Sezione I civile; sentenza 19 agosto 1983, n. 5402; Pres. Mazzacane, Est. Maltese, P. M. Cantagalli(concl. conf.); Grasso (Avv. Grasso) c. Fall. Mistretta. Conferma Trib. Catania 16 aprile 1981Source: Il Foro Italiano, Vol. 106, No. 11 (NOVEMBRE 1983), pp. 2747/2748-2753/2754Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23175425 .
Accessed: 28/06/2014 19:16
Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at .http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp
.JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range ofcontent in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new formsof scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected].
.
Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to IlForo Italiano.
http://www.jstor.org
This content downloaded from 91.220.202.97 on Sat, 28 Jun 2014 19:16:24 PMAll use subject to JSTOR Terms and Conditions
2747 PARTE PRIMA 2748
attenta — lettura della sentenza di divorzio e, quando essa sia stata preceduta da separazione giudiziale, anche della relativa sentenza.
La decisione impugnata va, dunque, cassata e la causa rimessa ad altro giudice il quale — escluso in linea di principio che al
coniuge divorziato spetti l'intera pensione di riversibilità sol per mancanza di concorrenti ad essa — ne determini la misura
(eventualmente anche in misura maggiore rispetto all'assegno di
divorzio) secondo i criteri qui enunciati e, quindi, fornendo, in
ordine alla loro concreta applicazione, adeguata motivazione.
HI
Svolgimento del processo. — Con sentenza 14 luglio 1973, il
Tribunale di Firenze dichiarava cessati gli effetti civili del ma
trimonio concordatario di Franca Burroni e Giorgio Guarnieri.
Passata in giudicato tale pronuncia emessa nella contumacia della
Burroni, il Guarnieri contraeva nuovo matrimonio con Luisa
Guidotti. Dopo la morte del predetto avvenuta il 28 settembre
1977, la pensione di riversibilità veniva attribuita dall'I.n.p.s. alia
vedova Guidotti, ma il primo coniuge (Luisa Burroni) ricorreva al Tribunale di Firenze chiedendo che, ai sensi dell'art. 9 1. n.
898/70 modificato dalla 1. n. 436/78, le venisse attribuita una
quota della pensione e fosse riconosciuto il suo diritto all'assi
stenza mutualistica.
Il tribunale, anche in considerazione del sopravvenuto stato di
bisogno della istante, le riconosceva una quota di pensione nella
misura di un terzo.
Il reclamo, proposto dalla Guidotti avverso detto provvedimen
to, veniva respinto dalla corte d'appello, la quale richiamandosi
alla sent. n. 754/79 della Cassazione (Foro it., 1979, I, 297), riteneva che all'attribuzione della quota di pensione non ostava il
fatto che non fosse stato precedentemente condannato l'ex marito
alla corresponsione di un assegno divorzile.
La Guidotti propone ora ricorso per la cassazione di questa
pronuncia, deducendo due motivi. Resiste la Burroni con contro
ricorso.
Motivi della decisione. — La ricorrente ripropone, nel primo mezzo del ricorso, la tesi secondo cui l'attribuzione di una quota di pensione al coniuge rispetto al quale è stato pronunciato il
divorzio, ai sensi dell'art. 9 1. n. 898/70 modif. dalla 1. n. 436/78,
può essere fatta dal giudice solo se precedentemente era stato
liquidato un assegno divorzile. A fondamento del suo assunto, la ricorrente fa leva su queste
considerazioni: a) la lettera della norma fa riferimento alla
ipotesi in cui sia morto l'obbligato alla somministrazione dell'as
segno, e che tale espressione riguarda chi sia tenuto concretamen
te e attualmente ad una prestazione, non il debitore potenziale;
b) è vero che l'assegno può essere chiesto anche dopo la
pronuncia di divorzio, e successiva è evidentemente anche la
richiesta di revisione, ma ciò è possibile perché si può ancora
fare un esame comparativo delle condizioni delle parti nel
contraddittorio di entrambi i coniugi, mentre mancherebbe un
adeguato contraddittore dopo la morte di uno dei coniugi; c) il
riconoscimento di un diritto del coniuge divorziato ad una quota della pensione di riversibilità determinerebbe una disparità di
trattamento rispetto al coniuge separato con addebito il quale
perde tale diritto.
La tesi trova un riscontro favorevole nella sent. n. 1690/78
(id., 1978, I, 1373) di questa corte — in una prospettiva però anteriore alla 1. modificatrice n. 436/78; essa tuttavia è stata
ritenuta infondata dalle successive pronunce della corte (n.
754/79, cit.; 6396/80, id., Rep. 1980, voce Matrimonio, n. 181;
6045/81, id., 1982, I, 2290; 2858/82, id., Rep. 1982, voce cit., n.
178) — e nella presente causa il Supremo collegio non ravvisa
elementi o argomenti idonei a giustificare un mutamento di
giurisprudenza. Giova partire dal rilievo che fa leva sull'espressione letterale
« obbligato alla somministrazione dell'assegno » come ostativa alla
attribuzione di una quota della pensione quando essa non sia
stata preceduta da una condanna alla corresponsione di un
assegno divorzile. Non sembra che la dizione della norma sia
decisiva al riguardo ove si consideri che in altre disposizioni (cosi in tema di obblighi alimentari, art. 433 c.c.) il legislatore
parla di « obbligati » in senso generale con riferimento ad una
serie di persone, le quali saranno concretamente e attualmente
tenute in seguito a pronuncia che accerti il concorrere di deter minate circostanze. Lo stesso art. 9 1. 898/70 tiene conto degli
assegni che spetterebbero confermando una prospettiva di obbli
ghi non attuali. Diversamente la legge medesima (art. 9 bis) si
esprime («colui al quale è stato riconosciuto il diritto alla
corresponsione periodica di somme di denaro a norma dell'art.
