sezione I civile; sentenza 20 febbraio 1998, n. 1856; Pres. Corda, Est. Morelli, P.M. Frazzini(concl. parz. diff.); Conti (Avv. Pandocchi) c. D'Ambrosio (Avv. Pizzoccheri). Conferma App.Milano, decr. 29 luglio 1996Source: Il Foro Italiano, Vol. 122, No. 6 (GIUGNO 1999), pp. 2043/2044-2053/2054Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23193741 .
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2043 PARTE PRIMA 2044
dovuto dal datore di lavoro in corrispettivo dell'attività lavora
tiva del dipendente; comporta, altresì, un incremento patrimo niale di costui; e rientra nell'ampio concetto di retribuzione in
dipendenza del sottostante rapporto di subordinazione, come
delineato dal legislatore nell'art. 12 1. 30 aprile 1969 n. 153, a fini contributivi.
Al riguardo, va dunque affermato il principio che: «l'inden
nità sostitutiva di ferie non godute ha natura retributiva, assi
milabile sotto certi aspetti agli emolumenti per lo straordinario,
trattandosi di compenso, sia pure con le maggiorazioni previste dalla legge o dalla contrattazione collettiva, per prestazioni la
vorative eseguite in giornate che avrebbero dovuto essere dedi
cate al riposo, ed in dipendenza del sottostante rapporto di su
bordinazione; pertanto tale indennità rientra nell'ambito del
l'ampio concetto di retribuzione imponibile a fini previdenziali ed assistenziali delineato dall'art. 12 1. 30 aprile 1969 n. 153,
senza alcuna indagine circa l'eventuale, concorrente profilo ri
sarcitorio della stessa, atteso che detta norma esclude soltanto
alcune erogazioni tassativamente indicate, tra le quali non può
ricomprendersi il menzionato emolumento, comprensivo di mag
giorazioni correlate alla particolare natura qualitativa e tempo rale delle prestazioni effettuate in periodo feriale».
Quanto al secondo punto dell'impugnazione, sostiene l'istitu
to che erroneamente il tribunale ha escluso il profilo retributivo
correlato al valore del servizio mensa e, per l'effetto, l'indenni
tà sostitutiva dello stesso, sulla base di una distorta interpreta zione della prima parte dell'art. 6 d.l. 333/92, laddove ai punti 3 e 5 della medesima disposizione risulta inequivocabilmente con
fermato che detto servizio va inserito nella base imponibile per il computo dei contributi di previdenza ed assistenza sociali; e che, comunque, anche in ipotesi di esatta analisi interpretati va della norma secondo le conclusioni della sentenza, la stessa,
atteso il suo evidente carattere innovativo, non poteva essere
applicata retroattivamente per il periodo di cui alla contestazio
ne degli addebiti, anteriore al 1990.
Al riguardo, è orientamento prevalente di questa Suprema corte che il servizio mensa (sia nel regime anteriore all'entrata
in vigore dell'art. 6 d.l. 333/93, convertito in 1. 8 agosto 1992
n. 359, che in quello da tale norma espresso, che pertanto assu
me il valore di disposizione confermativa, senza dunque porsi in contrasto con gli art. 3, 24, 36, 39, 101, 102 e 104 Cost.), ancorché obbligatoriamente apprestato dal datore di lavoro in
adempimento di quanto stabilito dalla contrattazione collettiva, non ha carattere di retribuzione in natura, difettando del requi sito della corrispettività, in quanto la sua fruizione non è cau
salmente correlata al solo fatto della prestazione lavorativa, ma
presuppone un ulteriore atto volontario del lavoratore, che in
tenda fruire del servizio ed in concreto ne usufruisca.
Può, nondimeno, detto servizio assumere siffatta natura re
tributiva indiretta, qualora le specifiche clausole di previsione
stabiliscano, altresì, l'erogazione di un'indennità sostitutiva, in
ipotesi di rifiuto del dipendente di avvalersene, rispetto alla quale è dato configurare un'obbligazione facoltativa del datore di la
voro con scelta della prestazione rimessa al creditore, in favore
di coloro che non si avvalgano del servizio medesimo (cfr., ex
plurimis, Cass., sez. un., 3888/93, id., 1993, I, 1399; 581/94,
id., Rep. 1994, voce Lavoro (rapporto), n. 998; 3218/96, id.,
Rep. 1997, voce Previdenza sociale, n. 284; contra, 11175/96,
ibid., n. 287). Ritiene il collegio che detto orientamento, ancorato a profili
retributivi della base imponibile, debba preferirsi all'altro deli
neato di recente con la cennata sentenza di questa corte 11175/96,
cit., secondo la quale, alla stregua di una concezione c.d. cau
sale, e quindi non corrispettiva in senso stretto, della retribuzio
ne, in questa debba farsi rientrare qualsiasi utilità conseguita dal lavoratore in relazione al rapporto, e pertanto anche quelle ad esso soltanto occasionalmente collegate, non essendo con
sentito alle parti di ridurre la base imponibile configurando ta
lune erogazioni, strutturalmente e funzionalmente, come previ denziali od assistenziali; giacché sia la lettera della legge, in par ticolare l'art. 12 menzionato, che la ratio della stessa inducono
ad una interpretazione più restrittiva dell'espressione ivi usata, nel senso che le erogazioni effettuate «in dipendenza del rap
porto» e suscettibili di contribuzione sono soltanto quelle con
cettualmente permeate dalla corrispettività, anche se lato sensu, e non ogni altra che comunque possa collegarsi al rapporto di
lavoro.
Il Foro Italiano — 1999.
Orbene, ribadito tale principio, da esso derivano alcuni co
rollari, quali: a) che non tutte le somme corrisposte al lavorato
re debbano essere considerate imponibili, rientrando esse in ogni
caso, direttamente od indirettamente, in una ipotetica, ampia
previsione della norma di cui alla L 153/69 (art. 12); b) che l'inclusione di emolumenti nella nozione di imponibile contri
butivo debba afferire unicamente a quei vantaggi, anche se in
diretti, che, senza comunque prescindere dal requisito della cor
rispettività, abbiano finalità di salvaguardia e tutela del salario,
con rigoroso collegamento delle finalità dei vantaggi stessi alla
natura delle elargizioni; e) che il servizio mensa, allorché venga
apprestato dal datore di lavoro, sia pure in adempimento di
obblighi derivanti dalla contrattazione collettiva e soltanto a fa
vore dei dipendenti che intendano fruirne, senza peraltro che
sia prevista la corresponsione di indennità sostitutiva alcuna nei
confronti di quanti non possano o non intendano usufruirne, difetta del requisito della corrispettività con la prestazione lavo
rativa, presupponendo un atto facoltativo e volontario del lavo
ratore la cui omissione non comporta un emolumento perequa
tivo, sicché in esso vanno ravvisati soltanto profili di natura
assistenziale; d) che, in conseguenza, esulando in detto servizio
ogni aspetto retributivo, ove effettuato con tali modalità e sen
za previsione di vantaggi economici alternativi, la sua natura
ontologicamente assistenziale lo esclude dalla base imponibile
previdenziale ed assolve il datore di lavoro da qualsiasi obbligo di contribuzione pertinente, con riferimento non solo al valore
reale, ma anche a quello convenzionale ad esso attribuito.
