3° comma, c.p.c. di dele

gare un atto istruttorio a un membro del collegio. È stato infatti

affermato il principio secondo cui nel giudizio di appello relati

vo alle controversie in materia del lavoro, l'assunzione delle

prove nuove, eventualmente ammesse, deve avvenire innanzi al

collegio, il quale non può delegare uno dei suoi componenti per

l'espletamento del mezzo istruttorio. L'inosservanza di tale di

sposizione, però, non incidendo sulla costituzione del giudice ai

sensi dell'art. 158 c.p.c. — dal momento che la cognizione della

causa è compiuta dal collegio, il quale valuta il risultato della

prova assunta, con tutte le garanzie della difesa, da un suo com

ponente — non comporta la nullità della relativa pronuncia, in

difetto di un'esplicita comminatoria contenuta nella legge ri

spetto a tale prescrizione, che è dettata soltanto per attuare il

principio della concentrazione e dell'immediatezza (cfr. Cass.

2608/79, id., 1980,1, 786; 3521/84, id., Rep. 1984, voce Lavoro e previdenza (controversie), n. 468).

Alla luce delle su riportate considerazioni, contrariamente a

quanto affermato dal ricorrente, deve ribadirsi che nel giudizio

per la dichiarazione della genitura naturale, in applicazione del

sistema generale, e in difetto di esplicite norme derogative, la

prova testimoniale ben può essere assunta da uno dei compo nenti del tribunale, all'uopo delegato.

Il ricorso principale va in conclusione respinto. Con un unico motivo contenente più censure, la F. denunzia

violazione degli art. 261, 277, 433, 580, 594 c.c., 90 e 91 c.p.c. Si duole che la corte bresciana abbia riformato la sentenza di

primo grado relativamente alle statuizioni concernenti la con danna dei convenuti al pagamento di una somma una tantum, di un assegno mensile di mantenimento e delle spese giudiziali. Deduce, in contrario, che il pagamento di una somma una tan tum può essere disposta d'ufficio ai sensi dell'art. 277 c.c. che conferisce al giudice il potere di assumere i provvedimenti più opportuni per il mantenimento, l'istruzione e l'educazione del

minore, quale conseguenziale corollario dell'avvenuto ricono scimento della qualità di figlio naturale; ciò, in generale, in

quanto la disciplina codicistica è rivolta alla completa tutela del

minore, quale unico e reale elemento oggettivo su cui far con

vergere l'esigenza di apprestare e adottare i rimedi valutati op portuni e idonei durante il giudizio di merito; e ancor più nello

specifico, considerati i peculiari profili della fattispecie di me rito riguardante un minore audioleso e particolarmente bisogne vole di cure e assistenza. Analogamente, l'assegno di manteni

mento, avente natura cautelare, doveva gravare su coloro che

comunque rappresentavano la controparte nella controversia

imperniata sulla dichiarazione di paternità e peraltro tenuti ver so il minore anche ai sensi dell'art. 433 c.c., non disponendo il minore di risorse economiche. La circostanza che il figlio natu

rale, al pari del legittimo, può e deve far valere le esigenze in ambito ereditario è inidonea di per sé a risolvere le esigenze alimentari e primarie di breve termine. Le spese del giudizio di

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Page 5: sezione I civile; sentenza 16 luglio 2005, n. 15100; Pres. Cappuccio, Est. Del Core, P.M. Martone (concl. conf.); C. e altri (Avv. Stella Richter, Frattini) c. F. (Avv. Manzi, Riva,

GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

primo grado erano state giustamente riconosciute dal giudice di

primo grado a carico dei convenuti stante l'accoglimento della

domanda; avrebbe dovuto disporsi in maniera analoga quanto alle spese del secondo grado dacché gli appellanti avevano ten

tato di travolgere il primo giudizio con un'eccezione proces suale e inoltre non esisteva una soccombenza dell'appellata avendo la corte provveduto a modificare alcune statuizioni

adottate d'ufficio dal tribunale.

La complessa censura che in realtà ne contiene tre distinte

non può trovare ingresso. Come è noto, nel nostro ordinamento la sentenza dichiarativa

della filiazione naturale produce gli effetti del riconoscimento, ai sensi dell'art. 277 c.c., e, quindi, a norma dell'art. 261 c.c.,

implica per il genitore tutti i doveri propri della procreazione

legittima, incluso quello del mantenimento ex art. 148 c.c.

