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sezione I civile; sentenza 18 ottobre 1985, n. 5126; Pres. La Torre, Est. Scanzano, P. M. Leo...

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sezione I civile; sentenza 18 ottobre 1985, n. 5126; Pres. La Torre, Est. Scanzano, P. M. Leo (concl. diff.); Min. finanze (Avv. dello Stato D'Amato) c. Soc. finanziaria tessile Bertrand (Avv. Cogliati Dezza, Costanza, Boggio). Cassa Comm. trib. centrale 18 ottobre 1981, n. 3839 Source: Il Foro Italiano, Vol. 109, No. 3 (MARZO 1986), pp. 717/718-721/722 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23180221 . Accessed: 24/06/2014 23:59 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 185.44.77.38 on Tue, 24 Jun 2014 23:59:09 PM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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sezione I civile; sentenza 18 ottobre 1985, n. 5126; Pres. La Torre, Est. Scanzano, P. M. Leo(concl. diff.); Min. finanze (Avv. dello Stato D'Amato) c. Soc. finanziaria tessile Bertrand (Avv.Cogliati Dezza, Costanza, Boggio). Cassa Comm. trib. centrale 18 ottobre 1981, n. 3839Source: Il Foro Italiano, Vol. 109, No. 3 (MARZO 1986), pp. 717/718-721/722Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23180221 .

Accessed: 24/06/2014 23:59

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

annuale di cui all'art. 327 c.p.c., che, con l'aggiunta della sospen sione per il periodo feriale, applicabile anche per le impugnazio ni, avverso le decisioni della Commissione tributaria centrale, non è rimasto superato per essere stato il provvedimento impugnato depositato il 13 maggio 1982 con notifica del successivo ricorso in data 23 giugno 1983.

Con l'unico motivo del ricorso il ministero delle finanze ha

censurato la decisione di quella Commissione centrale per viola zione degli art. 100 e 106 t.u delle imposte dirette approvato con

d.p.r. 29 gennaio 1958 n. 645 e dell'art. 2082 c.c., nonché per insufficienza di motivazione.

L'amministrazione finanziaria ha lamentato che la commissione

suddetta, nell'escludere l'applicabilità delle citate norme sulla

imponibilità, ai fini dell'imposta di ricchezza mobile, delle plusva lenze realizzate, ha collegato la presenza di intento speculativo delle vendite che le hanno prodotte non alla qualifica di impresa commerciale del contribuente ma alla dimostrazione di una con creta attività imprenditoriale. Ha sostenuto, in particolare, la ricorrente che il fine statutario della cooperativa assoggettata all'imposta era quello di acquisire, attraverso l'acquisto, la costru zione e l'affitto, sedi per le cooperative associate e altri enti e

organizzazioni e che, qualunque fosse la destinazione di quei beni, il fine suddetto era sufficiente ad attribuire alla attività sociale un carattere imprenditoriale.

Il motivo è fondato. Va premesso, per un più approfondito esame della controversia, che il cit. art. 106 t.u. del 1958,

compreso nella sezione relativa alle imprese commerciali, statuiva che le plusvalenze dei beni appartenenti ai soggetti tassabili in base a bilancio concorrevano a formare il reddito imponibile dell'esercizio nel quale erano stati realizzati, distribuiti o iscritti in bilancio, aggiungendo, nel 2° comma, che per i soggetti i quali ai sensi del precedente art. 104 avevano optato per la tassabilità in base a bilancio, la disposizione suddetta si applicava soltanto alle

plusvalenze dei beni relativi all'impresa e alle sopravvenienze conseguite nell'esercizio di essa.

La parziale dichiarazione di illegittimità costituzionale di quel l'articolo, contenuta nella decisione 25 febbraio 1975, n. 32 della Corte costituzionale citata nella motivazione impugnata, ha sol tanto inciso sulla applicabilità di quell'articolo per quanto con cerne la tassabilità delle plusvalenze e sopravvenienze attive di conti tassabili in base a bilancio quando le suddette contribuenti, nonostante tale forma di contabilità, siano « non esercenti attività commerciali », come ben precisato nel dispositivo e nella motiva zione della decisione stessa.