In tale direzione, e soprattutto in ordine alla previsione patti zia indennitaria alternativa alla fruizione del servizio mensa, il
tribunale, pur pervenendo a conclusioni negative del profilo con
tributivo, non ha effettuato nella specie alcuna indagine che, al contrario, si imponeva sulla base dei rilievi esposti, attese
le diverse conseguenze scaturenti dalle antitetiche situazioni pro
spettate. La sentenza impugnata, dunque, appare inficiata dai vizi de
nunciati, attinenti alla violazione di legge ed al difetto di moti
vazione, quest'ultimo, per ciò che concerne la seconda censura, nell'ottica delle precisazioni in precedenza effettuate.
In accoglimento del ricorso la decisione va, pertanto, cassata, con rinvio, per il nuovo esame ed anche per la statuizione sulle
spese del presente giudizio di legittimità, ad altro tribunale, de
signato come da dispositivo, il quale nel portare l'indagine de
mandatagli si adeguerà ai principi delineati.
I
CORTE DI CASSAZIONE; sezione I civile; sentenza 20 feb
braio 1998, n. 1856; Pres. Corda, Est. Morelli, P.M. Fraz
zini (conci, parz. diff.); Conti (Aw. Pandocchi) c. D'Am
brosio (Avv. Pizzoccheri). Conferma App. Milano, decr. 29
luglio 1996.
Filiazione — Dichiarazione giudiziale di paternità naturale —
Giudizio di ammissibilità dell'azione — Dichiarazione della
madre — Rapporti tra la madre e il preteso padre — Suffi
cienza (Cod. civ., art. 274). Filiazione — Dichiarazione giudiziale di paternità naturale —
Giudizio di ammissibilità dell'azione — Interesse del minore — Valutazione (Cod. civ., art. 274).
Le sole affermazioni della madre e l'esistenza di rapporti tra
essa e il preteso padre all'epoca del concepimento, anche se
non sono elementi idonei a far ritenere fondata la domanda, sono sufficienti per ritenere ammissibile l'azione di dichiara
zione giudiziale di paternità. (1)
(1) In senso conforme, cfr. Cass. 10 gennaio 1998, n. 151, Foro it., Mass., 16; 8 novembre 1997, n. 11032, id., Rep. 1997, voce Filiazione, n. 66; 25 settembre 1997, n. 9417, ibid., n. 65; 24 maggio 1995, n.
5663, id., Rep. 1995, voce cit., n. 58; 3 aprile 1995, n. 3898, ibid., n. 56; 10 marzo 1994, n. 2346, id., 1995, I, 2976, con nota di M.G. CrviNiNi.
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
L'interesse del minore alla dichiarazione giudiziale di paternità non è escluso dalla assenza di precedenti significativi rapporti con il preteso padre ma solo dal concreto accertamento di
una condotta di questi gravemente pregiudizievole e tale da
giustificare una dichiarazione di decadenza dalla potestà ov
vero dalla prova dell'esistenza di gravi rischi per gli equilibri
affettivi e psicologici del minore, per la sua educazione e per il suo inserimento nel contesto lavorativo e sociale. (2)
II
CORTE DI CASSAZIONE; sezione I civile; sentenza 22 otto
bre 1997, n. 10377; Pres. A. Finocchi aro, Est. Spirito, P.M.
Morozzo Della Rocca (conci, conf.); Novasconi (Avv. Co
ronati, Laviani) c. Lisa (Avv. Scartati, Scarpini). Confer ma App. Milano 26 maggio 1995.
Filiazione — Giudizio per la dichiarazione di paternità naturale — Rito ordinario — Irrilevanza (Cod. civ., art. 269; disp. att. cod. civ., art. 38).
Filiazione — Dichiarazione giudiziale di filiazione naturale — Giudizio di merito — Interesse del minore — Valutazione —
Esclusione (Cod. civ., art. 269; cod. proc. civ., art. 116). Filiazione — Dichiarazione giudiziale di paternità naturale —
Prove ematologiche — Rifiuto — Valutazione (Cod. civ., art.
269; cod. proc. civ., art. 116).
L'adozione del rito ordinario, in luogo di quello camerale, per il giudizio di dichiarazione di paternità naturale di un minore non è causa di nullità. (3)
L'accertamento in ordine alla sussistenza dell'interesse del mi
nore all'azione di dichiarazione giudiziale di paternità o ma
(2, 4) La giurisprudenza in tema di interesse del minore è cospicua e concorda in ordine alla necessità di operare una valutazione «in con creto» dell'interesse de quo: Cass. 24 settembre 1996, n. 8413, Foro
it., Rep. 1996, voce Filiazione, n. 55; 11 dicembre 1995, n. 12642, id.,
Rep. 1995, voce cit., n. 53; 24 maggio 1995, n. 5663, ibid., n. 61 (ri chiamata altresì nella motivazione della sentenza 1856/98). Le decisioni
richiamate si soffermano, in particolare, sulla necessità che la valuta
zione del giudice in ordine alla sussistenza dell'interesse del minore sia
compiuta dall'angolo visuale del minore stesso, in riferimento ad en
trambe le figure genitoriali, cosicché ne risulti ampliata la sfera affetti
va, donde tale interesse potrà essere escluso solo allorché si riscontrino
nel genitore del quale si intende far dichiarare la paternità, «gli estremi
di una condotta pregiudizievole, tale che darebbe luogo, in via ordina
ria, alla decadenza della potestà genitoriale, ovvero in presenza di fon
dati rischi sugli equilibri affettivi, per l'educazione e la collocazione
del minore». L'orientamento giurisprudenziale richiamato si basa sulla affermazio
ne della necessità di operare l'accertamento della sussistenza dell'inte
resse del minore all'azione di dichiarazione giudiziale di paternità natu
rale in sede di giudizio di ammissibilità della stessa, resa da Corte cost.
20 luglio 1990, n. 341, id., 1992, I, 25, con nota di P. Formica, che
ha dichiarato illegittimo l'art. 274, 1° comma, c.c., «nella parte in cui
non subordina l'ammissibilità dell'azione per la dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale (. . .) alla condizione che ne sia valu
tata la rispondenza all'interesse del minore»; la norma sarebbe, infatti, in stridente contrasto con gli art. 3 e 30 Cost.: la mancata previsione, da parte dell'art. 274 c.c., dell'opportunità della valutazione dell'inte
resse del minore, mal si concilierebbe, infatti, con la ratio di «protezio ne dell'interesse del minore» sottesa all'art. 30 Cost.
In dottrina, sul tema specifico dell'interesse del minore, cfr. G. Dosi, Dall'interesse ai diritti del minore: alcune riflessioni, in Dir. famiglia, 1995, 1604; O. Fittipaidi, Un primo bilancio sugli effetti della decisio
ne della Consulta 341/90 in materia di interesse del minore al riconosci
mento, in Famiglia e dir., 1997, 539.
Sembra, invece, destare ancora delle perplessità, la questione relativa
al momento processuale in cui debba avvenire la valutazione dell'inte
resse del minore. In senso conforme alla sentenza 10377/97, in epigra
fe, cfr. Cass. 7 maggio 1997, n. 3985, Foro it., Rep. 1997, voce cit., n. 52 (per esteso, Famiglia e dir., 1997, 537); 25 febbraio 1993, n. 2364, Foro it., Rep. 1994, voce cit., n. 47; 24 agosto 1994, n. 7483, ibid., n. 51. Nelle pronunce citate si precisa che la valutazione dell'interesse
del minore non può aver luogo nella successiva fase di merito, a causa
dell'esistenza del giudicato sul presupposto processuale specifico rap
presentato dall'interesse del minore. In senso contrario sembra, invece, la prevalente giurisprudenza di
merito: Trib. min. Genova 6 maggio 1993, ibid., n. 54, e Trib. min.
