sezione I civile; sentenza 22 gennaio 1986, n. 397; Pres. Santosuosso, Est. Rocchi, P. M. Sgroi V.(concl. conf.); Passannanti (Avv. De Nicolellis) c. Fusco (Avv. Mobilio). Conferma App. Salerno19 marzo 1983Source: Il Foro Italiano, Vol. 109, No. 4 (APRILE 1986), pp. 925/926-931/932Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23180307 .
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
concordatario all'imposizione proporzionale, ma implicherebbe la necessità di ricostruire la fattispecie tributaria in termini di enunciazione del « concordato-negozio » da parte della sentenza di
omologazione, con tassabilità proporzionale sotto questo profilo (art. 9 della tariffa in relazione agli art. 21 e 35 d.p.r. 634/72). Ma questa tesi (che pure condurrebbe allo stesso risultato pratico ed è sostenuta in subordine dalla ricorrente) sarebbe regressiva, perché riporterebbe il baricentro del fenomeno nel momento
negoziale, in contrasto con l'evoluzione di pensiero che tende
sempre più a porre l'accento sul profilo pubblicistico del concor dato e con la stessa giurisprudenza di questa corte (già maturata, come si è visto, con riferimento alla precedente legge di registro) secondo cui è la sentenza di omologazione ex se, per ciò che essa crea come suo proprio effetto, a costituire oggetto diretto dell'im
posizione tributaria.
La tesi subordinata della finanza non ha però ragion d'essere,
perché, a ben vedere, è senz'altro possibile ricondurre il concor
dato-provvedimento entro la previsione dell'art. 8 della tariffa,
indipendentemente dalla lett. /) relativa agli atti giudiziali di
omologazione. Sembra invero alla corte che la previsione della
lett. c) di tale articolo ben si presti a recepire l'atto giudiziale conclusivo della procedura di concordato. Ciò non sarebbe age volmente sostenibile con riguardo alla seconda parte della lett. e), in cui sono evocati « gli atti portanti condanna al pagamento di
somme, valori o altre prestazioni », perché il provvedimento in
esame, pur contenendo il regolamento obbligatorio del passivo e vincolando al pagamento, non assume tecnicamente il carattere di sentenza di condanna. Ma al detto inquadramento sembra senza
sforzo prestarsi la prima parte della stessa lett. c), concernente gli « atti (giudiziali) aventi per oggetto beni e diritti diversi da quelli indicati alle lett. a) e b) », relative — queste ultime — ai
trasferimenti o costituzioni di diritti reali su beni immobili e agli atti aventi ad oggetto autoveicoli.
Premesso che la formula testé riportata della lett. c) è ellittica
e va integrata, come è stato precisato in dottrina, nel senso di « atti giudiziali aventi per oggetto il trasferimento di beni o diritti
diversi o (ed è questo il punto che interessa) la costituzione di diritti diversi da quelli indicati nelle lettere precedenti », appare tutt'altro che incongruo riportare a tale previsione (enunciata in
negativo quanto alla natura e al contenuto dei diritti e, quindi, assai ampia ed elastica) la costituzione, che è effetto tipico del
concordato, di un peculiare diritto al pagamento, nella struttura sostanziale non diverso dal diritto originariamente spettante al
creditore, ma tuttavia costitutivamente contrassegnato, in senso
negativo, dalla riduzione che esso autoritativamente subisce in termini di quantità (falcidia concordataria) e, in senso positivo, dal fatto che il suo soddisfacimento si svolge sotto la sorveglian za degli organi della procedura (art. 136 e 185 1. fall.) e con il
corredo di una sanzione (la risoluzione del concordato: art. 137 e 186 stessa legge) che, per la sua officialità, si rivela posta a
presidio non tanto degli originari diritti sostanziali di credito
quanto piuttosto di una « situazione soggettiva attiva di massa », creata dal procedimento concordatario e dalla sentenza che, chiu
dendolo, determina l'obbligatorietà dei suoi effetti.
Siccome costitutiva di tale insieme di situazioni giuridiche (la cui definizione dogmatica potrebbe essere non semplice, ma alle
quali in senso ampio può darsi, nei loro profili attivi, il nome di « diritti », per lo meno nel linguaggio, solitamente non raffinato, del legislatore tributario), la sentenza omologativa del concordato
appare dunque pienamente inquadrabile nella previsione tariffaria
sopra considerata ed è soggetta, quindi, alla relativa imposta proporzionale.
È appena il caso di aggiungere che a ciò non è di ostacolo la
disposizione della lett. f) dell'art. 8, concernente gli atti giudiziali « di omologazione ».
La tesi secondo cui quest'ultima espressione attrarrebbe neces sariamente nell'orbita della lett. /) la sentenza di omologazione del concordato si basa su una suggestione meramente letterale, cioè su una semplice coincidenza nominalistica fra il tipo di atti
ivi considerati e la denominazione (derivante dalla tradizione) della sentenza di cui si tratta: coincidenza, ovviamente, non
decisiva, una volta dimostrato che tale sentenza, lungi dal risolver
si in un controllo ab externo su un atto di autonomia, come
accade per le vere e proprie omologazioni, rappresenta invece la
conclusione di un procedimento giurisdizionale e realizza effetti
che trascendono il momento (peraltro anch'esso inserito nel
procedimento complessivo) della manifestazione di volontà dei
creditori attraverso il voto. Semmai è da precisare che la tesi qui accolta non implica —
come sembra ritenere l'amministrazione ricorrente — che la lett.
