Sezione I civile; sentenza 22 marzo 1984, n. 1924; Pres. Brancaccio, Est. R. Sgroi, P. M. Catelani(concl. conf.); Soc. Centralcarni (Avv. Ferlito, Palisi) c. Min. finanze (Avv. dello StatoSiconolfi). Conferma App. Bologna 3 marzo 1981Source: Il Foro Italiano, Vol. 107, No. 5 (MAGGIO 1984), pp. 1265/1266-1271/1272Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23175686 .
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
caso che l'obbligo violato venga poi adempiuto entro trenta giorni dalla scadenza del termine previsto e dalla palese inaccettabilità
dell'opinione contraria, che condurrebbe ad escludere la punibilità dell'inosservanza di termini perentori. Sarebbero, infine, del tutto
ingiustifioati i dubbi di costituzionalità ipotizzati dalla corte
triestina; invero la disciplina del citato d.p.r., interpretato secondo
la tesi dell'amministrazione, equipara il ritardo all'omissione in
quanto l'equiparazione è giustificata dalla perentorietà dei termini
previsti per l'adempimento di che trattasi; l'oblazione è consentita
per tutte le violazioni, in base alla 1. 7 gennaio 1929 n. 4
richiamata dall'art. 75 d.p.r. 633/72 ed in base al nuovo testo
dell'art. 58 dello stesso decreto; la correlazione tra violazione e
sanzione risulta assicurata dall'attenuante prevista dall'art. 48 del
decreto medesimo.
Il ricorso è fondato. Successivamente alla data dell'infrazione
contestata è stato emanato il d.p.r. 29 gennaio 1979 n. 24 che ha
modificato con effetto retroattivo (v. art. 1 e 3) l'art. 37 d.p.r. n.
633/72 aggiungendovi un comma, secondo cui le dichiarazioni
presentate con ritardo superiore a trenta giorni si considerano
omesse a tutti gli effetti; disposizione, questa che, se il ritardo è
stato superiore ai trenta giorni, rende chiaramente applicabile nella
specie le sanzioni previste, per il caso di omissione, dall'art. 43, 1°
comma, d.p.r. da ultimo citato.
Della modificazione come sopra introdotta viene adombrata, nel
controricorso, l'illegittimità costituzionale, in forma del tutto gene rica ma verosimilmente con riferimento ad un preteso generale
principio (desunto dall'art. 25 Cost.) di irretroattività di norme
sanzionatorie.
Ma tale questione è manifestamente infondata perché il nuovo
ultimo comma del citato art. 37 non fa altro che interpretare ed
esplicitare una norma già insita nel sistema vigente all'epoca dell'infrazione.
Secondo l'art. 43, 1° comma, d.p.r. 633/72 (testo originario) è
punito con una pena pecuniaria ragguagliata ad un multiplo
dell'imposta dovuta (da due a quattro volte il suo ammontare) « chi non presenta una delle dichiarazioni previste negli art. 27,
28 e 31 ».
Il primo, fondamentale rilievo che la norma impone è che la
violazione degli obblighi del contribuente relativi alla presentazio ne delle dichiarazioni prescritte trovava e trova nella legge la sua
previsione esplicita. Ciò conduce a ritenere che la soluzione del caso va ricercata
non nell'art. 47, n. 3 (che riguarda le violazioni di obblighi non
espressamente contemplate) ma anzitutto nell'art. 43, la cui appli cazione potrebbe essere esclusa — a favore della norma generica di chiusura — solo in presenza di elementi letterali o razionali o
sistematici insuperabili. Ma tali non sono quelli valorizzati dalla
corte di merito.
Gli art. 27, 28 e 31, cui l'originario art. 43 faceva riferimento,
riguardano le dichiarazioni annuali, mensili o trimestrali ed asse
gnano al contribuente, tenuto a presentarle, precisi termini che, in
quanto diretti ad assicurare allo Stato la continuità e la regolarità dei flussi finanziari, hanno natura perentoria.
Ciò, da un lato, esclude che essi possano essere prorogati mediante provvedimenti che non abbiano forza normativa almeno
pari a quella del citato decreto presidenziale, e, dall'altro, compor ta che la loro inosservanza determina violazione dell'obbligo cui il
termine inerisce ed espone l'obbligo a sanzione. Deve allora
ritenersi che il riferimento dell'art. 43 originario a disposizioni che
prevedono obblighi vincolati quanto a termini di adempimento introduce i termini stessi nella fattispecie dell'illecito sanzionato,
nel senso che questo si configura come mancata presentazione della dichiarazione nel termine stabilito dalle disposizioni richia
mate. L'art. 43, 1° comma, andava dunque inteso nel senso che è
punito con la pena ivi prevista colui che non presenta la
prescritta dichiarazione nel termine di legge, e quindi anche colui
che ritarda l'adempimento del relativo obbligo.
Questa conclusione, che trova nella lettera e nella logica della
legge una sicura base, è confortata da altre significative norme
della legge stessa.
L'art. 48 nel testo risultante dal d.p.r. 29 gennaio 1979 n. 24,
dispone che le sanzioni previste dagli art. 43 e 44 non si
applicano se la dichiarazione sia stata presentata o il versamento
sia stato eseguito presso un ufficio incompetente entro i termini
rispettivamente stabiliti.
Ciò significa che l'inosservanza del termine (e quindi l'adempi mento tardivo dell'obbligo di dichiarazione o di versamento)
espone il contribuente alla sanzione dell'art. 43 (o 44): ciò
logicamente non perché la sanatoria dell'incompetenza sia
giustificabile solo entro quel termine, ma perché il termine
appartiene alla fattispecie dell'obbligo e dell'illecito determinato
dalla sua violazione.
