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sezione I civile; sentenza 20 febbraio 1998, n. 1856; Pres. Corda, Est. Morelli, P.M. Frazzini...

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sezione I civile; sentenza 20 febbraio 1998, n. 1856; Pres. Corda, Est. Morelli, P.M. Frazzini (concl. parz. diff.); Conti (Avv. Pandocchi) c. D'Ambrosio (Avv. Pizzoccheri). Conferma App. Milano, decr. 29 luglio 1996 Source: Il Foro Italiano, Vol. 122, No. 6 (GIUGNO 1999), pp. 2043/2044-2053/2054 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23193741 . Accessed: 28/06/2014 10:14 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 185.31.195.97 on Sat, 28 Jun 2014 10:14:01 AM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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sezione I civile; sentenza 20 febbraio 1998, n. 1856; Pres. Corda, Est. Morelli, P.M. Frazzini(concl. parz. diff.); Conti (Avv. Pandocchi) c. D'Ambrosio (Avv. Pizzoccheri). Conferma App.Milano, decr. 29 luglio 1996Source: Il Foro Italiano, Vol. 122, No. 6 (GIUGNO 1999), pp. 2043/2044-2053/2054Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23193741 .

Accessed: 28/06/2014 10:14

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2043 PARTE PRIMA 2044

dovuto dal datore di lavoro in corrispettivo dell'attività lavora

tiva del dipendente; comporta, altresì, un incremento patrimo niale di costui; e rientra nell'ampio concetto di retribuzione in

dipendenza del sottostante rapporto di subordinazione, come

delineato dal legislatore nell'art. 12 1. 30 aprile 1969 n. 153, a fini contributivi.

Al riguardo, va dunque affermato il principio che: «l'inden

nità sostitutiva di ferie non godute ha natura retributiva, assi

milabile sotto certi aspetti agli emolumenti per lo straordinario,

trattandosi di compenso, sia pure con le maggiorazioni previste dalla legge o dalla contrattazione collettiva, per prestazioni la

vorative eseguite in giornate che avrebbero dovuto essere dedi

cate al riposo, ed in dipendenza del sottostante rapporto di su

bordinazione; pertanto tale indennità rientra nell'ambito del

l'ampio concetto di retribuzione imponibile a fini previdenziali ed assistenziali delineato dall'art. 12 1. 30 aprile 1969 n. 153,

senza alcuna indagine circa l'eventuale, concorrente profilo ri

sarcitorio della stessa, atteso che detta norma esclude soltanto

alcune erogazioni tassativamente indicate, tra le quali non può

ricomprendersi il menzionato emolumento, comprensivo di mag

giorazioni correlate alla particolare natura qualitativa e tempo rale delle prestazioni effettuate in periodo feriale».

Quanto al secondo punto dell'impugnazione, sostiene l'istitu

to che erroneamente il tribunale ha escluso il profilo retributivo

correlato al valore del servizio mensa e, per l'effetto, l'indenni

tà sostitutiva dello stesso, sulla base di una distorta interpreta zione della prima parte dell'art. 6 d.l. 333/92, laddove ai punti 3 e 5 della medesima disposizione risulta inequivocabilmente con

fermato che detto servizio va inserito nella base imponibile per il computo dei contributi di previdenza ed assistenza sociali; e che, comunque, anche in ipotesi di esatta analisi interpretati va della norma secondo le conclusioni della sentenza, la stessa,

atteso il suo evidente carattere innovativo, non poteva essere

applicata retroattivamente per il periodo di cui alla contestazio

ne degli addebiti, anteriore al 1990.

Al riguardo, è orientamento prevalente di questa Suprema corte che il servizio mensa (sia nel regime anteriore all'entrata

in vigore dell'art. 6 d.l. 333/93, convertito in 1. 8 agosto 1992

n. 359, che in quello da tale norma espresso, che pertanto assu

me il valore di disposizione confermativa, senza dunque porsi in contrasto con gli art. 3, 24, 36, 39, 101, 102 e 104 Cost.), ancorché obbligatoriamente apprestato dal datore di lavoro in

adempimento di quanto stabilito dalla contrattazione collettiva, non ha carattere di retribuzione in natura, difettando del requi sito della corrispettività, in quanto la sua fruizione non è cau

salmente correlata al solo fatto della prestazione lavorativa, ma

presuppone un ulteriore atto volontario del lavoratore, che in

tenda fruire del servizio ed in concreto ne usufruisca.

Può, nondimeno, detto servizio assumere siffatta natura re

tributiva indiretta, qualora le specifiche clausole di previsione

stabiliscano, altresì, l'erogazione di un'indennità sostitutiva, in

ipotesi di rifiuto del dipendente di avvalersene, rispetto alla quale è dato configurare un'obbligazione facoltativa del datore di la

voro con scelta della prestazione rimessa al creditore, in favore

di coloro che non si avvalgano del servizio medesimo (cfr., ex

plurimis, Cass., sez. un., 3888/93, id., 1993, I, 1399; 581/94,

id., Rep. 1994, voce Lavoro (rapporto), n. 998; 3218/96, id.,

Rep. 1997, voce Previdenza sociale, n. 284; contra, 11175/96,

ibid., n. 287). Ritiene il collegio che detto orientamento, ancorato a profili

retributivi della base imponibile, debba preferirsi all'altro deli

neato di recente con la cennata sentenza di questa corte 11175/96,

cit., secondo la quale, alla stregua di una concezione c.d. cau

sale, e quindi non corrispettiva in senso stretto, della retribuzio

ne, in questa debba farsi rientrare qualsiasi utilità conseguita dal lavoratore in relazione al rapporto, e pertanto anche quelle ad esso soltanto occasionalmente collegate, non essendo con

sentito alle parti di ridurre la base imponibile configurando ta

lune erogazioni, strutturalmente e funzionalmente, come previ denziali od assistenziali; giacché sia la lettera della legge, in par ticolare l'art. 12 menzionato, che la ratio della stessa inducono

ad una interpretazione più restrittiva dell'espressione ivi usata, nel senso che le erogazioni effettuate «in dipendenza del rap

porto» e suscettibili di contribuzione sono soltanto quelle con

cettualmente permeate dalla corrispettività, anche se lato sensu, e non ogni altra che comunque possa collegarsi al rapporto di

lavoro.

Il Foro Italiano — 1999.

Orbene, ribadito tale principio, da esso derivano alcuni co

rollari, quali: a) che non tutte le somme corrisposte al lavorato

re debbano essere considerate imponibili, rientrando esse in ogni

caso, direttamente od indirettamente, in una ipotetica, ampia

previsione della norma di cui alla L 153/69 (art. 12); b) che l'inclusione di emolumenti nella nozione di imponibile contri

butivo debba afferire unicamente a quei vantaggi, anche se in

diretti, che, senza comunque prescindere dal requisito della cor

rispettività, abbiano finalità di salvaguardia e tutela del salario,

con rigoroso collegamento delle finalità dei vantaggi stessi alla

natura delle elargizioni; e) che il servizio mensa, allorché venga

apprestato dal datore di lavoro, sia pure in adempimento di

obblighi derivanti dalla contrattazione collettiva e soltanto a fa

vore dei dipendenti che intendano fruirne, senza peraltro che

sia prevista la corresponsione di indennità sostitutiva alcuna nei

confronti di quanti non possano o non intendano usufruirne, difetta del requisito della corrispettività con la prestazione lavo

rativa, presupponendo un atto facoltativo e volontario del lavo

ratore la cui omissione non comporta un emolumento perequa

tivo, sicché in esso vanno ravvisati soltanto profili di natura

assistenziale; d) che, in conseguenza, esulando in detto servizio

ogni aspetto retributivo, ove effettuato con tali modalità e sen

za previsione di vantaggi economici alternativi, la sua natura

ontologicamente assistenziale lo esclude dalla base imponibile

previdenziale ed assolve il datore di lavoro da qualsiasi obbligo di contribuzione pertinente, con riferimento non solo al valore

reale, ma anche a quello convenzionale ad esso attribuito.