Torino 26 febbraio 1992, id., Rep. 1993, voce cit., n. 47. In queste
Il Foro Italiano — 1999.
ternità naturale è obbligatorio solo in sede di giudizio di am
missibilità dell'azione. (4) Nel giudizio di dichiarazione giudiziale di paternità o maternità
naturale, il rifiuto ingiustificato di sottoporsi all'esame ema
tologico costituisce comportamento valutabile ai sensi del 2 0
comma dell'art. 116 c.p.c. (5)
I
Svolgimento del processo. — 1. - Con decreto dell'11 marzo
1996, il Tribunale dei minori di Milano dichiarava ammissibile, ex art. 274 c.c., l'azione promossa, da Emilia D'Ambrosio, contro Luciano Conti, per sentirne dichiarare la paternità na
turale nei confronti della minore Francesca Chiara, figlia di
essa attrice.
2. - Contro tale decreto proponeva reclamo il Conti lamen
tando erronea valutazione delle risultanze processuali, carenza
di motivazione in ordine alla ricorrenza dell'interesse della mi
nore alla dichiarazione di paternità. Ma la corte di Milano respingeva l'impugnazione, con decre
to del 29 luglio 1996. 3. - Da qui l'ulteriore ricorso del Conti affidato a due mezzi
di cassazione.
Resiste l'intimata con controricorso.
Motivi della decisione. — 1. - Il primo motivo della impu
gnazione attacca il profilo centrale della statuizione di primo
grado là dove questa ravvisa, nella specie, il fumus boni iuris
nelle circostanze dedotte dalla D'Ambrosio nel ricorso; in tale
contesto valorizzando «la descrizione che la signora ha dato
dell'appartamento del convenuto», la circostanza che «erano state
indicate due amiche a conoscenza, sia pure de relato dei fatti»
e, infine, «il fatto che una delle due fotografie prodotte eviden
ultime decisioni si ritiene, infatti, che la valutazione dell'«interesse» del
minore debba necessariamente estendersi alla fase contenziosa del pro cedimento.
In dottrina, sul rapporto tra fase di ammissibilità e giudizio di meri
to, cfr. V. Carbone, La valutazione dell'interesse del minore e la fase di ammissibilità, in Famiglia e dir., 1995, 430; B. Lena, Dichiarazione
giudiziale di paternità o maternità naturale e giudizio di merito, id.,
1998, 6.
(3) In senso conforme, di recente, Cass. 25 gennaio 1996, n. 550, Foro it., Rep. 1996, voce Filiazione, n. 50, con particolare riferimento
all'ipotesi in cui il giudizio sia iniziato pur con ricorso e, tuttavia, non
ne consegua l'invalidità dello stesso, a condizione che non ne sia deriva
to pregiudizio per la parte e sia stato assegnato un termine non inferio re a quello previsto dall'art. 163 bis c.p.c. fra la notifica del ricorso
e l'udienza. Secondo un altro orientamento della giurisprudenza di le
gittimità, l'adozione del rito ordinario sarebbe inevitabile, dovendosi,
perciò, escludere quello camerale: cfr., in tal senso, Cass. 14 febbraio
1994, n. 1448, id., 1994, I, 1018, con nota di richiami. In dottrina, oltre agli autori richiamati in nota a Cass. 1448/94, cit.,
v. M.T. Ambrosini, Una deludente sentenza delle sezioni unite del Su
premo collegio: rito camerale o rito ordinario in seno al giudizio di
merito per la dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale
avanti la giurisdizione minorile?, in Dir. famiglia, 1997, 537; A. Vac
caro, Rito camerale e procedimento minorile, id., 1998, 220.
(5) In senso conforme, cfr. Cass. 28 giugno 1994, n. 6217, Foro it.,
1996, I, 251, con nota di richiami. Più di recente, anche altra giurisprudenza di legittimità si è espressa
nello stesso senso: cfr. Cass. 24 febbraio 1997, n. 1661, id., Rep. 1997, voce Filiazione, n. 79 (per esteso, Famiglia e dir., 1997, 105), con parti colare riferimento al combinarsi delle dichiarazioni della madre e del
rifiuto del padre a sottoporsi agli esami ematologici, nel quale ultimo
comportamento sarebbe, così, ravvisabile un «espediente per ostacolare la dimostrazione della paternità»; 19 settembre 1997, n. 9307, Foro it.,
Rep. 1997, voce cit., n. 81, e Famiglia e dir., 1997, 505, con particolare
riguardo all'individuazione di criteri idonei a fondare il convincimento
del giudice in ordine alla prestazione o meno del consenso al prelievo ematico: non si porrebbe, dunque, il contrasto con le norme processuali
penali che consentono il prelievo coattivo già dichiarate costituzional
mente illegittime (Corte cost. 9 luglio 1996, n. 238, Foro it., 1997, I,
58, e 19 luglio 1996, n. 257, ibid., 1716) poiché, nella specie, non risul
terebbero lese l'inviolabilità della persona e l'incoercibilità del prelievo, ma si tratterebbe solo di trarre argomenti di prova dal comportamento della parte in giudizio; 24 gennaio 1998, n. 692, id., Mass., 76.
In dottrina, cfr., sull'argomento, G. Gioia, I contrasti non dichiarati
tra Corte costituzionale e Corte di cassazione, in Famiglia e dir., 1997,
506; V. Carbone, Dal divieto d'indagini sulla paternità alla possibilità di provarla con ogni mezzo, ibid., 107.
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2047 PARTE PRIMA 2048
zia nel gesto di appoggio della signora al signore, una consuetu
dine ed una familiarità visibilmente affettuosi».
Secondo il ricorrente la motivazione del decreto della corte
milanese sarebbe carente sotto il duplice profilo del mancato
controllo di veridicità delle deduzioni della istante e della non
adeguata comparazione della sua versione dei fatti con quella
contrapposta di esso Conti.
Le censure così prospettate, sono infondate in diritto (quanto all'asserita violazione dell'art. 274 c.c.) ed inammissibili per la
residua parte in cui si risolvono nella denuncia di vizi di moti
vazione, cui non può invero darsi ingresso, con il ricorso straor
dinario ai sensi dell'art. Ill Cost., come nella specie proponibi le e di fatto proposto.
In particolare, per quanto attiene al primo profilo di critica,
giova ribadire che — contrariamente all'avverso assunto — la
pronunzia di ammissibilità dell'azione, ai sensi dell'art. 274 c.c., ben può essere fondata anche sulla sola affermazione della ma
dre e sulla ricorrenza di rapporti tra essa ed il preteso padre
all'epoca del concepimento, poiché tali elementi — mentre non
sono da soli idonei all'accoglimento della domanda ex art. 269, 4° comma, c.c. — possono viceversa giustificare la declaratoria
di ammissibilità, la quale postula il riscontro della mera «non
manifesta infondatezza» della domanda, il cui effettivo fonda
mento verrà accertato nel successivo giudizio di merito (cfr., da ultimo, sent. n. 1413 del 1993, Foro it., Rep. 1993, voce
Filiazione, nn. 58, 59). Infatti, la modifica del 1° comma dell'art. 274 c.c. operata
dalla legge di riforma del diritto di famiglia, con la sostituzione
dell'espressione «specifiche circostanze» alla parola «indizi», ai
fini dell'ammissibilità dell'azione di dichiarazione giudiziale di paternità, non ha sostanzialmente innovato la natura sommaria
della cognizione preliminare prevista dalla norma stessa, in quan to la valutazione circa l'esistenza di dette specifiche circostanze
sufficienti a rendere ammissibile l'azione de qua, deve mante
nersi sul piano della probabilità e non su quello della certezza
(cfr. già Cass. n. 5949 del 1979, id., Rep. 1979, voce cit., n.