Ciò premesso, non è dubbio, come indicato e riportato anche nella decisione impugnata, che l'« esercizio di una attività im

prenditoriale caratterizzata dal fine di lucro costituisce il fonda mento giuridico della presunzione che per essa le plusvalenze o le sopravvenienze attive vanno comprese nell'accertamento del reddito imponibile ».

Ma, proprio nell'applicazione di tale principio, appare errata la motivazione della definizione data dalla commissione suddetta alla attività della cooperativa quale « meramente gestoria di immobili per fini sociali emergenti dallo statuto societario » per « il fine statutario di acquisire, attraverso acquisto, costruzione o

affitto, immobili per le sedi della federazione provinciale delle

cooperative e delle associazioni di categorie, delle singole coope rative o consorzi associati alle federazioni provinciali, nonché per le colonie marine, montane e case di riposo per attività cultura li e ricreativi dei lavoratori e dei loro familiari ».

Invero, nella decisione impugnata è stato applicato il principio, pure recentemente affermato da questa Suprema corte, in virtù del quale si può avere società senza impresa, con conseguente intassabilità delle plusvalenze di cui al menzionato art. 100 t.u. solo ove l'oggetto della stessa « risieda unicamente nella conser vazione del patrimonio immobiliare (riscossione dei canoni locati vi ed effettuazione delle normali opere di manutenzione dei fabbricati in proprietà), trattandosi, in tal caso, di attività di mero godimento non rientrante in attività di impresa (Cass. 6

aprile 1982, n. 2104, id., Rep. 1982, voce Ricchezza mobile, n.

34). Ma, nella decisione stessa, non è stato considerato che tale situazione statica prevista dallo statuto non può sussistere quando il medesimo preveda un dinamismo imprenditoriale attraverso costruzioni e successivi acquisti, con implicita ammissione di vendite inerenti a trasformazioni e rinnovamenti del patrimonio immobiliare.

D'altra parte, per un più approfondito accertamento sul carat tere di mera conservazione del patrimonio e per la conseguente esclusione dell'attività imprenditoriale, va considerato che questa corte regolatrice ha già precisato che lo scopo di lucro costituente elemento essenziale della nozione di impresa (e quindi dell'attivi

li. Foro Italiano — 1986 — Parte I- 47.

tà imprenditoriale) è individuabile non solo quando l'attività sia rivolta al diretto incremento pecuniario, ma anche quando tenda ad una qualsiasi attività economica, consistente anche in un

risparmio di spese o in altro vantaggio patrimoniale (Cass. 3 dicembre 1981, n. 6395, id., Rep. 1982, voce Impresa, n. 20) e che la finalità mutualistica istituzionale delle cooperative non esclude la tassabilità delle sopravvenienze in quanto il presuppo sto della tassa e la natura commerciale del soggetto non possono escludere che la cooperativa stia esercitando una delle attività commerciali contemplate nell'art. 2195 c.c. (Cass. 27 aprile 1979, n. 2437, id., Rep. 1979, voce Ricchezza mobile, n. 45).

Né è da trascurare che questa corte, pur in materia non

tributaria, ha ravvisato una attività commerciale, quale quella di intermediazione nella raccolta del risparmio, anche quando la stessa non sia indirizzata « a soggetti non indeterminati » (Cass. 6

agosto 1979, n. 4558, id., Rep. 1979, voce Impresa, n. 14), non avendo rilevanza decisiva la indicazione, ampia o no, delle

categorie di soggetti e organizzazioni alle cui sedi era finalizzata l'attività istituzionale della cooperativa assoggettata all'imposta in contestazione.

Conseguentemente, essendo imprenditore ai sensi dell'art. 2082 c.c. colui che esercita una attività economica organizzata ai fini della produzione o dello scambio di beni e servizi, tale è la

cooperativa che la eserciti sia pure per risparmio di spese e senza un lucro distinto dal loro rimborso, onde la decisione impugnata deve essere cassata con rinvio alla Commissione tributaria centra le. Quest'ultima dovrà attenersi, nella nuova pronunzia, sulla base delle ragioni sopra esposte, al principio per il quale quando sia fine statutario di una società, sia pure di carattere cooperativo, non la mera conservazione di un patrimonio immobiliare ma la sua dinamica gestione, anche attraverso incrementi e variazioni e

pur se diretta a realizzare economie a favore di persone fisiche e

giuridiche e organizzazioni varie, più o meno determinate, la

plusvalenza realizzatasi attraverso l'alienazione di un immobile rientra nel reddito imprenditoriale, come tale già tassabile secon do l'art. 106 d.p.r. 645/58. (Omissis)

CORTE DI CASSAZIONE; sezione I civile; sentenza 18 ottobre 1985, n. 5126; Pres. La Torre, Est. Scanzano, P. M. Leo (conci. difT.); Min. finanze (Avv. dello Stato D'Amato) c. Soc. finanziaria tessile Bertrand (Avv. Cogliati Dezza, Costanza, Boggio). Cassa Comm. Irib. centrale 18 ottobre 1981, n. 3839.