In tale direzione, e soprattutto in ordine alla previsione patti zia indennitaria alternativa alla fruizione del servizio mensa, il

tribunale, pur pervenendo a conclusioni negative del profilo con

tributivo, non ha effettuato nella specie alcuna indagine che, al contrario, si imponeva sulla base dei rilievi esposti, attese

le diverse conseguenze scaturenti dalle antitetiche situazioni pro

spettate. La sentenza impugnata, dunque, appare inficiata dai vizi de

nunciati, attinenti alla violazione di legge ed al difetto di moti

vazione, quest'ultimo, per ciò che concerne la seconda censura, nell'ottica delle precisazioni in precedenza effettuate.

In accoglimento del ricorso la decisione va, pertanto, cassata, con rinvio, per il nuovo esame ed anche per la statuizione sulle

spese del presente giudizio di legittimità, ad altro tribunale, de

signato come da dispositivo, il quale nel portare l'indagine de

mandatagli si adeguerà ai principi delineati.

I

CORTE DI CASSAZIONE; sezione I civile; sentenza 20 feb

braio 1998, n. 1856; Pres. Corda, Est. Morelli, P.M. Fraz

zini (conci, parz. diff.); Conti (Aw. Pandocchi) c. D'Am

brosio (Avv. Pizzoccheri). Conferma App. Milano, decr. 29

luglio 1996.

Filiazione — Dichiarazione giudiziale di paternità naturale —

Giudizio di ammissibilità dell'azione — Dichiarazione della

madre — Rapporti tra la madre e il preteso padre — Suffi

cienza (Cod. civ., art. 274). Filiazione — Dichiarazione giudiziale di paternità naturale —

Giudizio di ammissibilità dell'azione — Interesse del minore — Valutazione (Cod. civ., art. 274).

Le sole affermazioni della madre e l'esistenza di rapporti tra

essa e il preteso padre all'epoca del concepimento, anche se

non sono elementi idonei a far ritenere fondata la domanda, sono sufficienti per ritenere ammissibile l'azione di dichiara

zione giudiziale di paternità. (1)

(1) In senso conforme, cfr. Cass. 10 gennaio 1998, n. 151, Foro it., Mass., 16; 8 novembre 1997, n. 11032, id., Rep. 1997, voce Filiazione, n. 66; 25 settembre 1997, n. 9417, ibid., n. 65; 24 maggio 1995, n.

5663, id., Rep. 1995, voce cit., n. 58; 3 aprile 1995, n. 3898, ibid., n. 56; 10 marzo 1994, n. 2346, id., 1995, I, 2976, con nota di M.G. CrviNiNi.

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

L'interesse del minore alla dichiarazione giudiziale di paternità non è escluso dalla assenza di precedenti significativi rapporti con il preteso padre ma solo dal concreto accertamento di

una condotta di questi gravemente pregiudizievole e tale da

giustificare una dichiarazione di decadenza dalla potestà ov

vero dalla prova dell'esistenza di gravi rischi per gli equilibri

affettivi e psicologici del minore, per la sua educazione e per il suo inserimento nel contesto lavorativo e sociale. (2)

II

CORTE DI CASSAZIONE; sezione I civile; sentenza 22 otto

bre 1997, n. 10377; Pres. A. Finocchi aro, Est. Spirito, P.M.

Morozzo Della Rocca (conci, conf.); Novasconi (Avv. Co

ronati, Laviani) c. Lisa (Avv. Scartati, Scarpini). Confer ma App. Milano 26 maggio 1995.

Filiazione — Giudizio per la dichiarazione di paternità naturale — Rito ordinario — Irrilevanza (Cod. civ., art. 269; disp. att. cod. civ., art. 38).

Filiazione — Dichiarazione giudiziale di filiazione naturale — Giudizio di merito — Interesse del minore — Valutazione —

Esclusione (Cod. civ., art. 269; cod. proc. civ., art. 116). Filiazione — Dichiarazione giudiziale di paternità naturale —

Prove ematologiche — Rifiuto — Valutazione (Cod. civ., art.

269; cod. proc. civ., art. 116).

L'adozione del rito ordinario, in luogo di quello camerale, per il giudizio di dichiarazione di paternità naturale di un minore non è causa di nullità. (3)

L'accertamento in ordine alla sussistenza dell'interesse del mi

nore all'azione di dichiarazione giudiziale di paternità o ma

(2, 4) La giurisprudenza in tema di interesse del minore è cospicua e concorda in ordine alla necessità di operare una valutazione «in con creto» dell'interesse de quo: Cass. 24 settembre 1996, n. 8413, Foro

it., Rep. 1996, voce Filiazione, n. 55; 11 dicembre 1995, n. 12642, id.,

Rep. 1995, voce cit., n. 53; 24 maggio 1995, n. 5663, ibid., n. 61 (ri chiamata altresì nella motivazione della sentenza 1856/98). Le decisioni

richiamate si soffermano, in particolare, sulla necessità che la valuta

zione del giudice in ordine alla sussistenza dell'interesse del minore sia

compiuta dall'angolo visuale del minore stesso, in riferimento ad en

trambe le figure genitoriali, cosicché ne risulti ampliata la sfera affetti

va, donde tale interesse potrà essere escluso solo allorché si riscontrino

nel genitore del quale si intende far dichiarare la paternità, «gli estremi

di una condotta pregiudizievole, tale che darebbe luogo, in via ordina

ria, alla decadenza della potestà genitoriale, ovvero in presenza di fon

dati rischi sugli equilibri affettivi, per l'educazione e la collocazione

del minore». L'orientamento giurisprudenziale richiamato si basa sulla affermazio

ne della necessità di operare l'accertamento della sussistenza dell'inte

resse del minore all'azione di dichiarazione giudiziale di paternità natu

rale in sede di giudizio di ammissibilità della stessa, resa da Corte cost.

20 luglio 1990, n. 341, id., 1992, I, 25, con nota di P. Formica, che

ha dichiarato illegittimo l'art. 274, 1° comma, c.c., «nella parte in cui

non subordina l'ammissibilità dell'azione per la dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale (. . .) alla condizione che ne sia valu

tata la rispondenza all'interesse del minore»; la norma sarebbe, infatti, in stridente contrasto con gli art. 3 e 30 Cost.: la mancata previsione, da parte dell'art. 274 c.c., dell'opportunità della valutazione dell'inte

resse del minore, mal si concilierebbe, infatti, con la ratio di «protezio ne dell'interesse del minore» sottesa all'art. 30 Cost.

In dottrina, sul tema specifico dell'interesse del minore, cfr. G. Dosi, Dall'interesse ai diritti del minore: alcune riflessioni, in Dir. famiglia, 1995, 1604; O. Fittipaidi, Un primo bilancio sugli effetti della decisio

ne della Consulta 341/90 in materia di interesse del minore al riconosci

mento, in Famiglia e dir., 1997, 539.

