sezione I civile; sentenza 2 marzo 1999, n. 1739; Pres. Corda, Est. Verucci, P.M. Raimondi(concl. conf.); Prola (Avv. Sinibaldi, Manni) c. Salada Nur Ibrahaim (Avv. Amici, Motta).Conferma App. Milano 13 maggio 1994Source: Il Foro Italiano, Vol. 122, No. 5 (MAGGIO 1999), pp. 1457/1458-1461/1462Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23193464 .
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
do anche ad un proprio precedente indirizzo) dare conto anali
ticamente delle perplessità già emerse a livello dottrinario e ciò
in funzione di evitare che la domanda di ammissione al passivo vada dichiarata inammissibile.
La norma di cui all'art. 101 1. fall, richiama il 3° comma
dell'art. 98, talché si è ritenuta applicabile anche al procedi mento per l'insinuazione tardiva la sanzione della estinzione nel
caso di tardiva costituzione; anche la prevalenza della dottrina
si è espressa a favore di una estensione della regola della
estinzione.
Nei casi trattati dalle pronunce in rassegna, peraltro, non si
trattava di discutere della applicazione della sanzione estintiva
ma della possibilità di riproporre la medesima domanda con
un nuovo ricorso.
Orbene, mentre con riferimento alla opposizione allo stato
passivo è assai semplice concludere per l'inammissibilità di un
nuovo ricorso, posto che alla natura parzialmente impugnatoria
(Cass. 25 gennaio 1993, n. 845, id., Rep. 1993, voce Fallimen
to, n. 458) della opposizione si ricollega la previsione di un ter
mine perentorio inevitabilmente scaduto ove il creditore volesse
presentare un nuovo ricorso (Cass. 13 gennaio 1988, n. 177,
id., Rep. 1988, voce cit., n. 488) meno agevole è trasferire lo
stesso principio al procedimento ex art. 101 1. fall.
I giudici del merito in diverse occasioni hanno reputato che
la diversità intrinseca fra opposizione allo stato passivo e insi
nuazione tardiva impedisca ogni assimilazione nella disciplina del procedimento laddove non vi siano norme espresse di ri
chiamo.
Diversamente, la maggior parte della giurisprudenza (nono stante sia ormai pacifico che l'insinuazione tardiva non è un
mezzo di impugnazione dello stato passivo e che tale giudizio è diverso da quello di opposizione allo stato passivo; cfr. Cass.
21 aprile 1993, n. 4724, id., 1993, I, 2852, che ha escluso che
il termine per appellare la sentenza di primo grado resa nel pro cesso ai sensi dell'art. 101 1. fall, sia omologo a quello previsto
per l'opposizione) ha optato per la parificazione del trattamen
to procedimentale dei due diversi giudizi assumendo che anche
l'insinuazione tardiva rappresenta un elemento «incidentale» nel
processo fallimentare (una sorta di sub-procedimento) e che le
esigenze di speditezza giustificano la previsione di una progres siva scansione di preclusioni; questo indirizzo ha il conforto
di una parte della dottrina.
Sul punto, peraltro, lo schieramento dottrinale si presenta as
sai meno compatto; perplessità sulla assimilazione della discipli na sono avanzate da non pochi autori, che con argomenti in
buona parte simili, osservano che la ragione della inammissibili
tà di una nuova domanda nel procedimento di opposizione allo
stato passivo (estinto) trova congrua giustificazione nella appli cazione delle regole dettate per i processi di impugnazione, mentre
la natura certamente non assimilabile a quella dei giudizi di gra vame della dichiarazione tardiva di credito dovrebbe portare ad
escludere la sanzione della improponibilità di una nuova do
manda in virtù della diversa regola generale dettata dall'art.
310 c.p.c.