Società — Società di persone — Socio d'opera — Recesso —

Liquidazione della quota — Ammissibilità (Cod. civ., art. 2289). Registro (imposta di) — Società di persone — Socio receduto

— Dichiarazione di non aver nulla a pretendere — Imposta graduale — Soggezione (R.d. 30 dicembre 1923 n. 3269, legge del registro, art. 8, 27; ali. A, art. 87 , 88).

Il socio d'opera ha diritto, in caso di scioglimento parziale del rapporto sociale (recesso), alla liquidazione di una quota proporzionata alla sua partecipazione ai guadagni. (1)

Il socio che recede da una società di persone, senza nulla ricevere e dichiarando di non aver nulla a pretendere, è tenuto al pagamento dell'imposta di registro calcolata in modo graduale sul valore della quota che avrebbe dovuto essere liquidata. (2)

(1) Il caso di specie riguardava una ipotesi di recesso, da una società in accomandita semplice, di un socio d'opera, e la Cassazione ha statuito che tale socio, benché non abbia conferito beni, ha comunque diritto alla liquidazione di una quota del patrimonio sociale.

Tale quota, come si è affermato in dottrina, va determinata « in relazio ne a quella parte del patrimonio sociale che eccede il valore dei con ferimenti dei soci capitalisti » (F. Galgano, Le società, Bologna, 1983, 79, nota 3; Cottino, Diritto commerciale, Padova, 1976, I, 476).

Sembra peraltro utile rilevare, da un lato, come sempre in dottrina si sia evidenziato che, ai fini della determinazione del valore dal la quota, spettante al socio d'opera receduto, debba tenersi conto anche del « plusvalore. . . rappresentato dall'avviamento che è stato prodotto anche dal datore di lavoro del socio d'opera » (Galgano, op. loc. cit.) e dall'altro come la sentenza in epigrafe abbia precisato che l'entità della quota va determinata in proporzione alla partecipazione ai guadagni.

(2) La Cassazione conferma l'orientamento, peraltro consolidato, se condo cui sotto il vigore della previgente legge di registro il recesso del socio, seguito dall'attribuzione di beni sociali, nei limiti della c.d. quota di diritto, è soggetta all'imposta graduale prevista dall'art. 88 della tariffa (in senso conforme sent. 29 maggio 1973, n. 1595, Foro it., Rep. 1973, voce Registro, n. 389; 22 dicembre 1981, n. 6766, id., Rep. 1981, voce cit., n. 154).

Il caso in esame appare interessante in quanto la corte ha esaminato

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PARTE PRIMA

Svolgimento del processo. — Con atto per notaio Caroli

registrato a Biella in data 8 aprile 1967 Fedi Tealdo dichiarava di

recedere dalla soc. Cofisa (della quale era socio d'opera ed

accomandatario) e di non avere nulla da pretendere in dipenden za di ciò né dalla società né dall'altro socio.

L'ufficio del registro, ravvisando in tale atto una cessione di

quota sociale (pari nella specie al 50 %) e stimando in lire un

miliardo l'attivo della società, determinava in lire 500.000.000 il

valore della quota del Fedi e la riteneva soggetta ad imposta

proporzionale. Su ricorso della Cofisa, la commissione tributaria di

I grado riduceva il valore predetto a lire 1.500.000; ma la

commissione di II grado, con decisione 2 maggio 1978, riformava

tale pronunzia ed annullava l'accertamento.