Sembra, invece, destare ancora delle perplessità, la questione relativa

al momento processuale in cui debba avvenire la valutazione dell'inte

resse del minore. In senso conforme alla sentenza 10377/97, in epigra

fe, cfr. Cass. 7 maggio 1997, n. 3985, Foro it., Rep. 1997, voce cit., n. 52 (per esteso, Famiglia e dir., 1997, 537); 25 febbraio 1993, n. 2364, Foro it., Rep. 1994, voce cit., n. 47; 24 agosto 1994, n. 7483, ibid., n. 51. Nelle pronunce citate si precisa che la valutazione dell'interesse

del minore non può aver luogo nella successiva fase di merito, a causa

dell'esistenza del giudicato sul presupposto processuale specifico rap

presentato dall'interesse del minore. In senso contrario sembra, invece, la prevalente giurisprudenza di

merito: Trib. min. Genova 6 maggio 1993, ibid., n. 54, e Trib. min.

Torino 26 febbraio 1992, id., Rep. 1993, voce cit., n. 47. In queste

Il Foro Italiano — 1999.

ternità naturale è obbligatorio solo in sede di giudizio di am

missibilità dell'azione. (4) Nel giudizio di dichiarazione giudiziale di paternità o maternità

naturale, il rifiuto ingiustificato di sottoporsi all'esame ema

tologico costituisce comportamento valutabile ai sensi del 2 0

comma dell'art. 116 c.p.c. (5)

I

Svolgimento del processo. — 1. - Con decreto dell'11 marzo

1996, il Tribunale dei minori di Milano dichiarava ammissibile, ex art. 274 c.c., l'azione promossa, da Emilia D'Ambrosio, contro Luciano Conti, per sentirne dichiarare la paternità na

turale nei confronti della minore Francesca Chiara, figlia di

essa attrice.

2. - Contro tale decreto proponeva reclamo il Conti lamen

tando erronea valutazione delle risultanze processuali, carenza

di motivazione in ordine alla ricorrenza dell'interesse della mi

nore alla dichiarazione di paternità. Ma la corte di Milano respingeva l'impugnazione, con decre

to del 29 luglio 1996. 3. - Da qui l'ulteriore ricorso del Conti affidato a due mezzi

di cassazione.

Resiste l'intimata con controricorso.

Motivi della decisione. — 1. - Il primo motivo della impu

gnazione attacca il profilo centrale della statuizione di primo

grado là dove questa ravvisa, nella specie, il fumus boni iuris

nelle circostanze dedotte dalla D'Ambrosio nel ricorso; in tale

contesto valorizzando «la descrizione che la signora ha dato

dell'appartamento del convenuto», la circostanza che «erano state

indicate due amiche a conoscenza, sia pure de relato dei fatti»

e, infine, «il fatto che una delle due fotografie prodotte eviden

ultime decisioni si ritiene, infatti, che la valutazione dell'«interesse» del

minore debba necessariamente estendersi alla fase contenziosa del pro cedimento.

In dottrina, sul rapporto tra fase di ammissibilità e giudizio di meri

to, cfr. V. Carbone, La valutazione dell'interesse del minore e la fase di ammissibilità, in Famiglia e dir., 1995, 430; B. Lena, Dichiarazione

giudiziale di paternità o maternità naturale e giudizio di merito, id.,

1998, 6.

(3) In senso conforme, di recente, Cass. 25 gennaio 1996, n. 550, Foro it., Rep. 1996, voce Filiazione, n. 50, con particolare riferimento

all'ipotesi in cui il giudizio sia iniziato pur con ricorso e, tuttavia, non

ne consegua l'invalidità dello stesso, a condizione che non ne sia deriva

to pregiudizio per la parte e sia stato assegnato un termine non inferio re a quello previsto dall'art. 163 bis c.p.c. fra la notifica del ricorso

e l'udienza. Secondo un altro orientamento della giurisprudenza di le

gittimità, l'adozione del rito ordinario sarebbe inevitabile, dovendosi,

perciò, escludere quello camerale: cfr., in tal senso, Cass. 14 febbraio

1994, n. 1448, id., 1994, I, 1018, con nota di richiami. In dottrina, oltre agli autori richiamati in nota a Cass. 1448/94, cit.,

v. M.T. Ambrosini, Una deludente sentenza delle sezioni unite del Su

premo collegio: rito camerale o rito ordinario in seno al giudizio di

merito per la dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale

avanti la giurisdizione minorile?, in Dir. famiglia, 1997, 537; A. Vac

caro, Rito camerale e procedimento minorile, id., 1998, 220.

(5) In senso conforme, cfr. Cass. 28 giugno 1994, n. 6217, Foro it.,

1996, I, 251, con nota di richiami. Più di recente, anche altra giurisprudenza di legittimità si è espressa

nello stesso senso: cfr. Cass. 24 febbraio 1997, n. 1661, id., Rep. 1997, voce Filiazione, n. 79 (per esteso, Famiglia e dir., 1997, 105), con parti colare riferimento al combinarsi delle dichiarazioni della madre e del

rifiuto del padre a sottoporsi agli esami ematologici, nel quale ultimo

comportamento sarebbe, così, ravvisabile un «espediente per ostacolare la dimostrazione della paternità»; 19 settembre 1997, n. 9307, Foro it.,

Rep. 1997, voce cit., n. 81, e Famiglia e dir., 1997, 505, con particolare

riguardo all'individuazione di criteri idonei a fondare il convincimento

del giudice in ordine alla prestazione o meno del consenso al prelievo ematico: non si porrebbe, dunque, il contrasto con le norme processuali

penali che consentono il prelievo coattivo già dichiarate costituzional

mente illegittime (Corte cost. 9 luglio 1996, n. 238, Foro it., 1997, I,

58, e 19 luglio 1996, n. 257, ibid., 1716) poiché, nella specie, non risul

terebbero lese l'inviolabilità della persona e l'incoercibilità del prelievo, ma si tratterebbe solo di trarre argomenti di prova dal comportamento della parte in giudizio; 24 gennaio 1998, n. 692, id., Mass., 76.

In dottrina, cfr., sull'argomento, G. Gioia, I contrasti non dichiarati

tra Corte costituzionale e Corte di cassazione, in Famiglia e dir., 1997,

506; V. Carbone, Dal divieto d'indagini sulla paternità alla possibilità di provarla con ogni mezzo, ibid., 107.

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2047 PARTE PRIMA 2048

zia nel gesto di appoggio della signora al signore, una consuetu

dine ed una familiarità visibilmente affettuosi».

Secondo il ricorrente la motivazione del decreto della corte

milanese sarebbe carente sotto il duplice profilo del mancato

controllo di veridicità delle deduzioni della istante e della non

adeguata comparazione della sua versione dei fatti con quella

contrapposta di esso Conti.

Le censure così prospettate, sono infondate in diritto (quanto all'asserita violazione dell'art. 274 c.c.) ed inammissibili per la

residua parte in cui si risolvono nella denuncia di vizi di moti

vazione, cui non può invero darsi ingresso, con il ricorso straor

dinario ai sensi dell'art. Ill Cost., come nella specie proponibi le e di fatto proposto.

In particolare, per quanto attiene al primo profilo di critica,

giova ribadire che — contrariamente all'avverso assunto — la

pronunzia di ammissibilità dell'azione, ai sensi dell'art. 274 c.c., ben può essere fondata anche sulla sola affermazione della ma

dre e sulla ricorrenza di rapporti tra essa ed il preteso padre

all'epoca del concepimento, poiché tali elementi — mentre non

sono da soli idonei all'accoglimento della domanda ex art. 269, 4° comma, c.c. — possono viceversa giustificare la declaratoria

di ammissibilità, la quale postula il riscontro della mera «non

manifesta infondatezza» della domanda, il cui effettivo fonda

mento verrà accertato nel successivo giudizio di merito (cfr., da ultimo, sent. n. 1413 del 1993, Foro it., Rep. 1993, voce

Filiazione, nn. 58, 59). Infatti, la modifica del 1° comma dell'art. 274 c.c. operata

dalla legge di riforma del diritto di famiglia, con la sostituzione

dell'espressione «specifiche circostanze» alla parola «indizi», ai

fini dell'ammissibilità dell'azione di dichiarazione giudiziale di paternità, non ha sostanzialmente innovato la natura sommaria

della cognizione preliminare prevista dalla norma stessa, in quan to la valutazione circa l'esistenza di dette specifiche circostanze

sufficienti a rendere ammissibile l'azione de qua, deve mante

nersi sul piano della probabilità e non su quello della certezza

(cfr. già Cass. n. 5949 del 1979, id., Rep. 1979, voce cit., n.

