Sezione I civile; sentenza 19 febbraio 1960, n. 286; Pres. Torrente P., Est. Di Majo, P. M. Mazza(concl. conf.); Koh-I-Noor Tuskarna Impresa nazionale Hardtmuth (Avv. Pellegrino, Nicolò,Balladore-Pallieri) c. Fabrique de crayons Koh-I-Noor Hardtmuth di Parigi (Avv. Greco,Amoroso, Sequi)Source: Il Foro Italiano, Vol. 83, No. 6 (1960), pp. 985/986-991/992Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23175084 .
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
CORTE SDPREMA DI CASSAZIONE.
Sezione I civile ; sentenza 19 febbraio 1960, n. 286 ; Pres. Torrente P., Est. Di Majo, P. M. Mazza (conci, conf.) ; Koh- I-Noor Tuskarna Impresa nazionale Hardtmuth
(Avv. Pellegrino, Nicolò, Balladobe-Pallieri) c.
Fabrique de crayons Koh-I-Noor Hardtmuth di Parigi (Avv. Greco, Amoroso, Sequi).
(Conferma App. Torino 17 giugno 1958)
Impugnazioni in materia civile — Acquiescenza — Li
miti — Fattispecie (Cod. proc. civ., art. 329). Delibazione — Procedimenti stranieri di confisca —
Inefficacia in Italia.
Marchio — Marchio internazionale — Disciplina giu ridica (L. 6 aprile 1913 n. 285, che approva vari atti
firmati tra Italia ed altri Stati, Convenzione di Parigi 20 marzo 1883, art. 6 ; d. pres. 12 giugno 1950 n. 865,
per l'esecuzione degli Accordi di Madrid del 14 aprile 1891, concernenti la repressione delle false indicazioni di
provenienza delle merci, riveduti a Washington il 2 giu gno 1911, all'Aja il 6 novembre 1925 e a Londra il 2 giu
gno 1934, art. 1, n. 4). Marchio — Trasferimento distinto dall'azienda —
Invalidità — Trasferimento unitamente a ramo
particolare dell'azienda — Validità.
Non può qualificarsi acquiescenza il comportamento della
parte soccombente che esegua spontaneamente una sentenza
d'appello, esecutiva di diritto, pure in difetto di atti
esecutivi. (1) I provvedimenti di nazionalizzazione e di confisca disposti
senza indennizzo in Stali stranieri, in quanto contrastanti con l'ordine pubblico italiano, non hanno effetto nel nostro ordinamento giuridico. (2)
L'art. 6 della Convenzione d'Unione di Parigi del 1883, ai
fini della registrazione del marchio « tei quel » nello Stato
estero, riguarda esclusivamente la regolarità formale del
contrassegno, secondo la legge del suo Paese d'origine ; mentre alla lex loci occorre far riferimento per deci dere circa la validità e l'ambito di tutela nel Paese d'im
portazione del marchio quivi registrato « tei quel ». (3)
(1) In giurisprudenza, v., in senso conforme, Cass. 18 otto bre 1958, n. 3335, Foro it., Rep. 1958, voce Impugnazioni in ma teria civile, n. 72 ; 16 ottobre 1958, n. 3295, ibid., n. 71 ; 20 otto bre 1958, n. 3347, ibid., n. 73 ; 25 ottobre 1958, n. 3472, ibid., n. 76 ; 23 ottobre 1956, n. 3864, id., Rep. 1956, voce cit., n. 801.
Sul fatto che si ha acquiescenza parziale, ex art. 329 cod. proc. civ., solo nel caso in cui le parti della sentenza siano indi pendenti, sicché l'una possa sussistere pur venendo meno l'altra, e non già quando l'una sia collegata all'altra da un vincolo di dipendenza, onde l'una statuizione possa dirsi il presupposto logico dell'altra statuizione, cfr. Cass. 27 marzo 1958, n. 1025, id., Rep. 1958, voce cit., nn. 78-84.
Sul fatto che — ex art. 329 — l'impugnazione di una parte della sentenza importa acquiescenza per le altre parti non impu gnate, eccetto la possibilità del rilievo d'ufficio di questioni indi sponibili non precluse, v. Cass. 22 giugno 1951, id., 1952, I, 849.
La mancata impugnazione della parte della sentenza che ha deciso una questione di giurisdizione non impedisce al resi stente di risollevarla nel controricorso : v., in tal senso, Cass. 11 aprile 1959, id., 1959, I, 755, con ampia nota di richiami non univoci sui rapporti tra acquiescenza e questioni di giu risdizione.