51, e poi, varie altre fino alla più recente Cass. n. 2200 del
1990, id., Rep. 1990, voce cit., n. 77). Di modo che la previa indagine che il giudice è chiamato a
svolgere, ex art. 274, cit., è tuttora rivolta non già ad accertare
con efficacia probatoria la paternità, ma solo a riscontrare un
eventuale fumus boni iuris in ordine alla sua esistenza, in rap
porto con le indicazioni dell'istante sulle circostanze che intende
provare nel successivo giudizio di piena cognizione (e che non
si pretende, quindi, che siano già in prima fase acquisite: v.
anche Cass. n. 1668 del 1988, id., Rep. 1988, voce cit., n. 52), con le desumibili presunzioni idonee a far apparire l'azione non
manifestamente infondata.
2. - Del pari destituito di giuridico fondamento è poi il suc
cessivo secondo motivo del ricorso volto ad accreditare una ri
duttiva esegesi dell'art. 274 c.c. (che la corte di secondo grado avrebbe appunto violato), secondo cui andrebbe escluso l'inte resse del minore alla dichiarazione di paternità ogni qualvolta non risulti, come nella specie, alcun significativo precedente rap
porto del preteso padre con il minore stesso.
Si tratta come è evidente di una interpretazione palesemente aberrante, che svuoterebbe di ogni concreta valenza e significa to la norma in esame.
Viceversa — come è stato già precisato, con ricorrenti pro nunzie, sulla cui linea si sono correttamente posti i giudici a
quibus — l'accertamento giudiziale dell'interesse del minore ai fini dell'ammissibilità dell'azione di dichiarazione giudiziale di paternità naturale, a norma dell'art. 274 c.c., così come inciso
dalla sentenza della Corte costituzionale n. 341 del 1990 (id., 1992, I, 25), deve essere compiuto in concreto, con riferimento
preminente alle globali esigenze presenti e future di formazione
e di arricchimento della personalità del minore, nel contesto familiare e socio-economico di appartenenza, e quindi ai bene fici dell'ampliamento della sfera affettiva, sociale ed economica
del minore, che possono essere esclusi solo in base all'accertata
condotta del presunto padre gravemente pregiudizievole per il
figlio e tale da motivare la decadenza della potestà sullo stesso, ovvero alla provata esistenza di gravi e fondati rischi per gli equilibri affettivi e psicologici del minore, per la sua educazione
e per il suo inserimento nel contesto lavorativo e sociale (cfr., da ultimo, sent. 5663/95, id., Rep. 1995, voce cit., nn. 57, 58, 61; 1444/96, id., Rep. 1996, voce cit., n. 54).
3. - Il ricorso va pertanto integralmente rigettato.
Il Foro Italiano — 1999.
II
Svolgimento del processo. — Con la sentenza del 6 marzo
1991 il Tribunale per i minorenni di Milano dichiarò Giancarlo
Novasconi padre naturale della minore Angelica Lisa, nata a
Milano il 25 dicembre 1987. Nell'appello proposto avverso la
sentenza, il Novasconi eccepì: la nullità del giudizio di primo
grado (ex art. 38 disp. att. c.c.), per essere stato celebrato con
il rito ordinario e non con quello camerale; che non era stato
valutato l'interesse della minore; che era stata errata la valuta
zione processuale; che l'esame ematogenetico, al quale egli s'era
sottratto, sarebbe stato in ogni caso inutile, per l'assenza di
altri elementi univoci, precisi e concludenti cui ricollegarlo. La Corte d'appello di Milano, sezione per i minorenni, re
spinse il gravame con la sentenza che è attualmente impugnata dal Novasconi, il quale formula otto motivi di ricorso. Rispon de con controricorso Annamaria Lisa, madre della minore An
gelica. Motivi della decisione. — 1.1. - Il giudice di merito ha affer
mato che il rito camerale, con il conseguente uso dello strumen
to del ricorso, non può essere applicato ai procedimenti previsti dall'art. 269 c.c., in quanto trattasi di un procedimento di co
gnizione ordinaria a natura contenziosa, che deve svolgersi nel
pieno contraddittorio delle parti e si conclude con la sentenza.
In particolare, il giudice, dichiarando di aderire alla giurispru denza di questa Suprema corte (il riferimento è rivolto a Cass.
27 gennaio 1992, n. 864, Foro it., Rep. 1992, voce Filiazione, n. 66; 18 novembre 1988, n. 6232, id., Rep. 1988, voce cit., n. 58), ha precisato che il procedimento per la dichiarazione
giudiziale di paternità e maternità naturale, che si svolge in con
traddittorio delle parti, con la partecipazione del p.m. e si con
clude con sentenza, ha natura contenziosa e non di volontaria
giurisdizione. La corte territoriale ha spiegato, altresì, di con
cordare con il Novasconi nel ritenere che il legislatore, nella
materia in oggetto, ha voluto un giudice collegiale e specializza to e perciò, integrata dalla presenza degli esperti, ha esaminato
le istanze delle parti, ha valutato la documentazione ed ha am
messo ed assunto le prove testimoniali, escludendo la configu rabilità di un'ipotesi di rimessione della causa davanti al primo
giudice, ex art. 353 e 354 c.p.c. Con i primi tre motivi di ricorso il Novasconi critica la sen
tenza impugnata per non aver disposto la rimessione della cau
sa (celebrata in primo grado con il rito ordinario e non con
quello camerale) al primo giudice. In particolare, con il primo motivo di ricorso lamenta l'omessa motivazione circa tale man
cata rimessione; con il secondo motivo, nel lamentare la viola
zione dell'art. 25 Cost, e dell'art. 161 c.p.c., spiega che, attra
verso l'adozione, in primo grado, del rito ordinario cognitivo, è risultato insanabilmente leso il principio della collegialità e
della specializzazione del giudice (gli atti sono stati posti in es
sere, infatti, dal giudice istruttore e non dal collegio), sottraen
do, così, agli interessati il giudice naturale assegnato loro dalla
legge. Ritiene, inoltre, il Novasconi che non è possibile, in que sta situazione, ricorrere al principio della conversione degli atti
nulli, in quanto l'atto di citazione adottato per introdurre il
giudizio di primo grado non ha mai raggiunto lo scopo di far
conoscere la controversia al giudice collegiale e specializzato, sicché il giudice del gravame avrebbe dovuto rimettere la causa
a quello di primo grado, ai sensi dell'art. 354 c.p.c., per nullità
dipendente da irregolare costituzione del giudice. Con il terzo
motivo di ricorso viene denunziata la violazione e falsa applica zione degli art. 70 c.p.c. e 38 disp. att. c.c. per la mancata
partecipazione del p.m. al giudizio di primo grado, deducendo
si, quindi, la nullità della sentenza di quello stesso grado. 1.2. - I primi tre motivi (che possono essere congiuntamente
trattati, in quanto coinvolgono tutti questioni procedurali atti
nenti all'azione in concreto esperita) sono infondati.