51, e poi, varie altre fino alla più recente Cass. n. 2200 del

1990, id., Rep. 1990, voce cit., n. 77). Di modo che la previa indagine che il giudice è chiamato a

svolgere, ex art. 274, cit., è tuttora rivolta non già ad accertare

con efficacia probatoria la paternità, ma solo a riscontrare un

eventuale fumus boni iuris in ordine alla sua esistenza, in rap

porto con le indicazioni dell'istante sulle circostanze che intende

provare nel successivo giudizio di piena cognizione (e che non

si pretende, quindi, che siano già in prima fase acquisite: v.

anche Cass. n. 1668 del 1988, id., Rep. 1988, voce cit., n. 52), con le desumibili presunzioni idonee a far apparire l'azione non

manifestamente infondata.

2. - Del pari destituito di giuridico fondamento è poi il suc

cessivo secondo motivo del ricorso volto ad accreditare una ri

duttiva esegesi dell'art. 274 c.c. (che la corte di secondo grado avrebbe appunto violato), secondo cui andrebbe escluso l'inte resse del minore alla dichiarazione di paternità ogni qualvolta non risulti, come nella specie, alcun significativo precedente rap

porto del preteso padre con il minore stesso.

Si tratta come è evidente di una interpretazione palesemente aberrante, che svuoterebbe di ogni concreta valenza e significa to la norma in esame.

Viceversa — come è stato già precisato, con ricorrenti pro nunzie, sulla cui linea si sono correttamente posti i giudici a

quibus — l'accertamento giudiziale dell'interesse del minore ai fini dell'ammissibilità dell'azione di dichiarazione giudiziale di paternità naturale, a norma dell'art. 274 c.c., così come inciso

dalla sentenza della Corte costituzionale n. 341 del 1990 (id., 1992, I, 25), deve essere compiuto in concreto, con riferimento

preminente alle globali esigenze presenti e future di formazione

e di arricchimento della personalità del minore, nel contesto familiare e socio-economico di appartenenza, e quindi ai bene fici dell'ampliamento della sfera affettiva, sociale ed economica

del minore, che possono essere esclusi solo in base all'accertata

condotta del presunto padre gravemente pregiudizievole per il

figlio e tale da motivare la decadenza della potestà sullo stesso, ovvero alla provata esistenza di gravi e fondati rischi per gli equilibri affettivi e psicologici del minore, per la sua educazione

e per il suo inserimento nel contesto lavorativo e sociale (cfr., da ultimo, sent. 5663/95, id., Rep. 1995, voce cit., nn. 57, 58, 61; 1444/96, id., Rep. 1996, voce cit., n. 54).

3. - Il ricorso va pertanto integralmente rigettato.

Il Foro Italiano — 1999.

II

Svolgimento del processo. — Con la sentenza del 6 marzo

1991 il Tribunale per i minorenni di Milano dichiarò Giancarlo

Novasconi padre naturale della minore Angelica Lisa, nata a

Milano il 25 dicembre 1987. Nell'appello proposto avverso la

sentenza, il Novasconi eccepì: la nullità del giudizio di primo

grado (ex art. 38 disp. att. c.c.), per essere stato celebrato con

il rito ordinario e non con quello camerale; che non era stato

valutato l'interesse della minore; che era stata errata la valuta

zione processuale; che l'esame ematogenetico, al quale egli s'era

sottratto, sarebbe stato in ogni caso inutile, per l'assenza di

altri elementi univoci, precisi e concludenti cui ricollegarlo. La Corte d'appello di Milano, sezione per i minorenni, re

spinse il gravame con la sentenza che è attualmente impugnata dal Novasconi, il quale formula otto motivi di ricorso. Rispon de con controricorso Annamaria Lisa, madre della minore An

gelica. Motivi della decisione. — 1.1. - Il giudice di merito ha affer

mato che il rito camerale, con il conseguente uso dello strumen

to del ricorso, non può essere applicato ai procedimenti previsti dall'art. 269 c.c., in quanto trattasi di un procedimento di co

gnizione ordinaria a natura contenziosa, che deve svolgersi nel

pieno contraddittorio delle parti e si conclude con la sentenza.

In particolare, il giudice, dichiarando di aderire alla giurispru denza di questa Suprema corte (il riferimento è rivolto a Cass.

27 gennaio 1992, n. 864, Foro it., Rep. 1992, voce Filiazione, n. 66; 18 novembre 1988, n. 6232, id., Rep. 1988, voce cit., n. 58), ha precisato che il procedimento per la dichiarazione

giudiziale di paternità e maternità naturale, che si svolge in con

traddittorio delle parti, con la partecipazione del p.m. e si con

clude con sentenza, ha natura contenziosa e non di volontaria

giurisdizione. La corte territoriale ha spiegato, altresì, di con

cordare con il Novasconi nel ritenere che il legislatore, nella

materia in oggetto, ha voluto un giudice collegiale e specializza to e perciò, integrata dalla presenza degli esperti, ha esaminato

le istanze delle parti, ha valutato la documentazione ed ha am

messo ed assunto le prove testimoniali, escludendo la configu rabilità di un'ipotesi di rimessione della causa davanti al primo

giudice, ex art. 353 e 354 c.p.c. Con i primi tre motivi di ricorso il Novasconi critica la sen

tenza impugnata per non aver disposto la rimessione della cau

sa (celebrata in primo grado con il rito ordinario e non con

quello camerale) al primo giudice. In particolare, con il primo motivo di ricorso lamenta l'omessa motivazione circa tale man

cata rimessione; con il secondo motivo, nel lamentare la viola

zione dell'art. 25 Cost, e dell'art. 161 c.p.c., spiega che, attra

verso l'adozione, in primo grado, del rito ordinario cognitivo, è risultato insanabilmente leso il principio della collegialità e

della specializzazione del giudice (gli atti sono stati posti in es

sere, infatti, dal giudice istruttore e non dal collegio), sottraen

do, così, agli interessati il giudice naturale assegnato loro dalla

legge. Ritiene, inoltre, il Novasconi che non è possibile, in que sta situazione, ricorrere al principio della conversione degli atti

nulli, in quanto l'atto di citazione adottato per introdurre il

giudizio di primo grado non ha mai raggiunto lo scopo di far

conoscere la controversia al giudice collegiale e specializzato, sicché il giudice del gravame avrebbe dovuto rimettere la causa

a quello di primo grado, ai sensi dell'art. 354 c.p.c., per nullità

dipendente da irregolare costituzione del giudice. Con il terzo

motivo di ricorso viene denunziata la violazione e falsa applica zione degli art. 70 c.p.c. e 38 disp. att. c.c. per la mancata

partecipazione del p.m. al giudizio di primo grado, deducendo

si, quindi, la nullità della sentenza di quello stesso grado. 1.2. - I primi tre motivi (che possono essere congiuntamente

trattati, in quanto coinvolgono tutti questioni procedurali atti

nenti all'azione in concreto esperita) sono infondati.