L'ufficio proponeva ricorso alla Commissione tributaria centrale, che lo rigettava con la decisione qui impugnata, considerando che

il Fedi all'atto del recesso aveva dichiarato di nulla pretendere in

dipendenza del rapporto sociale e che lo stesso, d'altronde quale socio d'opera, nulla aveva conferito all'atto della costituzione della

società non poteva quindi ravvisarsi l'ipotesi della cessione di

quota, tanto più che l'ufficio non aveva impugnato l'atto per notaio

Caroli per dimostrare che il rapporto sottostante fosse diverso da

quello dichiarato.

Contro tale decisione l'amministrazione delle finanze ha propo

sto ricorso per cassazione sulla base di un unico motivo. Resiste

con controricorso, illustrato poi con memoria, la s.p.a. finanziaria

tessile Bertrand, quale incorporante della Cofisa - Compagnia filati

sintetici e affini s.a.s.

Motivi della decisione. — L'amministrazione ricorrente denuncia

violazione e falsa applicazione degli art. 8 e 27 r.d. 30 dicembre

1923 n. 3269, dell'art. 87 della tariffa ali. A allo stesso decreto e

dell'art. 2289 c.c. e sostiene che il socio d'opera, pur non

conferendo danaro od altri beni all'atto della costituzione della

società, acquista il diritto non solo agli utili ma anche agli

incrementi patrimoniali, alla cui formazione anch'egli indubbia

mente concorre.

Con riferimento ad essi pertanto deve trovare applicazione

anche nei suoi confronti l'art. 2289 c.c. che riconosce al socio

uscente il diritto ad una somma che rappresenta il valore della

quota; e siccome questa, a seguito della sua liquidazione, va

accrescere l'entità della partecipazione degli altri soci, si verifica il

presupposto della tassazione proporzionale, che è indipendente da

quella fissa che colpisce l'atto di recesso in sé considerato.

Questa conseguenza — conclude la ricorrente — deriva proprio

dal principio enunciato dalla Commissione centrale ma non

applicato, della rilevanza dell'intrinseca natura e degli effetti

dell'atto.

le conseguenze « fiscali » del recesso cui non faccia seguito la liquida

zione della quota, avendo dichiarato il socio receduto « di non aver

nulla a pretendere». L'amministrazione finanziaria aveva ravvisato in tale atto una ces

sione della quota sociale, a favore dei soci superstiti, come tale

soggetta all'imposta proporzionale. Secondo la Cassazione invece — in

linea del resto con quanto sostenuto da Cass. 15 febbraio 1973,

n. 470, id., Rep. 1973, voce cit., n. 390 — l'incremento della

quota dei soci rimasti, pur rappresentando un vantaggio potenzia

le, in realtà non si concreta in un effettivo ed attuale incremento delle

sfere patrimoniali dei singoli soci rimasti giacché, l'incremento

patrimoniale, è di esclusiva spettanza della società. Questa, d'altro

canto, è un soggetto di diritto con un proprio patrimonio ed ha,

quindi, una vita autonoma con tutti i rischi di impresa connessi che

potrebbero pregiudicare le sue attività patrimoniali. Per cui, prima di

una sua liquidazione, non può evidentemente parlarsi di definitivi « incrementi » delle sfere patrimoniali dei singoli soci.

Da un tale assunto la corte ha dedotto che nella specie l'im

posta andava calcolata in modo graduale e non proporzionale. È da rilevare, tuttavia, che nel pervenire alla conclusione su esposta

la corte non ha sciolto il « nodo » relativo all'esatta qualificazione dell'atto posto in essere dal socio receduto (atto abdicativo unila

terale gratuito ovvero quietanza liberatoria). Incidentalmente, ed ai fini di completezza, si rileva come con la

nuova normativa fiscale, introdotta con il d.p.r. 26 ottobre 1972 n.

633, l'operazione di recesso è assoggettata, per il principio dell'alterna tività tra i.v.a. ed imposta di registro, all'imposta fìssa se il socio recedente viene liquidato con l'assegnazione di beni soggetti ad i.v.a.

(suoli edificatori ed unità immobiliari) oppure mediante l'assegnazione di quote sociali o di danaro a titolo di dividendi. L'imposta proporzio nale di registro, con le aliquote proprie dei conferimenti, sarà invece dovuta nel caso in cui il socio recedente sarà liquidato con l'assegna zione di terreni agricoli o comunque non suscettibili di utilizzazione

edificatoria, di aziende o di danaro non a titolo di dividendi (cosi, per tutti, Lanzillotti-Magurno, Il notaio e le imposte indirette, Roma, 1982, 212).

