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sezione I civile; sentenza 18 febbraio 1999, n. 1348; Pres. Cantillo, Est. Altieri, P.M. MorozzoDella Rocca (concl. conf.); Soc. Buscone (Avv. De Petris, De Florio) c. Min. finanze. Cassa Comm.trib. reg. Lombardia 10 febbraio 1997Source: Il Foro Italiano, Vol. 123, No. 5 (MAGGIO 2000), pp. 1685/1686-1689/1690Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23194773 .
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
tratto collettivo aziendale, ritenendo che quest'ultimo non è la
somma di contratti individuali conclusi tra il datore di lavoro
e i lavoratori, ma un atto di autonomia generale che, concer
nendo una collettività di lavoratori indistintamente considerati
e soggettivamente non identificati col contratto stesso, se non
attraverso il loro inserimento nell'organizzazione aziendale, rea
lizza una uniforme disciplina nell'interesse collettivo di costoro.
Che l'accordo stipulato dal datore di lavoro con la pluralità dei propri dipendenti, impegnati singolarmente senza la parteci
pazione di alcun rappresentante sindacale, come avvenuto nella
specie, non ha natura di contratto collettivo aziendale, ma di
contratto individuale di lavoro, ancorché plurisoggettivo o plu
rilaterale.
Il tribunale ha, quindi, dato applicazione all'art. 36 Cost.,
applicando come parametro il contratto collettivo del settore.
Così provvedendo, il tribunale si è attenuto ad esatti principi di diritto.
Il contratto di lavoro stipulato non per il tramite delle orga
nizzazioni sindacali, ma direttamente dalla collettività dei lavo
ratori, da un lato, e l'azienda, dall'altro, assume la connotazio
ne del contratto plurimo, cioè del contratto assunto con la tota
lità dei lavoratori, considerati uno per uno. È dunque, la somma
di contratti individuali identici. Il contratto di lavoro, anche nella forma del contratto pluri
mo, per quanto attiene alla parte economica, non può violare
l'art. 36 Cost.
Per stabilire se sussista la suddetta violazione, è principio con
solidato che debba farsi riferimento, quale parametro, al con
tratto collettivo di settore.
Il tribunale, dunque, attenendosi ai suddetti principi, ha ret
tamente giudicato. Il motivo va, dunque, rigettato. Col secondo motivo si adduce la violazione e falsa applica
zione degli art. 2099 e 2702 c.c., in relazione all'art. 36 Cost,
e all'art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c. Si afferma che la retribuzione così come determinata con la
contrattazione aziendale doveva presumersi adeguata. Che l'attrice doveva provare l'inadeguatezza della retribuzio
ne, che era stata ritenuta congrua e accettata come tale da tutte
le lavoratrici.
Il motivo è infondato.
Premesso che non sussisteva, nel caso di specie, un contratto
aziendale, non essendo tale il contratto plurimo stipulato diret
tamente dai lavoratori, non per il tramite delle organizzazioni
sindacali, la lavoratrice, come si è detto, ha provato l'inadegua tezza della paga percepita ex art. 36 Cost., attraverso il raffron
to con le retribuzioni previste dal contratto collettivo del settore.
Pertanto, è stata fornita adeguata prova dell'affermata ina
deguatezza. Col terzo motivo si assume la violazione e falsa applicazione
degli art. 2697 e 2733 c.c. in relazione all'art. 360, nn. 3 e 5,
c.p.c.; omessa ed insufficiente motivazione su punto decisivo
della controversia.
Si afferma il difetto di prova della pretesa azionata. Ciò per
ché la stessa ricorrente, in sede di interrogatorio, aveva dichia
rato: «per due o tre mesi annui non si lavorava per mancanza
di commesse e di materie prime». Che i testi hanno riferito solo
su una parte del periodo lavorativo della Zanghì, dal 1978 al
1982; che il lavoro era espletato solo cinque giorni alla settima
na, per otto ore giornaliere, con cali di orario e addirittura pe
riodi non lavorati per mancato arrivo delle materie prime e ca
renza di commesse, mentre le mansioni dell'attrice non erano
di sarta magliaia, ma di manovale sarta. Che era stato versato
il t.f.r. Che, circa la differenza retributiva per il periodo
1976-1981, essa era stata percepita per il tramite dell'ispettorato
del lavoro di Messina in lire 1.926.947.
