sezione I civile; sentenza 20 novembre 1996, n. 10180; Pres. Corda, Est. Milani P.M. MorozzoDella Rocca (concl. conf.); Soc. Milano centrale mutui (Avv. Smedile) c. Rana (Avv. Festa, Ricca).Conferma App. Torino 22 dicembre 1993Source: Il Foro Italiano, Vol. 120, No. 5 (MAGGIO 1997), pp. 1537/1538-1541/1542Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23191212 .
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
CORTE DI CASSAZIONE; sezione I civile; sentenza 20 no
vembre 1996, n. 10180; Pres. Corda, Est. Milani P.M. Mo
rozzo Della Rocca (conci, conf.); Soc. Milano centrale mu
tui (Avv. Smedile) c. Rana (Avv. Festa, Ricca). Conferma
App. Torino 22 dicembre 1993.
Spese giudiziali in materia civile — Diniego della dichiarazione
di fallimento - Reclamo - Rigetto — Condanna alle spese (Cod.
proc. civ., art. 91; r.d. 16 marzo 1942 n. 267, disciplina del
fallimento, art. 22).
L'art. 91 c.p.c., secondo il quale il giudice, con la sentenza
che chiude il processo, condanna la parte soccombente al rim
borso delle spese, trova applicazione con riguardo ad ogni
provvedimento, ancorché reso in forma di ordinanza o di de
creto, e con riferimento ad ogni procedimento, abbia questo natura ordinaria, sommaria o cautelare; pertanto, il decreto
con cui la corte d'appello rigetta il reclamo avverso il diniego della dichiarazione di fallimento, ben può contenere la liqui
dazione delle spese in favore della parte vittoriosa. (1)
(1) In senso contrario, cfr. Cass. 13 settembre 1985, n. 4685, Foro
it., Rep. 1985, voce Fallimento, n. 223, per la quale «il provvedimento con il quale la corte di appello, respingendo il reclamo proposto ai
sensi dell'art. 22 1. fall.., confermi il decreto del tribunale di rigetto dell'istanza di fallimento, è privo di contenuto decisorio e di carattere
definitivo, e conclude un procedimento di tipo camerale che si sottrae
alla disciplina della regolamentazione delle spese previste per il giudizio contenzioso, mentre l'eventuale pretesa del debitore, per il rimborso
dal creditore delle spese subite in conseguenza dell'istanza di fallimento
od anche il risarcimento dei danni, resta riconducibile nell'ambito della
previsione dell'art. 21 1. fall., e può essere fatta valere solo in separata sede di cognizione; ne consegue l'inammissibilità del ricorso per cassa
zione che venga proposto dal debitore contro il suddetto provvedimen to per denunciare l'omessa pronuncia sulla propria domanda di rimbor
so spese». (Interessa poi collateralmente la decisione qui adottata, Cass.
7 marzo 1991, n. 2419, id., Rep. 1991, voce Spese giudiziali civili, n.
39, e Dir. fallim., 1991, II, 412, per la quale in caso di revoca del
fallimento non può condannarsi al risarcimento dei danni il creditore
quando deve escludersi nell'istante la presenza del dolo o della colpa
grave). Il mutamento di indirizzo della Suprema corte si giustifica in forza
della necessità di adeguare l'orientamento in punto di spese processuali a precedenti quali Cass. 10 marzo 1995, n. 2793, Foro it., Rep. 1995, voce Provvedimenti di urgenza, n. 59; 4 novembre 1993, n. 10931, id.,
Rep. 1993, voce Spese giudiziali civili, n. 16; 6 novembre 1993, n. 10994,
ibid., voce Provvedimenti di urgenza, n. 49; 19 agosto 1992, n. 9674,
id., 1993, I, 2904; 4 novembre 1992, n. 11961, id., 1993, I, 2903, per i quali l'art. 91 c.p.c., secondo cui il giudice, con la sentenza che chiude
il processo, condanna la parte soccombente alle spese, è applicabile in
relazione ad ogni provvedimento, ancorché adottato sotto forma di or
dinanza o di decreto, che per il suo contenuto sia idoneo a risolvere
contrapposte posizioni di diritto e presenti il carattere della definitività
rispetto alla chiusura del procedimento in cui è reso; e ciò può avvenire
in via analogica anche nel caso di procedimenti sommari o camerali.