La relativa obbligazione, come già precisato da questa corte, si collega allo status genitoriale ed assume di conseguenza pari decorrenza, dalla nascita del figlio, con il corollario che l'altro

genitore, il quale nel frattempo abbia assunto l'onere del mante

nimento anche per la porzione di pertinenza del genitore giudi zialmente dichiarato (secondo i criteri di ripartizione di cui al

citato art. 148 c.c.), ha diritto di regresso per la corrispondente

quota, sulla scorta delle regole dettate dall'art. 1299 c.c. nei

rapporti fra condebitori solidali (Cass. 8042/98, id., Rep. 1999, voce Filiazione, n. 103; 6217/94, id., 1996, I, 251; 2907/94, id., Rep. 1995, voce cit., n. 84; 791/93, id., Rep. 1993, voce cit., n.

78; 3635/89, id., Rep. 1989, voce cit., n. 73; 7285/87, id., Rep. 1988, voce cit., n. 69).

Peraltro, questa Suprema corte ha avuto più volte occasione

di precisare che la condanna al rimborso di detta quota per il pe riodo precedente la proposizione dell'azione non può prescinde re da un'espressa domanda della parte, attenendo tale pronunzia alla definizione dei rapporti pregressi tra debitori solidali, ossia

a diritti disponibili (v., sul punto, Cass. 5586/00, id., Rep. 2000 voce cit., n. 104; 2907/94, cit.; 7285/87, cit.; 5619/87, id., Rep. 1987, voce cit., n. 90), e quindi non incidendo sull'interesse su

periore del minore che soltanto legittima l'esercizio dei poteri officiosi attribuiti al giudice dell'art. 277, 2° comma, c.c. La ne

cessità di analoga domanda non ricorre in ordine ai provvedi menti da adottare in relazione al periodo successivo alla propo sizione dell'azione, atteso che con riferimento alle esigenze ed

alle somme da erogare nell'interesse del minore durante la pen denza del giudizio resta fermo il potere del giudice adito, in for

za della norma suindicata, di adottare di ufficio i provvedimenti che stimi opportuni per il suo mantenimento (Cass. 13296/04,

id., Rep. 2004, voce cit., n. 56; 5586/00, cit.; 6868/94, id., Rep. 1994, voce cit., nn. 65, 94; 2739/85, id., Rep. 1985, voce cit., n.

78). Appare pertanto ineccepibile la decisione della corte d'ap

pello per aver ritenuto che nell'esercizio di detti poteri officiosi

il giudice non potesse disporre per il periodo antecedente la

proposizione del giudizio, in assenza di domanda dell'altro ge nitore. peraltro nella specie non proponibile non avendo la F.

agito in proprio, ma solo in nome e per conto del figlio mino

renne.

Altrettanto condivisibile è la statuizione della corte bresciana

che ha riformato la sentenza di prime cure nella parte in cui

aveva condannato gli odierni ricorrenti principali al pagamento di una somma mensile a titolo di mantenimento del minore.

Correttamente i giudici di seconde cure hanno rilevato che il fi

glio naturale riconosciuto è erede del padre naturale alla stessa

stregua dei figli legittimi onde il suo diritto al mantenimento da

parte del padre si converte in diritto ereditario, laddove nulla

può essere chiesto a tale titolo agli eredi del padre naturale, gra vando su di essi l'obbligo di mantenimento e/o alimentare solo

a favore dei figli naturali non riconosciuti o non riconoscibili, ai

sensi del combinato disposto degli art. 580 e 594 c.c. (Omissis)

Il Foro Italiano — 2006.

CORTE DI CASSAZIONE; sezione III civile; sentenza 30 giugno 2005, n. 13954; Pres. Vittoria, Est. Preden, P.M.

Uccella (conci, conf.); Ente siciliano per la promozione in

dustriale - Espi (Avv. Galasso) c. D'Ali Staiti (Avv. Ciccot

Tl). Conferma App. Palermo 20 luglio 2001.

Contratto in genere, atto e negozio giuridico — Perizia con

trattuale — Impugnazione — Presupposti (Cod. civ., art.

1349).