In dottrina oltre al Minoli, L'acquiescenza nel processo, Milano, Yallardi, 1942, si consulti anche lo Zanzuoohi, Dir. proc. civ., vol. II, pag. 166, par. 21, e il CUrn'elutti, 1st. proc. civ. it., vol. II, pagg. 526-530.
(2) Da ultimo in senso conforme, Cass. 5 ottobre 1959, il. 2678, Foro it., 1959, I, 1463, con ampia nota di riferimenti
giurisprudenziali e dottrinali.
(3) Conf. Cass. 18 marzo 1958, n. 907, Foro it., 1959, I, 1356, con ampia nota di giurisprudenza e dottrina ; Trib. Trieste 14 giugno 1958, ibid., 1412, pure con nota di giurisprudenza e
dottrina, cui adde Gitgi,iei,metti, nota in Riv. dir. ind., 1959, II, 192.
Moti incorre nella invalidità sancita per il trasferimento del marchio effettuato senza l'azienda, il conferimento in una società di un marchio registrato internazionalmente, uni tamente al conferimento degli interi 'pacchetti azionari di società tutte controllate dai conferenti e tutte da conside rarsi rami di azienda, svolgendo essa all'estero l'esercizio
dell'impresa cui competeva l'utilizzazione del marchio. (4)
La Corte, ecc. — I due ricorsi, principale e incidentale vanno anzitutto riuniti sotto il numero più antico di ruolo, e devono per prime essere esaminate le eccezioni della resi stente Società francese circa la improcedibilità e l'inam missibilità del ricorso principale.
Si assume in primo luogo che l'Impresa nazionale, in esecuzione della decisione impugnata, avrebbe modificato,
prima della notificazione del ricorso, la sua ragione sociale in « Boemia Pencil Factory », donde l'acquiescenza di essa
Impresa nazionale alla sentenza di merito, quanto meno
per ciò clic riguarda la denominazione sociale dei nomi « Koh-i-noor » e « L. e C. Hardtmuth ».
L'eccezione non ha consistenza, perchè, senza dire che
nessuna prova della pretesa identità fra le due Società è stata data dalla resistente, è sufficiente considerare che il
comportamento della parte, in tanto può ritenersi accetta
zione tacita di una sentenza, in quanto risulti in modo non
equivoco da atti incompatibili con la Volontà di avvalersi del diritto d'impugnazione, e che tale non può comunque qualificarsi il comportamento della parte soccombente che
esegua spontaneamente una sentenza di appello, esecutiva
di diritto, pure in difetto di atti esecutivi, perchè esso
comportamento va interpretato come diretto al fine di evi tare gli atti medesimi. (Omissis)
Venendo a dire del ricorso principale, osserva la Corte
suprema che la ricorrente Impresa nazionale, denunciando, col primo mezzo, la violazione e la falsa applicazione degli art. 133, 135, 137, 139, 143 e 144 cod. comm. cecoslo
vacco, e degli art. 2277, 2293, 2309, 2310, 2312 e 2315
cod. civ., in relazione all'art. 360, n. 3, cod. proc. civ., assume che, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte
di merito, essa Impresa, pur non essendo creditrice della Società in nome collettivo, poteva eccepire che allo sciogli mento di tale Società non aveva fatto seguito il proce dimento di liquidazione. Spiega la ricorrente che, tanto per la legge italiana quanto per quella cecoslovacca, per le
società registrate è sempre necessario il procedimento di
liquidazione dato il carattere cogente delle norme che lo
dispongono ; sicché ai soci della Collettiva non poteva es
sere riconosciuto, quale effetto immediato e diretto dello
scioglimento della Società, la proprietà industriale esistente all'estero di cui era titolare la Collettiva, e perciò i soci stessi non potevano conferire tali beni e diritti alla Società
a r. 1. francese.
Questa prima doglianza è infondata. In relazione a tale specifica censura e alle altre, di cui
appresso si dirà, occorre anzitutto sottolineare l'esattezza
del principio di diritto affermato dalla Corte di merito, e
di recente consolidato dall'indirizzo di questo Supremo col
legio, secondo cui i provvedimenti di nazionalizzazione e
di confisca disposti senza indennizzo in Stati stranieri, in
quanto contrastanti con l'ordine pubblico italiano (art. 42 e 43 Cost.), non possono comunque avere effetto nel nostro
ordinamento giuridico. Alla stregua di tale principio perde ogni consistenza la
tesi della ricorrente, la quale sostiene, come si accennava
dianzi, che senza il provvedimento di liquidazione non
poteva essere riconosciuta ai soci, quale effetto immediato
Cfr. inoltre, Sordelli, Denominazione sociale e diritto deri vato, in Foro pad., 1955, I, 322 ; Mengoni, Nome sociale e ditta, in Siv. dir. comm., 1956, II, 47.