Connesso al tema trattato dalla sentenza in epigrafe è quello della
liquidazione delle spese e dei mezzi di controllo con riferimento alla
tutela cautelare, relativamente al quale si davano i seguenti orientamen
ti giurisprudenziali: a) Per un primo indirizzo «l'ordinanza con cui il pretore adito ai
sensi dell'art. 700 c.p.c. respinga la richiesta di adozione di misure d'ur
genza, per difetto dei relativi presupposti, deve pronunciare sulle spese e il rimedio concesso alla parte soccombente è [era] il ricorso per cassa
zione ai sensi dell'art. Ili, 2° comma, Cost.» (così Cass. 16 marzo
1995, n. 3066, id., Rep. 1995, voce Spese giudiziali civili, n. 42; 6 no
vembre 1992, n. 12026, id., Rep. 1992, voce Provvedimenti di urgenza, n. 82; 22 maggio 1991, n. 5746, id., Rep. 1991, voce Spese giudiziali
civili, n. 8; 19 agosto 1992, n. 9674, id., 1993, I, 2904; Pret. Brescia
30 settembre 1992, id., Rep. 1994, voce Provvedimenti di urgenza, nn.
57, 58, e Foro pad., 1993, I, 229).
b) Per un secondo orientamento, invece, il provvedimento ex art.
700 c.p.c. non doveva contenere la liquidazione delle spese, ma, ove
ciò avvenga, la parte reputata soccombente al pagamento delle stesse
può impugnare il provvedimento con ricorso per cassazione ai sensi
dell'art. Ili, 2° comma, Cost., come strumento residuale di garanzia
(così Cass., sez. un., 3 luglio 1995, n. 7359, Foro it., Rep. 1995, voce
cit., n. 60, e Corriere giur., 1995, 935, con nota di Carbone; 2 ottobre
1995, n. 10353, Foro it., Rep. 1995, voce cit., n. 75; 23 gennaio 1995,
n. 726, ibid., n. 74; 9 febbraio 1994, n. 1272, id., Rep. 1994, voce
cit., n. 56; 26 novembre 1993, n. 11727, id., Rep. 1995, voce cit., n.
73, e Dir. ind., 1994, 1235; 3 febbraio 1993, n. 1313, Foro it., Rep.
1993, voce cit., n. 58. Parallelamente, si era altresì ritenuto «inammissi
II Foro Italiano — 1997.
Svolgimento del processo. — Con decreto 19 agosto 1993 il
Tribunale di Verbania respingeva il ricorso della s.p.a. Milano
centrale mutui, tendente ad ottenere la dichiarazione di falli
mento di Saverio Rana, ritenendo il medesimo titolare di im
presa artigiana. Con successivo decreto 22 dicembre 1993, la Corte d'appello
di Torino respingeva il reclamo proposto dalla società creditri
ce, che condannava a rifondere a Saverio Rana le spese soste
nute per la procedura. Avverso tale decreto, per la parte concernente la condanna
alle spese, propone ricorso per cassazione la s.p.a. Milano cen
trale mutui. Resisteva Saverio Rana con controricorso.
Motivi della decisione. — La ricorrente deduce l'illegittimità della condanna alle spese emessa dalla Corte d'appllo di Tori
no, non consentita dalla natura del decreto pronunciato, assi
milabile ai provvedimenti di volontaria giurisdizione in quanto
privo di definitività e decisorietà, emanato all'esito di una pro cedura camerale e non contenente la disciplina di contrapposti diritti delle parti.
bile l'appello proposto averso l'ordinanza con la quale il pretore, adito
ante causam, abbia rigettato il ricorso ex art. 700 c.p.c., condannando il ricorrente al pagamento delle spese», v. Trib. Pescara 20 gennaio 1995, id., Rep. 1995, voce cit., n. 70, e P.Q.M., 1995, fase. 1, 42, con nota di Cirulli).
c) Per altro orientamento ancora, infine, qualora il provvedimento d'urgenza avesse contenuto la liquidazione delle spese si sarebbe reso suscettibile di impugnazione ordinaria col mezzo dell'appello e non di
ricorso per cassazione ex art. Ili, 2° comma, Cost. (Cass. 9 giugno 1993, n. 6415, Foro it., Rep. 1993, voce cit., n. 57; 17 ottobre 1992, n. 11417, id., Rep. 1992, voce cit., n. 99).