Maggiori margini per l'applicazione di un regime di preclu sioni alla riproponibilità della domanda si possono cogliere ade
rendo a quella tesi, per vero minoritaria, secondo la quale lo
sviluppo contenzioso del procedimento di insinuazione tardiva
assume un contenuto latamente impugnatorio dell'implicito prov vedimento negativo di rigetto dell'ammissione del credito rap
presentato dalla decisione del giudice delegato di istruire la cau
sa ai sensi dell'art. 175 ss. c.p.c. In verità, la ratio sottesa all'orientamento dominante è quella
di introdurre meccanismi che consentano di pervenire rapida mente alla stabilità dello stato passivo. Non si può però trascu
rare che le esigenze di speditezza così spesso «sbandierate» con
fliggono ineluttabilmente con l'enorme dilatazione dei tempi delle
procedure fallimentari. Si può condividere oppure no una sif
fatta scelta che è tipicamente di «politica giudiziaria», senza
che sia per questo necessario giungere a superare la regola gene rale di cui all'art. 310 c.p.c., con l'affermazione secondo la quale al creditore non viene sottratto il diritto d'azione posto che questo verrebbe conservato nei confronti del debitore una volta che
10 stesso sia tornato in bonis. È infatti evidente che l'interesse
del creditore è quello di partecipare al concorso e non quello di soddisfarsi sui beni del fallito dopo la chiusura del fallimento
11 Foro Italiano — 1999.
nella speranza che il fallito medesimo si arricchisca improvvi samente.
Il tribunale ritiene quindi che non debba essere sovvertita l'ap plicazione della regola generale fissata nell'art. 310 c.p.c. se condo la quale l'estinzione del giudizio non provoca effetti sul diritto sostanziale controverso. Poiché il giudizio avente per og getto una dichiarazione tardiva di credito è pacificamente un ordinario giudizio di cognizione (una volta oltrepassata la pri ma fase) non si comprende come si possa negare il valore della
regola di cui all'art. 310 c.p.c. Se poi la ragione di tale accani
mento si annidasse nella preoccupazione di evitare ritardi nella
chiusura dei fallimenti, sarebbe agevole replicare che il proble ma va risolto altrove e cioè sul piano dei rapporti fra chiusura del fallimento e processi pendenti. La domanda è quindi am
missibile. Quanto al merito della controversia, il credito risulta docu
mentalmente provato e non è stato oggetto di contestazione, sì che la domanda va accolta.
CORTE DI CASSAZIONE; sezione I civile; sentenza 2 marzo
1999, n. 1739; Pres. Corda, Est. Verucci, P.M. Raimondi
(conci, conf.); Prola (Avv. Sinibaldi, Manni) c. Salada Nur
Ibrahaim (Avv. Amici, Motta). Conferma App. Milano 13
maggio 1994.
Matrimonio — Matrimonio islamico — Contrarietà all'ordine
pubblico — Giudizio avente ad oggetto diritti successori —
Irrilevanza (Disp. sulla legge in generale, art. 31; cod. civ., art. 115).
La circostanza che la legge islamica consenta la poligamia e
preveda l'istituto del ripudio non impedisce, sotto il profilo dei limiti dell'ordine pubblico e del buon costume di cui al
previgente art. 31 disp. sulla legge in generale, che la cittadi
na somala, la quale abbia contratto con un italiano matrimo
nio celebrato in Somalia secondo le forme previste dalla lex
loci, faccia valere dinanzi al giudice italiano i diritti successo
ri derivanti dal matrimonio medesimo. (1)
(1) Non constano precedenti editi. Se si guarda al nucleo essenziale della motivazione, la decisione in
epigrafe parrebbe reggersi sull'argomentazione secondo cui, in conside razione dell'oggetto del processo (nel quale, per quel ch'è dato com
prendere, non era in discussione né la libertà di stato degli sposi al momento del matrimonio somalo, né l'esistenza di matrimoni successivi a questo), nessuna rilevanza potevano assumere in esso gli istituti del diritto matrimoniale islamico di cui la ricorrente assumeva il contrasto con l'ordine pubblico e con il buon costume.