(4) In tema di trasferimento del marchio senza il nome di azienda cui si riferisce, v. Cass. 21 giugno 1958, n. 2194, Foro it., Rep. 1958, voce Marchio, nn. 81, 82 ; 5 aprile 1957, n. 1173, id., 1957, I, 980, con nota di richiami ; nonché AsoARnr.Lt, Teoria della concorrenza e dei beni immateriali, 1960, pag. 472 segg., con ampia rassegna della precedente giurisprudenza.
U, poro Italiano — Volume LXXXIII — Parie 7-01.
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PARTE PRIMA
e diretto dello scioglimento della Società collettiva (nazio
nalizzata), la proprietà indivisa dei beni e diritti industriali
esistenti all'estero, di cui era titolare la Collettiva stessa, e che pertanto i soci di quest'ultima non avrebbero potuto conferirli nella Società francese a responsabilità limitata.
Posto invero che tali beni e diritti rimasero fuori dei
provvedimenti di confisca e nazionalizzazione, i quali eb
bero carattere rigorosamente territoriale, esattamente la
Corte di merito ha considerato che, una volta eliminato, per effetto della confisca, il vincolo di destinazione impresso al patrimonio sociale con l'originario contratto di società, la mancanza di liquidazione non toglieva ai soci la pro
prietà e la disponibilità in comune di quei beni (esistenti
all'estero), non essendo la Società in nome collettivo, sia
per l'ordinamento giuridico cecoslovacco sia per quello ita
liano, un ente personalizzato. In proposito sono ben noti
i principi accolti dalla prevalente dottrina e dalla giuris
prudenza di questa Corte suprema, secondo i quali il
vigente codice civile ha conferito la personalità giuridica soltanto alle società di capitali, ma non anche alle società
di persone, alle quali ha accordato la semplice autonomia
patrimoniale, che, limitata nella società semplice, si accen
tua nelle società in nome collettivo e nelle società in acco
mandita semplice. È quindi irrilevante il richiamo fatto dalla ricorrente
alle norme cogenti che, secondo il diritto dei due Paesi
(Italia e Cecoslovacchia), regolano il procedimento di li
quidazione del patrimonio sociale, per dedurne che sarebbe
stato necessario tale procedimento, affinchè i soci della
collettiva potessero diventare proprietari in comunione dei
beni e dei diritti di proprietà industriale registrati all'estero, e conferire quindi validamente i beni e i diritti medesimi
alla Società francese costituita con il rogito Rivière. Perchè
l'obbligatorietà del procedimento di liquidazione delle
società in genere soggette a registrazione deve essere riguar data in funzione dei soli interessi che si mirano a tutelare ; ossia quello dei soci ai rimborsi delle loro quote e al riparto dell'ulteriore residuo attivo, e l'altro dei creditori a che il
patrimonio sociale rimanga vincolato, mediante la liquida
zione, all'estinzione dei debiti sociali. Sicché, al di fuori
di tali ipotesi, che non ricorrono di certo nella fattispecie
concreta, riesce facile affermare che il provvedimento di
liquidazione non è indispensabile per fare riconoscere, in
caso di scioglimento della collettività per confisca della
autorità, la proprietà e la disponibilità in comune ai soci
di beni, già costituenti il patrimonio sociale, e sottratti alla
confisca stessa.
Deve quindi ritenersi immune da vizi giuridici il ragio namento fatto dai Giudici di merito circa la riconosciuta
titolarità dei diritti sui beni in questione ai soci della ex
Collettiva nazionalizzata, e la conseguente affermata vali
dità del conferimento da essi soci effettuato di tali diritti
alla Società a r. 1. francese.
Con il secondo mezzo la ricorrente, denunciando la viola
zione e la falsa applicazione dell'art. 6 Convenzione interna
zionale di Unione di Parigi, degli art. 4 bis, 6, 9 e 9 bis
dell'Arrangement di Madrid, dell'art. 23 r. decreto 21
giugno 1942 n. 929, dell'art. 13 legge cecoslovacca sui
marchi 6 gennaio 1890 n. 19, del codice imperiale austriaco e delle patenti cecoslovacche di mestiere 20 dicembre 1939,
degli art. 86 e 143 cod. comm. cecoslovacco e dell'art.