Si veda poi Cass. 24 settembre 1994, n. 7847, id., Rep. 1994, voce
cit., n. 59, che aveva ritenuto che l'ordinanza che dichiari la cessazione della materia del contendere in ordine ad un ricorso ex art. 700 c.p.c. non proposto in corso di causa, deve provvedere sulle spese di lite.
Si consideri, poi, che, in forza di un orientamento consolidato, non
è ammessa la proposizione di una domanda per conseguire il rimborso delle spese processuali formulata autonomamente, essendo necessario
che la rifusione delle spese venga chiesta necessariamente nel corso del
procedimento nel quale le spese stesse si sono sostenute (v. soprattutto Cass. 1° febbraio 1993, n. 1212, id., 1993, I, 2547; 26 novembre 1992, n. 12642, id., Rep. 1992, voce Spese giudiziali civili, n. 25; 10 dicembre
1991, n. 13277, id., Rep. 1991, voce cit., n. 16; 27 giugno 1990, n.
6542, ibid., n. 27, e Nuova giur. civ., 1991, I, 399, con nota di Dal
motto, Valore probatorio della fotocopia e responsabilità aggravata ex
art. 96 c.p.c. in caso di esecuzione temeraria basata su di un assegno
privo de! bollo-, 28 novembre 1987, n. 8872, Foro it., Rep. 1987, voce
cit., n. 40, e Giust. civ., 1988, I, 2954; 27 maggio 1987, n. 4731, Foro
it., Rep. 1987, voce cit., n. 44; 30 gennaio 1985, n. 547, id., Rep. 1985, voce cit., n. 51; sez. un. 6 febbraio 1984, n. 874, id., 1984, 1,
1892, con nota di Pioli, In tema di art. 96 c.p.c. e di giudizi devoluti
alla giurisdizione del giudice amministrativo, con ampia nota di richia
mi alla quale si rinvia per gli ulteriori precedenti). La stessa regola vale con riferimento alla possibilità di ottenere il
risarcimento dei danni ex art. 96 c.p.c.: si ritiene che anche tale doman da debba essere fatta valere necessariamente in seno al processo in cui
tali danni si sono prodotti (così Cass. 1° febbraio 1993, n. 1212, id.,
1993, I, 2547; 10 febbraio 1987, n. 1420, id., Rep. 1987, voce cit., n. 45; 25 novembre 1986, n. 6930, id., Rep. 1986, voce cit., n. 59; 26 novembre 1992, n. 12642, id., Rep. 1993, voce cit., n. 50, e Arch,
civ., 1993, 420; 23 maggio 1990, n. 4651, Foro it., Rep. 1990, voce
cit., n. 46; 17 febbraio 1982, n. 996, id., Rep. 1982, voce cit., n. 41; 23 luglio 1981, n. 4733, id., Rep. 1981, voce cit., n. 50; 17 settembre
1980, n. 5291, id., Rep. 1980, voce cit., n. 54, e Arch, civ., 1980, 1003; 17 maggio 1979, n. 2833, Foro it., Rep. 1979, voce cit., n. 47; 26 no
vembre 1977, n. 5159, id., Rep. 1977, voce cit., n. 51; 10 giugno 1977, n. 2412, ibid., n. 52).
Dinanzi a tali domande il giudice può provvedere d'ufficio alla liqui dazione delle spese di lite quale questione accessoria e conseguenziale a quella di merito (v. Cass. 21 aprile 1990, n. 3346, id., Rep. 1990, voce cit., n. 6; 14 dicembre 1985, n. 6333, id., Rep. 1985, voce cit., n. 14; 21 maggio 1979, n. 2940, id., Rep. 1979, voce cit., n. 15; 18
novembre 1988, n. 6242, id., Rep. 1988, voce cit., n. 14), e deve neces
sariamente provvedere sia in ordine all 'an che al quantum, non essendo
consentita alle parti una scissione in tal senso della cognizione (v. Cass.