/) si riferisca soltanto alle omologazioni di atti a contenuto non
Il Foro Italiano — 1986.
patrimoniale, ben potendo esistere anche atti a contenuto patri moniale (per esempio la costituzione di una società di capitali)
per i quali è prevista una vera e propria omologazione giudiziale, che come tale sconta l'imposta fissa di cui alla lett. /), in
concomitanza, ove del caso, con l'imposta proporzionale dovuta
sull'atto omologato, laddove, invece, nell'ipotesi della sentenza
omologativa del concordato, è questa stessa, per tutte le ragioni
dette, l'oggetto immediato ed esclusivo dell'imposizione propor zionale.
Le riflessioni fin qui svolte (cui si conviene, in chiusura, l'avvertenza che ad esse è rimasta estranea la considerazione del
concordato preventivo con cessione dei beni, come anche la
questione, adombrata a scopo argomentativo dalla ricorrente ma
estranea al giudizio, della estensione dell'imponibile anche ai
crediti privilegiati) non sono, infine, neppure infirmate dal rilievo
difensivo del resistente, secondo cui, in presenza dello stato di
insolvenza, sarebbe per definizione da escludere una capacità contributiva. È infatti ben noto che manifestazioni di questa
possono aversi anche nel quadro di procedure concorsuali.
4. - L'accoglimento del ricorso comporta il rinvio della causa
alla Commissione tributaria centrale. (Omissis)
CORTE DI CASSAZIONE; sezione I civile; sentenza 22 gennaio
1986, n. 397; Pres. Santosuosso, Est. Rocchi, P. M. Sgroi
V. (conci, conf.); Passannanti (Avv. De Nicolellis) c. Fusco
(Avv. Mobilio). Conferma App. Salerno 19 marzo 1983.
Famiglia (regime patrimoniale della) — Separazione dei beni —
Acquisto di beni immobili da parte di uno dei coniugi —
Disciplina della trascrizione delle convenzioni in deroga al
regime di comunione — Inapplicabilità (Cod. civ., art. 162, 163,
2647).
L'acquisto di beni immobili effettuato da uno dei coniugi dopo aver optato per il regime di separazione dei beni non è
soggetto alla trascrizione prevista dall'art. 2647 c.c. ed è,
pertanto, opponibile al creditore procedente nei confronti del
l'altro coniuge purché la scelta del regime patrimoniale di
separazione risulti regolarmente annotata a margine dell'atto di
matrimonio. (1)
(1) La questione, per la prima volta all'esame della Cassazione, ha
origine nel maldestro tentativo dei creditori particolari del marito di
inglobare, nell'esecuzione di un sequestro conservativo, anche i beni
immobili propri della moglie, nonostante i coniugi avessero da tempo
optato per il regime patrimoniale di separazione. Non si trattava
dunque di acquisti in deroga al regime di comunione dei beni, soggetti alla doppia pubblicità dell'annotazione a margine dell'atto di matrimo
nio e della trascrizione prevista dall'art. 2647 c.c., bensì di atti
compiuti da un solo coniuge in costanza del regime patrimoniale di
separazione, per i quali la formalità di cui all'art. 162 c.c. costituisce
mezzo di pubblicità sufficiente. La novità del problema in sede
giurisprudenziale offre alla corte l'occasione per dirimere i dubbi sorti in dottrina in ordine al rapporto fra le formalità prescritte in genere per le convenzioni matrimoniali dall'art. 162 c.c. e la speciale pubblici tà « aggiuntiva » necessaria per gli acquisti in deroga ovvero, secondo la formula dell'art. 2647 c.c., per « le convenzioni matrimoniali che escludono i beni immobili dalla comunione tra i coniugi ».
Nello stesso senso della decisione riportata si è espressa la dottrina
più recente: cfr. Mariconda, La trascrizione, in Trattato di diritto
privato, diretto da Rescigno, 19, 1985, 130; A. e M. Finocchiaro, Diritto di famiglia, 1984, II, 2428, 2441 s. (« in realtà — si afferma testualmente — poiché i coniugi hanno reso la dichia razione di scelta o hanno stipulato una apposita convenzione de rogativa del regime della comunione legale, i beni sono dei singoli acquirenti in forza dei principi generali, e non perché esclusi dalla comunione, che nella specie neppure esiste »); Santosuosso, Delle
persone e della famiglia, Il regime patrimoniale della famiglia, in Commentario Utet, Torino, 1983, 87; Ferri, Aggiornamento sulla base della legge di riforma del diritto di famiglia, in Commentario a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1976, 85; Andrioli, in Foro it., 1975, V, 171; De Paola e Macrì, Il nuovo regime patrimoniale della famiglia, Milano, 1978, 336 s.; Andrini, Convenzioni matrimoniali e pubblicità legale nel nuovo diritto di famiglia, in Riv. not., 1975, 1123; Id., La pubblicità delle convenzioni matrimoniali, in Giur. it., 1976, 'IV, 167. Contra, seppure con diverse argomentazioni, si sono pronunciati Bonis, La nuova disciplina della pubblicità immobiliare con la riforma del diritto di famiglia, in II nuovo diritto di famiglia, Contributi notarili, 1975, 301; Miserocchi, Riflessi sulla pubblicità immobiliare, ibid., 581; Morello, Alcuni argomenti di pubblicità dopo la l. n. 151, ibid., 336; De Rupertis, Il nuovo regime patrimoniale
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PARTE PRIMA