Il Foro Italiano — 1984 — Parte /-82.
Dispone poi l'art. 48, 1° comma, che le sanzioni previste dagli articoli precedenti sono ridotte qualora la violazione consista
nell'inosservanza di un termine o l'obbligo venga adempiuto entro
trenta giorni dalla scadenza, salvo che nel frattempo la violazione sia stata già accertata.
Ora, una volta escluso che l'art. 47, n. 3, possa riguardare le
violazioni relative all'obbligo della dichiarazione (essendo esse
contemplate espressamente altrove) l'attenuante come sopra previ sta deve applicarsi non alla sanzione di cui alla disposizione testé
citata (come ritenuto dalla corte di merito) ma a quella di cui
all'art. 43, 1° comma: il che significa che l'inosservanza dei
termini perentori stabiliti dalle disposizioni ivi (originariamente) richiamate, sempre che l'inosservanza stessa venga sanata entro
trenta giorni (e prima del suo accertamento), è considerata non
come violazione autonoma ma come circostanza attenuante della
violazione consistente nella mancata tempestiva dichiarazione.
Il 1° comma dell'art. 48 dimostra altresì che nel d.p.r. n. 533
trova concreta attuazione il principio della correlazione tra entità
della violazione ed entità della sanzione (principio cui del resto è
informato anche l'art. 43 laddove determina la sanzione applicabi le entro limiti variabili da due a quattro volte l'imposta dovuta),
onde, considerata anche la discrezionalità insita — nella materia
della determinazione delle sanzioni — nei poteri del delegato, risulta palesemente infondata una questione di costituzionalità da
violazione della legge di delega. Egualmente manifesta è l'infonda
tezza delle altre questioni di costituzionalità prospettata nell'im
pugnata sentenza e nel controricorso. Invero, data la natura
perentoria del termine stabilito per la presentazione delle dichiara
zioni, deve ritenersi, da un lato, che anche alla stregua del testo
originario del d.p.r. n. 633 hanno pari rilevanza giuridica — tale da
richiedere identità di trattamento sanzionatorio — l'omissione ed il
ritardo nella presentazione della dichiarazione, e dall'altro che, dovendosi applicare un'attenuante per il caso che l'omissione venga
riparata con una dichiarazione tardiva è razionalmente giustificato l'esercizio della discrezionalità legislatoria nel senso che l'attenuan
te venga riconosciuta solo se il ritardo non superi un certo limite.
Per quanto concerne poi la diversità di trattamento che si
assume ingiustamente fatta in materia di oblazione dall'art. 58 tra
colui che spontaneamente ripara all'omissione e colui nei cui
confronti l'omissione sia stata accertata, è sufficiente rilevare
che la discriminazione è stata eliminata dal d.p. 29 gennaio 1979 n. 24, con affetto retroattivo (v. art. 3, 4° comma).
Il ricorso pertanto deve essere accolto, con conseguente cassa
zione dell'impugnata sentenza e rinvio ad altro giudice che si
designa nella Corte d'appello di Venezia. (Omissis)
CORTE DI CASSAZIONE; Sezione I civile; sentenza 22 marzo
1984, n. 1924; Pres. Brancaccio, Est. R. Sgroi, P. M. Cate
lani (conci, conf.); Soc. Centralcarni (Avv. Ferlito, Palisi) c. Min. finanze (Avv. dello Stato Siconolfi). Conferma App.
Bologna 3 marzo 1981.
Dogana — Diritti doganali — Soggetti obbligati al pagamento —
Contrabbando — Fattispecie (L. 25 settembre 1940 n. 1424,
legge doganale, art. 136; d.p.r. 23 gennaio 1973 n. 43, t.u. delle
disposizioni legislative in materia doganale, art. 38, 56).