18 gennaio 1983, n. 477, id., Rep. 1983, voce cit., n. 48, e Giust. civ.,
1983, I, 1493; 30 gennaio 1985, n. 547, Foro it., Rep. 1985, voce cit., n. 51; 29 maggio 1984, n. 3274, id., Rep. 1984, voce cit., n. 33; 9
aprile 1984, n. 2266, ibid., n. 34; 12 ottobre 1987, n. 7528, id., Rep.
1987, voce cit., n. 43; 11 febbraio 1988, n. 1473, id., Rep. 1988, voce
cit., n. 34; 1° febbraio 1993, n. 1212, id., 1993, I, 2547). Sul tema dell'accessorietà della pronuncia che attiene alle spese ri
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1539 PARTE PRIMA 1540
Tale decreto si sottrae — ad avviso della ricorrente — alla
regolamentazione delle spese stabilita per il giudizio contenzio
so, mentre l'eventuale pretesa del debitore, per ottenere dal cre
ditore il rimborso delle spese incontrate per resistere all'istanza
di fallimento, può essere fatta valere soltanto in separata sede
di cognizione. 1. - Deve preliminarmente essere verificata l'ammissibilità del
ricorso.
È nota — né del resto la ricorrente la contesta — la non
impugnabilità del decreto emesso dalla corte d'appello in sede
di reclamo ex art. 22 1. fall., per difetto dei requisiti di deciso
rietà e definitività (competendo al tribunale, in caso di accogli mento, la dichiarazione di fallimento, soggetta ad opposizione, e non essendo preclusa, in caso di rigetto, la riproponibilità
dell'istanza).
Nell'ipotesi, peraltro, che la corte d'appello, rigettando il re
clamo, abbia pronunciato condanna alle spese a carico del cre
ditore istante, tale statuizione deve ritenersi ricorribile ex art.
Ill Cost., assumendo natura di provvedimento definitivo e de
cisorio su posizioni di diritto soggettivo. È consolidata in proposito la giurisprudenza formatasi in ma
teria di provvedimenti cautelari i quali, di per sé non suscettibili
di ricorso per cassazione, divengono impugnabili limitatamente
alla pronuncia relativa alle spese processuali (ex plurimis: Cass.
19 agosto 1992, n. 9674, Foro it., Rep. 1992, voce Provvedi
menti di urgenza, n. 83; 3 febbraio 1993, n. 1313, id., Rep.
1993, voce cit., n. 58; 9 febbraio 1994, n. 1272, id., Rep. 1994, voce cit., n. 56; 23 gennaio 1995, n. 726, id., Rep. 1995, voce
cit., n. 74; sez. un. 3 luglio 1995, n. 7359, ibid., n. 60; 2 otto
bre 1995, n. 10353, ibid., n. 75; 1570/96, id., Mass., 164). 2. - Così verificata l'ammissibilità del ricorso, deve ora stabi
lirsi la legittimità o meno, nella specie, della condanna alle spe se pronunciata a carico del creditore istante.
L'art. 91 c.p.c., secondo il quale il giudice, «con la sentenza
che chiude il processo», condanna la parte soccombente al rim
borso delle spese, trova applicazione con riguardo ad ogni prov vedimento, ancorché reso in forma di ordinanza o di decreto,
che, nel risolvere contrapposte posizioni, elimini il procedimen to davanti al giudice che lo emette, quando, in coerenza con
il princiio di economia dei giudizi, si renda necessario ristorare
la parte vittoriosa dagli oneri inerenti al dispendio di attività
processuale, legata da nesso causale con l'iniziativa dell'avver
sario (Cass. 4 novembre 1993 n. 10931, id., Rep. 1993, voce
Spese giudiziali civili, n. 16). Il principio è stato ribadito di recente (Cass. 16 agosto 1995,
n. 3066, id., Rep. 1995, voce cit., n. 42), affermandosi l'appli cabilità dell'art. 91 c.p.c. nei procedimenti sommari e cautelari, come nel caso del procedimento promosso ai sensi dell'art. 700
c.p.c., con la conseguenza che, ove la richiesta dell'istante ven
ga respinta con esaurimento del procedimento, deve essere rico
nosciuto il diritto al rimborso delle spese processuali in favore dell'intimato che abbia resistito a quella richiesta.