Svolgimento del processo. — Il curatore del fallimento della società I.c.a. s.p.a., in liquidazione, avendo rilevato gravi irregola rità a carico dell'amministratore unico della società, dei sindaci e dello stesso liquidatore, chiedeva al giudice delegato l'autorizza zione ad esercitare l'azione di responsabilità di cui all'art. 2394
c.c., nei confronti di Ulderico Milone, Alfredo Galdi e Gioacchi no Cardasco, rispettivamente amministratore unico, presidente del
collegio sindacale e liquidatore della I.c.a., previo sequestro conservativo su beni immobili di loro proprietà. Detta autorizza zione veniva concessa e il sequestro conservativo, debitamente
reso ed eseguito in data 14 febbraio 1980, cadeva tra l'altro, sulla metà dei beni immobili di proprietà di Maria Fusco, coniuge di
Ulderico Milone, ritenendosi tale metà di proprietà del Milone, nella presunzione della comunione dei beni tra coniugi. L'atto di
sequestro veniva notificato alla Fusco ed al Milone in data 18
febbraio 1980. Con successivo atto, notificato agli interessati in
data 15 dicembre 1980, il curatore conveniva in giudizio, innanzi
al Tribunale di Salerno, la Fusco, il Milone, il Cardasco ed il
Galdi per ottenere la convalida della misura cautelare e l'acco
glimento della domanda di responsabilità. Costituitasi in giudizio, la Fusco deduceva che la misura
cautelare era stata eseguita su beni di sua proprietà esclusi
va, non vigendo tra essa deducente ed il coniuge Ulderico Milone
il regime di comunione dei beni, ma, al contrario, quello della
separazione, come risultava dal rogito del notaio Laudisio del 19
febbraio 1977, debitamente annotato a margine dell'atto di ma
trimonio.
La Fusco chiedeva, pertanto, la revoca della misura cautelare
nei suoi confronti e la condanna del curatore al risarcimento dei
danni, ai sensi dell'art. 96 c.p.c. La curatela insisteva nella
richiesta di convalida di sequestro, deducendo che il regime di
separazione invocato dalla Fusco non era opponibile ai terzi, in
quanto la convenzione matrimoniale contenuta nell'atto di acqui sto, da parte della medesima Fusco, degli immobili poi assogget tati al vincolo conservativo, per rogito notaio Laudisio del 7
dicembre 1977, non risultava trascritta agli effetti specifici di cui
all'art. 2647, 2° comma, c.c.
Con sentenza del 10 luglio-12 ottobre 1981, il Tribunale di
Salerno rigettava la domanda della Fusco. A seguito di gravame,
proposto dalla Fusco con atto del 29-30 ottobre 1981, la Corte
d'appello di Salerno con sentenza del 27 gennaio-19 marzo 1983, in parziale accoglimento del gravame, rigettava la domanda della
curatela di convalida di sequestro conservativo eseguito su beni
di proprietà esclusiva di Maria Fusco e dichiarava l'inefficacia del
sequestro medesimo, per quanto di ragione, con ogni conseguen ziale pronuncia e compensazione delle spese.
Osservava in particolare la corte d'appello, per quanto interes
sa in questa sede: a) che la soluzione corretta della lite presup
poneva che fosse affrontata e risolta la questione del se fosse
sufficiente che le convenzioni matrimoniali, in deroga al regime di
comunione legale dei beni e di scelta, tout court, del regime di
separazione, ai fini della loro opponibilità ai terzi, risultassero
annotate a margine dell'atto di matrimonio, ovvero se occorresse
a quei fini anche la trascrizione delle stesse, ai sensi degli art.
2643 ss. c.c. ed in particolare dell'art. 2647; b) che la necessità
della doppia formalità doveva ritenersi esclusa nella specie alla
luce delle indicazioni testuali contenute nell'art. 162, ult. comma, c.c. nonché nell'art. 228 1. n. 151/75 e nella duplice considera
zione che il regime di separazione dei beni operante nel caso de
quo non comprendeva, al momento della sua costituzione, beni
immobili (ed era, quindi, sottratto alla disciplina dell'art. 2647
c.c.. citato che assoggetta a trascrizione esclusivamente le conven
zioni matrimoniali aventi, appunto, ad oggetto tali beni); e che, in
siffatta prospettiva, ogni successiva convenzione, che non costi
tuisse variazione del regime patrimoniale prescelto (nella specie,
separazione dei beni), era anch'essa sottratta all'onere della tra
scrizione di cui alla disposizione citata.
Avverso tale decisione, ricorre per cassazione la curatela del
fallimento, sulla base di un unico motivo di annullamento.
Resiste la Fusco con controricorso.
Motivi della decisione. — Con l'unico motivo del ricorso —
denunciando violazione e falsa applicazione dell'art. 2647 c.c., nonché degli art. 162, 163, 159 e 210 dello stesso codice, il tutto
della famiglia e la trascrizione immobiliare, in Vita not., 1976, 12 s. Su un problema affine, relativo all'opponibilità al creditore pignoran
te dell'altro coniuge dell'acquisto di un bene personale ex art. 197, lett. d), c.c., mediante la trascrizione prevista dall'art. 2647 c.c., v. App. Bari 23 marzo 1985, Foro it., 1985, I, 2080, con nota di F. Parente, Tecnica trascrittiva dell'acquisto di bene personale e posizione del creditore esecutante.