5 ») quando ha inteso condizionare l'attribuzione di un assegno a carico della eredità all'attualità effettiva di una precedente con danna a corrispondere l'assegno divorzile.
Come questa corte ha affermato nella sent. n. 6396 del 1980, la morte dell'obbligato alla somministrazione dell'assegno divorzile, che aveva contratto nuovo matrimonio dopo lo scioglimento del
precedente vincolo, non trasferisce alcun debito sul coniuge superstite, ma comporta soltanto la facoltà per l'ex coniuge di chiedere al tribunale l'attribuzione diretta di una quota della
pensione e degli altri assegni spettanti al medesimo coniuge superstite. Trattasi di un fenomeno giuridico autonomo rispetto all'eventuale precedente attribuzione di un assegno divorzile; autonomia che si manifesta nella diversità dei soggetti, dell'ogget to, dei presupposti, dei criteri di ripartizione, del procedimento. Secondo una autorevole dottrina, l'autonomia si rivelerebbe so
prattutto nella funzione della pensione di riversibilità che, in una visione aderente all'attuale evoluzione dell'ordinamento, sarebbe
quella di apporto alla intera famiglia secondo una impostazione accolta anche dalla sentenza 30 gennaio 1980, n. 6 della Corte costituzionale (id., 1980, I, 876).
A prescindere dall'approfondimento di quest'ultima tesi —
che ha prevalenti profili de iure condendo — è qui sufficiente riaffermare la predetta autonomia nel senso che nella vigente normativa la quota di pensione o di altri assegni attribuibili ai sensi del 2° e del 4° comma dell'art. 9 1. n. 898/70, come
novellato dalla I. n. 436/78 e l'assegno alimentare a carico dell'eredità previsto dall'art. 9 bis costituiscono non strumenti per garantire l'adempimento del precedente assegno di divorzio, né
obblighi che partecipano alla stessa natura di quest'ultimo, ma
nuovi diritti nascenti dopo la cessazione di detto obbligo e sulla base di presupposti e condizioni che non coincidono con quelli che lo giustificavano.
Questa autonomia ha evidentemente riflessi anche in ordine al
contraddittorio ed al tipo di esame comparativo devoluto al
giudice. L'uno e l'altro, infatti, non riguardano più il defunto
coniuge obbligato alla somministrazione dell'assegno divorzile, ma
il coniuge superstite ed il precedente coniuge rispetto al quale era stata pronunciata la sentenza di scioglimento o di cessazione
degli effetti civili del matrimonio.
Ai fini della ripartizione fra questi ultimi della pensione o di altri assegni spettanti al coniuge superstite, questa Suprema corte, nella sentenza prima citata, ha affermato che la legge riconosce al giudice un potere discrezionale di adeguamento alla varietà
delle singole fattispecie; nel cui esercizio egli deve essenzialmente tener conto, anche in assenza di uno stato di bisogno del
richiedente, delle condizioni economiche rispettive dei soggetti interessati al riparto.
È stato però soggiunto che, nell'indagine sulle condizioni eco
nomiche del primo coniuge viene in considerazione anche l'as
segno divorzile di cui egli era eventualmente beneficiario; con la
conseguenziale indiretta rilevanza del contributo dato dal coniuge divorziato alla formazione del patrimonio del coniuge obbligato ed alla conduzione familiare.
Si è anche affermato (sent. 6045/81) che, nei casi meno
frequenti in cui, per la mancanza della liquidazione di un
assegno di divorzio, non abbia nemmeno un indiretto rilievo la
valutazione di detto contributo, esso potrà essere tenuto presente come criterio sussidiario, rispetto alla considerazione delle condi zioni economiche ai fini della ripartizione della quota dei proven ti pensionistici.
Il collegio ritiene che, allo stato attuale della disciplina della materia queste linee ermeneutiche vanno confermate. Né in
contrario appare decisivo il rilievo sul diverso trattamento del
coniuge divorziato rispetto al coniuge separato per colpa, sia
perché ad esso corrisponde una diversità di situazioni, sia perché l'eventuale illegittimità costituzionale può avere incidenza sul
trattamento deteriore, non su quello più favorevole. (Omissis)
CORTE DI CASSAZIONE; Sezione I civile; sentenza 19 agosto 1983, n. 5402; Pres. Mazzacane, Est. Maltese, P. M. Canta galli (conci, conf.); Grasso (Avv. Grasso) c. Fall. Mistretta.
Conferma Trib. Catania 16 aprile 1981.
concordato preventivo — Commissario giudiziale — Liquidazio ne del compenso — Criteri (R.d. 16 marzo 1942 n. 267, di sciplina del fallimento, art. 39, 165).
Fallimento — Pagamento del compenso al commissario giudi ziale — Fallimento consecutivo — Prededuzione (R.d. 16 mar zo 1942 n. 267, art. 111).