Una successiva pronuncia (sent. 2937/96, id., Mass., 284) ha
spetto a quella di merito, v. ancora oggi Menestrina, Il processo avan ti a giudice incompetente e la condanna alle spese, in Riv. dir. proc., 1937, 229.
Discusso è poi anche l'ambito di applicazione dell'art. 96 c.p.c.: per Cass. 6 maggio 1974, n. 1251, Foro it., 1975, I, 655: «L'art. 96 c.p.c., nei suoi due comma, disciplina la responsabilità per i danni causati dall'attività di parte in qualsiasi tipo di processo: non soltanto nei pro cessi cognitivi, cautelari ed esecutivi, ma anche nei procedimenti di vo lontaria giurisdizione». In senso contrario, si veda invece Trib. Treviso 1° luglio 1970, Foro it., Rep 1971, voce cit., n. 28, e Giur. it., 1971, I, 2, 293, con nota di Amato, Spese e danni processuali nel procedi mento ex art. 2409 c.c., per il quale «nei procedimenti volontari e in quelli camerali non può pronunciarsi condanna, nemmeno generica, al risarcimento dei danni a carico dei denunziami; l'eventuale responsabi lità di costoro, per denuncia temeraria, è soltanto analoga a quella pre vista dall'art. 96 c.p.c.; ma, diversamente da tale ultima ipotesi, non può essere fatta valere se non in successivo separato giudizio nelle for me contenziose».
In dottrina, da ultimo, Bongiorno, Spese giudiziali, voce dell 'Enci clopedia giuridica Treccani, Roma, 1993, XXX; Cordopatri, Soccom benza (dir. proc. civ.), voce dell'Enciclopedia del diritto, Milano, 1990, XLII, 797; Gualandi, Spese e danni nel processo civile, Milano, 1962, 29 ss.
li Foro Italiano — 1997.
stabilito, con riguardo ad un procedimento di accertamento tec
nico preventivo, conclusosi con un provvedimento negativo per
incompetenza, che la liquidazione delle spese a favore della par te vittoriosa deve essere effettuata con il medesimo provvedi
mento, e non può intervenire successivamente, escludendo l'art.
91 c.p.c. ogni possibilità di separazione del giudizio sulla do
manda da quello sulle spese di causa provocate dalla domanda
stessa, ogni qual volta la prima di tali pronunce sia idonea a
definire il processo.
Riepilogando dunque i principi elaborati in materia dalla più recente giurisprudenza, può affermarsi che, in applicazione del
l'art. 91 c.p.c., la pronuncia sulle spese deve essere contenuta in ogni provvedimento, qualunque ne sia la veste formale, che
concluda un procedimento avente carattere in senso lato con
tenzioso, in quanto, per essere risolutivo di contrapposte posi zioni, consenta di individuare una parte vittoriosa ed una parte soccombente.
Del resto, la legge di riforma del processo civile 26 novembre 1990 n. 353 ha mostrato di tenere conto di tali principi, preve dendo (art. 669 septies) che il giudice, con l'ordinanza di in
competenza o rigetto della misura cautelare richiesta, provveda definitivamente sulle spese del procedimento: viene quindi sta
bilita la regola che il provvedimento di rigetto della misura cau
telare, di per sé pacificamente non definitivo, deve contenere una statuizione definitiva in ordine alle spese.
Alla luce di tali criteri, non può non ritenersi che il decreto
della corte d'appello, con il quale viene respinto il reclamo pro
posto, ex art. 22 1. fall., avverso il rigetto dell'istanza di falli
mento, debba contenere la pronuncia sulle spese. È ravvisabile infatti il carattere conclusivo del provvedimen
to, non incompatibile con la non definitività del provvedimento stesso, attinendo la conclusività all'esaurimento della procedura instaurata, indipendentemente dalla riproponibilità o meno del
la domanda e dall'idoneità o meno della pronuncia resa a pas sare in giudicato.