Il Foro Italiano — 1986.

Il ricorso è fondato nei sensi di cui alle considerazioni che

seguono. Al momento della costituzione della società di persone colui che

partecipa in qualità di socio d'opera non conferisce, né si obbliga a conferire beni, ma si impegna ad un apporto di tipo diverso (da indicarsi nell'atto costitutivo, ai sensi dell'art. 2295, n. 7, c.c.), consistente appunto dalla sua attività di lavoro. Egli dunque non

concorre alla formazione del capitale ma concorre pur sempre a

somministrare un mezzo (alla cui possibilità di prestazione è

condizionata la permanenza della qualità di socio: v. art. 2286

c.c.) che, come il capitale, è finalizzato alla realizzazione dell'og

getto sociale, non può allora esser dubbio che risultati positivi

dell'impresa, cosi come sotto il profilo causale sono imputabili anche all'opera da lui prestata, egualmente debbano sortire effetti

a suo favore anche sul piano giuridico ed economico.

Tali effetti, quando i detti risultati vengono destinati alla

remunerazione dei soci in forma di distribuzione di utili, si

concretano appunto nel diritto alla loro percezione, mentre,

quando vengono trattenuti dalla società, in funzione di una più intensa attività d'impresa, determinano un incremento del suo

patrimonio.

Orbene, le stesse ragioni che giustificano il diritto del socio

d'opera alla percezione degli utili sono sufficienti per potersi affermare che spetta al medesimo anche il diritto (esercitabile alle

condizioni e nei tempi dovuti) sul detto incremento. Ciò significa che quando diventano attuali il diritto del socio sul patrimonio netto (con lo scioglimento della società) e il diritto a quella somma di danaro che esprime secondo l'art. 2289 il valore della

quota (all'atto dello scioglimento del rapporto limitatamente ad un

socio), la posizione del socio d'opera assume una consistenza

analoga a quella del socio capitalista, con la sola differenza che a

quest'ultimo, in sede di liquidazione della società ed alle condi

zioni di cui all'art. 2282, spetta anche il rimborso del conferimen

to, cioè una quota del capitale.

Ciò che la Commissione tributaria centrale e la controricorrente

trascurano è proprio la differenza tra capitale e patrimonio della

società. E siccome alla formazione del patrimonio concorrono

anche gli utili non distribiti (i quali, se fossero stati distribuiti,

sarebbe spettati a ciascuno de soci), è evidente che il contenuto

della partecipazione del socio d'opera non può ridursi alla

precezione degli utili distribuiti in costanza del rapporto sociale.

Deve quindi concludersi che quando tale rapporto si scioglie limitatamente al detto socio — come in caso di suo recesso —

anche egli ha diritto, secondo l'art. 2289, alla liquidazione della

quota, proporzionata alla sua partecipazione ai guadagni. E con

ciò rimane disatteso anche il contrario assunto prospettato dalla

controricorrente nella (impropria) forma di ricorso incidentale.

Se tali sono gli effetti giuridici ed economici derivanti nella

specie dal recesso, l'atto relativo deve essere, ai sensi dell'art. 8

r.d. 30 dicembre 1923 n. 3269, corrispondentemente tassato.

A ciò ovviamente non osta né la dichiarazione del Fedi Tealdo

di nulla pretendere dalla società o dall'altro socio, né il fatto che

l'ufficio non abbia impugnato (in forme non meglio chiarite dalla

Commissione tributaria centrale) l'atto di recesso. È evidente

invero: a) che quella dichiarazione, ove non costituisca una

rinuncia o una ricognizione della reale inesistenza di un patrimo nio netto, può essere anche il frutto di una liquidazione di quota

già avvenuta ad assumere quindi anche sostanziale valore di

quietanza; b) che l'accertamento tributario costituisce in sé una

impugnazione dell'atto di recesso, sottoposta poi al sindacato del

competente organo giurisdizionale a seguito della reazione del

contribuente.

La tesi dell'amministrazione non può essere però seguita laddove

pretende che il valore della quota liquidata al socio receduto

debba essere assoggettato all'imposta proporzionale.