Il motivo è infondato.
In parte esso consiste in una richiesta del riesame del fatto,
non consentita in questa sede. In parte nella prospettazione di
censure non condivisibili. Per quanto attiene ai periodi non la
vorati, neppure la ricorrente afferma che durante gli stessi la
lavoratrice non fosse, comunque, a disposizione della datrice
di lavoro e che, quindi, ne risultasse sospeso l'obbligo della re
tribuzione.
Il Foro Italiano — 2000.
Per quanto attiene alla qualifica, essa è stata accertata dal
tribunale attraverso la prova testimoniale e dalla ricorrente non
sono state riportate prove in senso contrario.
Infine, per quanto attiene al t.f.r. e alla differenza retributi
va, la doglianza è del tutto generica, perché non specifica se
l'asserito relativo versamento non è stato tenuto presente nella
c.t.u. di primo grado o se i relativi ammontari, semplicemente, non sono stati ritenuti adeguati.
Il motivo va, quindi, rigettato. Col quarto motivo si lamenta la violazione e falsa applicazio
ne degli art. 61 ss. c.p.c., in relazione all'art. 360, n. 3, c.p.c. Insufficiente e/o contraddittoria motivazione, anche per travi
samento dei fatti sui punti decisivi della controversia: art. 360,
n. 5, c.p.c. Si ritorna sulla non spettanza della qualifica di sarta magliaia.
Si ripete che la Zanghì non aveva lavorato per tutti i periodi indicati. Che i giudici di merito avevano seguito acriticamente
la c.t.u.
Il motivo è infondato.
Il tribunale ha accertato, attraverso le deposizioni di Salvato
re Gregoli e Angelina Miccica che le mansioni svolte dall'attrice
erano quelle di sarta magliaia. La ricorrente, per dimostrare l'asserita erroneità della moti
vazione, doveva riportare nel ricorso per cassazione la prova
che sosterrebbe il suo assunto.
A tanto non ha provveduto, limitandosi ad affermazioni apo dittiche.
Per quanto attiene ai periodi non lavorati, si è già detto che
è mancata ogni affermazione in ordine alla circostanza che, du
rante gli stessi, le lavoratrici non furono, comunque, a disposi
zione dell'impresa. Infine, in attinenza alla c.t.u., manca una
specifica e non generica contestazione delle argomentazioni a
base della stessa.
Il ricorso va, dunque, rigettato.
CORTE DI CASSAZIONE; sezione I civile; sentenza 18 feb
braio 1999, n. 1348; Pres. Cantillo, Est. Altieri, P.M. Mo
rozzo Della Rocca (conci, conf.); Soc. Buscone (Avv. De
Petris, De Florio) c. Min. finanze. Cassa Comm. trib. reg. Lombardia 10 febbraio 1997.
Valore aggiunto (imposta sul) — Rivalsa — Imposta erronea
mente addebitata — Detrazione (D.p.r. 26 ottobre 1972 n.
633, istituzione e disciplina dell'imposta sul valore aggiunto, art. 19).