Quel che invece ha il sapore di un (pericoloso) obiter dictum è l'af fermazione secondo cui l'essere stato il matrimonio celebrato (all'este ro) «secondo un rito che preveda la poligamia e/o lo scioglimento del vincolo ad nutum» non potrebbe non essere ricompreso tra le ragioni indicate negli art. 117 ss. c.c., cioè tra i vizi che aprono la strada all'im
pugnazione del matrimonio. Appare evidente, infatti, che, se per un
verso non può dubitarsi che la poligamia e il ripudio contrastino con i principi fondamentali cui è ispirato l'istituto del matrimonio nel no stro ordinamento, per altro verso non si vede, però, in quale modo ciò possa tradursi in un vizio del consenso o comunque in un vizio
genetico del matrimonio. Giusto al contrario, è lecito pensare che il
limite dell'ordine pubblico impedisca di riconoscere effetti nell'ordina mento italiano (oggi in virtù dell'art. 16 1. 218/95, fino a ieri in forza
dell'art. 31 preleggi) al ripudio che dovesse incidere, nell'ordinamento di origine, sul matrimonio islamico (v., ad es., Trib. Milano 11 marzo
1995, Foro it., Rep. 1996, voce Diritto internazionale privato, n. 46, e App. Milano 17 dicembre 1991, id., Rep. 1993, voce Matrimonio, n. 147) ovvero, a maggior ragione, al successivo matrimonio contratto in costanza del primo. [G. Balena]
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1459 PARTE PRIMA 1460
Svolgimento del processo. — Salada Nur Ibrahaim, premesso di aver contratto matrimonio il 14 dicembre 1983 in Mogadiscio con Alessandro Prola, esponeva al presidente del Tribunale di
Lodi che, alla morte del marito, erano rimaste eredi, oltre ad
essa istante, le figlie Alberta e Paola e che, dopo la denuncia
di successione, erano risultati una cassetta di sicurezza e due
conti correnti intestati al defunto presso la Banca S. Paolo di
Aosta e di Courmayeur, peraltro estinti dalle figlie senza avver
tire la coerede: ritenendo che il comportamento delle sorelle Prola
facesse insorgere il fondato timore di perdere le garanzie del
suo credito, chiedeva di essere autorizzata a procedere al seque stro conservativo dei beni mobili ed immobili di Alberta e Pao
la Prola fino alla concorrenza di lire trenta milioni.
Concesso ed eseguito il provvedimento, nel corso del giudizio di convalida le convenute eccepivano che il matrimonio, con
tratto secondo la legge islamica, la quale consente il ripudio e la poligamia, era contrario alle norme del diritto pubblico interno e, quindi, privo di qualsiasi effetto, pur essendo stato
trascritto in Italia.
Il Tribunale di Lodi, con sentenza del 23 giugno 1988, riget tava la domanda di convalida del sequestro.
L'impugnazione proposta dalla soccombente, nella resistenza
delle sorelle Prola, veniva parzialmente accolta dalla Corte d'ap
pello di Milano, che, con sentenza del 13 maggio 1994, dichia
rava la legittimazione attiva di Salada Nur Ibrahaim, pur rite
nendo che non vi fosse prova adeguata della pretesa azionata.
Premesso che il matrimonio del cittadino italiano contratto
all'estero è valido in Italia a condizione che sussistano i requisi ti di stato e capacità della persona previsti dal nostro ordina
mento e che, nel caso di specie, la sussistenza di tali requisiti non era in discussione, la corte osservava che, a norma dell'art.
115 c.c., al matrimonio del cittadino italiano celebrato all'este
ro si applica la legge del luogo in cui il matrimonio è contratto,
onde, trattandosi di matrimonio validamente celebrato secondo
la legge somala, doveva considerarsi valido anche in Italia, in
dipendentemente dall'osservanza delle norme italiane relative alle
pubblicazioni e trascrizione.
Quanto al limite derivante dall'ordine pubblico e dal buon
costume, posto dall'art. 31 preleggi, la corte territoriale osser
vava che, pur essendo indubbia la contrarietà con tali principi della poligamia od anche del solo ripudio, tuttavia era parimen ti indubbio che la fattispecie fosse connessa al diritto successo
rio del coniuge superstite sequestrante, che aveva assunto detto
status nel rispetto delle condizioni richieste dalla nostra legge: era questione del tutto indifferente che l'ordinamento somalo
prevedesse la possibilità del ripudio e della poligamia, atteso
che nella specie tali norme non assumevano alcun rilievo, né
diretto né indiretto, ai fini della pretesa azionata.