L'art. 38 disp. att. c.c., nel testo risultante dalla modifica
apportata dall'art. 68 1. 4 maggio 1983 n. 184, stabilisce che
la dichiarazione giudiziale della paternità o della maternità na
turale è attribuita, nel caso di minori, alla competenza del tri
bunale per i minorenni, mentre la competenza del tribunale or
dinario, che conosce le cause sullo stato delle persone, resta
limitata alle ipotesi nelle quali la domanda di reclamo sia pro
posta da maggiori di età. Il 3° comma della menzionata dispo sizione prevede che, in ogni caso, il tribunale provvede in came
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
ra di consiglio, sentito il p.m. I ripetuti interventi legislativi suc
cedutisi nel tempo a modificare la norma in esame e l'incerta
formulazione che ne è alla fine derivata hanno prodotto contra
sti, sia in dottrina che in giurisprudenza, circa l'applicabilità del rito camerale anche all'azione per la dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale (azione di carattere squisita mente contenzioso) e non solo agli altri procedimenti, menzio
nati nell'art. 38, che sfociano in provvedimenti di volontaria
giurisdizione. La questione assume la sua rilevanza se si tien
conto del fatto che la scelta del rito camerale o di quello ordi
nario incide sulla competenza territoriale, sull'ammissione e sul
l'assunzione delle prove, sulla forma del provvedimento finale, sulle modalità e sui termini d'impugnazione, sul passaggio in
giudicato o sulla revocabilità del provvedimento emesso. Le se
zioni unite di questa Suprema corte, con la sentenza n. 5629
del 19 giugno 1996 (id., 1996, I, 3070) hanno composto il con
trasto di giurisprudenza, stabilendo che il giudizio di merito re
lativo alla dichiarazione di paternità o maternità naturale di mi
nori innanzi al tribunale per i minorenni oppure, in sede di gra
vame, innanzi alla sezione per i minorenni della corte d'appello è soggetto al rito camerale, anziché al rito contenzioso ordina
rio. In considerazione delle scelte compiute dal legislatore, la
soluzione accolta (con la quale ora il collegio ampiamente con
corda e che comporta, quindi, la correzione, sul punto, della
motivazione della sentenza impugnata) individua la trasforma
zione della giurisdizione camerale, sorta come un'attività di am
ministrazione del diritto affidata ad organi giurisdizionali (ca ratterizzata, sotto il profilo strutturale, dalla revocabilità e, sot
to quello funzionale, dalla mancata incidenza sui diritti) in un
«contenitore neutro» che può assicurare, da un lato, la spedi tezza e la concentrazione del procedimento ed essere, dall'altro,
rispettosa dei limiti imposti all'incidenza della forma procedi mentale dalla natura della controversia, che, in quanto relativa
a diritti o status, gode di apposite garanzie costituzionali.
Ciò premesso, può passarsi ad esaminare lo specifico punto attinto dalle censure in esame, ossia la questione se, avendo
proceduto il tribunale per i minorenni secondo il rito ordinario
di cognizione e non secondo quello camerale, si sia verificato
il fenomeno della conversione dei motivi di nullità della senten
za di primo grado in motivi di impugnazione (art. 161 c.p.c.),
oppure una nullità tale da imporre la rimessione della causa
al primo giudice. In proposito va ricordato il principio ispirato re del vigente processo civile, secondo cui i vizi della sentenza
in sé considerata e quella degli atti processuali che ne rappre sentano antecedenti logici e cronologici non possono farsi vale
re se non attraverso le impugnazioni che il legislatore appresta nell'ambito dello stesso processo per ottenere la correzione delle
ingiustizie formali e sostanziali della sentenza, tranne che non
di semplice nullità si tratti, ma di vera e propria inesistenza
dell'atto, nella quale ipotesi il passaggio in giudicato in senso
formale del provvedimento giurisdizionale, per difetto di impu
gnazione tempestiva, o anche per non avere il legislatore appre stato alcun mezzo di impugnazione, non estingue il vizio dell'i
nesistenza. Il principio trova la sua deroga nella disposizione dell'art. 354 c.p.c., la quale, solo in ipotesi tassativamente cir
coscritte (nullità della notifica dell'atto introduttivo del giudi
zio, mancata integrazione del contraddittorio, indebita estro
missione di una parte, omessa sottoscrizione della sentenza), in
cui può ritenersi del tutto priva dei suoi connotati essenziali
la pronuncia giurisdizionale o vulnerata la regola cardine del
doppio grado di giurisdizione, impone la rimessione della causa
al primo giudice. In relazione allo specifico caso di adozione del rito ordinario
invece di quello camerale, va rilevato che essa non produce al
cuna delle menzionate nullità, tassativamente previste, che de
roghi al principio della conversione dei motivi di nullità in mo
tivi di impugnazione. Al contrario, la questione va vista in ma
niera specularmente opposta rispetto a quella in cui l'ha
prospettata il ricorrente, osservando, cioè, che l'adozione del
rito cognitivo ordinario ha assicurato la massima garanzia pro
cedurale concessa dal legislatore. Infatti, come s'è già accenna
to in precedenza, i contrasti giurisprudenziali formatisi (prima
del menzionato intervento delle sezioni unite di questa Corte)
si fondavano, appunto, sulla porplessità che il rito camerale,
apprestato con un minor numero di garanzie e formalità per
le ipotesi di volontaria giurisdizione, potesse essere applicato
li Foro Italiano — 1999.
per un'azione tipicamente contenziosa quale quella per la di
chiarazione di paternità o maternità naturale. Tali dubbi sono
stati risolti a favore dell'adottabilità del rito camerale, sulla scorta
di una consolidata giurisprudenza del giudice delle leggi (cfr. Corte cost. n. 573 del 1989, id., 1990, I, 365; n. 543 del 1989,
ibid., 366; n. 748 del 1988, id., Rep. 1989, voce Competenza
civile, n. 18; n. 394 del 1987, id., Rep. 1988, voce Filiazione, n. 55; n. 193 del 1987, id., 1988, I, 2802), che ha ritenuto insin dacabile in sede di legittimità costituzionale la scelta legislativa di adottare questo rito in determinate materie tipicamente con
tenziose o con elementi propri della giurisdizione contenziosa
(oltre quella in esame, la separazione, lo scioglimento del matri
monio, l'interdizione, l'inabilitazione, ecc.), sul presupposto che
il rito camerale non contrasta, di per sé, con il diritto di difesa
sancito dall'art. 24 Cost, e non preclude la possibilità che la
relativa disciplina si conformi alle speciali caratteristiche della
struttura dei singoli procedimenti, purché siano assicurate la ga ranzia del contraddittorio (art. 274 e 276 c.p.c.) e l'esperibilità di ogni mezzo di prova in relazione alla specifica azione eserci
tata (art. 269, 2° comma, c.c., per quanto riguarda l'azione
per il riconoscimento di paternità naturale). Da tali considerazioni si deduce che nella specie (ove, peral
tro, la sezione minorile della corte d'appello, dichiarata la nulli
tà degli atti istruttori compiuti in primo grado, ha provveduto a rinnovarli), in cui è stato utilizzato il rito ordinario invece
di quello camerale, il ricorrente, che ha goduto della pienezza delle garanzie del primo, non ha alcun interesse a rilevare in
merito alcuna nullità, né, tanto meno, eventuali nullità della
sentenza o degli atti ad essa precedenti comporta la rimessione
al giudice di primo grado, verificandosi, piuttosto, la conversio
ne dei motivi di nullità in motivi di gravame. Va ribadito, in definitiva, il principio secondo cui nel giudizio di merito di pri mo grado dinanzi al tribunale per i minorenni per la dichiara
zione di paternità o maternità naturale di un minore, non è
causa di nullità l'utilizzazione del rito ordinario al posto di quello
camerale, previsto dall'art. 38 disp. att. c.c., come modificato
dall'art. 68 1. 4 maggio 1983 n. 184, sia perché la nullità non
è sancita da nessuna norma, sia, comunque, per l'applicabilità del principio di conversione degli atti nulli, in quanto il rito
ordinario consente di raggiungere il medesimo risultato con non
inferiore ed anzi più penetrante garanzia della difesa e delle
regole del contraddittorio (Cass. 11 settembre 1993, n. 9477,
id., Rep. 1993, voce cit., n. 75; 25 febbraio 1993, n. 2326, ibid., n. 74; 19 marzo 1992, n. 3416, id., Rep. 1992, voce cit., n.