Questa corte infatti, con riferimento alla disciplina del r.d. 1923

n. 3269, ha più volte affermato che le assegnazioni fatte al socio

receduto, nei limiti della sua quota di diritto, sono soggette al

trattamento tributario della decisione tra comproprietari e coeredi

e quindi soggette all'imposta graduale (Cass. 22 dicembre 1981, n.

6766, Foro it., Rep. 1981, voce Registro, n. 154; 12 febbraio

1973, n. 470, id., Rep. 1973, voce cit., n. 390; 29 maggio 1973, n.

1595, ibid., n. 389). L'orientamento va confermato, non prospet tandosi in contrario alcuna valida ragione. Tale invero non è

quella che ricollega al recesso un effetto traslativo a favore degli altri soci ravvisante nell'ampliamento della partecipazione dei soci

residui. Al riguardo è sufficiente ricordare che un tale effetto è

stato escluso dalla citata sentenza n. 1595 anche nel caso in cui

l'assegnazione fatta al socio receduto sia inferiore alla quota di

diritto, e che, se è vero che a seguito del recesso la quota dei

soci superstiti si amplia in astratto, rimane identica in concreto

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

perché viene a riferirsi ad una entità patrimoniale corrisponden temente minore, quale quella che risulta dopo l'operazione di

liquidazione prevista dall'art. 2289.

Accogliendosi nei limiti di cui si è detto il ricorso, la contro versia va rinviata per nuovo esame alla Commissione tributaria

centrale, che si uniformerà ai principi dianzi enunciati. (Omissis)

CORTE DI CASSAZIONE; sezione I civile; sentenza 19 settembre

1985, n. 4700; Pres. La Torre, Est. R. Sgroi, P. M. Minetti

{conci, conf.); Massone (Aw. E. Romanelli, Leopizzi) c. Min.

finanze (Avv. dello Stato Braguglia). Conferma App. Genova

24 novembre 1983.

Entrata (imposta sulla) — Contenzioso — Azione giudiziaria —

Previo ricorso gerarchico — Decorso del termine di decadenza — Preclusione (L. 23 aprile 1911 n. 509, che modifica alcune

disposizioni delle leggi relative alle tasse di registro, di bollo e

sulle concessioni governative, art. 33; 1. 7 gennaio 1929 n. 4, norme generali sulla repressione delle violazioni delle leggi finanziarie, art. 55, 56, 58; 1. 19 giugno 1940 n. 762, conversione in legge, con modificazioni, del r.d.l. 9 gennaio 1940 n. 2, che istituisce una imposta generale sull'entrata, art. 51, 52).

Entrata (imposta sulla) — Violazioni e sanzioni — Coobbligati solidali — Ricorso proposto da uno solo dei debitori in solido — Effetti in favore dell'altro condebitore — Esclusione —

Riduzione del debito operata dal creditore — Efficacia nei confronti di tutti i condebitori solidali (Cod. civ., art. 1301; 1. 19 giugno 1940 n. 762, art. 43).

L'azione giudiziaria per l'accertamento negativo dell'obbligazione tributaria in materia di i.g.e. può essere proposta direttamente a seguito dell'ordinanza intendentizia, senza il previo esperi mento del ricorso gerarchico al ministro, ma tale azione deve essere introdotta entro il termine perentorio di sessanta giorni dalla definitività dell'ordinanza per effetto del mancato ricorso

gerarchico, a norma dell'art. 52, 2" comma, l. 19 giugno 1940 n.

762, ovvero di sei mesi, per effetto della sentenza della Corte costituzionale 30 dicembre 1961, n. 79, cos'i come corretta dalla ordinanza 21 novembre 1973, n. 163. (1)

Il contribuente che sia decaduto dal diritto di proporre azione

giudiziaria avverso il provvedimento irrogativo di sanzione pe cuniaria per evasione all'i.g.e., non può proporre opposizio ne avverso l'ingiunzione fiscale notificatagli per l'esecuzio ne di quel provvedimento, salvo che per i vizi formali propri dell'ingiunzione stessa, mentre resta in proposito irrilevante sia

(1) Sulla proponibilità dell'azione giudiziaria ordinaria avverso l'ordi nanza intendentizia, senza la necessità del previo esperimento del ricorso gerarchico al ministro, v. Cass., sez. un., 14 luglio 1981, n. 4582, Foro it., Rep. 1982, voce Entrata (imposta sulla), n. 23; 4 novembre 1980, n. 5913, id., Rep. 1981, voce cit., n. 56; 26 giugno 1979, n. 3565, id., Rep. 1980, voce cit., n. 31; 29 luglio 1974, n. 2291, id., 1975, I, 1209; 10 maggio 1974, n. 1348, id., 1974, 1, 2682, con nota di richiami.