L'imposta sul valore aggiunto addebitata in rivalsa può essere
detratta dal cessionario che ha ricevuto fatture per beni ac
quisiti nell'esercizio d'impresa, nonostante l'erroneo assogget tamento ad imposta dell'operazione da parte del cedente. (1)
(1) Analogamente, Cass. 23 giugno 1992, n. 7689, Foro it., Rep. 1992, voce Valore aggiunto (imposta), n. 215, per la quale ben può formare
oggetto di detrazione, ed eventualmente di rimborso, l'Iva che sia stata
erroneamente addebitata a titolo di rivalsa su operazioni escluse dal
campo di applicazione del tributo. Sostanzialmente conformi, nella giu
risprudenza tributaria, Comm. trib. centrale 19 marzo 1998, n. 1537,
id., Rep. 1998, voce cit., n. 363; 22 dicembre 1997, n. 6446, ibid., n. 364; 11 ottobre 1995, n. 3217, id., Rep. 1996, voce cit., n. 267;
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1687 PARTE PRIMA 1688
Svolgimento del processo. — La guardia di finanza di Mila
no redigeva nei confronti della Buscone s.p.a., in data 20 mar
zo 1988, un processo verbale di constatazione in relazione al
l'acquisto di beni strumentali e merci, con fatture della F.C.F. - Fur Coat Factory Italia s.r.l. Per tali operazioni veniva redat
to altro verbale di constatazione nei confronti della venditrice,
per aver dissimulato una cessione di azienda con vendita di sin
goli beni. I verbalizzanti precisavano in atti che avrebbero inviato di
stinti rapporti all'ufficio Iva e all'ufficio del registro, affinché
venisse concordemente stabilito, ai fini di evitare una duplica zione d'imposta, se le operazioni dovessero o non qualificarsi come cessione di azienda.
I predetti uffici emettevano invece, rispettivamente, un avvi
so di accertamento Iva e un avviso di liquidazione di imposta di registro.
La Buscone s.p.a. impugnava tali atti con distinti ricorsi di
nanzi alla Commissione tributaria di I grado di Milano e si di
chiarava disposta a versare l'imposta dovuta, a condizione che
venisse stabilito se l'operazione costituisse o meno una cessione
di azienda e fosse, quindi, soggetta alternativamente ad imposta di registro o ad Iva.
La commissione adita col ricorso avverso l'avviso di liquida zione emesso dall'ufficio del registro statuiva che gli atti erano
Comm. trib. I grado Catania 26 marzo 1990, id., Rep. 1990, voce cit., n. 148; Comm. trib. II grado Catania 13 giugno 1988, id., Rep. 1988, voce cit., n. 156.
In dottrina, la tesi espressa in massima è condivisa da F. Tesauro, Sulla detraibilità dell'Iva relativa ad acquisti non soggetti ad imposta (e sulla applicabilità dell'art. 2033 c.c. net rapporto cedente-cessionario), in Giur. it., 1996, III, 2, 84; G. Cocco, Fattura nel diritto tributario, voce del Digesto comm., Torino, 1991, VI, 9; L. Carpentieri, È de traibile l'Iva non dovuta?, in Ross, trib., 1994, 163; N. Forte, Sulla detraibilità dell'imposta indicata in più in fattura, in Fisco, 1988, 20; R. Lupi, Imposta sul valore aggiunto, voce dell'Enciclopedia giuridica Treccani, Roma, 1989, XVI, 19; G. Lo Verso, Cessione di azienda assoggettata ad Iva anziché ad imposta di registro - Conseguenze, in
Fisco, 1989, 5270; S.M. Messina, Note in tema di rimborso e risarci mento dei danni per erronea applicazione dell'Iva, in Riv. dir. trib., 1991, I, 944; S. La Rosa, A proposito della pretesa indetraibilità dell'I va non dovuta, in Fisco, 1990, 4658; Id., L'erronea applicazione dell'I va, tra le norme e il dogma della «condictio indebiti», in Riv. dir. trib., 1999, II, 194; L. Rosa, Variazioni in diminuzione e limiti alla richiesta di rimborso dell'Iva erroneamente addebitata, id., 1993, II, 447; V. De Luca, Detraibile l'Iva addebitata in rivalsa nonostante l'errore del cedente nell'addebito dell'imposta, in Fisco, 1999, 6175; P. Centore, Limiti alia detrazione dell'Iva non dovuta, in Riv. giur. trib., 1999, 659; S. Di Gregorio Natoli, È detraibile da parte del concessionario l'Iva o la maggiore Iva indebitamente fatturata (cessione di azienda, eccetera), in Fisco, 1999, 13957; L. Lodi, Sulla detraibilità dell'Iva er roneamente addebitata, in Dir. e pratica trib., 1999, II, 1061.