68; cfr. anche Cass. 21 febbraio 1997, n. 1608, id., Rep. 1997,
voce cit., n. 75, secondo la quale il giudizio di merito relativo
alla dichiarazione di paternità o maternità naturale di minori, ove attivato con citazione invece che con ricorso, non è viziato
da nullità quando l'atto introduttivo contenga tutti gli elementi
necessari a farlo considerare come ricorso e siano stati adottati
dal giudice i conseguenti provvedimenti di legge ai fini della
instaurazione del contraddittorio).
Né, d'altro canto, hanno alcun rilievo le censure proposte dal ricorrente in merito al fatto che l'adozione del rito ordina
rio (con conseguente ammissione ed espletamento dei mezzi di
prova ad opera del solo giudice istruttore e non del collegio
integrato dai membri specializzati) avrebbe di fatto sottratto la
parte al suo giudice naturale, precostituito per legge (art. 25
Cost.). Va osservato in proposito che il citato precetto costitu
zionale va riferito al giudice innanzi al quale viene instaurata
e trattata la causa (e, nella specie, questa è stata correttamente
proposta innanzi al tribunale per i minorenni) e non al singolo
magistrato che, in seno al giudice collegiale, svolga funzioni
ed eserciti poteri procedimentali propri; inoltre, per le ragioni
esposte in precedenza, anche in relazione a questo profilo vale
il principio della conversione della nullità in motivo di gravame
(si tenga conto del fatto che il giudice d'appello, dichiarata la
nullità degli atti istruttori compiuti in primo grado, ne ha di
sposto la rinnovazione davanti al collegio integrato dai membri
specializzati). Quanto alla censura di nullità per mancata partecipazione del
p.m. al giudizio di primo grado, va osservato che dalla lettura
degli atti di causa (consentita a questa corte dal contenuto della
censura stessa, che prospetta un errore nel procedimento) emer
ge, invece, la sua costante partecipazione nel corso dell'intero
giudizio, con trasmissione degli atti in tutte le date che sono
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2051 PARTE PRIMA 2052
puntualmente indicate nel controricorso. Va, comunque, riba
dito in proposito il principio secondo cui, qualora nel giudizio di primo grado sia mancata la partecipazione del pubblico mi
nistero in una causa nella quale ne è obbligatorio l'intervento
ai sensi dei nn. 2, 3 e 5 dell'art. 70 c.p.c. (quale, appunto, l'azione di dichiarazione giudiziale di paternità), il giudice d'ap pello, rilevata la nullità della sentenza, non può rimettere la
causa al primo giudice, ma deve trattenerla presso di sé e deci
derla nel merito, dovendo escludersi che nelle menzionate ipote si di cui all'art. 70, cit. (diversamente da quella di cui al n.
I dello stesso articolo) la mancata partecipazione del p.m. com
porti un difetto di integrale contraddittorio e consenta pertanto
l'applicazione dell'art. 354 stesso codice (Cass. 27 gennaio 1997, n. 807, ibid., voce Pubblico ministero civile, n. 7).
2.1. - Tra i motivi d'appello, il Novasconi aveva lamentato
che, nella fase d'ammissibilità dell'azione, era mancata l'inda
gine sull'interesse del minore infrasedicenne all'azione, imposta dalla declaratoria di parziale incostituzionalità dell'art. 274 c.c., di cui alla sentenza della Corte costituzionale 20 luglio 1990, n. 341 (id., 1992, I, 25). La corte territoriale, premesso che
la citata sentenza costituzionale era intervenuta quando il decre
to ex art. 274 c.c. era ormai già diventato definitivo, ha ritenu
to, comunque, che l'interesse della minore Lisa all'accertamen
to del rapporto di filiazione si fondi su un'esigenza personale di certezza e verità delle proprie origini, sull'acquisizione di uno
status più favorevole che le consenta di riferirsi ad entrambe
le figure genitoriali con effetti positivi anche per la normalità
delle relazioni sociali, sulla maggiore sicurezza economico
patrimoniale; che, peraltro, non sono emerse circostanze relati
ve alla situazione personale ed alla condotta di vita del Nova
sconi, tali da indurre un giudizio presuntivo di sua inidoneità
allo svolgimento del ruolo genitoriale. Con il quarto motivo di ricorso, eccepita la violazione e falsa
applicazione dell'art. 269 c.c., nonché l'illegittimità costituzio
nale della stessa norma, si sostiene che l'accertamento dell'inte
resse del minore non poteva essere accertato in base a quella
disposizione del codice civile, in quanto la necessità di tale ac
certamento fu introdotta dalla Corte costituzionale, con la sum
menzionata sentenza, solo in relazione alla dichiarata, parziale incostituzionalità dell'art. 274 c.c., ossia per la sola fase di am
missibilità dell'azione. Il ricorrente concorda, quindi, sulla ne
cessità di valutare l'interesse del minore anche nella fase di ac
certamento della paternità o maternità naturale (e non solo nel
la fase di ammissibilità dell'azione), ma ritiene necessario che, a tal fine, sia necessario un analogo intervento del giudice delle
leggi anche sulla norma dell'art. 269 c.c., della quale, quindi,
ripropone la questione di legittimità costituzionale.
Inoltre, con il quinto motivo di ricorso, si eccepisce che la
valutazione dell'interesse del minore non è stata compiuta dalla
sentenza impugnata sulla base di elementi di fatto, bensì finisce
nel concretizzarsi in mere affermazioni teoriche che non tengo no conto del caso concreto.
2.2. - Anche questi motivi, che possono essere congiuntamen te trattati, sono in parte infondati ed in parte inammissibili.
La sentenza della Corte costituzionale n. 341 del 20 luglio
1990, cit. (sopravvenuta quando nel procedimento in esame il
decreto ex art. 274 c.c. era già divenuto definitivo) ha dichiara
to illegittimo, per violazione degli art. 3 e 30 Cost., l'art. 274, 1° comma, c.c., nella parte in cui non subordina l'ammissibilità
dell'azione per la dichiarazione giudiziale di paternità o mater
nità naturale, oltre che al concorso specifico di circostanze tali
da farla apparire giustificata, anche alla condizione che ne sia
valutata la rispondenza all'interesse del minore. La giurispru denza di questa Suprema corte ha affermato che, nel giudizio
promosso per la dichiarazione della paternità o maternità natu
rale, dopo la definitività della pronuncia d'ammissibilità della
relativa azione, resta irrilevante la sopravvenienza della declara
toria d'incostituzionalità dell'art. 274 c.c. ad opera della citata
sentenza costituzionale, nella parte in cui non prevede ai fini
di tale ammissibilità il riscontro della rispondenza di detta azio
ne all'interesse del minore infrasedicenne, considerato che le que stioni sull'ammissibilità medesima sono precluse dalla forma
zione del giudicato su quella pronuncia (Cass., sez. un., 7 feb
braio 1992, n. 1371, id., Rep. 1992, voce Filiazione, n. 52). II giudice di merito ha dato atto che l'intervento del giudice delle leggi era stato successivo al passaggio in giudicato del de
li, Foro Italiano — 1999.
creto sull'ammissibilità dell'azione, ma, ad ogni buon conto, ha proceduto ugualmente alla valutazione dell'interesse della mi
nore infrasedicenne ed ha espresso, nella maniera esposta in
precedenza, il proprio favorevole giudizio sulla sussistenza dello
stesso.