This content downloaded from 91.220.202.97 on Sat, 28 Jun 2014 19:16:24 PMAll use subject to JSTOR Terms and Conditions
GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
In forza del combinato disposto degli art. 165 e 39 l. fall., la
liquidazione del compenso spettante al commissario giudiziale del concordato preventivo deve essere compiuta dal giudi ce esercitando il potere discrezionale di cui all'art. 2, 2"
comma, d.m. 27 novembre 1976 (dettato per l'ipotesi di falli mento chiuso con concordato), in proporzione dell'opera pre stata ed entro il limite massimo delle percentuali previste dall'art. 1, commisurate all'ammontare complessivo di quanto è
attribuito ai creditori con la sentenza di omologazione. (1) Nel fallimento consecutivo al concordato preventivo deve essere
pagato in prededuzione il compenso spettante al commissario
giudiziale. (2)
Motivi della decisione. — Il ricorrente denuncia la violazione
degli art. 39 e 165 r.d. 16 marzo 1942 e dell'art. Ill Cost.
Sotto il primo profilo sostiene che avrebbe errato il tribunale
nel ritenere non applicabili « puramente e semplicemente » le
tariffe a scaglioni del d.m. 27 novembre 1976 per la liquidazione del compenso del commissario giudiziale nella procedura di
concordato preventivo. Anche in tal caso, secondo il ricorrente, il
d.m. dovrebbe incondizionatamente trovare applicazione per di
sposto degli art. 165 e 39 1. fall.
Sotto il secondo profilo sostiene che il provvedimento impugna to mancherebbe della motivazione richiesta dall'art. Ill Cost., come requisito necessario per ogni provvedimento del giudice.
Il ricorso è infondato. È ben vero, infatti, che, per disposto dell'art. 165 1. fall., si applica al commissario giudiziale l'art.
39 1. fall, sul compenso del curatore, che richiama le nor
me contenute nel decreto del ministro per la grazia e giusti
zia, attualmente in vigore, del 27 novembre 1976, pubbl. nella Gazz. uff. del 3 dicembre 1976, n. 323 (preceduto dai decreti 4
giugno 1949, pubbl. in Gazz. uff. 10 giugno 1949, n. 132 e 16
luglio 1965, pubbl. in Gazz. uff. 12 agosto 165, n. 201). Ma nell'ambito dello stesso decreto la percentuale, nelle varie
misure stabilite sull'ammontare dell'attivo realizzato, rappresenta un parametro necessario (« il compenso ... deve consistere ... nelle misure seguenti ») soltanto nell'ipotesi dell'art. 1 di chiusura
del fallimento nelle forme ordinarie o nel caso di una realizza
zione parziale dell'attivo, qualora il curatore cessi dalla funzione
prima dell'esaurimento delle operazioni (art. 2, 1° comma);
mentre, nell'ipotesi dell'art. 2, 2° comma, di chiusura del falli mento con concordato — da cui, in difetto di un'esplicita e
specifica previsione normativa, si possono trarre elementi utili
anche per la liquidazione del compenso dovuto al commissario nel concordato preventivo — la detta percentuale a scaglioni costituisce soltanto un limite, nel senso che la liquidazione non
<1) Sui criteri di liquidazione del compenso al commissario giudizia le del concordato preventivo, v. Trib. Milano 23 gennaio 1981, Foro it., Rep. 1982, voce Concordato preventivo, n. 24, secondo cui occorre far riferimento all'ammontare dell'attivo realizzato o distribuito ai creditori e non — come invece ritenuto dalla sentenza in epigrafe —
ai valori spettanti ai creditori secondo le previsioni della sentenza di omologazione. Sullo stesso argomento cfr. altresì Trib. Milano 51 luglio 1978, id., Rep. 1979, voce cit., n. 63, e 15 maggio 1977, id., Rep. 1977, voce cit., nn. 49-51. Per utili riferimenti v., con riguardo ai criteri di liquidazione del compenso al liquidatore concordatario dei beni offerti in cessione ai creditori, Cass. 16 luglio 1976, n. 2814, id., Rep. 1976, voce cit., n. 48; cfr., inoltre, da ultimo, Cass. 21 novembre 1981, n. 6187, id., 1982, I, 411, che, nel precisare che la liquidazione del compenso al commissario giudiziale può avere luogo soltanto dopo l'esecuzione del concordato, senza necessità dell'approvazione del ren diconto, ha ritenuto che « il compenso deve essere del pari determina to tenendo conto dei risultati ottenuti (anche rispetto alle previsioni che hanno condotto all'approvazione della proposta), quindi delle somme effettivamente pagate ai creditori e, nel caso di concordato per cessione, dell'ammontare dell'attivo realizzato ».
In dottrina, cfr. Bonsignori, Concordato preventivo, in Commenta rio, a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1979, 180 ss.; Lo Cascio, La liquidazione del compenso del curatore fallimentare e del commissario giudiziale nelle procedure concorsuali, in Quaderni di
giurisprudenza commerciale, Milano, 1978, 31 ss.; Id., Il concordato
preventivo, Milano, 1979, 347 ss., cui si rinvia per una completa e
organica disamina dei vari problemi trattati in dottrina e in giurispru denza sul tema della liquidazione del compenso al commissario
giudiziale del concordato preventivo. (2) Non risultano precedenti sulla specifica questione. Sui crediti
sorti nella procedura di concordato preventivo v., nel senso che nella
consecutiva procedura fallimentare non costituiscono crediti di massa a
norma dell'art. Ili, 1° comma, n. 1, 1. fall., Cass. 4 giugno 1980, n.
3636, Foro it., 1981, I, 815, con nota di richiami. Per la dottrina, cfr.