È ugualmente ravvisabile il requisito della natura sostanzial mente contenziosa della procedura, essendo indubbia la con
trapposizione di posizione ed interesse tra il creditore istante ed il debitore che resiste all'istanza di fallimento.
Né appare ostativa in proposito l'inquadrabilità tra i procedi menti camerali del giudizio instaurato a seguito del reclamo, essendo stato esteso, soprattutto in tempi recenti, lo schema camerale a procedimenti squisitamente contenziosi, in virtù del la maggiore celerità e snellezza rispetto alle forme ordinarie. Così in tema di modifica delle condizioni della separazione e del divorzio, in tema di adottabilità del minore, in tema di am missibilità dell'azione di paternità naturale, in tema di impu gnazione avverso i provvedimenti relativi all'iscrizione nell'albo
degli psicologi, in tema di liquidazione di compensi a periti e
consulenti tecnici: tutti esempi di procedura camerale adottata nell'ambito di giudizi indubbiamente ed essenzialmente con tenziosi.
A questo punto, è necessario verificare la validità della con clusione raggiunta alla luce degli argomenti addotti, per soste nere la tesi contraria, dalla sent. 4685/85 (id., Rep. 1985, voce
Fallimento, n. 223) che ha escluso l'applicabilità della disciplina del regolamento delle spese processuali al giudizio di reclamo contro il decreto di rigetto dell'istanza di fallimento.
Un primo argomento riguarda la collocazione del giudizio in
questione nel quadro dei procedimenti camerali: ma si è visto come tale argomento abbia ormai perduto consistenza, conside rata la successiva evoluzione legislativa e giurisprudenziale, che ha esteso, da un lato, lo schema camerale a procedimenti tipica mente contenziosi ed ha valorizzato, d'altro lato, gli aspetti con tenziosi relativi alle spese processuali, anche in provvedimenti di natura cautelare, privi di per sé di decisorietà e definitività.
Anche quindi l'assenza di tali caratteristiche (e con ciò viene esaminato un altro argomento addotto nella citata sentenza) nel decreto emesso dalla corte d'appello in esito al reclamo non vale ad escludere la necessità di provvedere sul regolamento del le spese di lite, essendosi già illustrata la differenza, ai limitati fini dell'applicabilità dell'art. 91 c.p.c., tra conclusività e defi
nitività, nonché tra decisorietà e «contenziosità» del provvedi mento. Se, infatti, il difetto di definitività e decisorietà impedi sce l'impugnabilità del provvedimento ex art. Ill Cost., ciò non
toglie che sussista l'obbligo, per il giudice, di pronunciare in
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
ordine alle spese processuali, poiché il provvedimento stesso co
munque conclude la procedura instaurata.
Un terzo argomento riguarda il carattere ufficioso ed inquisi
torio, funzionale alla tutela di interessi generali, della procedu ra fallimentare, nel cui ambito s'inserisce il giudizio in questione.
Neppure tale argomento, peraltro, si palesa decisivo. È bensì
vero, infatti, che la procedura fallimentare, nel suo complesso, ha connotati fortemente pubblicistici, ma ciò non toglie che il
particolare procedimento in esame sia promosso non d'ufficio, ma ad istanza di un creditore, con la proposizione di reclamo
dinanzi alla corte d'appello contro una prima pronuncia di ri
getto del tribunale: qualora, anche in secondo grado, risultino
insussistenti i presupposti per la dichiarazione di fallimento, il
carattere ufficioso della procedura fallimentare non entra in di
scussione, e non può escludere il diritto del debitore ad essere
ristorato delle spese incontrate per resistere all'infondata istan
za di fallimento.