Nell'ipotesi di contrabbando, sono tenuti al pagamento dei
diritti doganali non solo i soggetti responsabili del reato ma
anche il proprietario o il detentore delle merci e colui per conto del quale queste siano state importate od esportate (nella
specie, è stata dichiarata la responsabilità solidale, per il
pagamento dei diritti evasi, di una società in accomandita
semplice, del socio accomandatario e dello spedizioniere, in
quanto la società risultava intestataria delle dichiarazioni doga nali e delle bolle di sdoganamento ed i soggetti che avevano
eseguito le importazioni risultavano, il primo in via legale ed il
secondo mediante procura, rappresentanti della società). (1)
(1) La società ricorrente reclamava la propria estraneità rispetto all'operato del socio accomandatario e dello spedizionere che avevano realizzato « raffinate » tecniche di evasione dei diritti doganali (consi stenti nella presentazione di dichiarazioni doganali non veritiere che consentivano la qualificazione delle merci importate in categorie meno gravate fiscalmente; del resto, la buona fede della società resta « offuscata » dal tentativo della stessa di sottrarsi al rapporto di
rappresentanza con i detti soggetti, operato mediante un repentino mutamento di denominazione sociale in corso di causa, come testimo niato dalla narrazione del fatto); ma la Cassazione ha ribadito il
proprio orientamento teso ad allargare la sfera dei soggetti obbligati al
pagamento dei diritti doganali evasi in ipotesi di contrabbando: cfr. sent. 16 febbraio 1982, n. 956, Foro it., Rep. 1982, voce Contrabbando,
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1267 PARTE PRIMA 1268
Svolgimento del processo. — Con rapporto 3 giugno 1973 la
guardia di finanza di Bologna denunciava Vittorio Comelli, socio
accomandatario e legale rappresentante della s.a.s. Centralcarni
con sede in Bazzano, nonché Ernesto Can dola, spedizioniere
doganale, per fraudolenta importazione dalla Jugoslavia, attraver so le stazioni confinarie di Prosecco e di Ancona, di ingenti quanti tativi di carne bovina e, conseguentemente, per evasione di imposte
doganali per il complessivo ammontare di lire 658.614.085, mediante
il ricorso a due sistemi, accomunati dall'essere entrambi consistiti
nel denunciare nell'apposita dichiarazione doganale redatta sul
mod. A n. 46 dal Comelli o dal Gandola e nel far comunque risultare all'apertura dei carichi alla dogana di Bologna e quindi all'atto del regolamento delle imposte, la carne importata di
specie diversa e meno gravata fiscalmente rispetto a quella introdotta in Italia e visitata dai veterinari statali. Il primo sistema, attuato dal 1969 ai primi mesi del 1970, si era concretato
nella maggiorazione fittizia del numero dei colli in modo che, invariato il peso complessivo del carico, le singole pezzature erano fatte rientrare nei limiti quantitativi previsti dalla tariffa
doganale per il vitello che, a differenza della carne bovina
effettivamente importata, era in quell'epoca esente dal diritto di
prelievo. Cessato il regime di favore per la carne di vitello, i
denunciati erano ricorsi al secondo sistema posto in essere dal 1970 al 10 settembre 1971 e consistito nell'importare in grande prevalenza carne bovina ed in minima parte trippa e nell'assolve re le imposte alla dogana di Bologna come se l'importazione avesse avuto per oggetto prevalentemente trippa e solo piccoli quantitativi di carne bovina. In tal modo erano stati evasi i
diritti di prelievo, l'intero dazio doganale, l'imposta di conguaglio, l'imposta di consumo e l'i.g.e.
Con sentenza 19 gennaio 1977 il Tribunale penale di Bologna condannava il Comelli ed il Gandola per falso ideologico, per contrabbando ed evasione dell'imposta di conguaglio, accertando in lire 248.170.065 l'importo dei tributi evasi. Su impugnazione degli imputati, la Corte d'appello di Bologna con sentenza 18
novembre 1977 dichiarava gli imputati colpevoli di contrabbando
continuato ai diritti di confine e di sottrazione all'imposta di
conguaglio; ma la Corte di cassazione con sentenza 29 gennaio 1979 dichiarava estinti i reati per prescrizione, pur escludendo
l'applicabilità dell'art. 152, cpv., c.p.p. Il ricevitore capo della dogana di Bologna, con ingiunzione
notificata il 24 marzo 1976 intimava alla s.a.s. Intercommerce, nella quale si era nel frattempo trasformata la s.a.s. Centralcarni, il pagamento della somma di lire 658.614.085 a titolo di tributi evasi. La soc. Intercommerce proponeva opposizione. Analoga
opposizione veniva proposta con atto notificato il 27 novembre
1976 dalla società ingiunta, che era tornata all'originaria denomi
nazione di « Centralcarni » avverso una successiva ingiunzione
riproduttiva della precedente. Il Tribunale di Bologna, riunite le due cause, con sentenza 2
gennaio 1980 rigettava le opposizioni. La sentenza veniva confermata dalla Corte d'appello di Bologna
con sentenza del 3 marzo 1981 che, per la parte che interessa il
presente ricorso, motivava con le argomentazioni riassunte qui di
seguito. Le operazioni di importazione, oggetto della denuncia penale,
erano state commesse da Vittorio Comelli nello svolgimento dei
suoi compiti di amministratore della società Centralcarni e per tanto il Comelli (se era personalmente responsabile per gli aspetti penali) chiamava direttamente in causa la responsabilità della
Centralcarni, proprietaria delle merci irregolarmente importate. Le
bollette di importazione erano state intestate alla Centralcarni,
n. 18, che afferma la responsabilità solidale dell'autore del reato e dei
soggetti indicati dall'art. 5 della legge doganale del 1940 (v. ora l'art. 38 d.p.r. 43/73) anche nell'ipotesi in cui questi ultimi « presentino la merce per le formalità doganali, ma essa resti sottratta al pagamento dell'imposta doganale in tutto o in parte, in virtù di certificazioni o altri mezzi, posti in essere da un terzo e dei quali essi ignorano la natura fraudolenta»; sent. 29 maggio 1982, n. 3315, id., Rep. 1982, voce Dogana, n. 34, che, pur dichiarando inammissibile il rela tivo motivo di ricorso, conferma l'orientamento in merito alla responsa bilità dell'autore del contrabbando che non sostituisce, ma si aggiunge, a
quella dei soggetti indicati dalle leggi doganali come « proprietari » delle merci; sent. 5 maggio 1972, n. 1359, id., 1973, I, 858, con nota di richiami, in relazione all'importazione di merce da parte di una società in accomandita che l'abbia acquistata mentre essa era « viag giante all'estero » e prima dello sdoganamento; di diverso avviso si direbbe Cass. 19 settembre 1975, n. 3072, id., Rep. 1976, voce cit., n.