2292 cod. civ., in relazione all'art. 360, n. 3, cod. proc. civ., nonché il vizio di difetto di motivazione su di un punto decisivo della controversia a norma dell'art. 360, n. 5, assume quanto segue :
a) contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte di
merito, non era affatto ininfluente, ai fini del decidere, ricercare se gli ex soci della Collettiva potevano essere
riconosciuti titolari dei marchi in questione, pur non avendo
ottenuto in Cecoslovacchia wti singuli l'autorizzazione al
commercio (requisito, questo, che per l'art. 13 della legge cecoslovacca sui marchi è indispensabile per l'attribuzione
del diritto di privativa). La Convenzione di Unione di
Parigi e l'Arrangement di Madrid accolgono il criterio del
Paese d'origine del marchio per attribuire la protezione derivante dal marchio internazionale ; perciò, nella specie,
I>er giudicare se a favore (lei soci uti singuli esistesse ima
protezione legale nel Paese d'origine, doveva farsi capo alla
legge cecoslovacca e non già a quella italiana;
b) la Corte di merito, affermando puramente e sem
plicemente la legittimità del trasferimento della ragione sociale dalla Società in nome collettivo alla comunione dei
soci, è incorsa nel vizio di difetto di motivazione. Si era
infatti obiettato che, essendo la ragione sociale un attri
buto della Società in nome collettivo in quanto tale, e cioè
in quanto titolare di una azienda sociale alla quale il nome
commerciale aderisce, una volta che la Società collettiva
cecoslovacca era stata sciolta, la ragione sociale, in quanto attributo della Società, era venuta a mancare e non poteva
perciò trasferirsi in comunione indivisa ai soci, i quali poi non potevano conferirla alla nuova Società a r. 1. francese.
Anche queste censure, che riproducono sotto altro
aspetto quelle già esaminate del primo mezzo, sono in
fondate.
La Corte del merito ha considerato che, in seguito allo
scioglimento avvenuto in Cecoslovacchia della Società col
lettiva, tra le attività ritenute dal gruppo dei soci, in co
munione indivisa, dovessero comprendersi anche i diritti
sui marchi registrati in Italia, nonché il relativo nome
commerciale, data l'indipendenza dei marchi italiani da
quelli del Paese d'origine. E così argomentando la Corte di Torino ha fatto buon
governo della legge, per essersi adeguata ai consolidati
principi in materia di questo Supremo collegio, secondo cui
deve ritenersi che la Convenzione (Unione) di Parigi del
20 marzo 1883, successivamente riveduta a Bruxelles (1900), a Washington (1911), a l'Aja (1925) e a Londra (1934), nel regolare lo statuto personale del marchio di fabbrica o di commercio, ha inteso disciplinare soltanto i requisiti formali, nel senso che basti la regolarità formale del con
trassegno ai sensi della legge del Paese di origine, che ne
ha ivi consentito la registrazione, perchè il contrassegno stesso possa essere brevettato tal quale (tei quel) in ogni altro Paese dell'Unione ; mentre, per quanto concerne la
validità sostanziale e l'ambito di protezione del marchio
tei quel nel paese d'importazione, occorre riferirsi alla legge territoriale del Paese medesimo.
Con il terzo mezzo la ricorrente assume che, contraria mente a quanto ritenuto dalla Corte di merito, doveva riconoscersi che i soci della disciolta Collettiva non pote vano collegare i marchi aventi efficacia all'estero ad un
ramo aziendale colà esistente, e quindi i marchi stessi si
erano estinti e non potevano essere trasferiti alla Società a r. 1. francese, perchè l'Azienda cecoslovacca era cessata in quanto nazionalizzata, e perchè tale Azienda costituiva
l'unica fonte di tutta la produzione venduta nei Paesi del
l'Unione per i quali avevano effetto i marchi internazionali ; e ciò per il principio, accolto tanto nella legge italiana
quanto in quella cecoslovacca, che il marchio è inscindi bile dall'azienda e che quindi il marchio stesso si estingue quando cessa il suo legame con l'azienda per effetto della estinzione di quest'ultima.