Lo stesso ministero delle finanze ha ammesso, in un caso di Iva ap plicata con aliquota superiore a quella dovuta, la possibilità di portare in detrazione l'imposta erroneamente addebitata; v. min. fin. ris. 5 gen naio 1982, n. 334298, id., 1982, I, 571.
Contra, Cass. 10 luglio 1993, n. 7602, Foro it., Rep. 1993, voce cit., n. 256, ad avviso della quale l'Iva assolta, per effetto della rivalsa, da parte di un soggetto che non vi era tenuto trattandosi di operazione estranea all'ambito di applicazione dell'imposta non può essere recupe rata attraverso la detrazione nei confronti dell'amministrazione, ma me diante azione esercitata nei confronti del cedente; più di recente, nello stesso senso, Cass. 10 giugno 1998, n. 5733, id., Rep. 1998, voce cit., n. 350, e Riv. giur. trib., 1998, 1064, con nota di Comelli, Profili sostanziali e processuali dell'erroneo assoggettamento all'Iva di un'ope razione esclusa; questo secondo orientamento è condiviso da Comm. trib. centrale 14 ottobre 1998, n. 4961, Comm. trib., 1998, I, 844; 7 marzo 1995, n. 901, Foro it., Rep. 1997, voce cit., n. 358; 5 ottobre 1992, n. 5191, id., Rep. 1993, voce cit., n. 224 (in motivazione); min. fin. ris. 11 ottobre 1985, n. 355550, Fisco, 1985, 5168; 7 dicembre 1983, n. 343376, id., 1984, 927; nonché, in dottrina, da G. Fransoni, L'eser cizio del c.d. diritto alla detrazione dell'Iva applicata in carenza di pre supposto, in Riv. dir. fin., 1994, II, 29.
V. anche, per i profili di diritto comunitario, Giorgi, L'imposta sul valore aggiunto erroneamente indicata in fattura (nota a Corte giust. 17 settembre 1997, causa C-141/96, Finanzamt Osnabriik-Land c. Lan
ghorst, in Foro it., Rep. 1998, voce Unione europea, n. 1023), in Rass. trib., 1998, 454.
Il Foro Italiano — 2000.
da qualificarsi come cessione di azienda, ed erano, quindi, da
ritenersi soggetti ad imposta di registro. Tale decisione diventa
va definitiva, e la Buscone, avvalendosi del condono, pagava
l'imposta dovuta.
Nel frattempo, la stessa commissione di primo grado, chia
mata a giudicare sull'avviso di accertamento emesso dall'ufficio
Iva, accoglieva il ricorso della contribuente. L'ufficio ricorreva
alla commissione regionale Lombardia, sostenendo che, pur con
siderando le operazioni come cessione di azienda, la Buscone
aveva esposto l'Iva a credito, a fronte di fatture emesse dalla
venditrice. La società contribuente svolgeva appello incidentale.
Con sentenza 11 dicembre 1996 - 10 febbraio 1997 la com
missione regionale, in accoglimento dell'appello dell'ufficio Iva, confermava l'accertamento.
Osservava la commissione che, ferma restando la qualifica zione delle operazioni come cessione di azienda, e pertanto sog
gette a imposta di registro, l'oggetto del giudizio era la corret
tezza della contabilizzazione a credito dell'Iva da parte della
Buscone. Tale contabilizzazione — anche se effettuata su ope razioni non soggette ad Iva — aveva, comunque, comportato un'indebita detrazione e consentiva perciò all'ufficio la necessa
ria rettifica; quanto alla proposta di conciliazione avanzata dal
contribuente, la stessa non aveva alcuna efficacia in quanto non
era stato effettuato alcun pagamento.
Avverso tale sentenza la Buscone ha proposto ricorso per cas
sazione, sulla base di due mezzi di annullamento.