44, a cui dire non è responsabile per le imposte evase lo spedizioniere che risulti esser rimasto estraneo alle operazioni di contrabbando (ma, nella specie, era stata accertata la sottrazione dal recinto doganale delle merci « incriminate » prima che lo spedizioniere potesse pre sentarle per le operazioni doganali).
sicché il rapporto tributario correlativo era sorto direttamente a carico di essa. Il Comelli era socio accomandatario e rappresen tante unico della società Central carni e pertanto aveva agito nella
attività fraudolenta quale organo di questa; il Gandola era a sua
volta procuratore speciale della Centralcarni e per conto della medesima compilava e presentava alle autorità doganali le dichia
razioni per la liquidazione dell'importo e per lo sdoganamento delle carni.
La corte di Bologna rilevava poi che, di fronte alla copiosa documentazione prodotta dall'amministrazione, la società non a
veva prodotto nessuna prova in contrario. Le sentenze penali non potevano esplicare efficacia di cosa giudicata nel presente processo, ma le prove acquisite in quella sede potevano essere utilizzate dal giudice civile quale fonte, anche esclusiva, di
convincimento.
Dai documenti relativi alle 52 operazioni di sdoganamento svoltesi dal 23 dicembre 1964 al 14 maggio 1970, ossia in regime di esenzione dell'importazione di carne di vitello dai diritti di
prelievo, emergeva una costante differenza fra le indicazioni contenute nei certificati doganali (intestate tutte -alla Centralcarni)
quanto al numero complessivo dei pezzi costituenti il carico, a
parità di peso complessivo. In base al numero indicato nei certificati esteri i pezzi andavano considerati come carne di
bovino; secondo il numero denunciato nelle dichiarazioni dogana li come carne di vitello. La carne sdoganata era stata di kg. 815.153 e, se fosse stata denunciata come bovino, sarebbe stata
assoggettata alla somma di lire 120.539.280 a titolo di diritti di
prelievo. In altre venti operazioni effettuate dal 14 al 19 gennaio 1971.
si riscontrava un altro tipo di divergenza fra certificati sanitari esteri e le relative dichiarazioni doganali, e cioè il quantitativo di carne bovina che secondo i certificati esteri esauriva quasi comple tamente l'intero carico, nelle dichiarazioni doganali diventava una
percentuale esigua; e la trippa, da entità pressoché trascurabile, si trasformava nel quantitativo prevalente di tutta la partita. Se la carne importata (e sdoganata come trippa) fosse stata qualificata come bovina, conformemente alle indicazioni dei certificati sanita ri esteri o dei certificati dell'ispettorato jugoslavo, il fisco avrebbe riscosso a titolo di diritti di confine e di diritti di prelievo la
complessiva somma di lire 127.630.785.
La corte di Bologna osservava che erano le dichiarazioni
doganali italiane (e non i certificati esteri) a non riprodurre la
composizione reale dei singoli carichi. Trattandosi di una diver
genza ripetutasi in ben 72 operazioni e concernente solo elementi che rilevavano ai fini tributari nell'ambito esclusivamente italiano, essa non poteva non costituire il risultato di un disegno fraudo
lento, preordinato dalla Centralcarni tramite i suoi organi, dal momento che tornava a suo esclusivo vantaggio, mentre non era
concepibile alcun interesse che avesse potuto determinare le autorità jugoslavè a formare certificazioni non veritiere; inoltre, ad escludere che potessero essere erronei i certificati esteri erano le disposizioni dei veterinari statali, che venivano esaminati dalla corte d'appello. La Centralcarni -aveva potuto ricorrere ai due sistemi fraudolenti, perché i certificati italiani erano compilati genericamente, senza indicazione dei diversi tipi di carne, e
quindi la Centralcarni poteva presentare dichiarazioni doganali non veritiere, senza contraddire la certificazione sommaria italiana.
La corte rilevava poi che l'evasione si era registrata anche nelle residue 66 importazioni elencate nel prospetto allegato alle in
giunzioni opposte, perché sussisteva una serie di presunzioni che dimostravano l'avvenuta evasione. Tali operazioni erano state effettuate nello stesso periodo in cui erano state effettuate le venti
sopra esaminate, e le dichiarazioni doganali che le avevano
portate a termine indicavano prevalentemente trippa e soltanto
piccoli quantitativi di bovino. I veterinari avevano dichiarato che i carichi importati dalla Centralcarni contenevano per il 90/95 per cento carne di bovino e soltanto per il 5/10 per cento trippa ed avevano escluso carichi formati prevalentemente da frattaglie. Lo stesso Comelli, davanti al tribunale penale, non aveva saputo fornire alcuna precisazione sulla destinazione della trippa che aveva fatto risultare nelle dichiarazioni doganali. Le variazioni (analitioamente indicate in sentenza) che figuravano nelle dichia razioni relative al biennio 1970/71 erano fittizie e fraudolente e
pure per le operazioni in esame la Centralcarni si era giovata della prassi invalsa di rilasciare dopo la visita certificazioni sommarie e sintetiche. Nelle 66 operazioni da ultimo esaminate, calcolando i quantitativi di carne bovine sdoganata come trippa, risultava evasa, per dazio doganale e per diritti di prelievo, la
complessiva somma di lire 360.367.025. Pertanto, in tutte le 137
operazioni la totale evasione era di lire 608.537.090, che era
appunto la somma portata dalle ingiunzioni. Essa era direttamen
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
te imputabile alla Centraloarni, proprietaria della carne importata ed in nome della quale erano state sottoscritte dai suoi organi le
dichiarazioni doganali ed erano state rilasciate le bolle di sdoga namento. La Centralcarni, nonostante i successivi mutamenti di
sede, di ragione sociale e di amministratori, era rimasta inalterata
e perciò era debitrice verso il fisco delle somme evase. Avverso la suddetta sentenza ha proposto ricorso per cassazio
ne la s.a.s. Centralcarni di Andreas Obermeiser, già denominata
Intercommerce di dr. Ziernhold & C. sja.s. L'amministrazione
finanziaria dello Stato ha resistito con controricorso.