La Corte di merito, prosegue la ricorrente, decidendo
diversamente, ha errato per le seguenti ragioni :
a) la Corte di merito si è limitata ad indagare sul punto se il gruppo dei soci della Collettiva poteva considerarsi
proprietario dei beni della Collettiva stessa esistenti fuori della Cecoslovacchia, ma non ha accertato se tali beni i
soci avevano effettivamente conferito alla nuova Società
a r. 1. francese. Se tale indagine la Corte avesse fatto, si
sarebbe accorta che nell'atto notarile di costituzione della
Società, anche se si faceva cenno in modo vago e indeter
minato ad « apporti dell'insieme di fabbriche, installazioni o beni costituenti i fondi di commercio della Collettiva cecoslovacca », in realtà l'attivo sociale risultava costituito
soltanto dalle attività immobiliari e mobiliari della suc
cursale francese ;
b) il collegamento tra i marchi ed un ramo dell'azienda non poteva farsi derivare dal fatto che i soci della Collet tiva possedevano il pacchetto azionario di società inglesi e americane e di una società italiana per il commercio e la
rappresentanza commerciale, e che quindi i soci stessi con
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989 GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE 990
trottavano tali società. Il possedere la proprietà azionaria
di varie società anonime non comporta l'annullamento
della personalità giuridica di tali società e l'attribuzione
al gruppo dei soci, in tutto o in parte comproprietario dei
capitali azionari, della proprietà dei beni delle società ; ritenere il contrario significa confondere la soggettività economica con la soggettività giuridica e negare alle società
anonime la personalità giuridica. D'altra parte non aveva
alcuna rilevanza accertare se il gruppo dei soci della Col
lettiva controllava le suddette Società mediatamente at
traverso l'Holding Aneva, perchè tale controllo non com
portava nè che la Collettiva cecoslovacca fosse proprie taria degli stabilimenti appartenenti alle anonime straniere, nè che dopo lo scioglimento della Collettiva i soci di questa ultima fossero proprietari degli stessi stabilimenti ;
e) non può dirsi che i soci della Collettiva hanno con
servato, dopo il provvedimento di nazionalizzazione, i mar
chi in questione apponendoli su articoli di cancelleria pro dotti su loro ordinazione in stabilimenti appartenenti ad
altri, quali quelli della Società inglese e delle Società ame
ricane ; una simile tesi, sostenuta dalla Corte di merito, è in contrasto con il principio, risultante dall'art. 15 r. de
creto n. 929 del 1942, che il marchio non può trasferirsi
quando avviene l'alienazione o la perdita dell'azienda, e
soprattutto è in contrasto con l'altro principio, stabilito
dallo stesso art. 15, che «in ogni caso dal trasferimento del
marchio non deve derivare inganno in quei caratteri dei
prodotti o merci che sono essenziali nell'apprezzamento del
pubblico ». Proprio in relazione a quest'ultimo principio essa
Impresa nazionale aveva dedotto a prova che le Società estere si erano impegnate ad acquistare le mine da essa
prodotte in Cecoslovacchia, in quanto la fornitura di tale elemento fondamentale dei prodotti serviva ad assicurare ai prodotti stessi le caratteristiche che sono essenziali per l'apprezzamento del pubblico ; e la Corte di merito, oppo nendo che tale impegno non aveva alcuna rilevanza perchè
poteva essere mutato per volontà dei soci, ha disconosciuto i principi suddetti.
Inoltre essa Impresa nazionale aveva richiesto una con
sulenza tecnica per dimostrare che l'applicazione alle matite di mine prodotte dagli stabilimenti inglesi e americani
comportava una sostanziale modificazione alle caratte ristiche essenziali dei prodotti ; ma la Corte di merito ha
frainteso tale deduzione, perchè ha ritenuto che la prova fosse diretta allo scopo di accertare la superiorità compara tiva dei prodotti di essa Impresa nazionale rispetto a quelli della Casa francese. D'altra parte la Corte di merito, affer
mando che i soci della vecchia Collettiva potevano far
produrre su loro ordinazione anche da altri stabilimenti articoli aventi le caratteristiche di quelli di antica produ zione, ha erroneamente collegato i marchi non già ad un
ramo d'azienda, ma alle persone fisiche ;
d) la Corte di merito ha affermato che, dopo il prov vedimento di nazionalizzazione, i soci della Collettiva hanno
continuato l'attività produttiva, perchè dal 1945 al 1950,
pur costituiti in gruppo sociale nella vecchia Collettiva, avevano continuato a controllare le altre Società estere ed avevano introdotto in Italia i prodotti contrassegnati dai marchi Hardtmuth provenienti dalle Case inglesi ed ameri
cane. In tal modo la Corte non solo si è contraddetta, ma è incorsa in errore di diritto, perchè ha sostanzialmente
negato ogni differenziazione, anche dal punto di vista del
l'autonomia patrimoniale, tra la società in nome collettivo e i suoi soci, attribuendo indifferentemente alla società
l'attività commerciale dei singoli soci, considerando come
attuazione dei marchi intestati alla Società l'attività eser
citata in concorrenza dei soci e presupponendo una con
temporanea duplice titolarità dei marchi a favore del gruppo sociale e a favore dei singoli soci.