Il Foro Italiano — 1986.
in relazione all'art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c. — il ricorrente sostiene, in sostanza, che qualsiasi acquisto effettuato dai coniugi in deroga al regime di comunione dei beni debba essere, ai fini dell'oppo nibilità ai terzi, soggetto alla doppia pubblicità costituita dalla
annotazione a margine dell'atto di matrimonio e della trascrizione
prevista dall'art. 2647 c.c. In particolare, il ricorrente deduce che
l'atto del 7 dicembre 1977, per essere opponibile ai terzi, andava
trascritto agli effetti di cui all'art. 2647 c.c., nonostante che con il
precedente atto del 9 novembre 1977 le parti avessero optato per il regime della separazione di beni ed avessero adempiuto alla
formalità ed alla pubblicità relative.
La censura è infondata. Devono premettersi alcune osservazioni di carattere generale al regime di pubblicità voluto dal legislatore della riforma in ordine alle scelte riservate ai coniugi con
riguardo al regime patrimoniale della famiglia. Il legislatore della riforma del diritto di famiglia attuata con 1.
19 maggio 1975 n. 151, nel prevedere come regime patrimoniale della famiglia quello della comunione dei beni, ha lasciato ai
coniugi un ampio spatium deliberandi, che attenua il rigore del
passaggio da un regime di separazione dei beni ad un regime di
comunione.
Invero, il nuovo sistema, pur essendo fermamente permeato dal
favor comunionis, consente ai coniugi la sostanziale facoltà di
optare per la separazione dei beni, che, per i caratteri di
generalità e di tendenziale completezza — analoghi a quelli della
comunione legale — può definirsi come il secondo possibile
regime patrimoniale della famiglia. Le ulteriori convenzioni con
sentite dal legislatore (fondo patrimoniale, comunione convenzio
nale), nonché l'impresa familiare, presuppongono uno dei due
predetti regimi e completano la gamma delle possibilità offerte
dalla legge alla scelta della disciplina dei beni dei coniugi.
A tale articolata prospettiva va riferito il sistema di pubblicità necessaria per rendere le scelte e le convenzioni dei coniugi
opponibili ai terzi.
In proposito va subito detto che il rispetto voluto dal legislato re della volontà individuale dei coniugi si manifesta non solo
nella possibilità di determinazione del regime patrimoniale fami
liare, ma altresì nelle stesse formalità necessarie alla attuazione
della scelta di regime, per tale intendendosi l'adozione di un
sistema patrimoniale assoluto (di comunione o di separazione). Invero, la scelta del regime di comunione non esige alcuna
espressione esplicita di volontà, trovando, come avvertito, il
regime patrimoniale « legale » immediata attuazione nel difetto di
manifestazione di una volontà « contraria » dei coniugi (solo la
norma transitoria citata prevede, in quanto tale, per le famiglie
già costituite all'epoca della riforma la necessità di una apposita convenzione al fine di assoggettare al regime di comunione i beni
acquistati anteriormente alla riforma). D'altro canto, la scelta del regime di separazione può avvenire
anche mediante semplice dichiarazione dei coniugi resa al mo
mento della celebrazione dell'atto di matrimonio (art. 162, 2°
comma).
Diversamente, allorché i coniugi intendono inserire, mediante
apposite convenzioni, in un regime tipico quale quello di comu nione una disciplina « diversa » per alcuni beni particolari, in
deroga (parziale) al regime prescelto (ipotesi del c.d. regime misto), il legislatore prevede l'adempimento di determinate for
malità.
Valga al riguardo la disposizione dell'art. 162, 1° comma, secondo cui « le convenzioni matrimoniali debbono essere stipula te per atto pubblico sotto pena di nullità ».
Orbene, il regime della pubblicità rispecchia il regime delle
formalità, nel senso che l'estrema semplificazione della forma
inerente alle scelte assolute di regime patrimoniale si riflette negli
adempimenti occorrenti a rendere opponibili ai terzi le determi
nazioni dei coniugi, operando automaticamente, in difetto di
volontà contraria, la vigenza e la conseguente pubblicità del
regime legale di comunione dei beni, ed essendo sufficiente che la
scelta tout court del regime di separazione risulti da una espres sione concorde di volontà dei coniugi, annotata a margine dell'at
to di matrimonio.