Motivi della decisione. — Con il primo motivo la società
ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione dell'art. 24
(ore 82) 1. doganale 25 settembre 1940 n. 1424, con riferimento
all'art. 360, n. 3, c.p.c., osservando che il suddetto art. 24 non
poteva che riferirsi ai tributi dovuti in caso di importazioni
legittime e non già a quelli che risultassero dovuti solo a seguito di sentenza penale di condanna per reato di contrabbando.
Il motivo è inammissibile, per la sua novità, in quanto non
risulta proposto nel giudizio d'appello, ed anzi è contraddittorio,
rispetto alla tesi ivi sostenuta (che cioè avrebbe dovuto attendersi
l'esito del procedimento penale, prima di emanare l'ingiunzione
fiscale, ai sensi dell'art. 18 1. 7 gennaio 1929 n. 4).
Con il secondo motivo la ricorrente deduce l'omessa motivazio
ne su un punto decisivo della controversia ai sensi dell'art. 360, n. 5, c.p.c., lamentando che l'impugnata sentenza abbia del tutto
ignorato che la mancata partecipazione della Centralcarni al
processo penale svoltosi a carico dei due supposti autori del
contrabbando, unitamente al mancato formarsi di un giudicato
penale di condanna, non consentiva di affermare la responsabilità civile prevista dalla legge doganale in capo alla proprietaria delle
merci. La Centralcarni non poteva ricomprendersi fra i soggetti
passivi dell'imposta menzionati dall'art. 5 1. doganale, dal momen
to che tale norma fa riferimento ai soli casi di importazioni
legittime. Né poteva, secondo la ricorrente, farsi capo all'art.
136 1. doganale, sia perché il supposto reato non è stato commes
so nello stabilimento della Centralcarni, bensì al di fuori di esso,
sia perché la speciale responsabilità prevista da tale norma
presuppone che l'esistenza del delitto da cui scaturisce l'obbligo
tributario risulti accertata dal giudice penale con sentenza irrevo
cabile di condanna.
Con il terzo motivo, strettamente collegato al secondo, la
ricorrente deduce la falsa applicazione degli art. 5 e 16 (ora 38
e 56) 1. doganale nonché dell'art. 185 c.p. con riferimento all'art.
360, n. 3, c.p.c., lamentando che l'impugnata decisione abbia
ritenuto la Centralcarni proprietaria delle merci che sarebbero
state illegittimamente introdotte in Italia, in conseguenza delle
false dichiarazioni fornite dal Comelli e dal Gandola, per il solo
fatto — con evidente riferimento agli art. 5 e 16 1. doganale —
che le bollette di importazione risultavano intestate alla Central
carni, senza considerare che i suddetti articoli fanno riferimento
esclusivo ad importazioni legittime e non già alle ipotesi di
contrabbando, per le quali soccorre l'art. 136, per cui nessun
rilievo poteva assumere la intestazione formale delle bollette
doganali. Parimenti errato — secondo la ricorrente — è il
ragionamento dei giudici bolognesi quando affermano che gli
illeciti addebitati al Comelli sarebbero stati posti in essere da
questo nello svolgimento dei suoi compiti di amministratore
della società, quasi che fra i poteri attribuiti all'accomandatario
fosse compreso quello di commettere delitti e formare atti falsi in
nome e per conto della società.
Secondo la ricorrente, il ragionamento finisce con l'introdurre
un concetto di responsabilità non preveduto dalla legge doganale,
ed esorbitante dall'art. 185 c.p. Nella specie non esisteva alcuna
delle ipotesi di responsabilità previste dall'art. 185 c.p. e dagli art.
2043 ss. c.c., non essendo dimostrato che delle merci oggetto di
contrabbando e che apoditticamente si affermavano essere di
proprietà della Centralcarni fossero effettivamente entrate nella
materiale disponibilità di quest'ultima, mentre risultava dimostrata
la sussistenza e l'effettiva destinazione data dalla Centralcarni alle
merci cosi come pervenute nel proprio stabilimento, verificate
all'atto dello sdoganamento e risultanti nelle bolle doganali di
importazione. I motivi si devono rigettare perché in parte estranei alla
motivazione della sentenza impugnata ed in parte palesemente
infondati. La ricorrente ha trascurato di considerare che la Corte
d'appello di Bologna ha affermato che non esisteva nella specie
alcun giudicato penale opponibile alla società Centraloarni; e che
pertanto ha affermato l'esistenza del debito tributario della predetta
società del tutto indipendentemente dall'accertamento dei delitti
di contrabbando e di falso, alla stregua della legislazione dogana
le sui diritti doganali e di confine. Pertanto, non hanno alcun
rilievo nella specie né l'art. 136 1. doganale del 1940, né l'art. 185
c.p., né l'art. 2043 c.c., ed esattamente la corte del merito non li
ha applicati. Si trattava infatti di stabilire: a) la qualità e la quantità della
merce introdotta in Italia; b) chi l'avesse introdotta; c) se fossero
stati pagati tutti i diritti doganali e di confine dovuti dagli
obbligati sulla merce effettivamente importata. In ordine al primo accertamento, inesattamente la ricorrente
sostiene che il giudice non potesse discostarsi dalle risultanze
formali delle bolle doganali di sdoganamento. Invero, con moti
vazione ispirata ad esatti principi giuridici e congruamente giu stificata (cfr. l'ultimo motivo di ricorso), la corte di Bologna ha
affermato che le bolle, come mere certificazioni amministrative, erano superate da altre e più tranquillanti fonti di prova, accuratamente ed organicamente esposte; e che esse documenta
vano semplicemente l'ammontare dei tributi liquidati, nonché il
tipo e la qualità della merce per la quale essi erano stati
liquidati, e non già i generi ed i quantitativi di carne effettiva
mente importata ed immessa al consumo.