Né il parallelo instaurato con le disposizioni del precedente art. 21 1. fall, per l'ipotesi di revoca della dichiarazione di falli
mento può costituire valido argomento, riguardando detta nor
ma le spese della procedura fallimentare ed il compenso al cura
tore, da porre a carico del creditore istante che sia stato con
dannato ai danni per aver agito con colpa nel richiedere la
dichiarazione di fallimento. I presupposti dell'art. 22 sono ben
diversi, non dovendosi indagare circa l'eventuale colpa del cre
ditore, né pronunciandosi condanna ai danni, ma derivando l'ob
bligo di rimborso delle spese processuali, limitate a quelle soste
nute dal debitore per resistere alla procedura, dall'applicazione del principio della soccombenza. Non sembra quindi estensibile
alla fattispecie disciplinata dall'art. 22 la regola dettata dall'art.
21, che comporta la subordinazione della condanna del credito
re ai danni al previo accertamento della colpa, da condursi in
separata sede di cognizione: trattandosi, invece, di mera refu
sione delle spese processuali, è pienamente applicabile la disci
plina dell'art. 91 c.p.c., che, da un lato, fa discendere la con
danna alle spese dall'oggettiva soccombenza, indipendentemen te da qualsiasi indagine sulla colpa, e, d'altro lato, vieta di
scindere la decisione sulla domanda da quella sulle spese. Il ricorso deve dunque essere rigettato.
CORTE DI CASSAZIONE; sezione I civile; sentenza 29 otto
bre 1996, n. 9439; Pres. Lipari, Est. Panebianco, P.M. Mac
carone (conci, conf.); Langone (Aw. Amico) c. Pirrone. Con
ferma App. Potenza 20 giugno 1992.
Matrimonio — Divorzio — Assegno — Attribuzione — Criteri — Brevissima durata del matrimonio — Rilevanza (L. 1° di
cembre 1970 n. 898, disciplina dei casi di scioglimento del
matrimonio, art. 5; 1. 6 marzo 1987 n. 74, nuove norme sulla
disciplina dei casi di scioglimento di matrimonio, art. 10).
Il diritto all'assegno di divorzio può essere escluso in considera
zione della brevissima durata del matrimonio e delle ragioni che lo avevano determinato, dato che la necessità di assicura
re al coniuge meno abbiente un tenore di vita quanto più
adeguato a quello goduto durante il matrimonio viene meno, allorché nessun contributo personale possa essere ravvisato
in detto coniuge alla conduzione familiare ed alla costituzio
ne della comunione spirituale, in realtà mai esistita. (1)
(1) Rilevanza della «durata del matrimonio» e persistenti tensioni in
tema di assegno di divorzio.
1. - Potrebbe sembrare strano che, come è toccato a quella in esame, una decisione susciti notevole attenzione da parte dei mezzi di informa
zione, pur dichiaratamente allineandosi (tanto da non essere neppure
Il Foro Italiano — 1997.
Svolgimento del processo. — Il giorno 30 ottobre 1978 Pirro
ne Salvatore, all'epoca pensionato di anni 78, si univa in matri
monio, celebrato avanti all'ufficiale di stato civile del comune
di Tito, con Langone Anna Assunta, allora pensionata di 47
anni, dopo che, pochi giorni prima, l'aveva istituita erede uni
versale.
I due si separavano di fatto però il 9 dicembre dello stesso anno e subito dopo il Pirrone adiva il Tribunale di Potenza
chiedendo la separazione per colpa della moglie la quale non si opponeva chiedendo a sua volta la separazione per colpa del marito.
II tribunale con sentenza dell'8 giugno 1982 pronunciava la
massimata ufficialmente) a quanto, già da tempo, è dato leggere in una notissima sentenza delle sezioni unite; sentenza, quale quella in tema di assegno di divorzio (e si allude, ovviamente, a Cass., sez. un., 29 novembre 1990, n. 11490, Foro it., 1991, I, 67, conforme ad altre tre in pari data), che, oltretutto, ha costituito il costante punto di riferi mento della successiva giurisprudenza in materia.