Le doglianze di questo complesso mezzo sono parimenti
prive di fondamento.
È sicuramente esatto il principio di diritto richiamato
dalla ricorrente, che sia cioè invalido il trasferimento del
marchio effettuato senza l'azienda di cui contraddistingue i prodotti, occorrendo, al fine di evitare frodi in danno
del pubblico, che col marchio si trasferiscano anche quegli elementi dell'azienda che valgono a mantenere gli essen
ziali pregi della produzione, in vista dei quali il pubblico accorda al marchio i suoi favori. Ma tale principio non è stato disapplicato dalla Corte torinese, la quale ha posto in risalto che, al momento del provvedimento di confisca e di nazionalizzazione della Collettiva Hardtmuth, esiste
vano all'estero rami aziendali (non assoggettati a tale con
fisca) di cui il marchio, registrato in Italia, continuava a individuare i prodotti ; di tal chè è lecito ritenere che 11011
ricorreva, nel caso concreto, l'ipotesi innanzi prevista del
trasferimento di un marchio senza l'azienda, bensì l'altro
di un diritto al nome e ai marchi (esistenti al di fuori della
Cecoslovacchia) che i soci della ex Collettiva non avevano
menomamente perduto, essendo essi soci gli esclusivi
titolari dei relativi rami d'azienda, poi conferiti nella
Soc. a resp. lim. francese.
Una volta quindi collegati dai Giudici di merito i marchi
esteri con i rami d'azienda (non confiscati), rimaneva salvo
il principio del nostro ordinamento giuridico che consente
il trasferimento del marchio (anche registrato internazional
mente) con quel ramo particolare dell'azienda che si riferisce
alla produzione e alla vendita delle merci per le quali il
marchio stesso è stato registrato. Nè è censurabile in questa sede di legittimità il con
vincimento della Corte di merito circa l'effettivo apporto da parte dei soci Hardtmuth di tali beni e diritti alla Società
francese costituita nel 1950 col rogito Rivière, perchè su tal punto detta Corte nell'analizzare, con logica ed
esauriente motivazione, tutti gli elementi acquisiti al
processo, ha rilevato, tra l'altro, che i soci Hardtmuth
conferivano a detta Società, secondo l'atto costitutivo, « tutte le attività della vecchia Collettiva poste fuori della
Cecoslovacchia » (e quindi non soltanto quelle della succursale
esistente in Francia), sottolineando ancora che detti soci,
quali contitolari del patrimonio sociale, possedevano i di
ritti azionari di quasi la totalità delle altre Società Hardt
muth esistenti in America ed in Europa con propri stabili
menti industriali e commerciali, le cui merci erano contrad
distinte dai marchi esteri in contestazione : diritti di parte
cipazione amministrati dalla Anonima Koh-i-noor Aneva,
prima a Zurigo, poi a Vadeg, Holding pienamentè control
lata dalla Collettiva prima e dalla Società francese dopo. Se perciò, come per accertamento di fatto insindacabile
in questa sede ha ritenuto la Corte di merito, i titolari
della Collettiva (nazionalizzata) conservavano all'estero, nel loro patrimonio, un complesso di beni organizzati in modo tale da consentire, nonostante la confisca, l'esercizio
dell'Impresa Hardtmuth, cui competeva l'utilizzazione
dei marchi e nomi fondati sulle denominazioni Hardtmuth
e Ko-i-noor, correttamente, sul piano giuridico, detta
Corte ha individuato il persistente collegamento tra marchi
e azienda nei soggetti che, per il loro forzato distacco dal
centro di Ceskè Bendejovic, erano rimasti titolari del
diritto in comune di proprietà di quel complesso aziendale
non soggetto alla confisca.
Nè al riguardo è rilevante l'argomento opposto dalla
ricorrente che, ritenendo la Corte di merito tale complesso aziendale costituito, tra l'altro, da Società « aventi propria
personalità giuridica » (come le Società inglesi e americane), si sarebbe confusa la soggettività economica con quella
giuridica, perchè detta Corte ha avuto cura di precisare che i marchi distinguevano i prodotti di tutti gli stabili
menti della vecchia Hardtmuth, organizzati dalla Società
collettiva, dovunque essi fossero situati e che questa com
plessa organizzazione (il gruppo Hardtmuth), costituita
anche da società aventi una caratterizzazione personalistica diversa dalla vecchia Società in nome collettivo, ma con
trollata dai soci di quest'ultima direttamente o per mezzo
di una Holding, era ramificata in varie aziende e succursali
che costituivano altrettanti settori di attività aziendale.