Pertanto la corte bolognese ha motivatamente escluso che
fossero state importate le merci indicate nelle bolle per le quali erano stati pagati i diritti; ed ha ritenuto invece provato, sulla
base di un ampio ed analitico accertamento di fatto, che fossero
state importate le merci indicate negli elenchi allegati alle ingiun zioni fiscali.
In ordine al secondo quesito, le deduzioni della ricorrente si
richiamano implicitamente (sia pure con una evidente contradditto
rietà della impostazione rispetto alla già rilevata premessa posta dalla corte bolognese circa il mancato accertamento, per interve
nuta prescrizione, dei delitti di contrabbando e di falso) a quel
passato orientamento di questa corte (sent. 17 novembre 1962, n.
3136, Foro it., Rep. 1962, voce Contrabbando, n. 50, in materia
doganale; sent. 19 novembre 1971, n. 3324 id., 1972, I, 2232, nella materia affine delle imposte di fabbricazione sugli olii
minerali) secondo cui solo in presenza di un'importazione legitti ma di merce il soggetto passivo dell'imposta si identifica ai sensi
degli art. 5 e 16 1. n. 1424 del 1940.
Neppure il suddetto orientamento (ribadito, ma soltanto nell'i
potesi peculiare della responsabilità dello spedizioniere non parte
cipe del delitto di contrabbando, da Cass. 19 settembre 1975, n.
3072, id., 'Rep. 1976, voce Dogana, n. 44) gioverebbe alla società
Centralcarni, di fronte all'accertamento compiuto dal giudice del
merito che l'importazione illegittima è stata compiuta dalla sud
detta società, tramite i suoi rappresentanti (legale e volontario).
Tuttavia, si deve rilevare che, sottoponendo ad espressa revisione
il principio affermato da Cass. n. 3136 del 1962, questa corte con
sentenza 5 maggio 1972, n. 1359 (id., 1973, I, 858) ha stabilito
che liei caso di contrabbando, i soggetti indicati dall'art. 136 1.
doganale del 1940 non sono identificati con carattere di esclusivi
tà ed in deroga agli art. 5 e 16 1. doganale del 1940, ma si
aggiungono — come debitori di imposta — ai proprietari della
merce contrabbandata. Questo indirizzo è stato confermato da
Cass. 16 febbraio 1982, n. 956 (id., Rep. 1982, voce Contrabban
do, n. 18) che ha affermato che in caso di contrabbando di merci
sono tenuti al pagamento dei diritti doganali non solo il colpevo le del contrabbando e gli altri soggetti indicati dall'art. 136 1.
doganale del 1940, ma anche il proprietario o detentore della
merce e colui per cui conto questa sia importata o esportata; e
cioè anche nell'ipotesi in cui i soggetti considerati dall'art. 5 1.
cit. presentino la merce per le formalità doganali, ma essa resta
sottratta al pagamento dell'imposta in tutto o in parte in virtù di
certificazioni o altri mezzi posti in essere da un terzo e dei quali essi ignorano la natura fraudolenta.
L'orientamento giurisprudenziale più recente, basato su una
ricostruzione più rigorosa del sistema, riguarda peraltro le ipotesi di accertamento dei reati (per l'ipotesi opposta di esclusione del
reato, con sentenza irrevocabile, cfr. Cass. 30 marzo 1983, n.
2291, id., Mass., 470). Nel caso che è quello risultante dalla
sentenza impugnata in cui sia mancato l'accertamento del reato,
per una causa estintiva dello stesso come la prescrizione, non vi
è più luogo per l'applicazione delle norme penali, ma si devono
applicare quelle strettamente tributarie; nella specie, dato che i
fatti sono avvenuti fra il 1969 ed il 10 settembre 1971, gli art. 5
e 16 1. doganale del 1940, nonché il d.p.r. 2 febbraio 1970 n. 62
ed il d.p.r. 18 febbraio 1971 n. 18, ratione temporis. L'art. 1
d.p.r. n. 62 del 1970, sostituendo l'art. 4 1. del 1940, ha fra l'altro
disposto che si presume immessa in consumo (e cioè soggetta
all'obbligazione tributaria) la merce o parte di essa che sia stata
indebitamente sottratta ai vincoli doganali, e che comunque non
sia stata presentata alle verifiche o ai controlli doganali nei
termini prescritti. Il principio era però desumibile anche dalla
legislazione anteriore, perché era fuori dalla logica del sistema
ritenere che gli art. 5 e 16 1. doganale previgente si riferissero
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1271 PARTE PRIMA 1272
soltanto alle importazioni legittime e non a quelle illegittime, cioè a quelle effettuate senza il completo pagamento dei diritti
dovuti. Le norme suddette stabilivano le modalità per identificare
i soggetti passivi delle imposte comunque dovute, sia in base a
dichiarazioni veritiere che in base a dichiarazioni inesatte, perché in ogni caso l'adempimento delle formalità era soggetto a control
lo e non poteva porre il dichiarante in condizioni privilegiate
rispetto a chi non effettuava in tutto o in parte le dichiarazioni.