Casella, I debiti contratti per la continuazione dell'impresa in
amministrazione controllata e in concordato preventivo e la riforma delle procedure concorsuali, in Fallimento, 1982, 361; Pellegrino,
Pagamento dei crediti sorti durante la procedura di concordato, in
Banca, borsa, ecc., 1981, II, 54.
deve eccedere « in nessun caso le percentuali sull'ammontare
dell'attivo, previste dal 1° comma dell'art. 1, calcolate sull'am
montare complessivo di quanto col concordato viene attribuito ai
creditori »: all'interno di questo limite massimo, il compenso dovuto al curatore va liquidato, secondo il criterio discrezionale
del giudice, « in proporzione dell'opera prestata ».
Pertanto, mentre a norma dell'art. 1, è dovuto al curatore, fino
all'ammontare di trenta milioni di lire dell'attivo realizzato, un
compenso determinabile fra il minimo ed il massimo delle per centuali mobili decrescenti ivi indicate (10-12%; 8-10%; 7-8 %; 4-5 %) e sulle somme eccedenti i trenta milioni un compen so corrispondente alle ulteriori percentuali fisse (3 %, dai trenta
ai cinquanta milioni; 2 %, dai cinquanta ai quattrocento milioni; 1 %, oltre i quattrocento milioni), viceversa, a norma dell'art. 2, 2° comma, è dovuto al curatore sull'ammontare complessivo di
quanto al concordato viene attribuito ai creditori, un compenso che non può superare il limite massimo delle percentuali fino ai
trenta milioni (12%, 10%, 8%, 5%) e il limite delle percentua li fisse oltre tale valore (3 %, 2 %, 1 %).
Una diversa volontà del legislatore, meramente riproduttiva,
nell'ipotesi dell'art. 2, 2° comma, dello stesso duplice limite, minimo e massimo, stabilito per le prime percentuali dall'art. 1, e
delle ulteriori percentuali fisse quale misura unica e inderogabile del compenso, sarebbe stata nel testo altrimenti espressa col
semplice richiamo ai criteri indicati nel precedente articolo (e
riferiti, ovviamente, alle somme attribuite ai creditori col concor
dato), secondo la formula già adoperata nel 1° comma dello stesso art. 2 (letteralmente, secondo questo possibile schema: « Nel caso che il fallimento si chiuda con concordato, il compen so dovuto al curatore è liquidato in proporzione dell'opera prestata con i criteri indicati nell'articolo precedente, calcolando le percentuali ivi previste sull'ammontare complessivo di quanto col concordato viene attribuito ai creditori »). Mentre, nella locuzione del 2" comma, alle parole « in modo, però, da non eccedere in nessun caso le percentuali sull'ammontare dell'attivo,
previste dal 1° comma dell'art. 1, calcolate ...ecc.» non si può riconoscere, con particolare riferimento alle ultime tre voci della tariffa a scaglioni — che rappresentano, nel raffronto, gli indici
più chiaramente dimostrativi del diverso regime giuridico adottato — altro significato se non quello di vincolare il giudice, nella
liquidazione del compenso, a non superare le percentuali del 3 %, 2 % ed 1 % per somme superiori ai trenta milioni; per cui il
compenso non « deve consistere » in queste percentuali, come invece accade nell'ipotesi dell'art. 1, ma « può » identificarsi con tali valori come può discrezionalmente essere stabilito in un
importo minore.
Già, dunque, con riferimento alle percentuali fisse (le tre
ultime) della tariffa dell'art. 1 appare univoco il significato del 2"
comma dell'art. 2.
Ma la soluzione deve essere necessariamente unitaria — unica
essendo la regola dell'art. 2, 2° comma — anche per le altre voci
(le prime quattro) della tariffa stessa, nel senso che, come il
compenso può essere inferiore ma non superiore alle percentuali fisse del 3, del 2 e dell'I per cento, cosf esso non deve eccedere il massimo delle percentuali mobili del 12, del 10, dell'8 e del 5
per cento, e deve rimanere, al di sotto di tali valori, liberamente
determinabile, senz'altro vincolo che non sia quello di osservare il limite minimo stabilito dall'art. 4 per la liquidazione del
corrispettivo nel suo complesso. Talché le percentuali delle pri me quattro voci della tariffa sono mobili solo nell'ambito dell'art. 1 e operano, invece, nell'ambito dell'art. 2, 2° comma, alla stessa
stregua delle percentuali fisse delle tre ultime voci, secondo il
principio unitario accolto in questa disposizione di non eccedenza del compenso da un valore massimo di tariffa.
Diversamente opinando, si perverebbe alla incongruenza di
ammettere, nel caso di chiusura del fallimento con concordato, la
possibilità di determinare liberamente, anche nummo uno, il
compenso del curatore per somme attribuite ai creditori in un ammontare superiore ai trenta milioni, col vincolo, invece, di
liquidarlo almeno in lire 800.000 per i primi otto milioni, e cosi
via, in funzione della tariffa decrescente, fino ai trenta milioni. Il che sarebbe contrario allo spirito del sistema, essendo, per
l'art. 1, l'obbligo di rispettare la percentuale della tariffa fissa altrettanto perentorio dell'obbligo di rispettare la percentuale minima della tariffa mobile. Sicché un rinvio a tale sistema dell'art. 1, per trasporlo nella sua interezza all'ipotesi dell'art. 2, 2° comma, dovrebbe sempre operare in senso unitario; e allora
perderebbe significato la norma dell'art. 2, 2° comma, nel prescri vere al giudice il solo obbligo di non eccedere le percentuali fisse:
obbligo, che necessariamente presuppone la libera facoltà di de
terminare il compenso, al di sotto di tale misura, in una percen tuale minore.