L'amministrazione intimata non ha svolto attività difensiva.
I motivi di ricorso. — La ricorrente premette che, in data
8 novembre 1996, aveva depositato una memoria con cui chie
deva che fosse estinto il contesto per aver accettato una propo sta di conciliazione. L'importo offerto non veniva pagato, per ché si riteneva necessario l'avallo di una delle due commissioni
tributarie, dinanzi alle quali pendevano cause per il rapporto in questione.
Successivamente, con decisione del 17 marzo 1992, la Com
missione tributaria di I grado di Milano aveva accolto il ricorso
presentato dalla venditrice, F.C.F. Italia, dichiarando l'Iva non
dovuta. Contro tale decisione l'ufficio Iva aveva proposto ap
pello, deducendo che, trattandosi di cessione di azienda, l'ac
quirente Buscone non era legittimata a detrarre l'Iva. L'appello veniva notificato alla Buscone (anziché alla F.C.F.), per cui la
prima presentava appello incidentale, chiedendo che venisse ri
conosciuto un credito d'imposta per pari importo a favore della
F.C.F. A sostegno di tale tesi la Buscone presentava la lettera del
13 luglio 1992, inviata dallo stesso ufficio Iva alla F.C.F., con
la quale si comunicava che, essendo l'atto soggetto ad imposta di registro, erano venuti meno i presupposti per mantenere la
fideiussione bancaria concessa a garanzia dei crediti ex art. 60
d.p.r. 633/72.
II presidente della commissione regionale, all'udienza del 13
marzo 1996, dichiarava estinto il giudizio, ai sensi dell'art. 20
bis, 9° comma, d.p.r. 636/72.
Successivamente, l'ufficio Iva depositava una lettera diretta
alla commissione regionale, con cui dichiarava di opporsi al
l'ordinanza di estinzione in quanto non sarebbe stato effettuato
il versamento dell'importo conciliato. La Buscone, a questo pun
to, depositava memoria, con cui chiedeva altra discussione ora
le e si dichiarava pronta a pagare l'importo conciliato, purché tale versamento venisse convalidato con apposito verbale da una
commissione tributaria.
Col primo motivo, denunciando falsa applicazione degli art.
17, 18 e 19 d.p.r. 26 ottobre 1972 n. 633, in relazione all'art.
360, n. 3, c.p.c. la ricorrente deduce: — l'alternatività tra Iva ed imposta di registro comporta che,
una volta deciso definitivamente che era dovuta la seconda, non
può pretendersi la prima; — in esecuzione della prima decisione, la società aveva prov
veduto al versamento dell'imposta di registro. Le fatture emesse
dalla venditrice dovevano, pertanto, considerarsi nulle; — l'importo che si pretende dalla Buscone a titolo di indebi
ta detrazione dovrebbe essere compensato con quanto è ricono
sciuto alla venditrice come credito d'imposta, ed è pertanto ille
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
gittimo pretendere il versamento dell'una e negare il credito, di pari importo, all'altra.
Col secondo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa
applicazione dell'art. 8 d.leg. 31 dicembre 1992 n. 546, nonché
erronea e contraddittoria motivazione, ai sensi dell'art. 360, nn.
3 e 5, c.p.c.
Secondo la ricorrente, la motivazione della sentenza impu
gnata sarebbe contraddittoria, avendo la stessa accolto il ricor
so dell'ufficio Iva e, allo stesso tempo, ridotto al minimo le
pene pecuniarie.
Inoltre, la Buscone, che aveva regolarmente pagato l'Iva sulle
fatture emesse erroneamente dalla venditrice, si era dichiarata
disposta a versare detta Iva (salvo diritto di pari accredito nei
confronti della stessa venditrice), ma non poteva esporsi a pa
gare senza avere una preventiva conferma.
Comunque, nessuna sanzione era dovuta, in forza dell'art.