Nella specie, la corte del merito ha ampiamente esposto (in una parte della motivazione che non è stata neppure censurata) le ragioni per le quali il suddetto controllo non è stato operato in
sede doganale, permettendo la realizzazione della frode (ormai non più perseguibile in sede penale per prescrizione). Tale
mancanza di controllo non esolude però la rilevanza della docu
mentazione secondo cui « al pagamento dell'imposta sono obbliga ti il proprietario della merce, a norma dell'art. 16 e, solidalmente, tutti coloro per conto dei quali la merce è stata importata o
esportata; ed « è considerato proprietario della merce colui che la
presenta in dogana ».
Alla stregua dei suddetti esatti principi, la corte di Bologna ha
accertato che l'importazione illegittima era stata operata dal
Comelli (che agiva come rappresentante legale della soc. Central
carni) e che la documentazione era stata preparata fraudolente
mente o da lui o dallo spedizioniere Gandola, su mandato e per conto della soc. Centralcarni. Esattamente la corte ha riferito la
merce effettivamente e fraudolentemente importata alla società
Centralcarni sulla base delle formali intestazioni delle dichiara
zioni doganali e delle bollette di importazione redatte in base a
dette dichiarazioni. Invero, il rapporto rappresentativo accertato
dalla sentenza impugnata (e non impugnato dalla ricorrente)
poneva una relazione fra il soggetto collettivo (società in acco
mandita semplice) e le persone fisiche che per suo conto ed in
suo nome agivano. Non si trattava affatto di stabilire se la società
avesse dato un « mandato a delinquere » ai suoi rappresentanti; si doveva accertare, invece, la riferibilità dell'obbligazione tributa
ria (di carattere non penale) ad una società in accomandita
semplice, in base alle importazioni effettuate — spendendo la
ragione sociale — dal suo rappresentante legale o negoziale, e
ciò, naturalmente, esaminando non la mera apparenza della
documentazione formata, ma l'effettiva natura e quantità delle
merci importate spendendo quel nome. La ricorrente non deduce
una mancanza di poteri rappresentativi od un eccesso dai limiti
delle facoltà conferite ai suddetti rappresentanti, e pertanto esat
tamente la corte d'appello ha affermato che l'obbligazione tributa
ria è sorta in capo alla società con riguardo alle importazioni effettive (e non soltanto a quelle apparenti) perché la frode
fiscale è imputabile al soggetto collettivo, tramite quei rappresen tanti.
La corte del merito, accertata che era stata presentata in
dogana non la merce indicata nelle dichiarazioni doganali e nelle
bolle, ma altra merce, ha tuttavia esattamente ritenuto che
l'indicazione del soggetto importatore (Centralcarni) nella docu
mentazione fraudolentemente formata valesse ad identificare il
soggetto proprietario, dato che la Centralcarni non aveva assolto
l'onere della prova contraria (a parte il fatto che la presunzione di proprietà della merce stabilita dall'art. 16 1. doganale del 1940
è di carattere assoluto: Cass. 14 ottobre 1963, n. 2738, id., Rep. 1963, voce Dogana, n. 44). (Omissis)
I
CORTE DI CASSAZIONE; Sezione ii civile; sentenza 12 marzo
1984, n. 1693; Pres. Lo Coco, Est. Anglani, P.M. Zema (conci,
conf.); Dal Pra e altri (Avv. Giandomenico c. Battaglin e altro.
Cassa Trib. Bassano del Grappa 18 giugno 1980.
Possesso e azioni possessorie — Vendita — Spoglio lamentato
dall'acquirente nei confronti del venditore — Onere probatorio (Cod. civ., art. 1140, 1168, 1470).
Per agire in reintegrazione contro il proprio dante causa, l'acqui rente non può limitarsi ad allegare l'avvenuto acquisto della
proprietà a seguito della stipulazione del contratto di vendita
ad effetti reali, ma deve fornire la prova, con qualunque
mezzo, di aver conseguito il possesso anteriormente al dedotto
spoglio. (1)
(1-2) La nota a Cass. 18 dicembre 1964, n. 2918, Foro it., 1965, I, 18 (anche in Foro pad., 1965, I, 550, con nota critica di A. Montel, e in Giust. civ., 1965, I, 261, con nota di A. Colasurdo, seguita, a
p. 746, dal più netto dissenso di G. Ruoppolo), in cui si sanciva la presunzione, suscettibile di prova contraria, che l'alienante,
II
CORTE DI CASSAZIONE; Sezione II civile; sentenza 16 di
cembre 1983, n. 7419; Pres. G. Caleca, Est. Anglani, P.M.
Benanti (conci, diff.); Casavecchia (Avv. Zuccaccia) c. Luca
relli; Lucarelli (Avv. Centofanti) c. Casavecchia. Conferma Trib. Perugia 30 gennaio 1982.
Possesso e azioni possessorie — Vendita — Conservazione della
materiale disponibilità della cosa da parte del venditore —
Trasmissione della cosa a terzi — Azione di spoglio intentata
dall'acquirente — Presupposti (Cod. civ., art. 1140, 1168).