Ma, ove si rifletta al riguardo, una simile, almeno apparente, stra nezza acquista, a ben vedere, il sapore di una conferma delle perplessità che hanno diffusamente caratterizzato l'atteggiamento degli interpreti nei confronti della ricordata presa di posizione delle sezioni unite: a fronte, infatti, di un giudizio sostanzialmente positivo sul piano equita tivo, quasi nessuno ha nascosto dubbi circa la linearità della relativa
impostazione, quale risultante da una lunga motivazione, faticosamente sintetizzata nel fin troppo, a sua volta, lungo 'principio', affidato ai
giudici del merito. I nodi, sia pure a distanza di qualche anno, sembrano, insomma,
venire al pettine anche al livello della giurisprudenza di legittimità, se condo quanto, del resto, già avvenuto, inevitabilmente assai prima, in
quella di merito (e significativa, proprio sotto il profilo — esaminato da Cass. 9439/96 — della portata da riconoscere al riferimento norma tivo, di cui all'art. 5, 6° comma, 1. div., alla «durata del matrimonio», risulta, ad es., Trib. Catania 31 gennaio 1991, id., 1991, I, 899).
Ed il punto cruciale, come diffusamente non si è mancato, immedia
tamente, di evidenziare (cfr., indicativamente, Quadri, Assegno di di vorzio: la mediazione delle sezioni unite, id., 1991, I, 70 ss., e Carbo
ne, Urteildàmmerung: una decisione crepuscolare (sull'assegno di di
vorzio), ibid., 79 ss.), è rappresentato, senza dubbio, dal tentativo, operato dalle sezioni unite, di salvaguardare l'affermata natura «esclu sivamente assistenziale» dell'assegno di divorzio, pur senza rinunciare a riconoscere un qualche ruolo sostanziale ai vari elementi (condizioni dei coniugi, ragioni della decisione, contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patri monio di ciascuno o di quello comune, reddito di entrambi; elementi tutti da valutare «in rapporto alla durata del matrimonio»), enunciati nell'art. 5, 6° comma, 1. div., che di tale disposizione occupano una
parte (se non altro per estensione e per centralità) rilevante, introdotta
dall'espressione «tenuto conto».
2. - Non è certo il caso, in questa sede, di ripercorrere le motivazioni che hanno spinto la giurisprudenza e la dottrina dominante, quale risul tato della riforma della materia in dipendenza della novella del 1987, a concludere nel senso della natura, «esclusivamente assistenziale» del
l'assegno di divorzio (definizione, peraltro, talvolta attenuata — e si
gnificativamente — in quella di «eminentemente assistenziale»; Cass. 12 marzo 1992, n. 3019, id., 1993, I, 1635); si tratta, in effetti, del tema la cui discussione ha, in larga misura, assorbito l'attenzione all'in domani della riforma (per i necessari richiami, si rinvia, in proposito, alle considerazioni svolte in Quadri, La natura dell'assegno di divorzio dopo la riforma, id., 1989, I, 2513 ss., in nota a Cass. 17 marzo 1989, n. 1322).
Sembra solo opportuno accennare, da una parte, come la conclusio ne nel senso indicato sia valsa, in realtà, solo a spostare i termini del
problema, finendo la partita col giocarsi, allora, intorno all'esatta por tata da conferire a quel riferimento normativo ai «mezzi adeguati», proprio sul quale riposa, peraltro, la stessa definizione in chiave assi stenziale dell'assegno di divorzio: una diversa conclusione in proposito essendo atta a condurre ad esiti tra loro assai distanti, come quelli della citata Cass. 1322/89 e di Cass. 2 marzo 1990, n. 1652, id., 1990, I, 1165 (il cui contrasto ha determinato la necessità dell'intervento delle sezioni unite, tempestivamente attuato con la ricordata Cass. 11490/90). Dall'altra, come, una volta rinunciato a servirsi (secondo quanto pro spettato in Quadri, La nuova legge sul divorzio, Napoli, 1987, I, 33
s.) dei ricordati criteri, contemplati nella prima parte dell'art. 5, 6°
comma, onde evitare di ricercare al di fuori della disposizione medesi ma il parametro cui riferire, appunto, l'«adeguatezza» dei mezzi dispo nibili, la questione sia risultata proprio quella di puntualizzare quale potesse mai essere il ruolo dei criteri stessi.
È noto (se non altro in quanto costantemente ripetuto in innumere voli massime di legittimità e di merito) che le sezioni unite hanno tenta to di superare le accennate difficoltà, attraverso una prospettiva esege
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