Per la cassazione di tale sentenza Alberta e Paola Prola han
no proposto ricorso con un unico motivo, illustrato anche con
memoria. Salada Nur Ibrahaim ha presentato memoria, notifi
cata alle ricorrenti il 24 ottobre 1995.
Motivi della decisione. — In via preliminare, va rilevato che
l'atto denominato «memoria difensiva», notificato dalla Salada
Nur Ibrahaim alle ricorrenti in data 24 ottobre 1995 e deposita to il 2 novembre 1995, non può valere come controricorso (per ché fuori termine, il ricorso essendo stato notificato il 22 giu
gno 1995), e neppure, quindi, come difesa scritta, legittimando soltanto i nominati difensori alla discussione orale, cui, peral
tro, non hanno partecipato. Con l'unico motivo, denunziando violazione e falsa applica
zione degli art. 17, 26, 31 preleggi e 115 c.c., in relazione al
l'art. 360, n. 3, c.p.c., le ricorrenti lamentano che la corte di
merito non abbia considerato che, prevedendo il matrimonio
islamico la poligamia ed il ripudio, nessun effetto può avere
nell'ordinamento italiano, perché tali caratteristiche contrasta
no con l'ordine pubblico ed il buon costume: trattasi di matri
monio privo del requisito dell'assunzione dell'obbligo reciproco di fedeltà, da ritenersi essenziale per la sua giuridica configura bilità nel nostro ordinamento, sì da impedire la produzione di
qualsiasi effetto, anche indiretto.
All'esame della censura occorre premettere che nel presente
giudizio non assume rilievo lo ius superveniens costituito dal
l'art. 73 1. 31 maggio 1995 n. 218, che ha abrogato gli articoli
dal 17 al 31 preleggi: in virtù del combinato disposto degli art.
72 e 74, infatti, tale disposizione si applica ai giudizi iniziati
Il Foro Italiano — 1999.
dopo la data di entrata in vigore della stessa 1. 218/95, stabilita — per la parte che qui interessa — al 1° settembre 1995.
Con riferimento alle previgenti norme di diritto internaziona
le privato, la sentenza impugnata si sottrae alla critica delle ri
correnti.
Questa corte ha già avuto modo di affermare che, a mente
dell'art. 115 c.c. ed in armonia con quanto previsto dagli art.
17 e 26 preleggi e 50 legge sullo stato civile, il matrimonio cele
brato da cittadini italiani all'estero secondo le forme ivi stabili
te e sempre che sussistano i requisiti sostanziali relativi allo sta
to e capacità delle persone previste dal nostro ordinamento, è
immediatamente valido e rilevante anche in Italia, indipenden temente dall'osservanza delle norme italiane riguardanti le pub
blicazioni, che possono dar luogo soltanto ad irregolarità su
scettibili di sanzioni amministrative, e la trascrizione nei registri dello stato civile, la quale ha natura certificativa e di pubblicità e non costitutiva (Cass. 1298/71, Foro it., Rep. 1971, voce Ma
trimonio, n. 115; 569/75, id., 1976, I, 794, e, più di recente, Cass. 9578/93, id., Rep. 1993, voce cit., n. 138). Non v'è ragio ne per discostarsi da tale orientamento, cui il giudice di merito
si è espressamente richiamato: dovendosi anche osservare, per un verso, che nella specie non si pone la questione dell'osser
vanza di tali adempimenti — tanto più che il matrimonio è sta
to regolarmente trascritto — e, per altro verso, che è fuori di
scussione che il matrimonio sia stato contratto nel rispetto delle
forme stabilite dalla lex loci e che sussistessero i requisiti di
stato e capacità previsti dal nostro ordinamento.