Non v'è dubbio, alla luce della citata giurisprudenza di legit
timità, che la corte territoriale ha emesso, nella fase di merito
dell'azione, un giudizio (quello sulla sussistenza dell'interesse
del minore) che la Consulta ha reso obbligatorio per la sola
fase dell'ammissibilità dell'azione stessa e che, una volta esauri
tasi quest'ultima, non doveva essere più emesso. Ultroneo giu
dizio, dunque, che resta del tutto irrilevante ed è incapace di
esplicare alcun effetto sostanziale nella fattispecie in esame. Di
qui, vanno rilevate, in primo luogo, la mancanza di interesse
del ricorrente a far valere eventuali vizi della motivazione al
riguardo (motivazione che, comunque, si dispiega in maniera
congrua e logica); in secondo luogo l'irrilevanza, ai fini della
decisione, della questione di costituzionalità dell'art. 269 c.c.
in quanto, di fatto, il giudice, nella fase di merito, ha emesso
il giudizio sull'interesse del minore, sicché il ricorrente non ha
alcun interesse, agli effetti del giudizio in corso, a far valere
l'incostituzionalità della norma nella parte in cui non prevede che anche nella fase del merito quell'interesse stesso debba esse
re valutato.
3.1. - Con il sesto motivo di ricorso il Novasconi, nel denun
ziare la violazione e falsa applicazione dell'art. 115 c.p.c., non
ché l'omessa motivazione circa un punto decisivo della contro
versia, sostiene che nel giudizio di merito non s'è raggiunta la
prova che nel periodo di concepimento della minore vi siano
stati rapporti sessuali tra le parti e che, in sintesi, la domanda
sia stata ritenuta provata per il solo fatto che non è stata, per
converso, accertata la fondatezza della exceptio plurium concu
bentium, con palese violazione dei principi sull'onere della pro va. Con il settimo motivo di ricorso, viene, poi, lamentato che,
proprio in riferimento a quest'ultima eccezione, sia stata del
tutto omessa la motivazione e sia stato emesso un giudizio di
merito totalmente smentito dalle risultanze processuali. 3.2. - Il motivo è infondato. Il giudice di merito, dopo avere
esposto i risultati della prova testimoniale e le differenti valuta
zioni che ne facevano il convenuto, da una parte, e l'attrice
ed il p.m., dall'altra, ha accolto la tesi di questi ultimi, ritenen
do accertata la relazione tra la Lisa ed il Novasconi fino al
periodo del concepimento (sul punto v'era, peraltro, l'ammis
sione dello stesso Novasconi, seppure con la precisazione che
tali rapporti erano avvenuti «sotto costrizioni» e «con misure
di sicurezza») e non provata Vexceptio plurium concubentium
(il tenore delle testimonianze introdotte al riguardo dal Nova
sconi appariva talmente sospetto da indurre il p.m. a trasmette
re gli atti al suo stesso ufficio per l'esercizio dell'azione penale).
Dunque, diversamente da quanto oggi sostenuto dal ricorrente, il giudice di merito, con un'esauriente e logica motivazione, che
si sottrae ad ogni censura in questa sede, ha prima valutato
come provata la relazione tra le parti all'epoca del concepimen to e, poi, ha giudicato priva di ogni fondamento probatorio la citata eccezione.
4.1. - Ritenuta come accertata la relazione tra il Novasconi
e la Lisa fino all'epoca del concepimento e non raggiunta la
prova in ordine alla exceptio plurium concubentium, il giudice di merito, dichiarando di uniformarsi all'insegnamento di que sta Suprema corte, ha valutato il rifiuto del Novasconi di sotto
porsi all'accertamento ematogenetico quale elemento di convin
cimento ex art. 116, 2° comma, c.p.c. Sicché, secondo la corte
milanese, l'essersi egli rifiutato di sottoporsi al menzionato esa
me (di elevatissima affidabilità ai fini dell'accertamento in og
getto) sia in primo che in secondo grado, costituisce indizio gra ve della sua consapevolezza di essere padre e, in conclusione, elemento ammissivo della fondatezza dell'azione.
Con l'ottavo motivo di ricorso il ricorrente (denunziata la
violazione e falsa applicazione degli art. 115 e 116 c.p.c., non
ché l'omessa o insufficiente motivazione circa un punto decisi
vo della controversia) sostiene che l'esame ematologico offre
un risultato in termini meramente probabilistici, il quale, solo
collegato con altre prove, può condurre il giudice ad una con
vinzione sulla paternità. Nella specie, però, non soltanto manca
la prova circa il compimento di rapporti sessuali, per quanto esiste la prova di rapporti di tal genere tra la Lisa e terzi, sicché
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
il giudice dalla mancata sottoposizione all'esame in oggetto non
poteva trarre alcuna presunzione. 4.2. - Il motivo è infondato.
Va premesso che, nel giudizio diretto ad ottenere la dichiara
zione giudiziale della paternità naturale, il rifiuto ingiustificato di sottoporsi agli esami ematologici costituisce un comporta mento valutabile, ai sensi dell'art. 116, 2° comma, c.p.c., da
parte del giudice di merito, anche in assenza di prova di un
qualsiasi rapporto sessuale tra le parti. Infatti, proprio la man
canza di prove oggettive assolutamente certe (e ben difficilmen
te acquisibili) circa la reale natura dei rapporti tra le parti giu stifica il ricorso alla prova ematologica, il cui esito consente
non solo di escludere in modo assoluto la contestata paternità, ma anche di confermarla, alla stregua delle attuali conoscenze
scientifiche, con elevatissimo grado di probabilità (Cass. 9 giu
gno 1995, n. 6550, id., Rep. 1995, voce cit., n. 75). Nella spe
cie, il giudice di merito ha prima ritenuto acquisita la prova dei rapporti sessuali tra le parti al momento del concepimento della minore, poi, ha rilevato che tale prova era corroborata
dall'elemento indiziario tratto dal rifiuto del Novasconi di sot
toporsi all'esame ematogenetico nel corso dell'intero giudizio di merito.
Alla luce del citato principio, il quale ammette il ricorso alla
presunzione derivante dal rifiuto si sottoporsi all'esame in og
getto anche nel caso in cui non risulti affatto (diversamente)
provato il rapporto sessuale tra le parti, emergono la legittimità e la coerenza del metodo utilizzato nella sentenza impugnata
per giungere alla dichiarazione di paternità naturale.
Il ricorso va, quindi, respinto.
CORTE DI CASSAZIONE; sezione II civile; sentenza 30 gen naio 1998, n. 950; Pres. Sammantino, Est. Paolini, P.M.
Leo (conci, conf.); Vitamia e altro (Aw. Contaldi, Fontai
ne) c. Poli e altri (Avv. Bruzzi). Cassa App. Bologna 24
marzo 1994.
Contratto in genere, atto e negozio giuridico — Atto pubblico — Sottoscrizione — Dichiarazione di impedimento a firmare — Fattispecie (Cod. civ., art. 1325, 1326, 1350, 1418, 2699; 1. 16 febbraio 1913 n. 89, ordinamento del notariato e degli archivi notarili, art. 47, 51, 58).