Il che costituiva corretta applicazione dell'accennato prin
cipio di diritto circa il collegamento tra marchio e azienda
in vista appunto del fenomeno di aziende, aventi fra loro
legami e collaborazioni di vario genere (trust), che utilizzano
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991 PARTE PRIMA 992
lo stesso marchio e si aiutano nello sfruttamento dei mercati, senza con ciò cagionare danno alla collettività, grazie ai rapporti correnti tra le medesime, che garantiscono della buona qualità della merce.
Nè può giovare alla tesi della ricorrente l'altro argo mento del preteso inganno che i marchi Hardtmuth, apposti ai prodotti non fabbricati dall'Impresa nazionale, costi
tuirebbe per i consumatori. La Corte del merito anche su
questo punto ha esaurientemente motivato, ponendo, tra l'altro, in evidenza che, stante la diffusione e il credito in tutti i Paesi dei prodotti Hardtmuth, fabbricati dalla
Casa inglese e da quella americana, doveva ragionevolmente escludersi ogni possibilità di inganno per il pubblico.
Questo è mero giudizio di fatto che non può essere
sindacato in sede di legittimità, anche per quanto concerne
la ritenuta irrilevanza dei mezzi di prova dedotti sul punto
dall'Impresa nazionale.
Nò sussiste il dedotto difetto di motivazione, sotto il
profilo che la Corte di merito si sarebbe contraddetta col
sostenere, dall'un canto, che il passaggio dei beni esistenti
all'estero e dei corrispondenti marchi stranieri si fosse
verificato nel 1950, per effetto dello scioglimento della
Collettiva e la contemporanea costituzione della Società
a resp. lim. francese, cui sia i beni sia i marchi medesimi
vennero conferiti, e col ritenere, dall'altro, che i soci della
ex Collettiva avevano continuato l'attività produttiva dal 1945 al 1950 con l'introdurre in Italia i prodotti contras
segnati dai marchi Hardtmuth provenienti dalle Case
inglesi ed americane.
È sufficiente qui osservare che il ragionamento della
Corte di merito è immune da vizi logici e giuridici, perchè, come già dedotto innanzi, una volta accertato che il prov vedimento di nazionalizzazione aveva lasciato sopravvivere i rami di azienda situati fuori della Cecoslovacchia, rami di
azienda che erano rimasti ai vecchi titolari della Collettiva
(e, ripetesi, l'autonomia patrimoniale di questa non implicava la personificazione), la conseguenza logica non poteva essere che quella cui sono pervenuti i Giudici di merito, col ritenere che il complesso patrimoniale della organizza zione Hardtmuth (non confiscato) si appartenesse fin
dal 1945, in comunione, a detti titolari.
Col quarto mezzo la ricorrente insiste nella tesi circa
la interpretazione dell'art. 6 della Convenzione di Parigi
(di cui al secondo motivo), deducendo inoltre che le norme
dell'Arrangement di Madrid del 14 aprile 1891 confortano
tale sua interpretazione, implicando esse il collegamento, anche per i trasferimenti, tra la sorte del marchio nel Paese
di origine e quella nel Paese di importazione, il quale non
potrebbe prendere atto di quanto avvenuto nel primo ;
donde, si dice, se in base alla legge del Paese d'origine si
opera il trasferimento del marchio, la cessazione della
protezione del marchio ili tale Paese comporta una eguale cessazione di protezione nel Paese unionista, ove il marchio stesso, è stato registrato « tei quel ».
Perciò, spiega la ricorrente, una volta riconosciuta
efficacia strettamente territoriale al provvedimento di
nazionalizzazione, doveva pure riconoscersi che il trasferi
mento dell'azienda cecoslovacca e dei marchi si era operato anche in applicazione dell'art. 22 delle preleggi, per il quale la proprietà e gli altri diritti sulle cose mobili e immobili sono regolati dalla lex rei sitae.
Ripetendo quanto già detto in relazione alla interpreta zione che deve darsi all'art. 6 della Convenzione di Parigi, che comporta soltanto l'obbligo per gli Stati unionisti
di proteggere il marchio di importazione nella stessa forma, ossia nei requisiti estrinseci con cui esso risulta registrato
originariamente, ma non già quello di accertarne la validità
sostanziale, anche secondo le norme dell'Arrangement di
Madrid, questo principio deve rimanere fermo ; perchè con tale Convenzione è stata disciplinata la possibilità,
per i cittadini degli Stati aderenti, di registrare il marchio
allo speciale Ufficio di Berna, ottenendo così dal giorno della registrazione e per venti anni, gli stessi benefici che
deriverebbero dalla registrazione in tutti gli Stati unionisti ; ma tutto ciò, come è ovvio, non pregiudica menomamente, becondo l'ordinamento giuridico italiano, l'esercizio della
azione giudiziaria circa l'appartenenza del marchio (art. 34 r. decreto 21 giugno 1942 n. 929). (Omissis)
Per questi motivi, rigetta, ecc.