8 d.leg. 546/92. Il ricorrente conclude, pertanto:
in via principale: per la cassazione della decisione, con pro nuncia nel merito di nullità delle fatture emesse;
in subordine: perché, ove non ritenuto spettante il diritto di
rivalsa, sia riconosciuto il diritto al credito d'imposta a favore
della venditrice, con eventuale compensazione di tali operazioni; in ulteriore subordine: che sia consentito alla ricorrente di
poter pagare quanto conciliato con l'ufficio Iva di Milano con
la proposta di conciliazione del 4 maggio 1995.
Motivi della decisione. — Le doglianze della ricorrente, nella
parte in cui tendono ad ottenere una declaratoria di illegittimità
dell'accertamento, meritano accoglimento, anche se per ragioni
giuridiche in parte diverse da quelle svolte nel ricorso. Va osser
vato per inciso che le sentenze di merito non contengono alcuna
motivazione in diritto a sostegno della decisione avente ad og
getto la legittimità della detrazione operata dalla società contri
buente.
È pacifico in causa che la F.C.F. ebbe ad emettere fatture
per cessioni di beni e addebitò l'Iva, a titolo di rivalsa, alla
società cessionaria. È altrettanto pacifico che la prima società
effettuò il pagamento dell'Iva dovuta.
Orbene, da tali premesse conseguiva il diritto, per la società
cessionaria, di registrare a credito nella dichiarazione l'Iva ad
essa addebitata a titolo di rivalsa.
Come la giurisprudenza di questa Suprema corte ha già affer
mato (sez. I 23 giugno 1992, n. 7689, Foro it., Rep. 1992, voce
Valore aggiunto (imposta), n. 215) l'Iva erroneamente addebi
tata in rivalsa può essere detratta, ai fini della determinazione
dell'eccedenza di cui all'art. 30, 2° comma, d.p.r. 26 ottobre
1972 n. 633, in quanto l'art. 19 stesso decreto ammette in detra
zione l'ammontare dell'imposta assolta o, comunque, dovuta
dal contribuente o a lui addebitata a titolo di rivalsa, senza
che influiscano la non assoggettabilità ad Iva dell'operazione, o gli errori commessi (dal cedente) nell'addebito dell'imposta.
Tale interpretazione, basata sull'interpretazione letterale del
l'art. 19 d.p.r. 633/72, è stata più volte condivisa dalla stessa
amministrazione finanziaria.
Nella risoluzione del 30 ottobre 1973 (prot. n. 361390) si è
ritenuto che l'acquirente, il quale ha ricevuto fatture per beni
acquistati nell'esercizio dell'impresa, «ha legittimamente eserci
tato il diritto ad operare le detrazioni dell'Iva da lui assolta
in via di rivalsa», pur se nella specie si sia realizzata una cessio
ne di azienda.
Nella risoluzione ministeriale del 28 gennaio 1986 (prot. n.
406888) si riafferma il diritto del cessionario, il quale abbia ri
cevuto fatture per beni o servizi considerati come operazioni
non imponibili, a detrarre l'Iva assolta in via di rivalsa.
In definitiva, perché possa parlarsi di indebita detrazione, di
cui all'art. 43, 2° comma, d.p.r. 633/72, è necessario l'esercizio
fraudolento o quanto meno illegittimo di un insussistente dirit
to alla detrazione (operazioni inesistenti, non inerenza dell'ac
quisto all'attività d'impresa, divieto normativo per l'ammissio
ne della detrazione stessa).
Da quanto sopra consegue l'annullamento con rinvio della
sentenza impugnata. Il descritto errore di diritto, infatti, costi
tuisce il fondamento della decisione, e deve ritenersi che i moti
vi di ricorso ne contengano, quanto meno implicitamente, una
denuncia.
Il Foro Italiano — 2000.
Stante la natura radicale del vizio, la rilevazione dello stesso
preclude l'esame delle ulteriori censure.