L'art. 38 disp. att. c.c., nel testo risultante dalla modifica

apportata dall'art. 68 1. 4 maggio 1983 n. 184, stabilisce che

la dichiarazione giudiziale della paternità o della maternità na

turale è attribuita, nel caso di minori, alla competenza del tri

bunale per i minorenni, mentre la competenza del tribunale or

dinario, che conosce le cause sullo stato delle persone, resta

limitata alle ipotesi nelle quali la domanda di reclamo sia pro

posta da maggiori di età. Il 3° comma della menzionata dispo sizione prevede che, in ogni caso, il tribunale provvede in came

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

ra di consiglio, sentito il p.m. I ripetuti interventi legislativi suc

cedutisi nel tempo a modificare la norma in esame e l'incerta

formulazione che ne è alla fine derivata hanno prodotto contra

sti, sia in dottrina che in giurisprudenza, circa l'applicabilità del rito camerale anche all'azione per la dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale (azione di carattere squisita mente contenzioso) e non solo agli altri procedimenti, menzio

nati nell'art. 38, che sfociano in provvedimenti di volontaria

giurisdizione. La questione assume la sua rilevanza se si tien

conto del fatto che la scelta del rito camerale o di quello ordi

nario incide sulla competenza territoriale, sull'ammissione e sul

l'assunzione delle prove, sulla forma del provvedimento finale, sulle modalità e sui termini d'impugnazione, sul passaggio in

giudicato o sulla revocabilità del provvedimento emesso. Le se

zioni unite di questa Suprema corte, con la sentenza n. 5629

del 19 giugno 1996 (id., 1996, I, 3070) hanno composto il con

trasto di giurisprudenza, stabilendo che il giudizio di merito re

lativo alla dichiarazione di paternità o maternità naturale di mi

nori innanzi al tribunale per i minorenni oppure, in sede di gra

vame, innanzi alla sezione per i minorenni della corte d'appello è soggetto al rito camerale, anziché al rito contenzioso ordina

rio. In considerazione delle scelte compiute dal legislatore, la

soluzione accolta (con la quale ora il collegio ampiamente con

corda e che comporta, quindi, la correzione, sul punto, della

motivazione della sentenza impugnata) individua la trasforma

zione della giurisdizione camerale, sorta come un'attività di am

ministrazione del diritto affidata ad organi giurisdizionali (ca ratterizzata, sotto il profilo strutturale, dalla revocabilità e, sot

to quello funzionale, dalla mancata incidenza sui diritti) in un

«contenitore neutro» che può assicurare, da un lato, la spedi tezza e la concentrazione del procedimento ed essere, dall'altro,

rispettosa dei limiti imposti all'incidenza della forma procedi mentale dalla natura della controversia, che, in quanto relativa

a diritti o status, gode di apposite garanzie costituzionali.

Ciò premesso, può passarsi ad esaminare lo specifico punto attinto dalle censure in esame, ossia la questione se, avendo

proceduto il tribunale per i minorenni secondo il rito ordinario

di cognizione e non secondo quello camerale, si sia verificato

il fenomeno della conversione dei motivi di nullità della senten

za di primo grado in motivi di impugnazione (art. 161 c.p.c.),

oppure una nullità tale da imporre la rimessione della causa

al primo giudice. In proposito va ricordato il principio ispirato re del vigente processo civile, secondo cui i vizi della sentenza

in sé considerata e quella degli atti processuali che ne rappre sentano antecedenti logici e cronologici non possono farsi vale

re se non attraverso le impugnazioni che il legislatore appresta nell'ambito dello stesso processo per ottenere la correzione delle

ingiustizie formali e sostanziali della sentenza, tranne che non

di semplice nullità si tratti, ma di vera e propria inesistenza

dell'atto, nella quale ipotesi il passaggio in giudicato in senso

formale del provvedimento giurisdizionale, per difetto di impu

gnazione tempestiva, o anche per non avere il legislatore appre stato alcun mezzo di impugnazione, non estingue il vizio dell'i

nesistenza. Il principio trova la sua deroga nella disposizione dell'art. 354 c.p.c., la quale, solo in ipotesi tassativamente cir

coscritte (nullità della notifica dell'atto introduttivo del giudi

zio, mancata integrazione del contraddittorio, indebita estro

missione di una parte, omessa sottoscrizione della sentenza), in

cui può ritenersi del tutto priva dei suoi connotati essenziali

la pronuncia giurisdizionale o vulnerata la regola cardine del

doppio grado di giurisdizione, impone la rimessione della causa

al primo giudice. In relazione allo specifico caso di adozione del rito ordinario

invece di quello camerale, va rilevato che essa non produce al

cuna delle menzionate nullità, tassativamente previste, che de

roghi al principio della conversione dei motivi di nullità in mo

tivi di impugnazione. Al contrario, la questione va vista in ma

niera specularmente opposta rispetto a quella in cui l'ha

prospettata il ricorrente, osservando, cioè, che l'adozione del

rito cognitivo ordinario ha assicurato la massima garanzia pro

cedurale concessa dal legislatore. Infatti, come s'è già accenna

to in precedenza, i contrasti giurisprudenziali formatisi (prima

del menzionato intervento delle sezioni unite di questa Corte)

si fondavano, appunto, sulla porplessità che il rito camerale,

apprestato con un minor numero di garanzie e formalità per

le ipotesi di volontaria giurisdizione, potesse essere applicato

li Foro Italiano — 1999.

per un'azione tipicamente contenziosa quale quella per la di

chiarazione di paternità o maternità naturale. Tali dubbi sono

stati risolti a favore dell'adottabilità del rito camerale, sulla scorta

di una consolidata giurisprudenza del giudice delle leggi (cfr. Corte cost. n. 573 del 1989, id., 1990, I, 365; n. 543 del 1989,

ibid., 366; n. 748 del 1988, id., Rep. 1989, voce Competenza

civile, n. 18; n. 394 del 1987, id., Rep. 1988, voce Filiazione, n. 55; n. 193 del 1987, id., 1988, I, 2802), che ha ritenuto insin dacabile in sede di legittimità costituzionale la scelta legislativa di adottare questo rito in determinate materie tipicamente con

tenziose o con elementi propri della giurisdizione contenziosa

(oltre quella in esame, la separazione, lo scioglimento del matri

monio, l'interdizione, l'inabilitazione, ecc.), sul presupposto che

il rito camerale non contrasta, di per sé, con il diritto di difesa

sancito dall'art. 24 Cost, e non preclude la possibilità che la

relativa disciplina si conformi alle speciali caratteristiche della

struttura dei singoli procedimenti, purché siano assicurate la ga ranzia del contraddittorio (art. 274 e 276 c.p.c.) e l'esperibilità di ogni mezzo di prova in relazione alla specifica azione eserci

tata (art. 269, 2° comma, c.c., per quanto riguarda l'azione

per il riconoscimento di paternità naturale). Da tali considerazioni si deduce che nella specie (ove, peral

tro, la sezione minorile della corte d'appello, dichiarata la nulli

tà degli atti istruttori compiuti in primo grado, ha provveduto a rinnovarli), in cui è stato utilizzato il rito ordinario invece

di quello camerale, il ricorrente, che ha goduto della pienezza delle garanzie del primo, non ha alcun interesse a rilevare in

merito alcuna nullità, né, tanto meno, eventuali nullità della

sentenza o degli atti ad essa precedenti comporta la rimessione

al giudice di primo grado, verificandosi, piuttosto, la conversio

ne dei motivi di nullità in motivi di gravame. Va ribadito, in definitiva, il principio secondo cui nel giudizio di merito di pri mo grado dinanzi al tribunale per i minorenni per la dichiara

zione di paternità o maternità naturale di un minore, non è

causa di nullità l'utilizzazione del rito ordinario al posto di quello

camerale, previsto dall'art. 38 disp. att. c.c., come modificato

dall'art. 68 1. 4 maggio 1983 n. 184, sia perché la nullità non

è sancita da nessuna norma, sia, comunque, per l'applicabilità del principio di conversione degli atti nulli, in quanto il rito

ordinario consente di raggiungere il medesimo risultato con non

inferiore ed anzi più penetrante garanzia della difesa e delle

regole del contraddittorio (Cass. 11 settembre 1993, n. 9477,

id., Rep. 1993, voce cit., n. 75; 25 febbraio 1993, n. 2326, ibid., n. 74; 19 marzo 1992, n. 3416, id., Rep. 1992, voce cit., n.