Contrariamente all'assunto delle ricorrenti, dall'affermazione
di principio secondo cui la poligamia e/o il ripudio, quali carat
teristiche del matrimonio islamico, sono contrari all'ordine pub blico interno ed al buon costume, la corte territoriale non era
tenuta a trarre automaticamente la conseguenza che alla Salada
Nur Ibrahaim non potesse riconoscersi la qualità di moglie di
Alessandro Prola e, quindi, di sua erede: essendo incontestato — come si è visto — che il matrimonio è stato contratto secon
do le forme stabilite dalla legge somala e che sussistevano i re
quisiti di stato e capacità dei contraenti, non v'è motivo per escluderne la validità nel nostro ordinamento e, quindi, l'effica
cia in relazione sia al diritto successorio fatto indirettamente
valere mediante l'istanza di sequestro conservativo, che alla le
gittimazione attiva nel successivo giudizio di convalida.
In realtà, la corte di merito non ha riconosciuto effetti giuri dici ad un atto nullo, ma, accertata la validità formale e —
nei limiti precisati — sostanziale di esso, si è limitata a rilevare
l'estraneità al rapporto attinente all'incidenza della poligamia e del ripudio nella validità dello stesso matrimonio sotto il pro filo del contrasto con i principi posti dall'art. 31 preleggi. Sia
pure sinteticamente, ha richiamato, al riguardo, un autorevole
indirizzo dottrinario, secondo cui occorre distinguere la regola mentazione del rapporto giuridico controverso dalla rilevazione
dei suoi presupposti, la regolamentazione della questione prin cipale da quella pregiudiziale o preliminare, con la conseguenza che la disciplina di tali presupposti o questioni, posta dall'ordi
namento straniero, al pari del diritto o status che si presenta come acquisito rispetto alla situazione da accertare, costituisco
no essenzialmente elementi interpretativi (ove a ciò occorra pro
cedere) delle norme straniere richiamate dalle disposizioni di di
ritto internazionale privato per la soluzione del caso concreto
e che, in quanto tali, non sono direttamente immessi nell'ordi
namento interno: è stato affermato, così, che il figlio e la mo
glie del musulmano poligamo sono comunque ammessi a succe
dere ai beni lasciati da costui in Italia e, ancora, che l'accerta
mento dell'esistenza di un matrimonio valido — o di una
filiazione legittima — rappresenta questione preliminare rispet to a quella principale della devoluzione ereditaria e, non impli cando un'inserzione nella lex fori delle norme straniere che am
mettono la poligamia o vietano i matrimoni misti, non pone
neppure un problema di compatibilità con l'ordine pubblico interno.
Ma indipendentemente da questa impostazione, l'insostenibi
lità della tesi secondo cui ad un matrimonio contratto da citta dino italiano all'estero — sia pure nel rispetto delle forme ivi
stabilite ed in presenza delle persone — non potrebbe ricono
scersi alcun effetto giuridico, ove la lex loci preveda caratteristi che contrastanti con i principi fondamentali del nostro ordina
mento, discende dal principio del c.d. favor matrimonii, alla
cui stregua l'atto non perde validità se non sia stato impugnato
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
per una delle ragioni indicate negli art. 117 ss. c.c. (nelle quali non può non essere ricompresa quella del matrimonio contratto
secondo un rito che preveda la poligamia e/o lo scioglimento del vincolo ad nutum) e non sia intervenuta una pronuncia di
nullità o di annullamento. Ne deriva che, in virtù della validità
interinale del matrimonio contratto da cittadino italiano all'e
stero pur secondo una legge che consenta la poligamia e/o il
ripudio, ma nel rispetto delle forme ivi stabilite e ricorrendo
i requisiti sostanziali di stato e capacità delle persone, non si
può disconoscerne l'idoneità a produrre effetti nel nostro ordi
namento, sino a quando non se ne deduca la nullità e non inter
venga una pronuncia sul punto. A tale principio si è, all'eviden
za, attenuto il giudice di merito, avendo precisato che il profilo dell'ordine pubblico e buon costume, connesso con la poliga mia ed il ripudio, era estraneo al rapporto dedotto in giudizio e che, comunque, lo status di coniuge, acquisito dalla Salada
Nur Ibrahaim nel rispetto delle condizioni richieste dalla nostra
legge, manteneva rilievo in sede ereditaria.