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE.
Sezione I civile; sentenza 29 gennaio I960, n. 129; Pres.
Fragali P., Est. Del Conte, P. M. Colonnese (conci,
conf.) ; Soc. Cotonificio Valle Susa (Avv. Jemolo) c. Soc. Gor-Ray (Avv. Ungaro, Grassetti).
(Gassa App. Milano 26 marzo 1957)
Vendita — Vizi — Utilizzazione « alienazione della
eosa — Legge inglese « Sale ol goods Aet » — Riso
luzione — Decadenza — Insussistenza (Cod. civ., art. 1492).
Vendita — Vizi — Legge inglese — Azione redibitoria
e « quanti minoris » — Revocabilità della scella
(Cod. civ., art. 1492).
Sia per il diritto italiano sia per la legge britannica, l'utilizza
zione o l'alienazione della cosa non importa la decadenza
dell'azione di risoluzione, ove non costituisca univoca
manifestazione che l'acquirente, mediante l'atto, abbia
inteso dare il suo benestare e la sua accettazione al modo
di adempimento del contratto ; la decadenza non sussiste
se gli atti siano compiuti al fine di evitare o ridurre il danno
o l'utilizzazione sia necessaria per accertare la difettosità della cosa. (1)
La norma di cui all'art. 1492 cod. civ., che sancisce l'irrevoca
bilità della scelta fra risoluzione del contratto e riduzione
del prezzo, ha natura sostanziale e non processuale, per cui il divieto deve ritenersi inoperante, qualora al rapporto debba applicarsi la legge inglese che non prevede l'irrevo
cabilità della scelta. (2)
La Corte, ecc. — Con la prima censura del primo motivo
del ricorso principale, si deduce la violazione dell'art. 35
della legge inglese « Sale of goods Act » del 1893 e si sostiene
che poiché tale norma stabilisce che « si ritiene aver il com
pratore accettato la merce quando la stessa sia stata a lui
consegnata ed abbia compiuto un atto incompatibile con
la proprietà del venditore » e poiché, nella specie, la Gor
Eay aveva utilizzato la maggior parte della stoffa, avrebbe
dovuto ritenersi la decadenza della stessa dal diritto di
eccepire la difettosità. La doglianza è infondata.
Questa Suprema corte nell'interpretazione dell'art. 1492
cod. civ. ha costantemente ritenuto che la utilizzazione
o l'alienazione della cosa non importa di per sè sola l'effetto
(1-2) In senso conforme alla prima massima, a norma del l'art. 14(12 cod. civ., v. Cass. 14 novembre 1959, n. 3366 e 9 ot tobre 1959, n. 2743, Foro it., Mass., col. 634, 518 ; 1(5 maggio 1958, n. 1598, id., Rep. 1958, voce Vendita, n. 133 ; 11 giugno 1957, n. 2166 e 26 marzo 1957, il. 1042, id., Rep. 1957, vocecit., nn. 148, 147 ; 31 ottobre 1955, n. 3564, id., Rep. 1955, voce cit., nn. 178, 179 ; 31 marzo 1954, n. 1007, id., Rep. 1954, voce cit., n. 181 ; 28 gennaio 1950, n. 237, id., 1950, I, 1270, con nota di richiami ; per qualche riferimento, v. anche Cass. 30 marzo
1951, n. 718, id., 1951, I, 706. Nel senso che l'alienazione inibisce l'esercizio dell'azione di
risoluzione : Cass. 7 aprile 1956, n. 1022, id., Rep. 1956, voce
cit., n. 177. In dottrina, v. Rubino, La compravendita, Milano, 1952,
pag. 632 e segg. Si veda anche Bigiavi, Risoluzione per inadem
pimento ed alienazione della cosa litigiosa, in Riv. trim. dir. e
proc. civ., 1954, 129. Sulla alternatività fra azione redibitoria e quanti minoris,
v. Cass. 17 maggio 1956, n. 1685, Foro it., Rep. 1956, voce Ven
dita, n. 125 ; 27 giugno 1953, n. 2011, id., Rep. 1953, voce cit., n. 176.
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