La perizia contrattuale può essere impugnata solo nel caso di

errore, dolo o violenza e non anche di manifesta iniquità. ( 1 )

Svolgimento del processo. — Con atto notificato il 18 feb

braio 1987, l'Ente siciliano per la promozione industriale (Espi) conveniva davanti al Tribunale di Trapani Antonio D'Ali Staiti

ed esponeva quanto segue: — con lettera del 31 ottobre 1978 il convenuto aveva propo

sto l'acquisto dell'intera partecipazione dell'Ente alla s.p.a. Sies, allora in liquidazione, costituita da 225.600 azioni del va

lore nominale di lire 165 ciascuna, pari a complessive lire

37.224.000; — nella lettera si precisava che: «si procederà alla determi

nazione del valore reale delle azioni con riferimento alla situa

zione patrimoniale del bilancio al 31 dicembre 1977 mediante

rivalutazione dei cespiti rivalutabili; sarà corrisposto all'ente

l'eventuale plusvalore che dovesse risultare da detta rivaluta

zione; la determinazione del valore reale delle azioni sarà ef

fettuata congiuntamente da un tecnico da voi designato e da uno

di mia fiducia; ove non si pervenisse a conclusioni convergenti saranno presi ulteriori accordi tra voi e me per la nomina di un

terzo esperto; in difetto si farà ricorso alla nomina di un tecnico

nominato dal presidente del Tribunale di Trapani»; — con lettera del 14 dicembre 1978 l'ente aveva comunicato

di accettare la proposta e le modalità di determinazione dell'e

ventuale plusvalore delle azioni; — il trasferimento delle azioni era avvenuto con atto del 26

aprile 1979, autenticato da notaio; — non avendo gli esperti designati dalle parti raggiunto l'ac

cordo, neppure sulla nomina del terzo esperto, l'ente aveva a

dìto il presidente del tribunale, che aveva designato un terzo

esperto; — il collegio dei tre esperti, con nota del 13 maggio 1986,

aveva trasmesso la relazione di stima delle azioni, nella quale il

valore delle azioni era stato determinato in lire 98.000.000;

(1) Con la sentenza in epigrafe la Suprema corte torna a pronunciarsi sul sistema delle impugnazioni esperibili nei confronti dell'arbitraggio e della perizia contrattuale, ribadendo che l'arbitro-perito (a differenza di quanto accade nell'arbitraggio) non è in alcun modo chiamato a

compiere valutazioni ispirate alla ricerca dell'equilibrio economico tra

prestazioni contrapposte, secondo un criterio di equità mercantile, ma deve attenersi ai criteri tecnico-scientifici propri della scienza, dell'ar

te, della tecnica o della disciplina nel cui ambito si inscrive la constata

zione, l'accertamento o la valutazione di cui viene investito. In senso

conforme, v. Cass. 26 aprile 2002, n. 6087, Foro it., Rep. 2003, voce

Arbitrato, n. 90, e Foro pad., 2002, I, 498; 29 ottobre 1999, n. 12155, Foro it.. Rep. 1999, voce cit., n. 89.

Sulla distinzione tra perizia contrattuale e arbitraggio, v. altresì Cass. 24 maggio 2004, n. 9996, id.. Rep. 2004, voce cit., n. 116.

Per la dottrina, v., orientativamente, D. Giacobbe, Alcune questioni in tema di arbitrato irrituale e di perizia contrattuale, in Giust. civ., 2000. I, 479; F. Criscuolo, Arbitraggio e perizia contrattuale, voce dell' Enciclopedia de! diritto, Milano, 2000, aggiornamento IV, 60; S.

Nardelli, Patto di perìzia contrattuale ed eccezione di arbitrato, in

Giur. it., 1994, I, 2, 1187; G. Zuddas, L'arbitraggio, Napoli. 1992;

M.C. Dalbasco, L'arbitraggio, in Riv. dir. civ., 1987, II, 657.

L'autonomia riconosciuta alla perizia contrattuale rispetto all'arbi

traggio comporta l'esclusione della tutela di cui all'art. 1349 c.c. (che costituisce rimedio circoscritto al solo arbitraggio, in quanto connotato

da un'ampia discrezionalità). In altre parole, la determinazione del pe rito-arbitratore— non potendo, per sua intrinseca natura, essere equa o

iniqua, ma soltanto esatta o inesatta secondo i parametri tecnici appli cati — può essere impugnata solo sulla scorta delle regole generali che

determinano le cause di invalidità dei negozi giuridici, ossia «soltanto

nel caso di errore, dolo o violenza» (sul punto, v. Cass. 16 marzo 2005, n. 5678, Foro it., Mass., 840; 21 maggio 1999, n. 4954, id., Rep. 2001, voce cit., n. 102; 28 ottobre 1998, n. f0741, id., 1999, I, 490; Pret. Na

poli 1 1 luglio 1997. id., Rep. 1998, voce Contratto in genere, n. 288. e

Assicurazioni, 1998, II, 2, 86).

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