Quanto all'argomento che, nell'ipotesi di matrimonio islami
co (e, in ogni caso, contratto secondo una legge che ammetta
la poligamia od il ripudio unilaterale), l'atto non potrebbe esse
re qualificato come matrimonio nel senso voluto dal nostro or
dinamento, perché il vizio sarebbe genetico, riguardando il con
senso stesso, è sufficiente osservare che il principio del favor matrimonii e, quindi, della sua validità interinale non soffre
eccezioni in situazioni che pur configurano la medesima incom
patibilità ontologica con l'ordine pubblico ed attengono, in di
versa misura, alla validità del consenso, quali il matrimonio con
tratto in violazione degli art. 84, 86, 87 e 88 c.c.: in ipotesi,
cioè, espressamente previste dall'art. 117 c.c. come motivo d'im
pugnazione, con la conseguente necessità di una pronuncia di
nullità o di annullamento.
Sia pure a fini meramente informativi, non sembra superfluo
aggiungere che a tale principio si è attenuto il ministero di gra
zia e giustizia nella circolare l/54/FG/3(86)1395 del 4 febbraio
1987, emanata per impartire direttive agli uffici di stato civile
sulla trascrizione di matrimoni islamici (nello stesso senso della
trascrivibilità di detti matrimoni sono le circolari del 3 ottobre
1988, su conforme parere del Consiglio di Stato, sez. Ili, ord.
7 giugno 1988, e del 7 febbraio 1989). Nella memoria depositata ai sensi dell'art. 378 c.p.c. viene
introdotto un altro profilo: la «forma» dell'atto, cui si riferi
scono gli art. 26 disp. prel. e 115 c.c., non può essere conside
rata in modo talmente restrittivo da farla coincidere con il con
cetto di «rito», così scollegandola dagli effetti che l'atto produ
ce, ma esige un controllo sulla presenza dei requisiti essenziali
posti dall'ordinamento italiano per la validità dell'atto e, al me
desimo tempo, sull'assenza di aspetti contrari all'ordine pubbli
co ed al buon costume.
Intesa come ulteriore censura alla sentenza impugnata, la pro
spettazione sarebbe inammissibile, perché di essa non si fa cen
no nel ricorso: tuttavia, anche considerandola come argomento
difensivo, attinente al problema degli effetti comunque ricon
ducibili al matrimonio contratto dal cittadino italiano all'este
ro, la sua infondatezza emerge dalla constatazione che si risol
ve, per un verso, nella riproposizione della questione di asserita
incompatibilità con l'art. 31 disp. prel. e, per altro verso, in
un'evidente commistione tra requisiti formali dell'atto, secondo
la lex loci, e sostanziali di esso, alla stregua del nostro ordina
mento. La sentenza di questa corte 1304/90 (id., Rep. 1990,
voce cit., n. 150), citata dalle ricorrenti a sostegno della tesi
sostenuta, ne costituisce, in realtà, netta confutazione, ove si
tenga presente non soltanto che è stata resa in tema di indagine
sulla validità formale del matrimonio contratto dal cittadino al
l'estero e di sanatoria di eventuali vizi di forma (in fattispecie,
quindi, ben diversa da quella oggetto del presente ricorso), ma
anche — e soprattutto — che, nell'affermare la necessità di un
preventivo riscontro dei requisiti minimi per la giuridica confi
gurabilità del matrimonio medesimo, tali requisiti ha chiaramente
individuato nella manifestazione della volontà, da parte di due
persone di sesso diverso, ad un ufficiale celebrante, in confor
mità all'orientamento giurisprudenziale sopra ricordato e senza
alcun riferimento ad altri profili riguardanti l'ordine pubblico
interno.
La questione, allora, non si configura diversamente da quella
Il Foro Italiano — 1999.
che — come si è detto — va risolta alla luce di una corretta
lettura degli art. 17, 26 e 31 disp. prel., 115 c.c. e 50 della
legge sullo stato civile: dovendosi richiamare, ad ulteriore con
forto della soluzione indicata, il principio, già affermato da que sta corte, secondo cui anche il mero atto di celebrazione all'e
stero del matrimonio del cittadino, nel rispetto delle forme pre viste dalla lex loci e sussistendo i requisiti di stato e capacità delle persone, ben può costituire prova della qualità di coniuge e dell'esistenza di un matrimonio immediatamente efficace nel
nostro ordinamento, pur quando si tratti di far valere un diritto
ricollegato indirettamente a detta qualità (cfr. Cass. 3599/90,
id., 1990, I, 2177). In conclusione, il ricorso va rigettato.