This content downloaded from 91.220.202.97 on Sat, 28 Jun 2014 19:16:24 PMAll use subject to JSTOR Terms and Conditions
2751 PARTE PRIMA 2752
In realtà, la ratio del sistema si delinea nel suo complesso, osservando che per mezzo della regola dell'art. 2, 2° comma, si è
voluto porre l'accento sul criterio di « proporzione all'opera
prestata» in contrapposizione al criterio tabellare dell'art. 1, nel
quale la discrezionalità gioca soltanto nella determinazione del
l'importo fra il minimo e il massimo delle prime percentuali della tariffa a scaglioni — « tenendo conto », fra l'altro, dell'ope ra prestata — per cessare del tutto con le percentuali fisse, oltre
la soglia dei trenta milioni.
Vale a dire, nella previsione dell'art. 1 di normale chiusura del
fallimento, la valutazione discrezionale degli elementi caratteriz
zanti la prestazione professionale ha una funzione molto modesta
perchè opera nel ristretto margine rappresentato dal divario del
due per cento o, anche, del solo uno per cento tra i coefficienti di
quelle prime percentuali mobili; mentre nella previsione de! 2°
comma dell'art. 2 di chiusura del fallimento con concordato, la
valutazione stessa si esplica con ben diversa intensità ed esten
sione entro il limite massimo di tutte le percentuali, mobili e
fisse, dell'art. 1.
Del resto, anche nell'ipotesi del 1° comma dell'art. 2, se il
curatore, cessando dalle sue funzioni prima della chiusura del
fallimento, non abbia realizzato neppure in parte l'attivo, non
potrà ricorrere — secondo le regole generali del rapporto di
prestazione d'opera intellettuale — alla libera valutazione dell'at
tività prestata (e tener conto di indici quantitativi diversi, come, ad esempio, l'entità del passivo).
Sicché, in definitiva, sarebbe erroneo affermare che per l'art. 2, 2° comma, si debba rispettare, in relazione alle prime quattro voci della tariffa, non solo il limite massimo ma anche il limite
minimo indicato nell'art. 1, e che, invece, per le altre tre voci, non si debba eccedere la percentuale fissa di cui allo stesso art.
1, con facoltà di incominciare da zero, incontrando la sola
restrizione dell'ammontare minimo complessivo dell'art. 4; men
tre sembra corretto al collegio dare una risposta al quesito nel senso unitario dell'osservanza, in ogni possibile caso, delle
sole percentuali massime di tutte le sette voci della tariffa, con
valutazione discrezionale dell'entità del compenso, da liquidare in
proporzione della opera prestata, nel rispetto del solo limite minimo complessivo del citato art. 4.
Lo svolgimento storico delle norme in esame conferma le
considerazioni fin qui svolte.
Vigendo il precedente d.m. 16 luglio 1965, la percentuale sull'ammontare dell'attività realizzato rappresentava sempre sia
nell'ipotesi dell'art. 1, sia nell'ipotesi dell'art. 2, 2° comma, il
limite massimo (definito da alcuni autori « il tetto «) del compen so dovuto al curatore, senza alcun limite minimo.
Perciò, proprio in tema di concordato preventivo, la giurispruden za aveva applicato la regola generale, secondo cui « la legge non
pone altro limite che quello massimo rappresentato dalle varie
percentuali sull'ammontare sia dell'attivo realizzato sia del passi vo accertato. Entro tali limiti il tribunale può stabilire le percen tuali che reputi più adeguate al caso (...) » (Cass. 16 luglio 1976, n. 2814, Foro it., Rep. 1976, voce Concordato preventivo, n. 48).
Con il vigente decreto 27 novembre 1976, alla formula dell'art. 1 d.m. 1965, « il compenso al curatore (...) deve consistere in una percentuale sull'ammontare dell'attivo realizzato non superio re alle misure seguenti: 12 %, ecc. », è stata sostituita la diversa
locuzione « il compenso al curatore (...) deve consistere in una
percentuale sull'ammontare dell'attivo realizzato nelle misure se
guenti: dal 10% al 12%, ecc.».
È stato cosi introdotto, nella ipotesi dell'art. 1, un limite minimo (es., 10 %), tenendo fermo, contestualmente, il preesisten te limite massimo (es., 12 %) per le prime quattro percentuali della tariffa a scaglioni, cui seguono, come si è già precisato, le
tre percentuali fisse oltre un determinato valore dell'attivo.
Invece, nell'ipotesi dell'art. 2, 2°. comma, è rimasta immutata la
disposizione secondo la quale, se il fallimento si chiude con
concordato, « il compenso dovuto al curatore è liquidato (...) in
modo (...) da non eccedere le percentuali dell'ammontare
dell'attivo, previste dal 1° comma dell'art. 1, calcolate sull'am
montare complessivo di quanto col concordato viene attribuito ai
creditori ».
Il richiamo, dunque, alle percentuali « da non eccedere » non
può che riferirsi alle percentuali massime, mobili e fisse, previste dall'art. 1.
L'esiguità del divario tra i minimi e i massimi tabellari della
prima parte della tariffa determinerebbe altrimenti la cristallizza
zione, in una elevatissima percentuale, del valore base dell'opera prestata, che invece la lettera e la ratio dell'art. 2, 2° comma, inducono a valutare secondo un elastico ed ampio criterio di
discrezionalità.
Alla omogeneità dell'originario parametro del limite massimo in
entrambe le ipotesi normative degli art. 1 e 2, 2° comma, d. m.