Sulla influenza delle pronunzie della Corte costituzionale relative all'art. 52, 2° comma, 1. 762/40 (sent. 30 dicembre 1961, n. 79, id., 1962, I, 1, e successiva ordinanza di correzione 21 novembre 1973, n. 163, id., 1974, I, 936, con nota di richiami di Turri); in ordine al termine per proporre azione giudiziaria ai sensi della citata norma, v. Cass. 18 gennaio 1979, n. 352, id., Rep. 1979, voce cit., n. 55 (che confermava la valenza del solo termine di sessanta giorni ex art. 52, 2° comma, cit.); 10 gennaio 1975, n. 69, id., Rep. 1975, voce cit., n. 48; 9 gennaio 1975, n. 46, id., 1976, I, 452, con nota di Turri, cui adde sentenze citate nella richiamata nota a Cass. n. 1348/74 (id., 1974, I, 2682).

Sulla inammissibilità dell'azione giudiziaria di accertamento in pen denza del procedimento amministrativo diretto all'accertamento dell'in frazione e prima della emanazione del provvedimento impositivo, v. per l'i.g.e. Cass. 14 luglio 1981, n. 4582, cit.; in generale, con riferimento alla nuova disciplina del contenzioso tributario, Cass., sez. un., 8 marzo 1977, n. 942, id., 1977, 1, 811, con nota di richiami; per le controversie doganali, Cass. 8 marzo 1974, n. 631, id., Rep. 1974, voce Dogana, n. 40; per l'imposizione di ricchezza mobile, Cass. 10 giugno 1968, n. 1766, id., Rep. 1968, voce Tasse in genere, n. 474.

Sull'inapplicabilità alla materia regolata dalle disposizioni dell'art. 52 1. 762/40, coordinate con quelle di cui agli art. 55 ss. 1. 7 gennaio 1924 n. 4, della normativa generale sui ricorsi amministrativi (d.p.r. 24 novembre 1971 n. 1199), v. Trib. Venezia 29 luglio 1976, id., Rep. 1977, voce Entrata (imposta sulla), n. 34; e di quella sul contenzioso tri butario, v. Comm. trib. centrale 21 maggio 1979, n. 1479, id., Rep. 1979, voce cit., n. 56.

11 Foro Italiano — 1986.

la circostanza che tale provvedimento sia stato tempestivamente impugnato da altro debitore in solido, stante la non estensibili tà dei suoi effetti al coobbligato non ricorrente, sia la circo stanza che l'amministrazione finanziaria abbia ingiunto anche

nei confronti del non ricorrente il pagamento dell'importo ridotto, in seguito al parziale accoelimcmto del ricorso nrooosto dall'altro coobbligato. (2)

Motivi della decisione. — Con l'unico motivo il Massone deduce la violazione e falsa applicazione dell'art. 52 r.d.l. 9

gennaio 1940 n. 2, conv. in 1. 19 giugno 1940 n. 762, degli art. 55, 56, 58 1. 7 gennaio 1929 n. 4, delle norme e principi generali in tema di definitività di atti e provvedimenti amministrativi ai fini delle impugnazioni, in relazione all'art. 360, nn. 1, 3 e 5, c.p.c., osservando che già nel giudizio d'appello egli aveva ri levato che l'ordinanza intendentizia aveva fissato in lire 66.395.000 l'ammontare della pena pecuniaria, per cui, secondo l'assunto della sentenza impugnata, il Massone dovrebbe esser tenuto a pagare la suddetta pena e non quella fissata dal ministro in lire 25.000.000. Invece, tale assunto contrastava con la manife stazione espressa dall'amministrazione di considerare valido il decreto del ministro, sia nei confronti della società Pali Frank sia nei confronti dei suoi amministratori, dato che l'ingiunzione fiscale notificata alle parti era fondata sul titolo costituito dal d.m. 20 febbraio 1977 col quale il ministro aveva ridotto la

pena pecuniaria, e ciò per il principio della comunanza passi va. Pertanto era il decreto del ministro l'atto suscettibile di

impugnazione dinanzi al g.o., senza necessità di un previo ri corso amministrativo al ministro, data l'autonomia del procedi mento amministrativo e di quello ordinario.