Un contratto redatto in forma di atto pubblico, recante una
dichiarazione formale, menzionata dal notaio, di una delle
parti circa una causa impeditiva della sottoscrizione, è valido
solo se tale causa effettivamente sussista, derivandone, in ca
so contrario, il difetto di sottoscrizione e la nullità dell'atto
per mancanza nel dichiarante di un'effettiva volontà di ne
goziare. (1)
(1) I. - L'art. 51 1. 89/13 dispone che l'atto notarile «deve contenere:
... 10) la sottoscrizione col nome, cognome delle parti, dei fidefacien
ti, dell'interprete, dei testimoni e del notaro ... Se alcuna delle parti o alcuno dei fidefacienti non sapesse o non potesse sottoscrivere, deve
dichiarare la causa che glielo impedisce e il notaro deve far menzione
di questa dichiarazione». A sua volta la scrittura privata deve essere sottoscritta dal dichiaran
te, anche se il documento è interamente scritto di pugno della parte. La sottoscrizione non può essere sostituita dal crocesegno, né dall'im
pronta digitale, deve essere decifrabile e consentire la sicura riferibilità
al sottoscrittore (cfr. Sacco, La forma, in Trattato a cura di Rescigno, Torino, 1982, X, 226).
II. - Nelle scritture private la sottoscrizione delle parti ha la funzione
di accettazione del contenuto e di assunzione degli obblighi e delle re
II Foro Italiano — 1999.
Svolgimento del processo. — Gianfranco e Nadia Vitamia, con atto del 19 ottobre 1987, citarono dinanzi al Tribunale di
Bologna Angiolina Bazzani, Salvatore Vitamia, Rosa Felicita
in Vitamia, Marco Vitamia, Alfredo e Alessandra Poli, nonché
Clodoveo Poli, costui nella qualità di rappresentante della Offi
cina castiglionese di Poli Clodoveo & C. s.n.c.: premesso che
la Bazzani, con contratti preliminari stipulati nel 1985, si era
obbligata a vendere ad essi istanti, corrispettivamente impegna tisi a comprarli, un appartamento, un'autorimessa, un terreno
sponsabilità che ne derivano, è elemento perfezionativo del consenso.
Qui non sussiste la possibilità di non corrispondenza tra contenuto del documento e dichiarazione.
La funzione è diversa all'interno dell'atto pubblico. Il documento
pubblico è atto del notaio, è la sua sottoscrizione che perfeziona il do cumento. Prima della firma del notaio l'atto non esiste. Qui si pone il problema del rapporto tra documentazione e dichiarazione documen tata (su questi problemi, v., in dottrina, Lener, Atto pubblico e sotto
scrizione delle parti, in Foro it., 1978, V, 265; in giurisprudenza, la casistica in materia di querela di falso contro la pubblica fede dell'atto
pubblico, dove si distingue, di volta in volta, tra documentazione e dichiarazione documentata: App. Roma 4 ottobre 1994, id., Rep. 1996, voce Falsità in atti, n. 25, in cui è stato ritenuto sussistente il reato di falso nell'ipotesi in cui in un verbale di assemblea societaria il notaio abbia riportato circostanze diverse da quelle da lui percepite; Cass. 18
agosto 1981, n. 4939, id., Rep. 1981, voce Successione ereditaria, n.
75, in cui non si è ritenuto necessario proporre querela di falso per contestare lo stato di sanità mentale del testatore, benché ritenuto e dichiarato dal notaio nel testamento pubblico; Cass. 7 maggio 1980, n. 3018, ibid., voce Vendita, n. 113, a cui dire, se il rogito è completato dal notaio con dati catastali anche di beni diversi da quelli compraven duti, per la correzione dell'errore sarà sufficiente un'azione di mero accertamento e non sarà necessario proporre querela di falso).
La firma dei comparenti ha solo la funzione di conferma definitiva della dichiarazione di volontà e di riconoscimento che quanto scritto dal notaio corrisponde esattamente alla volontà espressa (Santarcan gelo, La forma degli atti notarili, Roma, 1981, 149), è atto di controllo della parte sull'operato del notaio (Lener, op. cit., 269).
I comparenti possono non sottoscrivere l'atto, ma è indispensabile che siano nell'effettiva impossibilità di sottoscrivere. La stessa parte che non sottoscrive deve dichiararne il motivo; non sarebbe sufficiente un'attestazione fatta in prima persona dal notaio. «Non è indispensabi le che la dichiarazione contenga la menzione dettagliata delle circostan ze specifiche e contingenti per le quali il fatto allegato si atteggia con cretamente in maniera tale, per natura ed intensità, da determinare la detta impossibilità; ed è invece sufficiente — ai fini della regolarità formale del negozio — che il fatto stesso si profili, in linea di massima, potenzialmente dotato di efficienza causale, ed offra elementi che ven
gano a consentire un controllo e ad orientare la relativa indagine; salva
restando, peraltro, la facoltà della parte che abbia interesse ad invalida re il negozio di dedurre e dimostrare che la causa indicata era in realtà del tutto insussistente o non era idonea in concreto ad integrare in ef
fetti un impedimento a sottoscrivere» (Cass. 22 febbraio 1963, n. 430, Foro it., Rep. 1963, voce Notaro, nn. 27-29, e, per esteso, Giur. it., 1964, I, 1, 103).
In ogni caso, il notaio non è tenuto ad accertare la veridicità della dichiarazione resa dalla parte in sua presenza; si tratta, infatti, di di chiarazione personale, con funzione sostitutiva della sottoscrizione (di versa è la disciplina nei testamenti speciali, in cui il notaio può riscon trare l'esistenza della fattispecie impeditiva direttamente; v., riassunti
vamente, Branca, Dei testamenti speciali, in Commentario a cura di
Scialoja-Branca, Bologna, 1987, 31). III. - La giurisprudenza è conforme nel senso ora indicato, anche
se la gran parte delle pronunce sono state rese in materia testamentaria. «È orientamento prevalente in giurisprudenza che allorquando il no
taio abbia fatto menzione nel testamento pubblico della dichiarazione del testatore riguardante la causa impeditiva della sottoscrizione dell'at
to, occorre che tale causa sia sussistente nella realtà e che ove risulti che la causa impeditiva non sia rispondente al vero il testamento è col
pito dalla sanzione della nullità» (Trib. Lucca 11 aprile 1990, Foro it.,
Rep. 1990, voce Successione ereditaria, n. 84, e, per esteso, Riv. not.,
1990, 535; in senso conforme, v., da ultimo, Cass. 6 novembre 1996, n. 9674, Foro it., Rep. 1996, voce cit., n. 74). «Non assumeva alcuna rilevanza che l'analfabetismo fosse onnino o no, essendo sufficiente, ai fini che interessano, la discordanza fra la dichiarazione di volontà
del testatore, di non saper sottoscrivere, e il fatto reale che egli sapeva lentamente apporre la propria firma» (Cass. 23 ottobre 1978, n. 4781,
id., Rep. 1979, voce cit., n. 60, e, per esteso, Riv. not., 1979, 221). «Lo scopo principale della sottoscrizione del testatore è quello di ap
provare o confermare il contenuto della manifestazione di volontà, da lui resa al notaio e trasfusa da costui nel testamento. Ma se il testatore non sottoscriva l'atto e se l'impedimento a sottoscriverlo, da lui asseri
to, risulti inesistente, è evidente che la sua mendace dichiarazione non
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