Nulla vieta naturalmente che la scelta del regime di separazio ne avvenga, anziché mediante semplice dichiarazione dei coniugi versata nell'atto di matrimonio, a termini dell'art. 162, 2° comma,
c.c., mediante atto autonomo: in tal caso, però, tale atto dovrà assumere la forma voluta dall'art. 162, 1° comma, c.c. sopra
riportato, che necessariamente riguarda tutte le convenzioni e,
quindi, anche quelle recanti la scelta assoluta di regime in favore
della separazione dei beni. Quanto, invece, alla pubblicità, anche
in tal caso il sistema relativo, trattandosi, appunto, di adozione, in linea generale ed assoluta, di un regime patrimoniale, non
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subirà varianti rispetto alla pubblicità della dichiarazione dei
coniugi resa all'atto della celebrazione del matrimonio, e la
convenzione contenente la scelta sarà, pertanto, sottoposta an
ch'essa al solo adempimento della annotazione a margine dell'atto
di matrimonio medesimo (art. 162, 4° comma, c.c.). In sostanza, il legislatore, liberalizzando la scelta in favore del
regime di separazione dei beni, ha voluto snellire la forma
relativa a detta scelta ed ha ritenuto, in coerenza ai fini della
pubblicità conseguente, che fosse necessario e sufficiente che la
volontà dei coniugi (espressa anche mediante convenzione) risul
tasse versata nel contesto documentale dell'atto di matrimonio, mediante annotazione a margine. Tale sistema semplifica, da un
lato, l'accesso alla scelta di regime consentita dall'ordinamento, e
garantisce sufficientemente, dall'altro, la necessaria conoscenza
esterna di quella scelta, che emergerà nella sua assolutezza (cioè nella sottoposizione dell'intero patrimonio dei coniugi ai principi della separazione dei beni, con le conseguenti salvaguardie con
nesse all'esistenza di sfere di appartenenza patrimoniale esclusiva) — vanno stipulate per atto pubblico (art. 162, 1" comma),
Quanto alle convenzioni matrimoniali particolari, costitutive del
c.d. regime misto (art. 210 c.c.), le stesse, che — come avvertito — vanno stipulate per atto pubblico (art. 162, 1° comma), sono soggette ad una diversa disciplina della pubblicità, che
prevede, in ogni caso, ai fini della loro opponibilità ai terzi, l'annotazione a margine dell'atto di matrimonio della data del
contratto, del nominativo del notaio rogante, e delle generalità dei contraenti (art. 162, 4° comma, c.c.); e, nell'ipotesi di disposi zioni riguardanti beni immobili, anche la particolare trascrizione
di cui all'art. 2647 c.c.
Questa norma dispone, infatti, in armonia con il nuovo sistema
dei rapporti patrimoniali tra coniugi, che vede nel regime legale della comunione dei beni il regime più adeguato alla vita della
nuova famiglia, l'obbligo della trascrizione delle convenzioni ma
trimoniali, aventi ad oggetto beni immobili, che escludono detti
beni dal regime della comunione.
Recita, testualmente, l'art. 2647 c.c., per quanto interessa in
questa sede, che « devono essere trascritte, se hanno per oggetto beni immobili (omissis) le convenzioni matrimoniali che ecludono
i beni medesimi della comunione tra i coniugi » (omissis).
Orbene, siffatta locuzione va correttamente intesa.
Deve, invero, essere subito escluso che siano soggette a trascri
zione le scelte compiute, in ogni forma, dai coniugi in deroga totale al regime della comunione dei beni, per aderire, tout court,
a quello della separazione, trovando tale scelta assoluta di regime, come già avvertito, la sua pubblicità necessaria e sufficiente nella
annotazione a margine dell'atto di matrimonio.
La locuzione in parola, piuttosto, fa riferimento alle convenzio
ni stipulate dai coniugi per porre in vita regimi convenzionali di
comunione di beni ai sensi dell'art. 210 c.c., e prevede che,
qualora uno dei coniugi proceda all'acquisto di un immobile, che, secondo il regime legale, sarebbe comune, ma, in forza del regime
convenzionale, è personale, cioè escluso dalla comunione, deve
trascriversi, in una con l'atto di acquisto, anche la modifica
convenzionale della comunione legale dei beni.
Tale interpretazione trova conforto, innanzitutto, nel dato, sistematico e testuale insieme, costituito dal fatto che il legislatore della riforma ha sempre contrapposto la scelta del regime di
separazione alle convenzioni matrimoniali in senso stretto, di cui
agli art. 162 ss. c.c.: onde non può che assumere un chiaro
significato discriminante nel senso indicato la circostanza che,
nell'espressione in esame, siano menzionate esclusivamente ed
espressamente le « convenzioni matrimoniali ».
In secondo luogo, le convenzioni trascrivende devono avere ad
oggetto beni immobili determinati, i quali, per effetto delle
convenzioni medesime, rimarranno « esclusi dal regime di comu
nione » vigente tra i coniugi: onde il necessario ricorso di un
primo presupposto, costituito dalla vigenza di quel regime, cioè
dalla preesistenza di una comunione, da cui rimarrà escluso il
bene immobile determinato, oggetto della convenzione; e di un
secondo presupposto, costituito dalla espressione di volontà dei
coniugi, intesa a separare quel bene dalla comunione operante. Da qui l'esigenza di evidenziare la particolare pattuizione in
deroga al regime generale di comunione prescelto. Non va, invero, dimenticato che, a seguito della riforma del
diritto di famiglia, il coniuge che ha scelto, quale regime patrimo
niale, il regime della comunione, si trova in una situazione peculia
re, per effetto della quale ogni suo acquisto si trasmette, ope
legis, anche all'altro coniuge, ancorché quest'ultimo non abbia
partecipato al relativo negozio; con la duplice conseguenza che,
nell'ipotesi che un acquisto immobiliare avvenga per formale
pattuizione tra i coniugi nell'ambito patrimoniale esclusivo di uno
Il Foro Italiano — 1986.
soltanto di essi, si pone drasticamente l'esigenza di un'adeguata
pubblicità (che non può essere se non la trascrizione) della
sottostante deroga convenzionale di regime; mentre nessuna evi
denziazione sarà necessaria nell'opposta ipotesi di un acquisto esclusivo da parte di uno dei coniugi, che intervenga in regime
generale di separazione.