1965 è stato, in tal modo, sostituito con il d.m. 1976 un criterio
differenziato, per cui, se il fallimento si chiude con la normale e
integrale esplicazione dell'attività del curatore, è obbligatoria, nel
liquidarne il compenso, l'osservanza di una percentuale minima
(e altrettanto avviene se, per l'anticipata cessazione dalle funzio
ni, vi è stata da parte del curatore una parziale realizzazione
dell'attivo), mentre se il fallimento si chiude con un concordato, il criterio si sposta e si focalizza nella valutazione discrezionale
dell'opera prestata, da effettuare entro i valori massimi di tariffa
indicati nell'art. 1 ed entro il valore minimo complessivo indicato
dall'art. 4 (altrettanto avviene, come si è già accennato, se per
l'anticipata cessazione delle funzioni di curatela non vi sia stata
neppure una parziale realizzazione dell'attivo, con la necessaria
variante del riferimento ai dati quantitativi del passivo e senza
neppure l'obbligo di osservare il complessivo valore minimo dell'art. 4).
Pur essendo, forse, auspicabile de iure condendo l'adozione di una disciplina tendenzialmente unitaria (e spesso, nella pratica, si
applica lo stesso regime tariffario sui due denominatori dell'attivo
realizzato nel fallimento e delle somme attribuite col concordato), la distinzione, nella realtà normativa attuale, è palese per la
contrapposizione anzidetta fra il criterio tabellare — nel quale, a differenza del decreto del 1965, un ruolo ben modesto è ormai
riservato agli elementi di valutazione della prestazione professio nale — e il criterio, ampiamente discrezionale, dell'apprezzamen to dell'opera prestata nel caso di chiusura con concordato.
Di fronte alla chiara disposizione dell'art. 2, 2° comma — che sarebbe arbitrario ascrivere a difetto di coordinamento, nel nuovo
testo, con la norma dell'art. 1 — non sembra consentita all'in
terprete una soluzione diversa, che appare conforme al principio generale, desumibile dagli art. 2233 e 2225 c.c., dell'adeguatezza del compenso all'importanza dell'opera svolta.
Sulla base di tali premesse, si deve ritenere, per analogia di
situazioni, che anche nell'ipotesi del concordato preventivo (art. 160 1. fall.), agli effetti della liquidazione del compenso spettante al commissario giudiziale, il richiamo dell'art. 165 all'art. 39 1.
fall, e di questo alle norme del decreto ministeriale operi nel
senso che la detta liquidazione debba essere eseguita dal giudice nell'esercizio del potere discrezionale attribuitogli dall'art. 2, 2°
comma, d.m., in proporzione dell'opera prestata dall'ausiliare ed
entro il limite massimo delle percentuali previste dall'art. 1, commisurate all'ammontare complessivo di quanto con la senten
za di omologazione del concordato viene attribuito ai creditori
(art. 181, penult, comma, 1. fall.; in caso di dichiarazione del
fallimento saranno desumibili utili elementi dalla consistenza
attiva e passiva dei valori di inventario: art. 172 e 173 1. fall.).
Correttamente, quindi, senza incorrere nella denunciata viola
zione di legge, il Tribunale di Catania ha ritenuto, con il decreto
impugnato, non applicabili « puramente e semplicemente » le
tariffe a scaglioni del citato decreto ministeriale. Ed ha motivato
il proprio convincimento osservando che « l'attività del commissa
rio è, rispetto a quella del curatore fallimentare, ben più limitata, essendo egli tenuto — specie dopo la fase di approvazione e di
omologazione della proposta — solo ad un'opera di controllo e
di vigilanza ».
Premessa l'enunciazione di tale criterio, imperniato sulla diffe
renza fra il tipo di attività — in parte, meramente conservativa e
di vigilanza — svolta dal commissario giudiziale, e il modello di
attività ordinariamente compiuta dal curatore fallimentare (per
analoghe notazioni sul commissario giudiziale nella procedura di amministrazione controllata, v. Cass. 3 dicembre 1981, n. 6401,
id., Rep. 1982, voce Amministrazione controllata, n. 44, e 23
ottobre 1974, n. 3048, id., 1975, I, 1813), il tribunale ha poi indicato gli elementi — opera prestata, durata dell'incarico e
importanza del concordato — considerati nell'esercizio, in concre
to, del proprio potere discrezionale. Si deve ritenere, pertanto, assolta anche l'esigenza, posta dall'art. Ill Cost., di una adeguata motivazione del provvedimento giurisdizionale di liquidazione delle competenze del commissario giudiziale. Ne consegue che
sotto entrambi i profili delineati nell'unico mezzo d'impugnazione — violazione di legge e difetto della motivazione — il decreto
del Tribunale di Catania si sottrae alle censure del ricorrente. Il ricorso principale deve essere, pertanto, disatteso.
Alle stesse conclusioni bisogna pervenire nell'esame del ricorso incidentale. Con esso il curatore denuncia la violazione dell'art.
Ill, n. 1, 1. fall. Sostiene che il tribunale non avrebbe potuto autorizzare il pagamento in prededuzione dall'attivo della residua somma dovuta al commissario, per l'opera da lui prestata nella fase di concordato preventivo, che aveva preceduto la dichiara zione del fallimento.
This content downloaded from 91.220.202.97 on Sat, 28 Jun 2014 19:16:24 PMAll use subject to JSTOR Terms and Conditions
GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
La censura è infondata. Vero è, infatti, che « i debiti legalmen te sorti nel corso del concordato preventivo che ha preceduto il
fallimento non sono debiti della massa e non devono, quindi, essere in prededuzione ove non siano strettamente inerenti alla
procedura stessa » (Cass. 9 dicembre 1977, n. 4794, id., Rep.