68; cfr. anche Cass. 21 febbraio 1997, n. 1608, id., Rep. 1997,

voce cit., n. 75, secondo la quale il giudizio di merito relativo

alla dichiarazione di paternità o maternità naturale di minori, ove attivato con citazione invece che con ricorso, non è viziato

da nullità quando l'atto introduttivo contenga tutti gli elementi

necessari a farlo considerare come ricorso e siano stati adottati

dal giudice i conseguenti provvedimenti di legge ai fini della

instaurazione del contraddittorio).

Né, d'altro canto, hanno alcun rilievo le censure proposte dal ricorrente in merito al fatto che l'adozione del rito ordina

rio (con conseguente ammissione ed espletamento dei mezzi di

prova ad opera del solo giudice istruttore e non del collegio

integrato dai membri specializzati) avrebbe di fatto sottratto la

parte al suo giudice naturale, precostituito per legge (art. 25

Cost.). Va osservato in proposito che il citato precetto costitu

zionale va riferito al giudice innanzi al quale viene instaurata

e trattata la causa (e, nella specie, questa è stata correttamente

proposta innanzi al tribunale per i minorenni) e non al singolo

magistrato che, in seno al giudice collegiale, svolga funzioni

ed eserciti poteri procedimentali propri; inoltre, per le ragioni

esposte in precedenza, anche in relazione a questo profilo vale

il principio della conversione della nullità in motivo di gravame

(si tenga conto del fatto che il giudice d'appello, dichiarata la

nullità degli atti istruttori compiuti in primo grado, ne ha di

sposto la rinnovazione davanti al collegio integrato dai membri

specializzati). Quanto alla censura di nullità per mancata partecipazione del

p.m. al giudizio di primo grado, va osservato che dalla lettura

degli atti di causa (consentita a questa corte dal contenuto della

censura stessa, che prospetta un errore nel procedimento) emer

ge, invece, la sua costante partecipazione nel corso dell'intero

giudizio, con trasmissione degli atti in tutte le date che sono

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2051 PARTE PRIMA 2052

puntualmente indicate nel controricorso. Va, comunque, riba

dito in proposito il principio secondo cui, qualora nel giudizio di primo grado sia mancata la partecipazione del pubblico mi

nistero in una causa nella quale ne è obbligatorio l'intervento

ai sensi dei nn. 2, 3 e 5 dell'art. 70 c.p.c. (quale, appunto, l'azione di dichiarazione giudiziale di paternità), il giudice d'ap pello, rilevata la nullità della sentenza, non può rimettere la

causa al primo giudice, ma deve trattenerla presso di sé e deci

derla nel merito, dovendo escludersi che nelle menzionate ipote si di cui all'art. 70, cit. (diversamente da quella di cui al n.

I dello stesso articolo) la mancata partecipazione del p.m. com

porti un difetto di integrale contraddittorio e consenta pertanto

l'applicazione dell'art. 354 stesso codice (Cass. 27 gennaio 1997, n. 807, ibid., voce Pubblico ministero civile, n. 7).

2.1. - Tra i motivi d'appello, il Novasconi aveva lamentato

che, nella fase d'ammissibilità dell'azione, era mancata l'inda

gine sull'interesse del minore infrasedicenne all'azione, imposta dalla declaratoria di parziale incostituzionalità dell'art. 274 c.c., di cui alla sentenza della Corte costituzionale 20 luglio 1990, n. 341 (id., 1992, I, 25). La corte territoriale, premesso che

la citata sentenza costituzionale era intervenuta quando il decre

to ex art. 274 c.c. era ormai già diventato definitivo, ha ritenu

to, comunque, che l'interesse della minore Lisa all'accertamen

to del rapporto di filiazione si fondi su un'esigenza personale di certezza e verità delle proprie origini, sull'acquisizione di uno

status più favorevole che le consenta di riferirsi ad entrambe

le figure genitoriali con effetti positivi anche per la normalità

delle relazioni sociali, sulla maggiore sicurezza economico

patrimoniale; che, peraltro, non sono emerse circostanze relati

ve alla situazione personale ed alla condotta di vita del Nova

sconi, tali da indurre un giudizio presuntivo di sua inidoneità

allo svolgimento del ruolo genitoriale. Con il quarto motivo di ricorso, eccepita la violazione e falsa

applicazione dell'art. 269 c.c., nonché l'illegittimità costituzio

nale della stessa norma, si sostiene che l'accertamento dell'inte

resse del minore non poteva essere accertato in base a quella

disposizione del codice civile, in quanto la necessità di tale ac

certamento fu introdotta dalla Corte costituzionale, con la sum

menzionata sentenza, solo in relazione alla dichiarata, parziale incostituzionalità dell'art. 274 c.c., ossia per la sola fase di am

missibilità dell'azione. Il ricorrente concorda, quindi, sulla ne

cessità di valutare l'interesse del minore anche nella fase di ac

certamento della paternità o maternità naturale (e non solo nel

la fase di ammissibilità dell'azione), ma ritiene necessario che, a tal fine, sia necessario un analogo intervento del giudice delle

leggi anche sulla norma dell'art. 269 c.c., della quale, quindi,

ripropone la questione di legittimità costituzionale.

Inoltre, con il quinto motivo di ricorso, si eccepisce che la

valutazione dell'interesse del minore non è stata compiuta dalla

sentenza impugnata sulla base di elementi di fatto, bensì finisce

nel concretizzarsi in mere affermazioni teoriche che non tengo no conto del caso concreto.

2.2. - Anche questi motivi, che possono essere congiuntamen te trattati, sono in parte infondati ed in parte inammissibili.

La sentenza della Corte costituzionale n. 341 del 20 luglio

1990, cit. (sopravvenuta quando nel procedimento in esame il

decreto ex art. 274 c.c. era già divenuto definitivo) ha dichiara

to illegittimo, per violazione degli art. 3 e 30 Cost., l'art. 274, 1° comma, c.c., nella parte in cui non subordina l'ammissibilità

dell'azione per la dichiarazione giudiziale di paternità o mater

nità naturale, oltre che al concorso specifico di circostanze tali

da farla apparire giustificata, anche alla condizione che ne sia

valutata la rispondenza all'interesse del minore. La giurispru denza di questa Suprema corte ha affermato che, nel giudizio

promosso per la dichiarazione della paternità o maternità natu

rale, dopo la definitività della pronuncia d'ammissibilità della

relativa azione, resta irrilevante la sopravvenienza della declara

toria d'incostituzionalità dell'art. 274 c.c. ad opera della citata

sentenza costituzionale, nella parte in cui non prevede ai fini

di tale ammissibilità il riscontro della rispondenza di detta azio

ne all'interesse del minore infrasedicenne, considerato che le que stioni sull'ammissibilità medesima sono precluse dalla forma

zione del giudicato su quella pronuncia (Cass., sez. un., 7 feb

braio 1992, n. 1371, id., Rep. 1992, voce Filiazione, n. 52). II giudice di merito ha dato atto che l'intervento del giudice delle leggi era stato successivo al passaggio in giudicato del de

li, Foro Italiano — 1999.

creto sull'ammissibilità dell'azione, ma, ad ogni buon conto, ha proceduto ugualmente alla valutazione dell'interesse della mi

nore infrasedicenne ed ha espresso, nella maniera esposta in

precedenza, il proprio favorevole giudizio sulla sussistenza dello

stesso.