Si deve, pertanto, concludere, sul punto, nel senso che: a) con la locuzione « le convenzioni matrimoniali che escludono i beni
(immobili) dalla comunicazione », il legislatore ha voluto far riferi mento a quelle convenzioni, con le quali le parti intendono
derogare parzialmente al regime legale di comunione che regola i loro rapporti patrimoniali; b) lo stesso legislatore ha disposto, nell'ipotesi, che, in forza di una tale convenzione, alcuni beni immobili siano esclusi dalla comunione, che la convenzione medesima debba essere trascritta nei registri immobiliari unita mente all'atto di acquisto.
In difetto di una tale trascrizione, infatti, i terzi potrebbero si
apprendere, attraverso l'annotazione a margine dell'atto di matri
monio, che i rapporti patrimoniali tra coniugi sono regolati in
parziale deroga al principio legale, ma non saprebbero quali beni immobili si sottraggono, in concreto, per volontà particolare dei
coniugi, al principio generale della comunione.
Diversa è invece l'ipotesi in cui le parti abbiano già scelto
regolarmente il loro regime patrimoniale, in quello della separa zione. In tal caso, ai terzi è sufficiente apprendere dalle annota zioni a margine dell'atto di matrimonio l'esistenza della separa zione dei beni per trarre le dovute conseguenze in ordine a
qualsiasi bene immobile acquistato successivamente dal singolo coniuge, senza bisogno che, in occasione di detto acquisto, debba essere anche trascritto il precedente atto di scelta del regime.
Va, a questo punto, ricordato che lo spatium deliberandi
riservato ai coniugi per effetto della riforma, trova campo di
applicazione anche a matrimonio avvenuto, mediante l'esercizio
della facoltà loro concessa di stipulare convenzioni matrimoniali « in ogni tempo », nonché di modificare quelle « precedenti », anche in tempo successivo alle nozze.
Con riferimento a tali facoltà, il sistema della pubblicità prevede: a) l'annotazione a margine dell'atto di matrimonio (art.
163, 3° comma, c.c. e 34 bis disp. att.); b) la trascrizione richiesta
dall'art. 2647 c.c.: detta norma precisa testualmente che « le trascrizioni previste dal precedente comma devono essere eseguite anche relativamente ai beni immobili che successivamente (omis
sis) risultano esclusi dalla comunione tra i coniugi »; c) l'annota zione a margine della trascrizione della convenzione « modifica
ta », se anch'essa soggetta a trascrizione (art. 163, 4° comma). Si pone, al riguardo, nella specie, il particolare problema del
se, operata (e pubblicizzata mediante annotazione) la scelta (asso luta) del regime di separazione, gli acquisti immobiliari fatti « successivamente » in via esclusiva da uno dei coniugi siano o
meno, in quanto conseguenza (esplicita o implicita) di una ulteriore convenzione matrimoniale, soggetti anche alla particolare pubblicità prevista dall'art. 2647 c.c.
La risposta deve essere negativa. Si è visto che sono soggette al sistema della doppia formalità soltanto le convenzioni matrimo niali stipulate dai coniugi per dar vita a regimi (misti) conven zionali di comunione dei beni ai sensi dell'art. 210 c.c., cioè per consentire che un bene immobile, altrimenti appartenente alla comunione familiare in forza del regime legale, rientri, invece, nella sfera di appartenenza esclusiva di uno dei coniugi.
Orbene, allorché l'acquisto (immobiliare) successivo avviene nel
quadro del regime di separazione dei beni prescelto dai coniugi (con determinazione debitamente annotata), integrando, pertanto, un momento ulteriore dell'attuazione di quel regime (e non,
dunque, una modifica dello stesso), la cui disciplina si estenderà
automaticamente al nuovo bene, non può ricorrere l'obbligo di
trascrizione previsto dall'art. 2647 c.c., in quanto l'acquisto (e la
convenzione sottostante) non realizzano alcuna variazione del
regime (di separazione) già operante (e debitamente pubblicizzato mediante annotazione) e non sottraggono, rectius, non escludono,
quindi, alcun bene (immobile) dalla (inesistente) comunione pa trimoniale familiare.
Difettano, in sostanza, nell'ipotesi considerata, sia il presuppo sto della preesistente vigenza di un regime di comunione, sia
quello, conseguenziale, della esclusione dal detto regime di un
bene immobile determinato, per effetto di una « successiva »
convenzione particolare in deroga.
Nella specie, i coniugi Milone-Fusco hanno operato la scelta in
favore del regime generale di separazione dei beni con atto notarile del 9 novembre 1977. Tale scelta ha assunto il valore di
una scelta assoluta di regime effettuata nel termine biennale (poi
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PARTE PRIMA
prorogato con 1. n. 804/77 al 15 gennaio 1978), di cui alla
disposizione transitoria dell'art. 228 1. n. 151/75. Cosi operando, i coniugi Milone-Fusco hanno inteso evitare, ab
initio, che il regime legale di comunione dei beni, introdotto
con la riforma, operasse nei loro confronti ed hanno adottato
l'opposto sistema della separazione dei beni, come regime patri moniale familiare generale. In applicazione dei principi sopra enunciati, pertanto, la scelta dei coniugi Milone-Fusco non era
soggetta alla trascrizione prevista dall'art. 2647 c.c., in quanto,
pur realizzata attraverso un atto convenzionale, costituiva l'eserci
zio della facoltà di derogare al regime di comunione dei beni
prevista dal legislatore della riforma ed assoggettata dallo stesso — come rilevato — in quanto scelta assoluta di regime, alla
semplice pubblicità dell'annotazione a margine dell'atto di matri
monio.