1978, voce Fallimento, n. 385). Ma nel caso in esame si tratta,
appunto, di un debito — avente ad oggetto il compenso del
commissario giudiziale — strettamente inerente alla procedura di
concordato preventivo. Ed è riconosciuto, per costante giurispru denza, che anche in tema di amministrazione controllata, i debiti
derivanti dalla continuazione dell'esercizio dell'impresa « devono
essere soddisfatti per prededuzione nella successiva procedura concorsuale liquidatoria (concordato preventivo o fallimento),
legata alla precedente da un nesso di conseguenzialità e interdi
pendenza » (Cass. 3 luglio 1980, n. 4217, id., Rep. 1980, voce cit., n. 476; 4 giugno 1980, n. 3636, id., 1981, I, 815; 3 luglio 1979, n. 3731, id., Rep. 1979, voce cit., n. 432; sez. un. 14 ottobre
1977, n. 4370, id., 1978, I, 397).
Qualunque configurazione giuridica, quindi, si preferisca adot
tare per definire la procedura di amministrazione controllata —
ispezione giudiziale del patrimonio, amministrazione giudiziaria volontaria, processo esecutivo speciale, o, più propriamente, pro cedimento concorsuale cautelare — è certo che il concordato
preventivo, considerato dalla prevalente dottrina processo esecuti
vo concorsuale, presenta — com'è stato autorevolmente osservato — una caratteristica di ancora più penetrante immedesimazione con il consecutivo procedimento fallimentare. Onde, a più forte
ragione rispetto all'amministrazione controllata, si deve ritenere
prededucibile il debito per compenso dovuto all'amministrazione
giudiziale nel concordato preventivo dato lo stretto nesso di
interdipendenza e conseguenzialità esistente con il successivo
procedimento esecutivo di liquidazione fallimentare. Anche il ricorso incidentale, pertanto, si rivela infondato e
deve essere disatteso. (Omissis)
CORTE DI CASSAZIONE; Sezione I civile; sentenza 9 agosto 1983, n. 5315; Pres. Sandulli, Est. Sensale, P. M. Pandol
felli (conci, conf.); Soc. S.i.a.d. (Aw. Iannotta) c. Caiazza
(Avv. Trapani). Conferma App. Napoli 20 dicembre 1380.
Assicurazione (contratto di) — Assicurazione obbligatoria r.c.a. — Liquidazione coatta amministrativa — Trasferimento del
portafoglio ad altra impresa — Giudizio di esecuzione — Le
gittimazione passiva (L. 24 novembre 1978 n. 738, conversione
in legge, con modificazioni, del d.l. 26 settembre 1978 n. 576, concernente agevolazioni al trasferimento del portafoglio e del
personale delle imprese poste in liquidazione coatta ammini
strativa, art. 4).
Il danneggiato da incidente stradale che in forza di sentenza
passata in giudicato abbia conseguito un titolo esecutivo nei
confronti dell'impresa assicuratrice può, qualora questa sia
successivamente posta in liquidazione coatta amministrativa, instaurare il giudizio di esecuzione contro l'impresa assicuratri
ce cessionario del portafoglio della prima. (1)
(1) Prima decisione, nella vigenza del d.l. 26 settembre 1978 n. 576 (convertito poi, con modificazioni, in 1. 24 novembre 1978 n. 738Ì, della Cassazione sul punto specifico della opponibilità ad impresa cessionaria del giudicato di condanna ottenuto dal danneggiato nei confronti dell'impresa assicuratrice prima che questa sia posta in
liquidazione coatta. Pur avendo ben chiari i diversi regimi cui sono
soggette le imprese assicuratrici sostitute di altre insolventi, la corte ha inteso dare alla materia un assetto unitario in modo che, nella
liquidazione sia giudiziale sia extra giudiziale del danno, legittimato passivo al giudicato di condanna debba essere di volta in volta
l'impresa designata di cui agli art. 19-25 1. 990/69, oppure il commis sario liquidatore all'uopo autorizzato ex art. 9 d.l. 857/76 (in tal senso v. Cass. 10 febbraio 1982, n. 825, Foro it., Rep. 1982, voce Assicura zione (contratto), n. 339), oppure l'impresa cessionaria in base all'art. 4 di. 576/78 (è il nostro caso), risalendo cosi alla disciplina di cornice della 1. 990/69 tutte le volte in cui le disposizioni successive risultino oscure o lacunose (per uno spaccato del complesso mosaico normativo in discussione, v. Giannini e Mariani, La responsabilità per i danni da circolazione dei veicoli, Milano, 1982, 79 ss.). Per altro verso Cass. 30 luglio 1982, n. 4362, Foro it., Rep. 1982, voce cit., n. 314, nega, è
vero, la legittimazione passiva all'impresa cessionaria per una causa riassunta nei suoi confronti, ma solo in quanto convenuta in nome
proprio e non in nome del fondo di garanzia, come prescritto dall'art.
4, 3° comma, d.l. da ultimo citato. La giurisprudenza di merito, invece, si è sinora assestata su
posizioni antitetiche: Pret. Salerno 19 gennaio 1982, ibid., n. 340, con
Il Foro Italiano >— 1983 — Parte 1-177.
Motivi della decisione. — (Omissis). 2. - Con il primo motivo
la società ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione del d.l. 26 settembre 1978 n. 576, convertito con modificazioni
nella 1. 24 novembre 1978 n. 738, della 1. 24 dicembre 1969 n.