Ove il venditore conservi la materiale disponibilità del bene
venduto senza dichiarare di detenerlo nel nome e nell'interesse
del compratore o stipulare col medesimo un contratto in virtù del quale il rapporto di fatto degrada a detenzione, al secondo
è preclusa la possibilità di intentare azione di spoglio nei
confronti del primo o di chi abbia da lui ricevuto il posses so. (2)
il quale non ha consegnato la cosa, ne conservi il possesso, esordiva col dire: « Giurisprudenza oscillante .. . talché si auspica che la que stione sia rimessa all'esame delle sezioni unite». Il rilievo (e l'auspi cio) avrebbe(ro) potuto figurare, con eguale aderenza alla realtà, in nota a Cass. 19 ottobre 1972, n. 3141, Foro it., 1973, I, 2183. Infatti, la corte di legittimità aveva, nel frattempo, avuto occasione di tornare a più riprese sul problema del c.d. costituto possessorio implicito; e se, da un lato, si era affermato che il trasferimento del diritto non comporta, ipso iure, trasformazione del possesso nomine proprio dell'a lienante in detenzione nomine alieno per conto dell'acquirente (cfr. Cass. 17 gennaio 1971, n. 80, id., Rep. 1971, voce Possesso, n. 37; 21 luglio 1969, n. 2745, id., Rep. 1969, voce cit., n. 47, citate in nota a Cass. 3141/72; adde Cass. 6 dicembre 1971, n. 3543, id., Rep. 1972, voce cit., n. 36; 8 settembre 1970, n. 1301, id., Rep. 1970, voce cit., n. 26 bis, fattispecie di donazione; 29 gennaio 1970, n. 195, ibid., n. 14, fattispecie di divisione), dall'altro non erano mancate pronunzie intese a ribadire come l'acquisto del possesso consegua, in una con quello della proprietà, alla conclusione della vendita ad effetti reali (Cass. 4 aprile 1968, n. 1103, id., Rep. 1968, voce Vendita, n. 29; 9 aprile 1964, n. 823, id., Rep. 1964, voce cit., n. 38, non menzionata nella nota a Cass. 2918/64).
Da allora sono trascorsi altri due lustri, e spiccioli. Ma la situazione non è mutata (in barba a chi paventa la volatilità del fenomeno giuridico!). Come testimoniano le sentenze qui riportate, la Cassazione ha perseverato nel coltivare l'idea che il compratore non possa valersi del mero titolo d'acquisto per agire in possessoria nei confronti dall'alienante il quale abbia conservato il potere di fatto sulla cosa (Cass. 18 marzo 1981, n. 1613, id., Rep. 1982, voce cit., n. 19; 8 settembre 1978, n. 4055, id., Rep. 1978, voce Possesso, n. 96; 4 marzo 1977, n. 879, id., Rep. 1977, voce cit., n. 12; 6 febbraio 1975, n. 1276, id., Rep. 1976, voce cit. n. 48; arg. altresì' ex Cass. 29 aprile 1976, n. 1541, ibid., n. 22); senza tuttavia abdicare alla suggestione che, « nella compravendita ad efletti reali, il compratore consegua il possesso della cosa venduta, immediatamente e senza necessità di materiale consegna» (Cass. 29 maggio 1981, n. 3523, id., Rep. 1981, voce Vendita, n. 21; 28 aprile 1976, n. 1518, id., Rep. 1976, voce cit., n. 41, ove si parla — come già in Cass. 1103/68 e 823/64 — di « possesso giuridico », qualunque cosa ciò significhi; arg. anche ex Cass. 13 novembre 1982, n. 6050, id., Rep. 1982, voce cit., n. 36); e talora indulgendo ad una sorta di hands-ojf posture (v. Cass. 12 dicembre 1975, n. 4080, id., Rep. 1975, voce cit., n. 38, a tenore della quale « il semplice permanere della materiale disponibilità presenta un
significato neutro »). Insomma, nel plastico silenzio delle sezioni unite, la giurisprudenza della Cassazione va dove la porta il vento.
C'è da dire, peraltro, che il problema dell'ammissibilità del costituto possessorio implicito, o ex lege, s'iscrive senz'altro fra quelli più intriganti. Per la risposta negativa milita l'esile argomento desumibile dall'esteriore protrarsi della vicenda possessoria (cfr. C.M. Bianca, La vendita e la permuta, in Trattato diretto da Vassalli, Torino, 1974, 373, a cui dire « il fatto che il venditore continui a disporre del bene come in precedenza conferma la presunzione di preesistenza del
possesso in capo al soggetto originario »; corsivo nel testo originale); e, molto di più, il convincimento che l'inerzia dell'alienante non valga ad integrare adempimento dell'obbligazione di consegna, ex art. 1476, n.
1, e 1477 c.c. (v. P. Greco e G. Cottino, Vendita2, in Commentario, a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1981, 144-45, sub art. 1477: « Il costituto possessorio esplicito è già di per sé una forma anomala di consegna; a presumerlo in ogni vendita di cose individua te, ben poco spazio resterebbe alla consegna ed all'obbligazione di
consegnare, quasi completamente immaterializzata »). Senonché, sul versante opposto si replica che, stante l'irreversibile oggettivazione dei presupposti del possesso, « costruire ipotesi ... sull'animus del venditore è inutile e fuorviarne» (cosi G. B. Ferri, in Trattato di diritto privato, diretto da Rescigno, 11, Torino, 1984, 226-28, che rincara: « E che il venditore, nel caso di specie, sia soltanto un detentore, lo conferma (ma non poi tanto) indirettamente il combinato disposto dell'art. 1476, n. 1, c.c. e 1177 c.c.», dal quale discende, a carico del
venditore, un obbligo di custodire, che grava tipicamente su chi è detentore; cfr., indicativamente, Cass. 28 novembre 1968, n. 3838, Foro it., Rep. 1969, voce cit., n. 46).
Ci sono tutti gli ingredienti per un impasse paradossale. In quanto
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