Quanto, poi, alla convenzione successiva del 7 dicembre 1977
con la quale la Fusco, richiamandosi al prescelto regime di
separazione, ha operato l'acquisto esclusivo di beni immobili, la
medesima si sottrae anch'essa all'onere della trascrizione predetta, ai fini della sua opponibilità ai terzi, in quanto momento attuati
vo (e non modificazione) del pregresso regime di separazione e, come tale, non implicante alcuna « esclusione » di beni immobili
dal regime di comunione, nella specie aprioristicamente escluso.
In conclusione, il ricorso va rigettato. (Omissis)
CORTE DI CASSAZIONE; sezione lavoro; sentenza 16 gen naio 1986, n. 260; Pres. Franceschelli, Est. M. De Luca,
P. M. La Valva (conci, diff.); Azienda municipalizzata gas ed acqua di Bologna <Avv. Magno, Carinci) c. Garbellini e
altri (Avv. Visconti, Jacchia). Cassa Trib. Bologna 24 feb braio 1983.
Lavoro (contratto collettivo) — Clausola a favore di pensionati — Successione di contratti — Modifica « in peius » — Ammis
sibilità — Fattispecie.
La clausola di un contratto collettivo che prevede « somministra
zioni in natura » a favore di pensionati ha natura di contratto a
favore di terzi, è qualificabile come clausola obbligatoria ed è
modificabile in peius da contratti collettivi successivi. (1)
(1) La sentenza in epigrafe ribadisce un orientamento consolidato della Corte di cassazione, secondo cui il contratto collettivo successivo può derogare, anche in peius, un contratto collettivo precedente. Nella sua giurisprudenza più recente la corte ha ritenuto applicabile tale principio, tanto nel caso in cui i contratti collettivi in contrasto abbiano lo stesso ambito di applicazione, quanto nel caso in cui il contrasto riguardi contratti di diverso livello. Ha inoltre escluso che nei rapporti di successione tra contratti collettivi trovi applicazione il principio del diritto acquisito.
La giurisprudenza di merito e la dottrina, pur concordando sul principio per cui il contratto collettivo successivo modifica, anche in peius, il contratto precedente, tuttavia offrono soluzioni più articolate in ordine agli altri due profili. In tema di rapporti tra contratti di diverso livello richiamano altri criteri di risoluzione dell'eventuale conflitto, quali il principio di specialità; in tema di diritti acquisiti individuano i limiti che tale meccanismo comporta sul rapporto di successione.
Su questi temi generali, che fanno da sfondo alla sentenza in epigrafe, cfr. Pret. Firenze 8 febbraio 1985 e Pret. Venezia 30 giugno 1984, Foro it., 1985, I, 1540; nonché Cass. 12 marzo 1984, n. 1690, id., 1984, I, 2530, con note di richiami.
In dottrina, da ultimi, cfr. G. Giugni, Diritto sindacale, Bari, 1984, 176 ss.; P. Curzio, 1 rapporti tra contratti collettivi di diverso livello e tra legge ed autonomia collettiva nel diritto del lavoro degli anni ottanta, in Corti Bari, Lecce e Potenza, 1984, 493 ss.; M. Rusciano, Contratto collettivo ed autonomia sindacale, Torino, 1984; S. Sciarra, Contratto collettivo e contrattazione in azienda, Milano, 1985; M. Tremolada, Concorso conflitto tra regolamenti collettivi di lavoro, Padova, 1984; Mariucci, La contrattazione collettiva, Bologna, 1985; M. Viceconte, Principio del « favor » del lavoratore - rapporti tra contratti collettivi di vario livello e crisi economica, in Lavoro e prev. oggi, 1984, 1542; C. Conti, Contratti collettivi di diverso livello, in Lavoro 80, 1984, 645; R. Bortone e P. Curzio, Il contratto collettivo, Torino, 1984, spec. cap. VII e IX, con ampia bibliografia.
La sentenza in epigrafe, pur ricollegandosi alla giurisprudenza della Cassazione su richiamata, propone una ricostruzione della fattispecie in termini originali. Il caso in esame è infatti particolare, perché la clausola modificata in senso peggiorativo dal contratto collettivo suc cessivo incide sulla posizione di soggetti collocati in pensione.
Il Tribunale di Bologna, aveva dichiarato inefficace la clausola
peggiorativa nei confronti di tali soggetti, in quanto il sindacato ha
Il Foro Italiano — 1986.