Il ricorso è infondato. La giurisprudenza richiamata dal ricor rente (Cass., sez. un., 2 marzo 1964, n. 473, Foro it., 1964, I, 1173; 14 luglio 1981, n. 4582, id., Rep. 1982, voce Entrata

(imposta), n. 23) secondo cui la legge del 1940 sull'i.g.e. non contiene alcuna norma che preclude l'azione giudiziaria a chi non abbia esperito la via gerarchica in sede amministrativa (secondo l'art. 52 della stessa legge) non giova al ricorrente. Infatti —

fermo tale principio, di cui è indubbia l'esattezza — l'azione

giudiziaria avverso l'ordinanza dell'intendente, non impugnata con ricorso al ministro, doveva esser proposta nel termine di sessanta

giorni decorrenti dal momento in cui l'ordinanza medesima è diventata definitiva, per mancato tempestivo ricorso entro il termine di trenta giorni al ministro (Cass. 5 maggio 1972, n.

1362, id., Rep. 1973, voce cit., n. 46). In relazione all'epoca della notifica dell'ordinanza di cui è causa (15 novembre 1972) si può anche richiamare quella giurisprudenza (Cass. 15 marzo 1973, n. 740, ibid., n. 45; 9 gennaio 1975, n. 36, id., 1976, I, 452) secondo la quale la pronuncia di incostituzionalità del

(2) Sulla improponibilità della opposizione avverso l'ingiunzione fisca le da parte del contribuente che sia decaduto dal diritto di impugnazione avverso il provvedimento impositivo, salvo che per vizi formali dell'ingiunzione, cfr., oltre che, con specifico riferimento aU'i.g.e., le richiamate Cass. 4 novembre 1980, n. 5913, cit.; 12 maggio 1979, n. 2736, Foro it., Rep. 1979, voce Entrata (imposta sulla), n. 57, anche, in generale per le altre imposte, Cass., sez. un., 20 ottobre 1983, n. 6151, id., 1984, I, 3021, con nota di richiami, cui adde Comm. trib. centrale 18 novembre 1983, n. 3757, id., Rep. 1984, voce Riscossione delle imposte, n. 135; Trib. Roma 21 maggio 1982, id., Rep. 1983, voce cit., n. 166; 10 luglio 1980, n. 4429, id., Rep. 1980, voce cit., n. 152. . . . ̂

Sulla impossibilità di estendere al condebitore solidale gli effetti favorevoli della impugnazione proposta da altro coobbligato, v., oltre alla richiamata Cass. 17 aprile 1973, n. M08, id., Rep. 1974, voce Tributi in genere, n. 265; Comm. trib. I grado Monza 3 dicembre 1981, id., Rep. 1983, voce cit., n. 392; Comm. trib. centrale 4 maggio 1982, n. 2259, id., Rep. 1982, voce cit., n. 596; 26 ottobre 1979, n. 2695, id., Rep. 1980, voce cit., n. 735; Cass. 29 settembre 1976, n. 3184, id., Rep. 1976, voce cit., n. 274; 10 novembre 1973, n. 2970, id., 1974, I, 70, con nota di richiami; cfr. anche M. Comuzio, Comunica bilità ai condebitori di imposta degli effetti dell'opposizione ad ingiunzione o ad accertamento proposta da uno solo di essi, in Riv. legisl. fise., 1983, 9.

Sull'estensione degli effetti estintivi dei pagamenti effettuati da uno dei condebitori in solido nei confronti degli altri condebitori, v. le richiamate Cass. 16 marzo 1979, n. 1572, Foro it., Rep. 1979, voce cit., n. 912; e 23 febbraio 1978, n. 895, id., 1978, I, 846, con nota di M. Gagliardi; in generale, sui limiti di estensione della responsabilità solidale per il pagamento delle pene pecuniarie e soprattasse per evasione dell'i.g.e., v. Cass. 6 maggio 1975, n. 1749, id., 1976, I, 426, con nota di richiami.

Per riferimenti in tema di solidarietà tributaria, cfr. la nota di richia mi id., 1985, I, 1609.

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