Non v'è dubbio, alla luce della citata giurisprudenza di legit

timità, che la corte territoriale ha emesso, nella fase di merito

dell'azione, un giudizio (quello sulla sussistenza dell'interesse

del minore) che la Consulta ha reso obbligatorio per la sola

fase dell'ammissibilità dell'azione stessa e che, una volta esauri

tasi quest'ultima, non doveva essere più emesso. Ultroneo giu

dizio, dunque, che resta del tutto irrilevante ed è incapace di

esplicare alcun effetto sostanziale nella fattispecie in esame. Di

qui, vanno rilevate, in primo luogo, la mancanza di interesse

del ricorrente a far valere eventuali vizi della motivazione al

riguardo (motivazione che, comunque, si dispiega in maniera

congrua e logica); in secondo luogo l'irrilevanza, ai fini della

decisione, della questione di costituzionalità dell'art. 269 c.c.

in quanto, di fatto, il giudice, nella fase di merito, ha emesso

il giudizio sull'interesse del minore, sicché il ricorrente non ha

alcun interesse, agli effetti del giudizio in corso, a far valere

l'incostituzionalità della norma nella parte in cui non prevede che anche nella fase del merito quell'interesse stesso debba esse

re valutato.

3.1. - Con il sesto motivo di ricorso il Novasconi, nel denun

ziare la violazione e falsa applicazione dell'art. 115 c.p.c., non

ché l'omessa motivazione circa un punto decisivo della contro

versia, sostiene che nel giudizio di merito non s'è raggiunta la

prova che nel periodo di concepimento della minore vi siano

stati rapporti sessuali tra le parti e che, in sintesi, la domanda

sia stata ritenuta provata per il solo fatto che non è stata, per

converso, accertata la fondatezza della exceptio plurium concu

bentium, con palese violazione dei principi sull'onere della pro va. Con il settimo motivo di ricorso, viene, poi, lamentato che,

proprio in riferimento a quest'ultima eccezione, sia stata del

tutto omessa la motivazione e sia stato emesso un giudizio di

merito totalmente smentito dalle risultanze processuali. 3.2. - Il motivo è infondato. Il giudice di merito, dopo avere

esposto i risultati della prova testimoniale e le differenti valuta

zioni che ne facevano il convenuto, da una parte, e l'attrice

ed il p.m., dall'altra, ha accolto la tesi di questi ultimi, ritenen

do accertata la relazione tra la Lisa ed il Novasconi fino al

periodo del concepimento (sul punto v'era, peraltro, l'ammis

sione dello stesso Novasconi, seppure con la precisazione che

tali rapporti erano avvenuti «sotto costrizioni» e «con misure

di sicurezza») e non provata Vexceptio plurium concubentium

(il tenore delle testimonianze introdotte al riguardo dal Nova

sconi appariva talmente sospetto da indurre il p.m. a trasmette

re gli atti al suo stesso ufficio per l'esercizio dell'azione penale).

Dunque, diversamente da quanto oggi sostenuto dal ricorrente, il giudice di merito, con un'esauriente e logica motivazione, che

si sottrae ad ogni censura in questa sede, ha prima valutato

come provata la relazione tra le parti all'epoca del concepimen to e, poi, ha giudicato priva di ogni fondamento probatorio la citata eccezione.

4.1. - Ritenuta come accertata la relazione tra il Novasconi

e la Lisa fino all'epoca del concepimento e non raggiunta la

prova in ordine alla exceptio plurium concubentium, il giudice di merito, dichiarando di uniformarsi all'insegnamento di que sta Suprema corte, ha valutato il rifiuto del Novasconi di sotto

porsi all'accertamento ematogenetico quale elemento di convin

cimento ex art. 116, 2° comma, c.p.c. Sicché, secondo la corte

milanese, l'essersi egli rifiutato di sottoporsi al menzionato esa

me (di elevatissima affidabilità ai fini dell'accertamento in og

getto) sia in primo che in secondo grado, costituisce indizio gra ve della sua consapevolezza di essere padre e, in conclusione, elemento ammissivo della fondatezza dell'azione.

Con l'ottavo motivo di ricorso il ricorrente (denunziata la

violazione e falsa applicazione degli art. 115 e 116 c.p.c., non

ché l'omessa o insufficiente motivazione circa un punto decisi

vo della controversia) sostiene che l'esame ematologico offre

un risultato in termini meramente probabilistici, il quale, solo

collegato con altre prove, può condurre il giudice ad una con

vinzione sulla paternità. Nella specie, però, non soltanto manca

la prova circa il compimento di rapporti sessuali, per quanto esiste la prova di rapporti di tal genere tra la Lisa e terzi, sicché

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

il giudice dalla mancata sottoposizione all'esame in oggetto non

poteva trarre alcuna presunzione. 4.2. - Il motivo è infondato.

Va premesso che, nel giudizio diretto ad ottenere la dichiara

zione giudiziale della paternità naturale, il rifiuto ingiustificato di sottoporsi agli esami ematologici costituisce un comporta mento valutabile, ai sensi dell'art. 116, 2° comma, c.p.c., da

parte del giudice di merito, anche in assenza di prova di un

qualsiasi rapporto sessuale tra le parti. Infatti, proprio la man

canza di prove oggettive assolutamente certe (e ben difficilmen

te acquisibili) circa la reale natura dei rapporti tra le parti giu stifica il ricorso alla prova ematologica, il cui esito consente

non solo di escludere in modo assoluto la contestata paternità, ma anche di confermarla, alla stregua delle attuali conoscenze

scientifiche, con elevatissimo grado di probabilità (Cass. 9 giu

gno 1995, n. 6550, id., Rep. 1995, voce cit., n. 75). Nella spe

cie, il giudice di merito ha prima ritenuto acquisita la prova dei rapporti sessuali tra le parti al momento del concepimento della minore, poi, ha rilevato che tale prova era corroborata

dall'elemento indiziario tratto dal rifiuto del Novasconi di sot

toporsi all'esame ematogenetico nel corso dell'intero giudizio di merito.

Alla luce del citato principio, il quale ammette il ricorso alla

presunzione derivante dal rifiuto si sottoporsi all'esame in og

getto anche nel caso in cui non risulti affatto (diversamente)

provato il rapporto sessuale tra le parti, emergono la legittimità e la coerenza del metodo utilizzato nella sentenza impugnata

per giungere alla dichiarazione di paternità naturale.

Il ricorso va, quindi, respinto.

CORTE DI CASSAZIONE; sezione II civile; sentenza 30 gen naio 1998, n. 950; Pres. Sammantino, Est. Paolini, P.M.

Leo (conci, conf.); Vitamia e altro (Aw. Contaldi, Fontai

ne) c. Poli e altri (Avv. Bruzzi). Cassa App. Bologna 24

marzo 1994.