990 e dei principi che regolano la legittimazione passiva, nonché
il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, censurando la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto la S.i.a.d. passivamente legittimata rispetto all'azione esecutiva
nascente dal titolo formatosi nei confronti della Lloyd Centauro
italiana in liquidazione coatta amministrativa, del cui portafoglio la S.i.a.d. era cessionaria ai sensi dell'art. 1 d.l. 576/78. Sostiene,
per contro, la ricorrente che il sistema instaurato da tale decreto
(e, in particolare, l'art. 4) esclude qualsivoglia sostituzione
della S.i.a.d. all'impresa posta in liquidazione (che rimane titolare del suo patrimonio), avendo, la prima, soltanto l'obbligo di
procedere per conto del « fondo di garanzia per le vittime della strada » alla liquidazione del danno (cioè alla pura determinazio ne dell'an e del quantum dovuto al « fondo »), di trasmettere a
quest'ultimo l'atto di liquidazione, affinché possa provvedere di rettamente al pagamento di quanto concordato, e di stare in
giudizio in nome del « fondo », quale rappresentante processuale di esso, quando una definizione amichevole non sia possibile, mentre ogni pretesa avente ad oggetto il pagamento di somme
conseguenti all'accordo amichevole o a sentenze deve essere fatta
valere direttamente nei confronti del « fondo » e nessuna norma consente al danneggiato di eseguire un titolo esecutivo, consegui to nei confronti della impresa assicuratrice in liquidazione, contro
l'impresa cessionaria del portafoglio di questa. Coerente con tale
sistema — prosegue la ricorrente — è l'art. 8 d.l. 576/78, in base al quale la parte danneggiata deve inviare alla impresa cessiona
ria la richiesta di risarcimento con le modalità indicate nell'art. 22 1. 24 dicembre 1969 n. 990 e, solo dopo che siano trascorsi sei mesi dalla richiesta, può agire contro di essa in via di cognizione ordinaria, citandola in nome del « fondo ». Da ciò discende che, se nessuna azione ordinaria può essere proposta nei confronti della impresa cessionaria, a fortiori nessuna azione esecutiva può essere esercitata nei suoi confronti in forza di un titolo ottenuto contro l'impresa assicuratrice in liquidazione. E, anche se si
dovesse prescindere dal meccanismo di cui agli art. 4 e 8 d.l.
576/78, ogni pretesa nascente da una sentenza passata in giudica to nei confronti dell'impresa in liquidazione dovrebbe essere fatta
valere nei confronti del « fondo », ma mai potrebbe riguardare
l'impresa cessionaria del portafoglio, la quale è, quanto meno,
priva di legittimazione passiva. Il motivo è infondato. 3. - Secondo la disciplina della 1. 24 dicembre 1969 n. 990
(modificata col d.l. 23 dicembre 1976 n. 857, convertito, con
modificazioni, nella 1. 26 febbraio 1977 n. 39), quando l'impresa
assicuratrice, al momento del sinistro, si trovi in stato di liquida zione coatta o vi venga posta successivamente, non solo alla
: ! 6 una succinta motivazione, dichiara la nullità di un pignoramento eseguito a carico dell'impresa cessionaria in forza di giudicato di condanna ottenuto contro l'assicurazione in bonis, dal momento che il d.l. 576/78 individua nel solo fondo di garanzia il titolare passivo dell'obbligazione. Sulle stesse orme, le più elaborate pronunce di Trib. Roma 30 ottobre 1980 e 23 gennaio 1981, id., Rep. 1981, voce cit., nn. 328, 330, in cui, partendo dalla considerazione che l'impresa designata ha comunque una sua peculiare funzione rispetto a quella dell'impresa cessionaria (mentre la sentenza in epigrafe postula l'identi tà di dette funzioni), si scandiscono i tratti differenziali dei rispettivi regimi risarcitori: nell'uno, l'impresa risponde direttamente dei dann: anche se poi, quale mandataria ex lege del fondo, ha verso di questo azione di rivalsa; nell'altro, l'assicurazione cessionaria provvede per conto del fondo alla sola liquidazione.
Cosicché, l'opponibilità delle sentenze ottenute dal danneggiato con tro la compagnia di assicurazione prima dell'intervento nei suoi confronti del provvedimento di liquidazione, se ammissibile per le
prime, « non opera riguardo alle imprese cessionarie, non essendo stata introdotta nel d.l. 576/78 una norma analoga a quella contenuta nell'art. 25 1. 990/69 ».
In dottrina non si discosta dall'impostazione ora cennata E. Pasani
si, Chiarezza giurisprudenziale in tema di liquidazione coatta di
imprese assicuratrici, in Dir. e pratica assic., 1981, 422; con limitato riferimento all'opponibilità, G. Bellussi, Azione risarcitoria in regime di assicurazioni, 1981, I, 186, nonché, Gerì, Impresa assicuratrice della resp. civ. in liquidazione coatta amministrativa • Azione risarci toria - Legittimazione passiva (nota a Trib. Salerno 7 novembre 1980, Foro it., Rep. 1981, voce cit., n. 323), in Assicurazioni, 1981, II, 2, 142.
Infine, Giannini e Mariani, op. cit., 84, che, tra l'altro, non mancano di fare l'inventario delle storture derivanti da una legislazione alluvio nale e spesso oscura.
Sul diverso profilo della dichiarazione d'insolvenza pendente il
giudizio di risarcimento nonché sulla prosecuzione dello stesso, v., di
recente, Cass. 19 aprile 1983, n. 2677, Foro it., 1983, I, 1980, con nota di richiami.
This content downloaded from 91.220.202.97 on Sat, 28 Jun 2014 19:16:24 PMAll use subject to JSTOR Terms and Conditions