CORTE DI CASSAZIONE; sezione II civile; sentenza 23 feb
braio 1999, n. 1493; Pres. Baldassarre, Est. Pontorieri,
P.M. Nardi (conci, conf.); Sanfelice e altri (Aw. Barbato,
Grieci) c. Bertuca (Avv. G. Ferrara). Dichiara inammissibi
le ricorso avverso App. Milano, decr. 9 aprile 1997.
Comunione e condominio — Condominio negli edifici — Am
ministratore — Revoca giudiziaria — Ricorso per cassazione
— Inammissibilità (Cost., art. Ill; cod. civ., art. 1129; disp. att. cod. civ., art. 64; cod. proc. civ., art. 742).
È inammissibile il ricorso per cassazione avverso il decreto con
cui la corte d'appello provvede in sede di reclamo sul decreto
emesso dal tribunale, ai sensi dell'art. 1129 c.c., in tema di
revoca dell'amministratore di condominio. (1)
Svolgimento del processo. — Con decreto del 19 marzo-9 aprile
1997, la Corte d'appello di Milano, in riforma del decreto del
(1) In senso conforme, v., da ultimo, Cass. 10 maggio 1997, n. 4090, Foro it., 1997, I, 2497.
Contra, per l'ammissibilità del ricorso straordinario per cassazione
ex art. Ill Cost, da parte dell'amministratore, nel caso in cui la do
manda di revoca abbia trovato accoglimento, v. soltanto Cass. 18 mag
gio 1996, n. 4620, id., 1996, I, 2376, con nota dì richiami, rispetto alla quale la pronunzia in epigrafe si pone espressamente ed argomenta tamente in contrasto, osservando come non appaia sostenibile la tesi
dell'attitudine al giudicato e del carattere definitivo del decreto emesso
nella fattispecie dalla corte d'appello (posto che di tale provvedimento la legge prevede espressamente la modificabilità e revocabilità da parte dello stesso giudice, e che il procedimento si svolga senza la partecipa zione di tutti i condomini) e come, d'altra parte, neppure risponda al
vero l'obiezione secondo cui l'amministratore revocato dall'incarico ri
marrebbe altrimenti senza difesa (ben potendo egli, in ogni caso, agire in autonomo giudizio — nei confronti del condominio nel suo comples so — per far valere le sue ragioni).
Nel senso della natura di volontaria giurisdizione del procedimento di revoca giudiziale dell'amministratore di condominio, v. anche Cass.
27 marzo 1998, n. 3246, id., Mass., 344, che ha ritenuto ricorribile
per cassazione, ai sensi dell'art. Ill Cost., il provvedimento di condan
na del ricorrente alle spese di causa eventualmente emesso dalla corte
d'appello, sull'erroneo presupposto della sussistenza di una controver
sia su diritti, nel confermare il decreto del tribunale di rigetto dell'istan
za di revoca dell'amministratore. Con riferimento a situazioni concrete in cui si è ravvisata — o, vice
versa, si è esclusa — la sussistenza di «gravi irregolarità» giustificative della revoca giudiziale dell'amministratore condominiale ai sensi del
l'art. 1129, 3° comma, c.c., v., da ultimo, Trib. Santa Maria Capua Vetere 23 luglio 1997, id., Rep. 1997, voce Comunione e condominio, n. 146, e, con riferimento allo stesso caso (amministratore che, fra l'al
tro, da oltre due anni ometteva di rendere il conto della sua gestione in sede assembleare, limitandosi a trasmettere ai singoli condomini rela
zioni informative in proposito), Trib. Foggia 18 febbraio 1997, e App. Bari 15 maggio 1997, ibid., nn. 153, 156 (riportate entrambe in Arch,
locazioni, 1997, 849 e 647).
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