Contratto in genere, atto e negozio giuridico — Atto pubblico — Sottoscrizione — Dichiarazione di impedimento a firmare — Fattispecie (Cod. civ., art. 1325, 1326, 1350, 1418, 2699; 1. 16 febbraio 1913 n. 89, ordinamento del notariato e degli archivi notarili, art. 47, 51, 58).

Un contratto redatto in forma di atto pubblico, recante una

dichiarazione formale, menzionata dal notaio, di una delle

parti circa una causa impeditiva della sottoscrizione, è valido

solo se tale causa effettivamente sussista, derivandone, in ca

so contrario, il difetto di sottoscrizione e la nullità dell'atto

per mancanza nel dichiarante di un'effettiva volontà di ne

goziare. (1)

(1) I. - L'art. 51 1. 89/13 dispone che l'atto notarile «deve contenere:

... 10) la sottoscrizione col nome, cognome delle parti, dei fidefacien

ti, dell'interprete, dei testimoni e del notaro ... Se alcuna delle parti o alcuno dei fidefacienti non sapesse o non potesse sottoscrivere, deve

dichiarare la causa che glielo impedisce e il notaro deve far menzione

di questa dichiarazione». A sua volta la scrittura privata deve essere sottoscritta dal dichiaran

te, anche se il documento è interamente scritto di pugno della parte. La sottoscrizione non può essere sostituita dal crocesegno, né dall'im

pronta digitale, deve essere decifrabile e consentire la sicura riferibilità

al sottoscrittore (cfr. Sacco, La forma, in Trattato a cura di Rescigno, Torino, 1982, X, 226).

II. - Nelle scritture private la sottoscrizione delle parti ha la funzione

di accettazione del contenuto e di assunzione degli obblighi e delle re

II Foro Italiano — 1999.

Svolgimento del processo. — Gianfranco e Nadia Vitamia, con atto del 19 ottobre 1987, citarono dinanzi al Tribunale di

Bologna Angiolina Bazzani, Salvatore Vitamia, Rosa Felicita

in Vitamia, Marco Vitamia, Alfredo e Alessandra Poli, nonché

Clodoveo Poli, costui nella qualità di rappresentante della Offi

cina castiglionese di Poli Clodoveo & C. s.n.c.: premesso che

la Bazzani, con contratti preliminari stipulati nel 1985, si era

obbligata a vendere ad essi istanti, corrispettivamente impegna tisi a comprarli, un appartamento, un'autorimessa, un terreno

sponsabilità che ne derivano, è elemento perfezionativo del consenso.

Qui non sussiste la possibilità di non corrispondenza tra contenuto del documento e dichiarazione.

La funzione è diversa all'interno dell'atto pubblico. Il documento

pubblico è atto del notaio, è la sua sottoscrizione che perfeziona il do cumento. Prima della firma del notaio l'atto non esiste. Qui si pone il problema del rapporto tra documentazione e dichiarazione documen tata (su questi problemi, v., in dottrina, Lener, Atto pubblico e sotto

scrizione delle parti, in Foro it., 1978, V, 265; in giurisprudenza, la casistica in materia di querela di falso contro la pubblica fede dell'atto

pubblico, dove si distingue, di volta in volta, tra documentazione e dichiarazione documentata: App. Roma 4 ottobre 1994, id., Rep. 1996, voce Falsità in atti, n. 25, in cui è stato ritenuto sussistente il reato di falso nell'ipotesi in cui in un verbale di assemblea societaria il notaio abbia riportato circostanze diverse da quelle da lui percepite; Cass. 18

agosto 1981, n. 4939, id., Rep. 1981, voce Successione ereditaria, n.

75, in cui non si è ritenuto necessario proporre querela di falso per contestare lo stato di sanità mentale del testatore, benché ritenuto e dichiarato dal notaio nel testamento pubblico; Cass. 7 maggio 1980, n. 3018, ibid., voce Vendita, n. 113, a cui dire, se il rogito è completato dal notaio con dati catastali anche di beni diversi da quelli compraven duti, per la correzione dell'errore sarà sufficiente un'azione di mero accertamento e non sarà necessario proporre querela di falso).

La firma dei comparenti ha solo la funzione di conferma definitiva della dichiarazione di volontà e di riconoscimento che quanto scritto dal notaio corrisponde esattamente alla volontà espressa (Santarcan gelo, La forma degli atti notarili, Roma, 1981, 149), è atto di controllo della parte sull'operato del notaio (Lener, op. cit., 269).

I comparenti possono non sottoscrivere l'atto, ma è indispensabile che siano nell'effettiva impossibilità di sottoscrivere. La stessa parte che non sottoscrive deve dichiararne il motivo; non sarebbe sufficiente un'attestazione fatta in prima persona dal notaio. «Non è indispensabi le che la dichiarazione contenga la menzione dettagliata delle circostan ze specifiche e contingenti per le quali il fatto allegato si atteggia con cretamente in maniera tale, per natura ed intensità, da determinare la detta impossibilità; ed è invece sufficiente — ai fini della regolarità formale del negozio — che il fatto stesso si profili, in linea di massima, potenzialmente dotato di efficienza causale, ed offra elementi che ven

gano a consentire un controllo e ad orientare la relativa indagine; salva

restando, peraltro, la facoltà della parte che abbia interesse ad invalida re il negozio di dedurre e dimostrare che la causa indicata era in realtà del tutto insussistente o non era idonea in concreto ad integrare in ef

fetti un impedimento a sottoscrivere» (Cass. 22 febbraio 1963, n. 430, Foro it., Rep. 1963, voce Notaro, nn. 27-29, e, per esteso, Giur. it., 1964, I, 1, 103).

In ogni caso, il notaio non è tenuto ad accertare la veridicità della dichiarazione resa dalla parte in sua presenza; si tratta, infatti, di di chiarazione personale, con funzione sostitutiva della sottoscrizione (di versa è la disciplina nei testamenti speciali, in cui il notaio può riscon trare l'esistenza della fattispecie impeditiva direttamente; v., riassunti

vamente, Branca, Dei testamenti speciali, in Commentario a cura di

Scialoja-Branca, Bologna, 1987, 31). III. - La giurisprudenza è conforme nel senso ora indicato, anche

se la gran parte delle pronunce sono state rese in materia testamentaria. «È orientamento prevalente in giurisprudenza che allorquando il no

taio abbia fatto menzione nel testamento pubblico della dichiarazione del testatore riguardante la causa impeditiva della sottoscrizione dell'at

to, occorre che tale causa sia sussistente nella realtà e che ove risulti che la causa impeditiva non sia rispondente al vero il testamento è col

pito dalla sanzione della nullità» (Trib. Lucca 11 aprile 1990, Foro it.,

Rep. 1990, voce Successione ereditaria, n. 84, e, per esteso, Riv. not.,

1990, 535; in senso conforme, v., da ultimo, Cass. 6 novembre 1996, n. 9674, Foro it., Rep. 1996, voce cit., n. 74). «Non assumeva alcuna rilevanza che l'analfabetismo fosse onnino o no, essendo sufficiente, ai fini che interessano, la discordanza fra la dichiarazione di volontà

del testatore, di non saper sottoscrivere, e il fatto reale che egli sapeva lentamente apporre la propria firma» (Cass. 23 ottobre 1978, n. 4781,

id., Rep. 1979, voce cit., n. 60, e, per esteso, Riv. not., 1979, 221). «Lo scopo principale della sottoscrizione del testatore è quello di ap

provare o confermare il contenuto della manifestazione di volontà, da lui resa al notaio e trasfusa da costui nel testamento. Ma se il testatore non sottoscriva l'atto e se l'impedimento a sottoscriverlo, da lui asseri

to, risulti inesistente, è evidente che la sua mendace dichiarazione non

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