Sarà, pertanto, compito di altra sezione della commissione
regionale della Lombardia verificare l'esistenza delle ulteriori
condizioni per il diritto della ricorrente alla detrazione (fra cui
la mancata presentazione di istanza di rimborso da parte del
cedente) e decidere sulla legittimità dell'accertamento e dell'ap
plicazione delle sanzioni, oltre che sulle spese del giudizio di
cassazione.
I giudici di rinvio si uniformeranno al seguente principio di
diritto: «l'imposta sul valore aggiunto addebitata in rivalsa può essere detratta dal cessionario che ha ricevuto fatture per beni
acquisiti nell'esercizio d'impresa, nonostante l'erroneo assogget tamento ad imposta dell'operazione da parte del cedente».
CORTE D'APPELLO DI ROMA; decreto 16 novembre 1999;
Pres. Lo Turco, Rei. Bernabai; Soc. Pubbli tecnica.
CORTE D'APPELLO DI ROMA;
Società — Società per azioni — Assemblea — Mancato deposi
to preventivo dei titoli azionari — Deliberazione — Validità — Omologazione (Cod. civ., art. 2366, 2370, 2377; 1. 29 di
cembre 1962 n. 1745, istituzione di una ritenuta d'acconto
o di imposta sugli utili distribuiti dalle società e modificazioni
della disciplina della nominatività obbligatoria dei titoli azio
nari, art. 4).
È omologabile la deliberazione assembleare adottata in assenza
del preventivo deposito dei titoli azionari presso la sede socia
le, atteso che tale deposito non è requisito di esistenza né
di validità della deliberazione medesima. (1)
(1) La diffusa motivazione del provvedimento in rassegna sottopone ad un'articolata revisione critica la tesi secondo cui il mancato deposito delle azioni presso la sede sociale comporterebbe l'inesistenza radicale
della deliberazione adottata con il voto determinante del socio il cui
intervento in assemblea sia stato, per tale motivo, viziato: per tale pre valente orientamento di giurisprudenza, v. anche l'oramai risalente Cass.
8 ottobre 1979, n. 5197, Foro it., 1980, I, 1051, ove, contrariamente
a quanto ampiamente ritenuto nel decreto in epigrafe, si osserva che
«sarebbe errato voler attribuire finalità puramente fiscale» alla 1. n.
1745 del 1962; nella giurisprudenza di merito, v. Trib. Milano 21 set
tembre 1989, id., Rep. 1989, voce Società, n. 411, e Società, 1989, 1298, con nota di Donnini; App. Roma 14 marzo 1988, Foro it., 1989, I,
878, con nota di richiami; adde, Trib. Milano 8 febbraio 1988, id.,
Rep. 1988, voce cit., n. 378, e Società, 1988, 821, con nota di Ambrosi
no propende invece per la tesi della nullità, Trib. Verona 1° marzo
1990, Foro it., Rep. 1990, voce cit., n. 466, e Società, 1990, 1085,
che considera non omologabile la delibera adottata in mancanza del
previo deposito dei titoli, ancorché questi non fossero stati ancora emessi.
La portata inderogabile della disciplina del deposito delle azioni, in
quanto dettata a tutela di interessi pubblici, è enfatizzata da App. Ve
nezia 22 giugno 1995, Foro it., Rep. 1996, voce cit., n. 546, e Oiur.
comm., 1995, II, 857, con nota critica di Angelici, che la considera
applicabile anche in caso di assemblea totalitaria ed anche nell'ipotesi in cui i titoli azionari non siano stati emessi (profilo questo ampiamente trattato dal decreto in epigrafe); nello stesso senso, v. anche Trib. Mila
no 28 gennaio 1982, Foro it., Rep. 1983, voce cit., n. 310, e Giur.
comm., 1983, II, 438, con nota critica di Monti, Inderogabilità del
termine di cinque giorni per il deposito delle azioni e assemblea totalitaria.
In senso contrario su tale punto si esprime la dottrina, che in genere
nega l'applicazione dell'art. 2370 c.c. nel caso di assemblee totalitarie:
cfr. Serra, L'assemblea: procedimento, in Trattato delle società per
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