Motivi della decisione. — 1. - Con il primo motivo, denuncian
do violazione e falsa applicazione degli art. 39, 1° comma, e 40
Cost., in relazione all'art. 360, n. 3, c.p.c., l'azienda ricorrente
censura la sentenza impugnata per avere negato al sindacato la
legittimazione a tutelare (anche) mediante la stipulazione di
contratti collettivi, gli interessi dei pensionati, sebbene la « cate
goria contrattuale » (come quella « sindacale »), nel vigente ordi
namento ispirato al principio di libertà sindacale, non costituisca
più un dato a priori — come era nel regime corporativo — ma
sia individuata e delimitata, autonomamente, dalla stessa contratta
zione collettiva (e, rispettivamente, dalla organizzazione sindaca
le) e, come tale, possa comprendere anche i pensionati. Con il secondo motivo, denunciando omessa o insufficiente e
contraddittoria motivazione su punti decisivi della controversia, in
relazione all'art. 360, n. 5, c.p.c., la ricorrente censura la sentenza
impugnata per avere, muovendo dalla statuizione investita dal
precedente mezzo, ritenuto irrilevanti le questioni — che merita
vano invece soluzione positiva — attinenti a: a) inclusione
effettiva dei « pensionati » nella « categoria contrattuale »; b) validità dell'accordo aziendale 26 febbraio 1979 sotto il duplice
profilo del suo contenuto derogatorio in peius, rispetto al prece
« natura di organizzazione tra produttori della forza lavoro a tutela di
quegli interessi che hanno nello sciopero il loro principale strumento di affermazione » e quindi non è legittimato al « compimento di atti
giuridici nei confronti di pensionati » (Trib. Bologna 27 marzo 1985, Riv. it. dir. lav., 1985, II, 63'1, con nota critica di A. Vallebona).
La Cassazione è giunta ad una conclusione antitetica, qualificando la clausola che prevedeva le somministrazioni in natura come « contratto a favore di terzi », inquadrabile all'interno della parte c.d. obbligatoria del contratto collettivo.
Clausola obbligatoria perché « senza incidere su rapporti di lavoro in atto, tale clausola impone al datore di lavoro quale parte (diretta o
rappresentata) del contratto collettivo (aziendale e rispettivamente, extra-aziendale), l'obbligazione, nei confronti della controparte con
trattuale, di erogare benefìci in favore di terzi». Contratto in favore di
terzi, in quanto « pur essendo rimasti estranei alla stipulazione del contratto collettivo, e non essendo, peraltro, riconducibili alle
' catego
rie contrattuali ', i pensionati sono stati, tuttavia, indicati dalle parti stipulanti quali beneficiari di una prestazione ..., che le parti stesse hanno voluto in loro favore, quale elemento essenziale del sinallagma »
(sulle caratteristiche strutturali del contratto a favore di terzi, cfr., in
giurisprudenza: Cass. 13 giugno 1984, n. 3534, Foro it., Rep. 1984, voce Contratto in genere, n. 217; 11 giugno 1983, n. 4012, id., 1983, voce cit., n. 287; 6 luglio 1983, nn. 4562 a 4565, ibid., nn. 283-286; 17 maggio 1982, n. 3050, ibid., n. 288; 30 marzo 1982, n. 1990, id.,
Rep. 1982, voce cit., n. 214; 8 aprile 1981, n. 1992, id., Rep. 1981, voce cit., n. 245; 25 febbraio 1980, n. 1317, id., Rep. 1980, voce cit., n. 246; 18 settembre 1980, n. 5298, ibid., n. 234; 3 luglio '1979, n.
3749, id., Rep. 1979, voce cit., n. 246; 20 gennaio 1978, n. 260, id., 1978, I, 1998, con nota di A. Lener. In dottrina; A. Palazzo, Contratto a favore di terzo e per persona da nominare (sintesi di
informazione), in Riv. dir. civ., 1984, II, 390; S. Saccomani, Osserva zioni in tema di stipulazione a favore di terzo e causa del contratto, in Temi, 1977, 133).
Il ricorso all'istituto del contratto a favore di terzi in materie di diritto sindacale era stato già operato da Cass. 1)1 aprile 1983, n. 2570 (Foro it., Rep. 1983, voce Lavoro (rapporto), n. 1876) a proposito di contratti di assicurazione stipulati dal datore di lavoro per garantire ai lavoratori un sistema di indennità di anzianità più favorevole di quello legale. Un ulteriore ricorso a questo istituto è stato compiuto da Cass. 13 maggio 1981, n. 3148 (id., Rep. 1981, voce cit., n. 1999) per qualificare le clausole contrattuali, sottoscritte dal datore di lavoro e dai dipendenti, istitutive di casse di previdenza, in ordine ai dipenden ti assunti successivamente alla stipulazione.
Una volta compiuta questa operazione di inquadramento dogmatico della clausola che prevedeva le somministrazioni in natura, la Cassa zione ne ha affermato la modificabilità in peius con un ragionamento diverso da quello imperniato sulla inapplicabilità dell'art. 2077 c.c., ai
rapporti tra contratti collettivi, seguito in occasioni precedenti, per giungere alla medesima conclusione, con riferimento a clausole inqua drabili nella parte c.d. normativa del contratto collettivo (cfr. la
giurisprudenza e la dottrina cit. all'inizio della nota). La particolarità della clausola implica, infatti, secondo la Cassazione,
un diverso meccanismo di legittimazione della modificabilità in peius, che deve oltretutto tener conto della specifica disciplina del contratto a favore di terzi. Il dato di fondo, secondo la Cassazione, è costituito dal fatto che il diritto del terzo trova la sua fonte nel contratto ed è
pertanto soggetto alle successive vicende del medesimo. La specificità della disciplina non ostacola poi tale conclusione, perché « la circo stanza che il contratto a favore di terzi possa prevedere solo benefici... non esclude che i benefici, attribuiti al terzo con il contratto originario, possano subire (le) modifiche anche peggiorative », mentre, se è vero che la dichiarazione del terzo di « volerne ap profittare » rende il contratto « irrevocabile ed immodificabile », ciò, tuttavia, « non preclude che il contratto stesso possa subire, ove siano consentite dal relativo regime, revoche o modifiche successive alla sua
stipulazione ». [P. Curzio]
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